Planimetria dei Fori.
Sopra: immagine del Foro di Cesare. Sotto: planimetria del tempio di Venere Genitrice.
Fu il primo dei Fori Imperiali di Roma a essere realizzato, con l’intento di ampliare gli spazi del centro politico, amministrativo e religioso della città, precedentemente limitati al Foro Romano originario, e con lo scopo di celebrarne il committente, Giulio Cesare. Fu inaugurato il 26 settembre del 46 a.C., costruito sull’area precedentemente costituiva la necropoli. I lavori iniziarono dal 48 a.C., con la vittoria di Farsalo, in cui fu decisa la dedica del tempio già previsto a Venere Genitrice, cui Cesare aveva fatto voto prima della battaglia. L’epiteto della dea- tradizionalmente riferito all’aspetto della dea come rigeneratrice- assume un nuovo significato in relazione alla sua qualità di fondatrice della Gens Iulia e in relazione alla dedica di un tempio che sorgeva sulla cavea del teatro di Pompeo a Venere Vincitrice.
Il Foro di Cesare era costituito da una piazza porticata con il lato di fondo chiuso da un tempio, pianta che fornì il modello di partenza per la costruzione dei successivi Fori Imperiali. A differenza del Foro Romano, si trattava di un progetto unitario: una piazza lunga e stretta, con duplice porticato su tre lati e con al centro il tempio di Venere Genitrice. Al centro della piazza vi era la statua equestre di Cesare, su un cavallo con le zampe anteriori a forma di piedi umani, caratteristica di Bucefalo, cavallo di Alessandro, cui il dictator voleva essere assimilato. Inoltre, la piazza presentava statue colossali. Sul lato sud-occidentale, si aprivano una serie di botteghe adattate alle pendici del Campidoglio, dalla muratura in tufo e travertino. L’impianto del complesso riprendeva le caratteristiche delle piazze forensi delle colonie romane, dotate di portici con tabernae sul fondo, con diversi edifici pubblici annessi- tra cui basiliche e curie-, dominate dal capitolium, il tempio dedicato alla triade capitolina.
Il tempio di Venere Genitrice era ottastilo e periptero sine postico, dalle colonne piuttosto ravvicinate, rientrando nel tipo picnostilo, definito da Vitruvio, con intercolumni equivalenti a un diametro e mezzo del fusto delle colonne. L’accesso al tempio era preceduto da due fontane. All’interno della cella era collocata la statua di culto, opera dello scultore Arcesilao, insieme ad altre statue ed opere d’arte.
Dopo il Foro di Traiano, si trova il Foro di Augusto, inaugurato il 2 a.C., voluto per fini propagandistici per celebrare il principato di Augusto, visto come nuova età dell’oro. Il foro comprendeva una piazza porticata dominata dal tempio dedicato a Mars Ultor, “Marte Vendicatore”, a cui l’imperatore fece voto di costruire un tempio in occasione della battaglia di Filippi (42 a.C.), in cui sconfisse e uccise i Cesaricidi. Qui il Senato deliberava relativamente alle guerre e ai trionfi. La costruzione fu rallentata a causa del conflitto con Marco Antonio per volere dello stesso Augusto, che volle consacrare il tempio a principato già instaurato, per rafforzarne il potere. Il tempio era periptero sine postico- con file di colonne che circondano la cella su tre lati, ma non sul lato di fondo-, di ordine corinzio, ottastilo, in marmo lunese (di Carrara), tufo e travertino. La cella era decorata da due ordini di sette colonne- rispecchiate da altrettante lesene sul muro, colorate e con decorazioni costituite da Pegasi sul capitello-; sull’altare erano presenti la statua di Marte, di Venere e del Divus Iulius. Il frontone raffigurava la personificazione del Palatino e del Tevere, Venere con Eros, Marte con la lancia, la dea Fortuna, la dea Roma e Romolo che seguiva con lo sguardo il volo degli uccelli. Il penetrale, il sancta sanctorum del tempio custodiva la spada di Cesare e le insegne perdute da Crasso contro i Parti a Carre- poi restituite dal re ad Augusto in segno di sottomissione-. Oggi sono visibili i suoi resti grazie ai lavori di restauro portati a termine in età fascista, in occasione della costruzione della Via dei Fori Imperiali; essi includono il podio, tre colonne corinzie che sostengono una parte di architrave, costruito con lo stesso stile del tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare.
