di Luigi Fontanella
Sulla posizione, conoscenza e divulgazione della poesia prodotta da italiani espatriati negli Stati Uniti grava a tutt'oggi una sorta di ipoteca negativa fatta di incomprensioni, valutazioni superficiali, snobistica ignoranza o diffidenza verso una «produzione» culturale ritenuta men che secondaria, trascurabile e, specialmente nella sua fase iniziale, perfino inconcepibile rispetto a quella brutalmente economica che una pragmatica America, nel periodo cruciale della grande ripresa dopo gli anni trenta-quaranta richiedeva indistintamente a tutti i propri diversificati cittadini.
Si tratta cioè, preliminarmente - e in questa sede non posso che farlo in modo schematico, riducendo il tutto a uno specimen emblematico1 -, di affrontare una problematica di proporzioni molto vaste che vanno ovviamente al di là (nel senso che le si prepongono naturalmente) dell’operazione artistica in questione. Del resto com’era (come poteva essere) concepibile che fra gli emigrati in terra statunitense, per lo più italiani, e dunque etichettati subito come spaghettari e pizzettari, ci fossero, e nemmeno poi tanto pochi, poeti o sedicenti tali? Si trattava, inoltre, per quella prima poesia che s'affacciava all'orizzonte, nella maggior parte dei casi, d'una poesia incolta, istintiva, naïve, ingenuamente risolta sul piano linguistico-formale, e che aveva alle proprie spalle un bagaglio culturale esiguo o nullo. Un motivo in più, questo, per sminuire d' «importanza» il carattere di ufficialità di quella poesia, nella quale pur non mancavano voci autentiche e il diritto di visibilità/esistenza all'interno della parallela produzione letteraria americana. Né diversa, del resto, era la situazione per espatriati provenienti da altri paesi europei, i quali però, forse, avevano il vantaggio di possedere, rispetto agli italiani, una maggiore dimestichezza con la lingua inglese. E qui, ovviamente, si tocca il problema centrale della questione: una poesia naïve e per di più scritta in italiano (in molti casi ottocentesco o perfino sgrammaticato), se non in dialetto, e con circolazione praticamente limitata ad amici e conoscenti dell'autore, non era forse destinata in partenza ad autoghettizzarsi sprofondando nel più totale anonimato?
In anni recenti uno studioso di origine italiana, ma ormai trapiantato negli Stati Uniti, ha tentato un primo discutibile bilancio della produzione di questa poesia di italiani espatriati in America fin dalla prima grande immigrazione, situabile tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo. Mi riferisco all'antologia Poeti italo-americani curata da Ferdinando Alfonsi, attivo presso la Fordham University di New York2. Si tratta di un vasto repertorio (circa cento poeti su quattrocento documentabili da parte del curatore), che ha il merito non secondario di presentare oltre al testo in lingua o dialetto originale anche la traduzione inglese; un lavoro pastrocchiato3 ma utile che permette qui di avviare pure semplificando, una «classificazione» tripartita del fenomeno in questione:
a) Una prima fascia di poeti prettamente legati alla grande immigrazione. Si tratta per lo più di una poesia rozza e incolta (benché autenticamente sofferta, con temi ossessivamente ricorrenti quali il contrasto fra il paese lasciato e quello nuovo, la nostalgia, la memoria, la solitudine eccetera), ma molto interessante sul piano socio-storico-antropologico. In alcuni casi la pur approssimativa padronanza degli strumenti linguistici veniva, per così dire, superata dall'urgenza del dire, del denunciare una situazione di disagio psicologico-ambientale e di sfruttamento sociale che, ad esempio, nel lavoro del sindacalista Arturo Giovannitti trova un rappresentante consapevole e appassionato4. Difatti, in quel coacervo lamentoso Giovannitti appare subito poeta autentico, di forte segno politico, forse il maggiore fra quelli appartenenti a questa prima generazione di italo-americani.
b) C'è poi una seconda fascia di poeti abbastanza integrati al «sistema» letterario americano, poeti che, impadronitisi dell'inglese, sono perfettamente bilingui e le cui tematiche riflettono aspetti di ambedue le culture (italiana e americana). In alcuni casi, vuoi per motivi di nascita nel nuovo paese, vuoi per completo assorbimento linguistico-culturale, parecchi di questi poeti (John Ciardi, Lawrence Ferlinghetti, tanto per fare qualche nome) hanno scritto pressoché esclusivamente in inglese. Il richiamo alle «radici» è praticamente scomparso, irrelato, o, se c'è, è costituito da un puro studium delle lettere italiane, spesso condensato per intense letture e traduzioni5 (esempi vistosi la versione di Ciardi, in inglese, della Divina Commedia di Dante, o, in seguito, il vastissimo lavoro di traduzione di Joseph Tusiani).
