Statistica Medica

Intervista a Marta Rossi

In Italia, il settore della ricerca scientifica è sempre stato debole, sostenuto soltanto da sussidi statali e imprese private. Oggi, in un mondo segnato dalla pandemia, è cresciuta la consapevolezza del suo ruolo nel progresso, nella prevenzione, nel miglioramento della qualità della vita e nella stessa salvezza di queste ultime. Ma quali sono le reali opportunità per un ricercatore nel mondo del lavoro? È possibile vivere solo di questa professione? Marta Rossi, ricercatrice nel settore della statistica medica presso l'Università degli Studi di Milano, il 22 febbraio 2021 risponde alle nostre domande. Nel corso della sua carriera ha saputo reinventarsi più volte, investendo sempre sulle sue passioni, e dedicando spazio e tempo ad esperienze di vita esterne allo studio.

In cosa consiste il suo lavoro? Di cosa si occupa?

“Io mi occupo di epidemiologia e sono nella ricerca da 10- 15 anni. Ho lavorato per qualche tempo negli Stati Uniti, dove hanno un’idea molto chiara della mia professione. In Italia si è soliti pensare che l’epidemiologia sia legata unicamente allo studio delle epidemie; in realtà essa studia i rischi delle malattie e lo stato di salute delle popolazioni. E’ inoltre una scienza che riguarda più branche della medicina, tra cui l’eziologia, l’incidenza e la mortalità di una determinata malattia. Poiché per studiare tutti questi aspetti è necessario basarsi su evidenze scientifiche, i medici vengono affiancati da una figura di Public health che applica la matematica, la statistica, l’ingegneria e recentemente anche l’informatica al fine di migliorare le conoscenze in campo medico. I risvolti sono tanti sia nell’eziologia, che riguarda le cause i fattori scatenanti delle malattie, sia nella diagnostica, anche relativamente alla realizzazione di macchinari e strumenti più efficienti. Io, da laureata in matematica, mi occupo dei fattori di rischio delle malattie, del ruolo della nutrizione, e negli ultimi anni anche della funzione del microbiota nello sviluppo dei tumori, come quello del colon-retto”.


Qual è stato il suo percorso di studi? E quello lavorativo? Cosa l'ha fatta avvicinare a questa professione?

“Dopo il liceo mi sono iscritta ad economia alla Bocconi: in due anni avevo dato solo l’esame di

matematica e statistica e non riuscivo in nessun modo a passare l’esame di diritto, considerato da tutti quello più facile. Di conseguenza mi sono iscritta a matematica. Il mio approccio è sempre stato molto legato ai concetti e ai contenuti piuttosto che alla forma, anche se l’ideale sarebbe raffinare entrambi i fattori. Il punto di svolta è stato alla tesi di laurea, quando mi sono occupata di una caratterizzazione delle funzioni wavelet: queste non erano mai state studiate prima di allora e l’idea di ampliare la conoscenza umana su queste funzioni attraverso la mia tesi di ricerca mi ha emozionata molto. Tutta l’ansia per gli esami, tutto ciò che aveva reso poco piacevole lo studio fino ad allora è stato rimpiazzato da questa emozione e dalla passione. Sono dell'idea che veniamo abituati a vivere la scuola con un atteggiamento un po’ passivo, che rischia di avere delle conseguenze negative sui sogni e le aspettative degli studenti. Per la prima volta invece, esponendo la mia tesi, ho desiderato che mi chiedessero di più a riguardo, che mi facessero domande. Una settimana dopo la laurea, invece di viaggiare come speravo, ho fatto un master in matematica applicata alla Bicocca, per il quale avevo vinto una borsa di studio. Durante il master ho avuto comunque la possibilità di fare lo stage in Irlanda e ho passato due mesi a Cork. Un volta tornata mi sono resa conto che mi piaceva fare ricerca, ma desideravo che avesse un carattere più applicativo e meno legato alla matematica pura. Ho cominciato quindi a lavorare al dipartimento di epidemiologia del Mario Negri, dove un professore mi ha spinto a fare il dottorato. In seguito ho cominciato ad insegnare matematica e scienze alle scuole medie e l’entusiasmo degli alunni ha ravvivato la mia passione, allora sopita, per la ricerca.”

Quali sono i pro e i contro della sua professione? Quanto tempo occupa il suo lavoro rispetto alla vita privata, nel particolare rispetto al tempo libero e alla famiglia?

“E’ un lavoro senza orari, nel quale bisogna gestire il proprio tempo. In generale più tempo dedichi alla ricerca meglio è sia per la carriera, che per i compiti specifici. L’anno durante il quale insegnavo anche alle medie è stato particolarmente faticoso da questo punto di vista.

Ultimamente io passo circa dieci ore al giorno all’università, più o meno dalle nove alle sette.

Non bisogna timbrare il cartellino quindi gli orari sono flessibili però spesso capita di lavorare anche nei weekend o la sera, in caso di risvolti inaspettati delle ricerche. In un lavoro creativo come il mio la flessibilità diventa fondamentale.”


Come definirebbe il suo ambiente lavorativo? È competitivo o solidale? É sereno?