Dietro ai portici laterali del foro si aprivano ampie esedre- incavi semicircolari coperte da una semi-cupola-, che inquadravano nicchie con 25 statue raffiguranti personaggi dell’età repubblicana e trofei; in particolare, nelle esedre di nord-ovest si trovavano la statua di Enea- mitico progenitore di Roma e della Gens Iulia- e dei re di Alba Longa. Nelle esedre opposte si trovava Romolo; infine, la testata del portico era dominata dalla statua colossale di Augusto. Nei portici si svolgevano le attività giudiziarie dei pretori urbani.
Sopra: immagine del Tempio di Marte Ultore. Sotto: planimetria del foro di Augusto.
Sopra: ricostruzione del Foro della Pace. Sotto: planimetria.
Separato da una lunga striscia di terreno dai Fori di Cesare e di Augusto, a Sud di quest'ultimo, tra il 71 e il 75 d. C. venne eretto, con il bottino riportato dopo la vittoria nella guerra giudaica, il Foro di Vespasiano, detto anche Foro della Pace.
Non si trattava di un foro vero e proprio, ma di un'ampia zona quadrata con 160 m di lunghezza, circondata da tre vasti portici e da uno pseudoportico, annessa al Tempio della Pace - lo stesso tempio si limitava a una piccola aula quadrangolare con abside -. Infatti, sia le colonne del porticato sia quelle del pronao del tempio esastilo poggiavano sul medesimo basamento. La mancanza del podio suggerisce che l'edificio sacro svolgesse anche altre funzioni. Esso, infatti, assieme agli ambienti laterali, che si aprivano sul lato Sud-Est, era probabilmente l'archivio catastale della città e fungeva da biblioteca. Il tempio, definito da Plinio, nella Naturalis Historia, una delle meraviglie del mondo, fu fatto costruire da Vespasiano nel 74 d.C. e concluso da Domiziano, per essere inaugurato nel 75, dopo il trionfo per la guerra giudaica, dedicato alla Pax Augusta dell’Impero, restaurata dai Flavi- secondo la propaganda imperiale. Fu danneggiato da un incendio e restaurato da Settimio Severo nel 192. Costituiva il centro del Foro della Pace, di cui molto è andato perduto e di cui ci è pervenuta la pianta grazie alla Forma Urbis Severiana, grande lastra marmorea raffigurante la pianta di Roma, affissa a uno degli ambienti del foro stesso, che consisteva in una grande piazza quadrata e sistemata a giardino, con portici su tre lati decorati da nicchie. Di questo documento di grande importanza per lo studio della struttura urbana e degli edifici della Roma imperiale sono stati recuperati numerosi frammenti a partire dal 1562, attualmente conservati nei Musei Capitolini. Dal lato frontale sorgeva il tempio che dominava la piazza, l’aedes Pacis, che ospitava una biblioteca, le spoglie di Gerusalemme- e il tesoro del tempio di Salomone- e un’esposizione pubblica di opere d’arte greche. Il tempio presentava un pronao esastilo ed era inglobato nel portico. L'ampio spazio libero del Foro, in terra battuta, ospitava fontane con giochi d'acqua circondate da siepi di rose galliche. Nel Foro, già oggetto di recenti lavori di scavo e di restauro (1998-2000 e 2005), sono attualmente (2015) in corso l'erezione e la ricollocazione - per anastilosi (cioè ricostruzione con resti originali di strutture architettoniche il più vicino possibile a quelle antiche) - di sette colonne.
Pur essendo il primo foro del percorso, fu l’ultimo a essere stato costruito (concluso nel 112), progettato dall’architetto Apollodoro di Damasco. Perché il complesso potesse essere realizzato, si dovette procedere a grandi opere di sbancamento (asportazione) del terreno nella zona che metteva in comunicazione i colli del Quirinale e del Campidoglio. Fu costruito grazie all’ingente bottino costituito dal tesoro di Decebalo, ottenuto a seguito della conquista della Dacia.