c) Esiste infine una schiera di poeti (va sempre più infoltendosi) che, espatriata negli Stati Uniti e pur conoscendo perfettamente la lingua inglese, preferisce scrivere in italiano agendo cioè in condizioni culturali dialetticamente paritarie rispetto a quelle esperite dagli scrittori della lingua «egemonica». È una poesia che lungi dal ripiegarsi lamentosamente su se stessa trae, arricchendosi, linfa e ispirazione da ambedue le culture. Ovviamente si tratta di una fascia di intellettuali italiani che si fanno ambasciatori di cultura, consapevoli cioè che quel tanto lasciato alle spalle non agisce come mitico o nostalgico richiamo, ma co-agisce dialetticamente con quel tanto cui si è andati incontro, in un fecondo connubio di culture all'interno delle quali s'intrecciano - ma restando distinguibili l'uno dall'altro - i motivi ispiratori della propria poesia.
Ho rivolto qui la mia attenzione al lavoro di Joseph Tusiani, un intellettuale che per molti versi condensa, discontinuamente ed esemplarmente, la condizione di un poeta italiano emigrato in America: uno specimen intermedio (ma più gravitante verso la seconda fascia). E può essere interessante, per introdurre la sua poesia, riportare subito questo stralcio autobiografico, tuttora inedito6, nel quale Tusiani (San Marco in Lamis, Foggia, 1924) - da oltre un quarantennio attivo negli Stati Uniti come poeta, traduttore, critico, docente - parla appunto dell’impatto iniziale da lui avuto come intellettuale italiano, con l'America.
Dall'italiano classicheggiante della mia formazione liceale passai alla nuova lingua attraverso il romanticismo di Wordsworth, il poeta della mia tesi di laurea. Il mio trasferimento negli USA (1947) fu decisamente drammatico, se non addirittura traumatico. Conobbi mio padre, emigrato sei mesi prima che io nascessi, e da quella conoscenza scaturì, lenta e dolorosa, ogni linfa del mio nuovo mondo interiore. Quanto al fattore linguistico, sentii subito di aver messo piede, dirò, su terreno vergine. Il bagaglio scolastico, di cui dovevo disfarmi, era tutto italiano; la lingua inglese non solo non mi aveva in alcun modo contaminato (forse non ho usato il verbo giusto) ma ero io a scoprirla e quasi inventarla gioiosamente nello studio dei classici, in quello studio paziente e amoroso che mi avrebbe consentito il passaggio dalla conoscenza tecnica all'intimità creativa del nuovo idioma7.
L’ultima annotazione veniva di fatto corroborata dai primi due volumi di poesia, scritti da Tusiani direttamente in inglese, Rind and All e The Fifth Season8. È un fatto estremamente significativo per la poesia italiana (d'un italiano) scritta e pubblicata in inglese, in terra americana, e costituisce con Gente mia and Other Poems - il volume della sua maturità espressiva - il corpus maggiore della sua opera poetica9, comunque disseminata anche in molte riviste.
L’inglese, dunque, lingua nova, ovvero come mezzo linguistico franco e allo stesso tempo riccamente impastato del fecondo retroterra classicistico di cui s'è incessantemente nutrita la linfa di Tusiani, sia nelle vesti di poeta, sia in quelle di traduttore o «riscrittore», se è vero, per sua esplicita asserzione, che i due aspetti, inscindibili, sono divenuti col tempo un'unica attività creativa10.
La mia esperienza globale di poeta e traduttore di poesia (non so come si possono scindere i due aspetti di un'unica attività creativa) io la vedrei concretizzata o riflessa in Rind and All, The Fifth Season, e, soprattutto, nella seconda parte di Gente mia. Perché? In qual modo? Non so. Penso che a un critico astuto non debba sfuggire, per esempio, il segreto estetico, anzi «latino», di una lingua inglese che si incontra e scontra con quella dei poeti della Poetry Society of America e della Catholic Poetry Society of America, di cui, nei miei anni più fervidi, fui, rispettivamente, vice presidente e direttore11.
