Storie di Medicina

La medicina: tutta questione di testa e cuore

La relazione con l’altro, la cura che non può prescindere da essa, la collaborazione e il lavoro di squadra: anche questo è essere medico. Da queste parole della dottoressa Barbara Amurri, che lavora nel dipartimento ospedaliero di oncoematologia a Taranto, traspare il senso della sua professione. Le sue risposte alla nostra intervista hanno fatto crescere la nostra curiosità verso la medicina, grazie soprattutto alla grande passione che abbiamo colto in ogni sua parola, anche quando ha trattato di argomenti duri dal punto di vista emotivo. E, cari lettori, è il caso di dire che ci siamo proprio resi conto dell’importanza del dipartimento ospedaliero in cui opera la dottoressa. Perché a Taranto, dove lei opera, è situata l’ILVA, una delle più grandi acciaierie d’Europa, che è stata al centro dell’attenzione pubblica per l’aumento dei casi di tumori anomali registrati tra la popolazione che abitava nelle vicinanze dello stabilimento. E molti studi scientifici hanno dimostrato che le polveri sottili emesse dall’attività della fabbrica incidono direttamente nel peggioramento di certe malattie. Per questa ragione il lavoro della dottoressa, come di altri dottori con cui lei collabora, è davvero prezioso.

Passiamo ora alla vera e propria intervista, sperando che possa trasmettervi le stesse emozioni che ha suscitato in noi!


Che cosa la appassiona e che cosa le piace di più del suo lavoro?

Scegliere una cosa che in assoluto mi piace di più nel mio lavoro non è semplice, tuttavia posso dire che mi appassiona la ricerca e, in particolare, la possibilità di usare i nuovi strumenti d’indagine messi a disposizione della mia professione di medico. Tuttavia, esiste un filo che lega i vari aspetti del mio lavoro ed è la relazione con l’altro, una cosa su cui io punto sempre e che mi appassiona da matti, perché curare non significa soltanto comprendere quello che sta succedendo nel corpo del malato ma anche quello che si deve fare insieme a lui per portarlo alla possibile guarigione.

Purtroppo, bisogna dire che talvolta la cura viene messa alle strette ed è limitata da vari fattori esterni al rapporto tra medico e paziente. Basti pensare al sovraccarico di lavoro a cui noi medici siamo sottoposti. Esso finisce spesso per danneggiare la relazione. Tuttavia, è proprio la relazione il binario su cui bisogna comunque muoversi, qualunque sia il livello del nostro intervento: medicina, ricerca o laboratorio.

Bisogna, dunque, condividere, comunicare col paziente, che vive molto spesso un’esperienza per lui nuova e talvolta davvero drammatica. Ogni operatore ospedaliero deve essere parte di una catena umana e professionale. Il lavoro di squadra, però, nel nostro Paese è meno sentito rispetto ad altre nazioni, perché in Italia c’è un atteggiamento più individualistico. E questo è un grave ostacolo.

Io ritengo che due teste ragionino sempre meglio di una. E la collaborazione aiuta a comprendere il problema da prospettive diverse. Credo, perciò, che il lavoro in squadra, l’agire come un team, debba essere un obiettivo da inserire fin dall’inizio del percorso universitario.


Quanto tempo occupa la sua professione nella giornata e rispetto alla sua sfera privata?

Per quanto riguarda la mia sfera privata, va detto che io ho una figlia. Quando sono arrivata a Taranto, era molto piccola e ha dovuto vivere con me nell’ambiente dell’ospedale in cui lavoro, dato che gran parte del tempo lo passavo e lo passo in questa struttura. Mia figlia mi ha dato una grande soddisfazione perché, nonostante io passassi gran parte del tempo con i pazienti e non con lei, ha capito l’importanza del lavoro che stavo svolgendo tanto che, quando ha concluso il liceo, ha deciso di provare a fare il test di medicina.


Come sta cambiando la sua professione (prima, durante il COVID e in un ipotetico futuro)?

Ho iniziato a lavorare in un ospedale che non era ancora ben strutturato; e quindi tutto era molto faticoso. Nonostante questo, le persone che ho incontrato nel mio ambiente di lavoro erano piene di entusiasmo; e questo mi ha incoraggiato. Ora, invece, a causa della pandemia da Covid stiamo attraversando un periodo molto triste; e questo vale un po’ per tutti.

Per quanto riguarda i reparti COVID, la situazione è molto difficile, dato che lì si lavora a stretto contatto ogni giorno con persone affette dal virus. Ma, anche nei reparti in cui lavoro io, la situazione è rischiosa sotto altri punti di vista, dato che i pazienti che incontro sono molto fragili a causa delle pesanti terapie che la cura delle loro malattie impone.