Il Foro di Traiano consiste in una piazza porticata delle dimensioni di 118x89 metri, avente accesso (come hanno dimostrato gli scavi condotti nel 1998-2000) da una corte porticata, adiacente al Foro di Augusto, che immetteva in una sala ornata, all'esterno, verso la piazza del Foro, da colonne gigantesche di più varietà di marmo. In corrispondenza del segmento centrale sporgeva un portico octastilo sormontato da un carro trainato da sei cavalli, con l'imperatore Traiano coronato da una Vittoria alata e affiancato da numerose statue - su una moneta d'oro traianea è raffigurata proprio tale porzione del Foro -. Punto focale della piazza era la colossale statua equestre di Traiano (non pervenutaci) collocata in posizione eccentrica rispetto al centro geometrico dell'area, ma lungo il suo asse longitudinale. All'altezza del monumento i muri di cinta della piazza, al di là del porticato, si dilatavano in due ampie esedre. Sul lato corto opposto all'accesso sorgeva la grande Basilica Ulpia con triplice ingresso. Si trattava di un edificio diviso in cinque navate da quattro file di colonne. I lati brevi presentavano due absidi che ripetevano il tema della piazza antistante. Alla parte posteriore della basilica erano addossati due grandi ambienti simmetrici, tradizionalmente identificati come biblioteche greca e latina in mezzo alle quali si elevava la colossale colonna coclide, dedicata a Traiano. Dopo la morte dell’imperatore, il suo successore, Adriano, fece costruire di fronte alla colonna o, più verosimilmente, in posizione decentrata rispetto a essa, un tempio dedicato al Divo Traiano. L'esatta localizzazione del tempio è ancora oggetto di discussione. Il marmo bianco costituiva la pavimentazione della piazza del Foro, mentre tre gradini di giallo antico introducevano ai porticati con colonne corinzie dal fusto in pavonazzetto e dalle basi e dai capitelli in marmo bianco.
Sopra: Foro di Traiano con le colonne della Basilica Ulpia. Sotto: Mercati Traianei.
Planimetria del Foro di Traiano.
Al di sopra della trabeazione un attico accoglieva, in corrispondenza di ciascuna colonna, la statua di un Daco di marmo bianco e, fra una statua e l'altra, delle imagines clipeatae (ritratti in altorilievo racchiusi in una cornice circolare) di personaggi storici. I pavimenti del porticato, come pure quelli della basilica, erano a riquadri marmorei. Le navate laterali della basilica erano coperte da volte a botte; i fusti lisci delle colonne che delimitavano la navata centrale erano in granito grigio egizio. Sulla loro trabeazione si ergeva un secondo ordine di colonne ioniche dal fusto liscio di marmo cipollino, di colore biancastro con tenui venature colorate. Un tetto a capriate (travatura reticolata), infine, sosteneva la copertura piana cassettonata della basilica.
Fondamentale è la presenza dei Mercati di Traiano, sulle pendici del Quirinale, che ospitano il Museo dei Fori Imperiali. Il complesso, la cui costruzione è attribuibile ad Apollodoro di Damasco, riprede la struttura semicircolare dell’esedra del foro traianeo ed è articolato su sei livelli. È costruito secondo la tecnica dell’opus latericium- calcestruzzi romano rivestito da mattoni-, che sfrutta tutti gli spazi disponibili, adattandosi al dislivello del terreno e permettendo di dare diverse forme ai diversi livelli del monumento. La finitura laterizia è molto curata anche esteticamente, in particolare sulla facciata del Grande emiciclo un ordine di lesene inquadra le finestre al secondo piano, sormontate da frontoni triangolari e arcuati.
Gli ambienti aperti erano coperti da volte a botte e dotati di un’ampia porta con architrave e stipiti in travertino, sormontata da una finestra quadrata per far passare la luce nell’ambiente interno- secondo la classica struttura delle tabernae, ambienti aperti su spazi più ampi dedicati ad attività commerciali, talvolta inseriti al piano terra in edifici come le insulae (caseggiati a più piani) o lungo le facciate delle domus. La pavimentazione è costituita da un mosaico di due strati di tessere di selce impermeabile. Proprio questi ambienti, che hanno suggerito una funzione commerciale, hanno indotto gli archeologi ad attribuire al complesso il nome di “Mercati Traianei”, data anche la preoccupazione dell’imperatore per la precaria situazione annonaria- cioè relativa alle scorte alimentari- della città, per cui l’imperatore fece costruire anche un porto di rifornimento a Fiumicino, il porto di Traiano. Probabilmente il monumento era un centro polifunzionale, in cui si svolgevano anche attività amministrative- data la disposizione degli ambienti e dall’articolazione dei percorsi interni all’edificio-.
La Colonna Traiana è un monumento innalzato a Roma per celebrare la conquista della Dacia (attuale Romania) da parte dell'imperatore Traiano; nella colonna, infatti, sono raffigurati tutti i momenti di quella espansione territoriale. Era collocata nel Foro di Traiano, in un cortile alle spalle della Basilica Ulpia fra due (presunte) biblioteche.
