FAREWELL
di Joseph Tusiani
La Casa
Se devo dirti, antica terra, addio,
siano per quest’ultimo mio giorno
i cinque sensi al massimo acuiti
sì ch’io scopra e raccolga
di tutta l’esistenza inizio e fine.
È la mia terra un noto panorama
che – devo credere? – oggi nuovo appare
come paese sorto nella notte,
quasi da mani fatate
per il solo mio sguardo costruito.
C’era una casa qui, ma ora vedo
un grattacielo fuori tempo e luogo
e mi chiedo se qualche iniquo scherzo
me lo voglia far credere dimora
da più di mezzo secolo abitata.
Quella casa era qui, ed era mia:
ne salivo e scendevo le scale
e c’era giovinezza nei miei passi
e ogni giorno ordinario
era evento di gloria.
Toglietelo, abbattetelo
quel grattacielo d’altro Continente
che a me non appartiene. Ed ecco – strana
cosa – alla mia parola
quasi ubbidendo, l’edificio
dal suo vertice crolla e si trasforma
nella vecchia casetta ancora mia.
Con il libero cuore del fanciullo
salgo, saltando più gradini, ed entro.
Oh, tutto è bello, è più bella ogni cosa,
ogni oggetto al suo posto, e non c’è polvere
in alcun angolo.
Gli anni non son passati, e un mandolino,
muto sul letto, sembra all’improvviso
riprendere il suo trillo
per me, per me. Ma non son io che, lieto,
l’ho ripreso e già suono?
In questa casa antica mi riposo,
in questa casa, dinanzi a una foto,
e lentamente, per la troppa gioia
io m’addormento e sogno di sognare
in mezzo a lunghe strade un volto caro
che finalmente vedo
spuntar dai ruderi
del grattacielo che ho visto cadere
dal suo vertice etereo.
In una casa un’altra casa trovo
e non so dire quale sia più mia.
La Chiesa
Nonna Lucia a memoria sapeva
di San Patrizio l’ardente preghiera:
“Cristo dentro di me,
Cristo dietro di me,
Cristo sopra di me,
Cristo dinanzi a me”.
Ma eravamo a Sant’Antonio Abate,
nella penombra entrambi genuflessi,
e solo io vedevo
quel Santo con la mitra e con la barba
che, puntando un suo dito,
un gran tempio lontano m’indicava
dicendo: “Vieni, bambino mio caro,
vieni a trovarmi: ti aspetto”.
Oh, noi ben altro aspettavamo in quella
nostra chiesetta: che arrivasse presto
una lettera a far sorridere mamma,
già pronta a perdonare
il lungo ingiusto silenzio patito:
ed era ancora verso me puntato
di quel Vescovo il dito.
In quella nostra chiesa quanti suoni,
e quanto incenso, e quante devozioni!
Fu lì che quel bambino,
un giorno della Settimana Santa
(che ogni volta arrivava
con la tradizionale pioggerella mesta)
cantò “De Epistola Prima
Beati Pauli Apostoli ad Hebraeos”.
E su una sedia lo posero
perché arrivasse a stringere il leggio,
e nemmeno il gran Santo d’Irlanda
pensò di dire a quel bimbo cinquenne
che lo strano linguaggio di Roma
sarebbe un giorno divenuto idioma
diletto e familiare.
Quanta preghiera e quale fantasia
di Dio faceva un Padre Onnipresente,
e di Michele Arcangelo un amico
con cui giocare e da chiamare in caso
d’incombente pericolo imprevisto!
Non son navate né cibori e nicchie
che fan di nostra fede asilo e nido:
è il ricordo di Dio, immaginato
fattor del firmamento e mare e terra,
che lungo l’esistenza ci accompagna,
or solamente ricordo ed allora
Dio stesso, imperscrutabile ed immenso,
Dio folgorante verità infinita.
Non si può dire a tanta fede addio,
e venga, venga nell’ora suprema
la gran certezza che disdegna prova,
la prova sempre nuova.
La Scuola
Di tutte l’erbe del mio monte amato
quale germoglio, più degli altri, dice
il verde dell’aprile?
Qual primo fiore crea
in me l’immagine armoniosa e bella
di primavera?
Sedevo io a quel banco
e m’era al fianco un compagno
di me ancor più povero
con cui spartivo pane e pomodoro.
Nell’aula accanto erano le bambine,
ciarliere lodolette.
Una di loro mi porse un biglietto:
“Ti voglio bene perché sai cantare
ed hai in fronte un riccioletto d’oro”.
A lei risposi: “Ed io ti voglio bene
perché somigli alla Madonna bella
ch’è sull’altare a Sant’Antonio Abate”.
Come vorrei sapere oggi la parola
piu vera ed essenziale
che m’insegnò la scuola,
il pensiero più forte e fatale
che di me ha fatto l’uomo che oggi sono!
Potranno dirmi gli alberi che scorgo
quale di loro, più degli altri, affonda
le sue radici e regge,
e da fragore di frana protegge,
il nostro suolo salubre?
S’impara e disimpara tutto e niente:
lentamente la neve
tutto copre e cancella.
Dirò allora addio
al primo comignolo fumante
che dalla fredda bianca coltre
riaffiora allo sguardo,
al primo pruno che rispunta, e all’ultimo
seme ancora sommerso
ma certo del suo maggio
turgido e terso.
Il Cimitero
Anche a voi morti devo dire addio
perché voi siete vivi, anche se tutti
ormai scomparsi.
Ma muore il fiore se il profumo resta?
E non è vivo il ricordo del volo
anche se l’ala è recisa?
Quante fotografie e quanti nomi
su queste lapidi a me intorno! Pullula
di vita arcana questo luogo muto.
Chiamano tomba il nascondiglio d’ogni
parvenza dell’esistere, ma solo
chi all’aperto dovrà poi tornare
per breve o lungo tempo si nasconde,
colomba che, sparito lo sparviero,
libera all’aria libera risale.
Qui ti ritrovo, Sebastiano caro,
e non s’è aggiunta ruga sul tuo viso
né sulle labbra il sorriso s’è spento.
Soltanto le mie sere diventarono
orridamente eterne senza il nostro
giocare a carte fino a mezzanotte.
Sì, mi vincevi, ma vincevo anch’io
per l’amicizia che serbavi al vecchio
emigrato poeta irrequieto.
D’una cosa, però, ti sei scordato:
del transito supremo
non hai fatto parola:
se fu difficile passare al nuovo
e ignoto domicilio
o invece cosa facile
come tornare in patria dall’esilio.
Forse pensi di dirmelo
quando ci rivedremo?
Ma basterà, quel giorno,
il solo incontro a svelare il mistero.
Ed ora, amico buono,
scusami se mi vedi
all’improvviso piangere.
In questo cimitero
io non posso restare.
Come non fui sicuro di mia lingua,
e di mia terra, e forse pur di un’anima,
non son neppur sicuro
del cimitero in cui avrò riposo.
Ci son nel Bronx d’America due tombe:
di un padre che mi vuol cullare in morte
come non fece in vita, e di una madre
cui devo fare da interprete ancora
perché comprenda i nipotini nati
nella terra non sua.
Si chiama “San Raimondo”
il vasto cimitero americano,
l’ultima casa e chiesa e scuola mia,
l’ultimo mio Gargano.
Manhattan, 20 novembre 2011