Joseph Tusiani sembra in effetti, più di ogni altro intellettuale emigrato in America, meglio riassumere, in positivo e in negativo, il coacervo multiculturale che s'innesta fatalmente in ogni espatriato. Il che, se da un lato produce un naturale arricchimento (per ambedue le antropologie culturali), dall'altro non esaurisce quella conflittuale dicotomia interna. Ma essa non si colora più di sterili rabbie o lamentose nostalgie. È piuttosto diventata uno specchio su cui si riflettono due anime che pur sempre ne compongono una, che non cessa però d'interrogarsi con distacco lucido e maturo. C'è un luogo, in particolare, di Gente mia ove questa autointerrogazione trova, nel secretum del poeta, un momento particolarmente spietato ed emblematico, valido forse non solo per Tusiani ma per tutta una generazione a lui coeva di intellettuali italiani espatriati in America.
Due lingue, due terre, forse due anime...
Son io un uomo o due strane metà d'uno solo?
Sobria luce indifferente
che innanzi a me con lucido ghigno tramonti,
poiché non c'è risposta al mio dilemma,
mi consolo pensando che anch'io,
al pari della terra che non deve
proclamare d'un tratto il tuo completo trionfo,
devo, in attesa della mia aurora,
diventare la notte di me stesso 12.
Ho preferito riportare questo lacerto prima in traduzione italiana per evidenziare, paradossalmente, come il dettato tusianeo perda, in traduzione, parte della sua delicata musicalità, rinvenibile invece nella lingua originale-laboratoriale, e ormai di definita (definitiva) acquisizione, a raggiungimento, cioè, di una maturità glottologica nel «nuovo» idioma che può agire alla pari con quella dei poeti propriamente americani, a dispetto di un pregiudizio ghettizzante di lunga durata e che ha spesso pesato (forse tuttora pesa), condizionando un sereno giudizio critico da parte americana su questi scrittori italo-americani, felicemente, argutamente definiti da un critico the hyphenate writers13.
Per la poesia di Tusiani occorrerà pertanto sottolineare che quella parziale perdita di musicalità nella versione italiana è forse proprio la causa di quel tanto di variamente enfatico e/o arcaico che percorre qua e là la sua poesia. È ad esempio meno presente nella prosa memorialistica de La parola difficile (scritta, in effetti, direttamente in italiano) e, in ogni caso, quell’enfasi arcaicizzante è pur sempre riscattata da un forte spessore emotivo i cui fervidi accenti di sincerità risultano letteralmente commoventi e non possono non coinvolgere il lettore. Ne sono esempi lampanti molti testi della seconda parte di Gente mia, a mio avviso il momento più alto dell'intera produzione poetica di Tusiani. Penso ai suggestivi «Nocturnes», pieni di grazia e leggerezza; penso a «Ornithology: Footnotes One and Two», dove vengono toccate punte che io definirei d'una sacralità visionaria; e penso a «For a Student Killed in an Automobile Accident», poemetto pregno d'una vibrante partecipazione ch’è anche olimpico equilibrio d'una maturità espressiva ormai raggiunta. Ne cito il finale.
I do not know who was killed, Mary Jo -
you or my dream, your life or my last faith.
I should ever love, how could I bear
that sound again, and then the whispered news,
and then sight, and only then myself?
How could I weep if I should ever love?
And love, I know, is loss - it is the void,
cruelly green, around a lowing cow
lonelily looking for her slaughtered calf,
it is the calling of a mother-bird
after the storm has felled her native oak,
it is my silence after all our dreams 14.
Senza forzare gli accostamenti, e senza arrivare ai casi clamorosi di Conrad o di Beckett, ovvero per restare nell'ambito di un italiano letterario rinato/ricreato in altra (e «latra») lingua, si potrebbe dire che Tusiani ha realizzato complessivamente nella sua opera ciò che per esempio l'Ungaretti attivo in Francia dal 1912 al 1915, e poi di nuovo dal 1918 al 1921, aveva tentato direttamente in lingua francese con una poesia che dal punto di vista qualitativo aveva pari dignità linguistico-letteraria con quella dei suoi colleghi francesi15. Non sto qui facendo ovviamente raffronti di valore, ma semplicemente evidenziando un aspetto, per così dire, di etnologia letteraria che trascina con sé arricchimenti e soddisfazioni, ma anche condizionamenti e pregiudizi che sorgono naturalmente in altri contesti geografici (nel nostro caso c'è un intellettuale italiano che a ventitre anni, fresco laureato, emigra in America e sa impadronirsi magnificamente d'un'altra lingua piegandola espressivamente alla propria creatività poetica), e che trovano in Tusiani un'evidenza palpabile; pregiudizi ancor oggi lungi dall'essere scomparsi anche negli intellettuali italiani emigrati successivamente alla sua generazione. Da qui infine si spiega quel suo inglese terso, di grande nitore classico, proprio perché frutto di un lungo studium che, se messo in stato di «ritorno» all'italiano (per esempio la traduzione), non può che appesantirsi tornando da uno stato linguistico nuovo, a quello antico, che si è lasciato dietro tanti anni prima e perciò naturalmente e letteralmente obsoleto.