La colonna fu inaugurata nel 113 e descrive le guerre di Dacia (101-106), forse basandosi sui perduti Commentarii di Traiano, simili a quelli di Cesare, e forse anche sull'esperienza diretta dell'artista. L'iscrizione dei Fasti ostienses ci ha tramandato anche la data, il 12 maggio. Aveva la funzione, testimoniata dall'iscrizione, di dare la vista panoramica e ricordare l'altezza della sella collinare e di accogliere le ceneri dell'imperatore dopo la sua morte. Inoltre il fregio spiraliforme ricordava a tutti le imprese di Traiano, celebrandolo come comandante militare. La Colonna rimase sempre in piedi anche dopo la rovina degli altri edifici del complesso di Traiano e le fu sempre attribuita grande importanza: un documento del Senato medievale del 1162 ne stabiliva la proprietà pubblica e ne proibiva il danneggiamento. Sotto papa Sisto V, nel 1587, ad opera di Domenico Fontana, si pose sulla sommità del fusto la statua in bronzo di san Pietro e fu eretto un muro di recinzione. Nel 1787 Goethe, mentre si trovava a Roma, racconta di essere salito sulla colonna Traiana e di aver visto da lì il panorama della capitale: «Salii verso sera sulla colonna Traiana, da cui si gode un panorama incomparabile. Visto di lassù, al calar del sole, il Colosseo sottostante si mostra in tutta la sua imponenza; vicinissimo è il Campidoglio, più addietro il Palatino e il rimanente della città. Poi, a tarda ora, tornai a casa passeggiando lentamente per le vie. Un luogo straordinario è la piazza di Monte Cavallo con l'obelisco.» L'area con il basamento venne ancora sistemata e ripulita a più riprese fino ai primi scavi degli inizi del XIX secolo.
La colonna, senza tenere conto della base, è alta 29 metri e, formata da 17 blocchi di marmo, è sormontata dalla statua di Traiano. Essa è decorata con una striscia di rilievi che cresce in altezza, passando da 60 a 80 cm, con l’obiettivo di contrastare l’effetto ottico causato dalla distanza. E’ la prima colonna coclide cioè ornata da una decorazione continua a forma di spirale. I rilievi rappresenta le imprese di Traiano ( 150 ) senza alcun intento di idealizzazione perché sono rappresentati in modo realistico. Non conosciamo l’autore, qualcuno sostiene che si tratti dell’architetto Apollodoro. Sta di fatto che il ruolo avuto da questo artista nei confronti dell’imperatore è lo stesso ricoperto da Fidia per Pericle. I rilievi non hanno molta plasticità perché costituiti spesso da figure appiattite. Questo si spiega col fatto che se l’autore avesse scelto delle volumetrie troppo evidenti avrebbe provocato delle ombre sulla scena per cui tutti i personaggi si sarebbero trasformati in un insieme di piccole figure. L’autore, inoltre ha cercato di far apparire la “pietas” di Traiano, cioè il senso di umanità e giustizia nei confronti dei vinti. Non si nota mai adulazione e nemmeno esaltazione perché i popoli sottomessi sono raffigurati come combattenti che lottano per la loro libertà e l’imperatore ci appare più un giudice che un vincitore.
Voluto da Domiziano, fu inaugurato dal suo successore, Nerva, nel 97 d.C., insieme al tempio di Minerva. È ricordato anche come foro “Transitorio” per via della sua funzione di raccordo tra il quartiere Suburra e il Foro Romano, dando l’accesso ai fori di Augusto e di Cesare. L’area era in precedenza occupata dal macellum, il mercato alimentare, di età repubblicana, distrutto dall’incendio del 64. L’imperatore Alessandro Severo avrebbe collocato nel foro statue colossali degli imperatori precedenti, di cui non rimane nulla. Dei portici del foro resta un fregio, raffigurante il mito di Aracne in onore di Minerva; resta inoltre un attico- elemento murario posto sulla cornice- decorato con rilievi raffiguranti le personificazioni delle province romane, che doveva essere coronato da statue di bronzo. La piazza era dominata dal tempio di Minerva, cui si accedeva per la porticus absidata- un ingresso a pianta semicircolare, a esedra, alle spalle del tempio, che fronteggia la Suburra- e di cui resta visibile anche il pronao e un tratto del muro perimetrale, con due colonne, soprannominate “Colonnacce”.
Immmagine delle "Colonnacce" e del fregio del tempio di Minerva.
La Via dei Fori Imperiali.