Ciò che mi tiene ancorata al mio lavoro, anche nei momenti più difficili sono proprio le relazioni create con il paziente; e spero, in un ipotetico futuro, che questo evento naturale, la pandemia, che stiamo vivendo possa, quando verrà superato, arricchirci dal punto di vista umano. Infatti, come dico spesso ai miei pazienti, anche da una situazione drammatica si può ricavare un insegnamento importante per il futuro. Nel mio lavoro la parte umana è fondamentale. Un sorriso, una carezza, un tono delicato di voce sono cose importanti per approcciarsi con una persona che sta affrontando un duro percorso dall’esito incerto.


Quali sono i pro e i contro della sua professione? In particolare, quali possono essere le forme di assicurazioni o di tutela del lavoratore?

Credo che i pro e i contro della mia professione siano pari a quelli di tutti gli altri lavori. Il nostro è un percorso lungo, dove devi mettere in gioco tante cose della tua vita; e non si può pensare di farlo con leggerezza, perché non è facile. Ci sono varie branche e varie specializzazioni; e ognuna può avere dei risvolti imprevisti e richiede degli impegni diversi. Ad esempio: chi lavora nel servizio di igiene, ha un lavoro con ritmi di ufficio che possono essere diversi rispetto a quelli del clinico che sta in corsia o al medico di famiglia.

In fatto poi di tutela e assicurazioni, questo è un capitolo da riscrivere, poiché sono venute fuori tante cose nuove. Si dovrebbe ristabilire quali responsabilità siano da attribuire al medico e quali all’azienda, che ha un ruolo importante nell’ottica sia della tutela che del lavoro in sicurezza. Anche la nostra formazione dovrebbe aiutarci in questo percorso. Sappiamo che spesso gli operatori nella Sanità sono bombardati da denunce; e che sorgono spesso situazioni di conflitto con gli assistiti. Anche in questi casi è fondamentale stabilire un rapporto, una relazione per comunicare. Al di là dell'errore, che ci può sempre essere, la sicurezza resta sempre un obiettivo da condividere.

Nel Pronto soccorso la relazione tra medico e paziente è più a rischio, poiché il luogo in cui operiamo è continuamente invaso da molte persone che hanno problematiche diverse. Qui i tempo del contatto, della relazione, della spiegazione diventa sempre più risicato. Nel “caos” tipico del Pronto soccorso le persone non hanno chiaro cosa sta succedendo; e facilmente pensano che le cose non stiano andando bene. Si generano perciò ansie e paure che spingono a reazioni drammatiche. Però, l'importante resta la tutela, che viene offerta dall'azienda pubblica dove si lavora. O nel settore privato, se uno è un libero professionista, conta molto il predisporre correttamente tutte le procedure da effettuare. Oggi, rispetto al passato, abbiamo delle linee guida e anche delle indicazioni regionali e nazionali che vanno rispettate. Esse rappresentano l'ambito nel quale deve esercitarsi la capacità individuale del medico, evitando così scelte basate sul libero arbitrio. Tuttavia, anche in questo contesto ben regolato, il singolo medico a volte deve uscire fuori dalle linee guida. Allora deve sempre motivare la ragione per cui lo fa. Quindi, per me, è tutta una questione di testa e cuore che devono collaborare.


Nonostante le difficoltà che ha avuto, ad esempio nel suo percorso di studi, se potesse tornare indietro sceglierebbe ancora di fare medicina e di specializzarsi in ematologia?

Credo che, ascoltando quanto ho detto finora, si capisca che la risposta sia sì. Non rinnego niente di quello che posso aver vissuto nel mio lavoro. Noi medici, in questa difficile situazione dovuta alla pandemia, viviamo uno stato disagio all’interno dei nostri reparti, perché noi siamo legati al nostro lavoro per tutta la vita. È proprio la modalità di muoverci all’interno di una divisione ospedaliera o di un reparto che ti àncora a quelle realtà; e non c’è niente da fare. L’impegno è molto, ma le soddisfazioni umane sono immense. Tutti i giorni viviamo in una situazione simile a quella di un agricoltore che semina e poi vede i frutti del proprio lavoro. In ostetricia e ginecologia, ad esempio, vedi spuntare la vita. È come se tu la curassi o a volte la rigenerassi; e quindi il vincolo con le persone e la situazione è enorme. Dunque, la scelta la rifarei. Magari commetterei qualche errore in meno. Credo che alla fine quella che sono io oggi sia il frutto di quello che ho fatto finora. Non bisogna mai rinnegarsi completamente nelle cose, perché se non le avessimo fatte forse non saremmo le persone che siamo oggi.

A Cura di: Abate Martina,

Ahmed Alì,

Danzo Chiara,

Mihndukulasuriya Merian,

Savaresi Federica