Si tratta di una sorta d'impasse che però Tusiani ha risolto, per la sua creatività poetica, in modo personalissimo e originalissimo: l'impiego del latino, usato ormai da vari anni a questa parte, in non pochi dei testi più validi e che, significativamente, s'è andato intensificando in quest'ultimo decennio; latino che, in ultima analisi, potrebbe rappresentare in chiave linguistica-subliminale il superamento di quell'impasse, ossia una «lingua» usata come strumento complessivo, unificante, liberatorio, sublimantel6. Molto significative e illuminanti, a tale proposito, queste conclusive riflessioni autobiografiche.
Ho pubblicato, nel 1955, un volumettino di nugae, intitolato Melos cordis, fittamente costellato di errori di quantità. Ma la vis poetica di quelle liriche fu «scoperta» da Josef Ijsweijn, dell'Università di Lovanio, forse il più grande latinista vivente, che a quelle pagine crude e scoppiettanti dedicò ampi saggi in latino e in finnico. A farla breve, ho pubblicato poi in tutte le riviste classiche d'Europa e d'America; ad Avignone e a Lovanio ho trovato prestigiosi editori per altre raccolte di versi latini, e, insomma, io stesso ho finito col prendere sul serio le nugae o nugellae che mi ritornavano tradotte in più lingue. Sì, in latino, nella lingua pudica e solenne dei pochi, sono riuscito a dire cose che forse non avrei mai detto, o saputo dire, né in inglese né in italiano. Forse il latino è la «parola antica» di chi, avendo due lingue e due patrie, non sa quale di esse più gli appartenga o lo contenga. Indubbiamente esso è la base solida (e profondamente italica) su cui poggia la mia ars poetica 17.
Ma infine, al di là di ogni valutazione e incidenza letteraria effettiva che la sua opera poetica «anche» in latino può aver comportato o comportare, resta il fecondo magistero di un uomo che, come intellettuale italiano, emigrato, ha lasciato in America segni fecondi e duraturi grazie ai quali la presenza della letteratura italiana negli Stati Uniti ha avuto una ben più vasta divulgazione (basti pensare alle sue numerose traduzioni) e un proprio raffinamento, indice, prima di tutto, d'una grande civiltà interiore.
[in AA.VV., La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, a cura di J.J. Marchand, Torino, Ed. della Fondazione G. Agnelli, 1991, pp. 459-466]
Note
1 Questo saggio, in effetti, costituisce solo il primo spicchio di uno studio più vasto e articolato, ancora in progress, nel quale estendo la mia analisi fino alla variegata fenomenologia riscontrabile allo stato attuale.
2 F. Alfonsi (a cura di), Poeti italo-americani, Catanzaro, Carello, 1985. Scarsissimi, prima del volume di Alfonsi, i contributi in tal senso. Lo studioso menziona comunque, ancorché superato, il volumetto di O. Peragallo, Italian-American Authors and Their Contributions to American Literature, New York, Vanni Publishers, 1949.
3 Criticabilissima, soprattutto, l'insufficiente introduzione critica. Insufficiente o approssimativa anche l'appendice bibliografica.
4 Su Arturo Giovannitti (Campobasso 1884 - New York 1959), poeta e acceso sindacalista, si vedano ora le pagine dense e toccanti di Joseph Tusiani in La parola difficile. Autobiografia di un italo-americano, Fasano, Schena editore, 1988, in particolare i capitoli X, XII, XVIII. Tusiani conobbe e frequentò a lungo Giovannitti fino alla morte di quest'ultimo. Il corpus maggiore della poesia di Giovannitti è ora in Collected Poems, Chicago, E. Clemente, 1962, poi ristampato dalla Arno Press, New York, 1975.
5 Sempre più numerosa, in effetti, la schiera di poeti americani, ma di lontana origine italiana, che hanno tradotto non poca poesia italiana, soprattutto novecentesca. Cito, fra gli altri, W. S. Di Piero, Jonathan Galassi, Lawrence Venuti, Stephen Sartarelli, Sylvia Liberti, Felix Stefanile, Dana Gioia, Michael Palma; gli ultimi due curatori dell’antologia poetica New Italian Poets, Brownsville (Oregon), Story Line Press, 1991.