“Per me è netta la divisione di periodi. Quando lavoravo esclusivamente nel campo della ricerca al Mario Negri, l'atmosfera era molto distesa e la ricerca aveva come primo spirito la collaborazione, anche perché il dipartimento disponeva di spazio e risorse per tutti. Invece all'università l'atmosfera è più competitiva: c'è sempre uno spirito collaborativo essenziale nella ricerca, però spesso c'è anche un fine utilitaristico, una competizione che non è sempre sana. Io sono convinta che collaborare sempre sarebbe l'ideale e che sia sottovalutata l'importanza del lavoro di gruppo, all';interno del quale ciascuno ha un suo punto di forza.”


Come è cambiata nel corso degli anni la sua retribuzione, da neoassunta a oggi?

“La retribuzione è un aspetto che non è proprio il massimo: con tanto di dottorato, master, borse di studio, assegni di ricerca, e contributi esterni ho guadagnato per anni intorno ai 1500 euro, esente da tasse. Una volta ricercatrice ho guadagnato circa 2000 euro; ora che sono sul punto di diventare professore associato dovrei guadagnare sui 2400. La vita da ricercatore in Italia non è il massimo, soprattutto per chi si occupa di ricerca pura: in ambiente aziendale la retribuzione aumenta. All'estero le cose cambiano: con il percorso e le competenze formative che possiedo, avrei avuto di sicuro maggiori possibilità economiche, avrei potuto aspirare a posti più retribuiti. Ho avuto anche diverse proposte in America, ma, nonostante mi sia piaciuto viaggiarci, non sentivo gli USA come il mio paese. In Italia, nonostante io abbia percepito un aumento rispetto agli iniziali 600 euro al mese, rimane comunque una situazione ingiusta.”


Come è cambiata la sua professione da quando l'ha intrapresa ai tempi del Covid-19? Come crede cambierà in futuro?

“Ciò che è cambiato principalmente è stato l'insegnamento: abbiamo fatto molta più didattica online, tanto che il mio primo corso ufficiale universitario l'ho tenuto in DAD, così come le riunioni. Non credo molto alla didattica a distanza, ai formalismi, perché manca quella naturalezza tipica dei rapporti e diventa faticoso parlarsi. L'Università rischia di cambiare in questa direzione, perché la didattica a distanza conviene ed è comoda a molti universitari fuori sede. Per quanto riguarda la ricerca, anche i congressi sono tutti online, ma per fortuna abbiamo continuato ad andare in ufficio. Un altro aspetto che è cambiato è stato l'oggetto del mio lavoro: ho dovuto mettere da parte argomenti di mia competenza, per lavorare a progetti di ricerca sul Covid-19. Eppure, mettere le mie conoscenze a servizio di questa emergenza è stato emozionante e stimolante.”


Quali sono i prerequisiti e le abilità necessarie a svolgere la sua professione?

“La parola chiave è passione: tramite la passione è possibile trovare la determinazione per sviluppare poi le proprie capacità, necessarie a svolgere questa professione. Tali abilità sono sicuramente la logica e l’intelligenza scientifica ma, l’aspetto che fa da condimento a tutto resta comunque la passione.”


Le aspettative che aveva prima di intraprendere la carriera lavorativa sono state poi ricambiate?

“Si, abbastanza. In realtà non avevo aspettative specifiche, sono sempre stata piuttosto indecisa: mi sono dedicata inizialmente agli studi di economia per poi passare a quelli matematici. Il consiglio migliore che posso darvi, che in passato ho ricevuto da due miei compagni di corso, è quello di non avere fretta e darsi tanto spazio per ponderare al meglio le proprie decisioni”.


Il suo lavoro continua ad appassionarla e stimolarla? In che modo?

“Sì, come credo si evinca dalle mie risposte. Quattro anni fa ho avuto un grosso cedimento in ambiente universitario: svolgevo sempre le stesse attività, stavo al computer tutto il giorno, avevo sempre gli stessi orari e mi dedicavo ad articoli molto simili fra loro. In questo periodo stava iniziando a venir meno la passione che, come ho detto, ritengo l’aspetto più importanti per svolgere qualsiasi tipo di professione. Così ho accettato l';incarico di insegnante di matematica e scienze in una scuola media: ho rinunciato alla ricerca (dopo 15 anni) perché ormai la mia quotidianità non mi stimolava più. L’esperienza di insegnamento è stata bellissima e mi ha permesso di ritrovare la passione per la ricerca tramite la curiosità dei ragazzi; contemporaneamente ho vinto il bando per un progetto importante e ho ripreso a dedicarmi ad entrambe le professioni. Successivamente ho dovuto scegliere e ho scelto la ricerca con una rinnovata passione”.


Ha qualche consiglio da darci per il nostro futuro percorso scolastico?

“Il miglior consiglio che mi sento di darvi è che studiare è importantissimo ma lo è ancora di più fare esperienze. Entrare in contatto con culture e usanze diverse dalle vostre ha sempre dei risvolti positivi. Credo che viaggiare sia la scelta migliore da prendere: viaggiate, andate in Erasmus e applicate lo studio alle esperienze, ciò vi permetterà di rendere le cose più vostre.”

A cura di:

Caiazzo Francesca,

Fognini Alessia,

Paternoster Francesca