6 Nel corso di questo saggio mi riferirò a un questionario-intervista appositamente preparato dal sottoscritto, al quale Tusiani ha cortesemente risposto (maggio 1990). Si tratta di uno scritto che integra quanto già da Tusiani depositato in altri testi. Fondamentali, tra gli altri, «The Making of an Italian American Poet» in R. U. Pane (a cura di), ltalian-American in the Professions, New York, Aiha, 1983, pp. 9-40, e l'autobiografia di J. Tusiani, La parola difficile cit. Denominerò tale questionario con la sigla QU.
7 QU, p. 1.
8 J. Tusiani, Rind and All, New York, The Monastine Press, 1962; Id., The Fifth Season, New York, Obolensky, 1964. Proprio a una sua poesia, direttamente scritta in inglese, «Return», doveva arridere nel 1956 il Greenwood Prize della Poetry Society of England; fatto d'importanza storica, oltre che letteraria, in quanto era la prima volta che un premio veniva vinto da un italiano scrivente in inglese. Il poemetto, tra i più toccanti della poesia italiana-americana, è ora leggibile in The Fifth Season cit., e, in traduzione fatta dallo stesso autore con il titolo «M'ascolti tu, mia terra?», nel volume Mallo e gheriglio e La quinta stagione, a cura di M.C. Passaro, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 184-94.
9 J. Tusiani, Gente mia and Other Poems, Stone Park (Illinois), Italian Cultural Center, 1978. Tutti e tre i libri sono usciti poi anche in lingua italiana, curati e tradotti da M. C. Passaro, senz’altro fra i più frequenti esegeti americani del lavoro poetico di Tusiani; i primi due nel volume Mallo e gheriglio e La quinta stagione; il terzo in Gente mia e altre poesie, San Marco in Lamis, Gruppo Cittadella Est, 1982, che contiene un'acuta prefazione di E. Bonea.
10 Vastissima, in effetti, l'attività di traduttore di Tusiani anche per i volumi importanti. Vanno qui citati, fra gli altri, almeno The Complete Poems of Michelangelo, New York, Noonday Press, 1960; Lust and Liberty. The Poems of Machiavelli, New York, Obolensky, 1963; Torquato Tasso. «Jerusalem Delivered», Rutheford, Fairleigh Dickinson University Press, 1970; From Marino to Marinetti, New York, Baroque Press, 1974. Per una esauriente bibliografia, si veda P. Perretta (a cura di), Joseph Tusiani: a Bibliography, New York, Fordham University, 1979, aggiornata fino al 1979; bibliografia estesa fino al 1982-83 nel volume monografico di L. Petracco Sovran, Joseph Tusiani poeta e traduttore, Perugia, Editrice Sigla Tre, 1984.
11 QU, pp. 2-3.
12 J. Tusiani, Gente mia cit., p. 22.
13 Si veda A. J. Tamburri, «To Hyphenate or Not To Hyphenate: The Italian Americans and Italianità» in Italian Journal, 5, III, 1989, pp. 37-42.
14 [Non so chi sia stato ucciso, Mary Jo, se tu o il mio sogno, la tua vita o la mia ultima speranza. Se mai dovessi amare, come potrei sopportare di nuovo quel suono, e poi le notizie sussurrate, e poi la vista e solo allora me stesso? Come potrei piangere se mai dovessi amare? E l'amore, lo so, è perdita, è il vuoto, crudelmente verde attorno a una mucca che si piega guardando solitaria il suo vitellino ucciso, è il richiamo di un uccello-madre che dopo la tempesta ha fatto cadere la sua quercia, è il mio silenzio dopo tutti i nostri sogni]. «To Student Killed in an Automobile Accident» in J. Tusiani, Gente mia cit., p. 84.
15 Mi riferisco ovviamente ai testi di La Guerra e di P.L.M., ora leggibili nella sezione «Derniers jours» di Vita d'un uomo, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1969. Su questo aspetto ungarettiano mi permetto di rimandare al mio saggio «Ungaretti a Parigi» in Otto/Novecento, 2, XIII, marzo-aprile 1989, pp. 89-105.
16 Quattro, a tutt'oggi, i volumi di poesia latina pubblicati da Tusiani: Melos cordis, New York, The Venetian Press, 1955, Rosa rosarum, Oxford (Ohio), American Classical League Press, 1984, In exilio rerum, Avignon, Aubanelle, 1985, Confinia lucis et umbrae, Louvain, Peeters, 1989; oltre, naturalmente, a un gran numero di testi disseminati in riviste specializzate, tra cui Vita Latina, Vox Latina, The Classical Outlook, Latinitas, Hermes Americanus, Latina Lingua, Palaestra Latina, Tirones eccetera.
17 QU, p. 3.