Aperta nel 1932 con il nome di via dell’Impero, prende l’attuale nome dai fori che si possono ammirare percorrendola. Collega Piazza Venezia al Colosseo, che ne costituisce il traguardo visivo. Ai lati presenta viali alberati a pini domestici, tipico elemento del paesaggio romano. Per realizzarla, furono abbattuti il quartiere alessandrino, altri edifici e tre chiese, che sorgevano sui resti del foro di Nerva e di Traiano, e le opere d’arte e gli affreschi in esse contenute furono salvati per asportazione. Durante la demolizione di un caseggiato in via Alessandrina, un operaio, rimuovendo una lastra di ferro, assistette a una cascata di monete d’oro e gioielli: il cosiddetto tesoro di via Alessandrina, appartenuto all’antiquario Francesco Martinetti, che entrò a far parte dei Musei Capitolini. Tale ritrovamento fu considerato un segno della necessità e positività delle demolizioni in corso. Compiute le demolizioni, i resti dei fori furono isolati e messi in luce dall’archeologo Corrado Ricci. La strada fu inaugurata il 28 ottobre 1932, nell’ambito della celebrazione decennale della marcia su Roma; in tale occasione furono collocate dinnanzi ai rispettivi fori quattro statue in bronzo, raffiguranti Augusto, Cesare, Nerva e Traiano.
Immagini dell'arco di Settimio Severo; ricostruzione.
L'arco di Settimio Severo è un arco trionfale a tre fornici (con un passaggio centrale affiancato da due passaggi laterali più piccoli), situato a Roma, all'angolo nord-ovest del Foro Romano e sorge su uno zoccolo in travertino, in origine accessibile solo per mezzo di scale. L'arco, alto 23 metri, largo 25 e profondo 12, è costruito in opera quadrata di marmo, con i tre fornici inquadrati sul lato frontale da colonne sporgenti di ordine composito, su alti plinti, scolpiti con Vittorie e figure di barbari. Si tratta del più antico arco a Roma, conservato, con colonne libere anziché addossate ai piloni.
I fornici laterali sono messi in comunicazione con quello centrale per mezzo di due piccoli passaggi arcuati. La quarta riga dell'iscrizione, dove compare patri patriae optimis fortissimisque principibus, sostituisce il testo originario (cui si è potuto risalire tramite gli incavi ricavati per bloccare le lettere metalliche e che era: ET PUBLIO SEPTIMIO LUCI FILIO GETAE NOBILISSIMO CAESARI) riportante la dedica a Geta – figlio dell’imperatore - e che venne cancellato e sostituito dopo il suo assassinio e la seguente damnatio memoriae.
Sopra l'attico, come raffigurato nelle emissioni monetali, si trovava la quadriga imperiale in bronzo e gruppi statuari. La decorazione accessoria segue lo stile classico dell'arte ufficiale ed è tesa a esaltare con simboli e allegorie l'eternità e l'universalità dell'Impero (le stagioni, i fiumi della Terra), oltre alla gloria degli imperatori (Vittorie, prigionieri). Forte è la connotazione chiaroscurale. Le scene scolpite vennero probabilmente create usando come modello le pitture che narravano i fatti della guerra inviate dalla Mesopotamia al Senato in preparazione del trionfo, che poi venne rimandato dall'imperatore e mai celebrato. I modelli più diretti per i rilievi furono sicuramente le due colonne coclidi, cioè quella Traiana e quella Aureliana, in particolare la seconda per la tecnica narrativa molto essenziale, qui ancora più riassuntiva e schematica.
L'ambientazione delle scene è unica, con un generico paesaggio roccioso (ottenuto bucherellando la superficie del marmo), con accenni di fiumi (come il Tigri nel pannello di Nord-Ovest) e le schematiche raffigurazioni di città. La narrazione in alcuni punti è continua, in altri mostra scene isolate, istantanee. La comprensione dei fatti è spesso affidata a gesti eloquenti e situazioni facilmente intelligibili.
Da un punto di vista stilistico alcuni storici hanno individuato due maestri, anche se almeno tutti i pannelli e il fregio sopra i fornici laterali sono opera unitaria, con stringenti affinità con la colonna di Marco Aurelio, di pochi anni anteriore. Qui però si registra la tendenza ad isolare maggiormente le figure dallo sfondo tramite netti sottosquadri a quella di preferire una rappresentazione piatta, pittorica.
Uno dei pannelli più significativi è quello dell'Assedio e presa di Ctesifonte, dove è particolarmente evidente l'uso del trapano, che crea zone profonde con forti ombreggiature alternate a quelle in luce sulla superficie, dando un effetto coloristico già visibile in alcune opere sin dall'età di Antonino Pio. Ma una novità ancora più eclatante è la rappresentazione della figura umana, ormai appiattita in scene di massa ben lontane dalla visione "greca" della rappresentazione dell'individuo isolato e plastico. Si tratta di una testimonianza evidente della nascita di nuovi stilemi legati al filone dell'arte "provinciale e plebea" che dominarono l'arte tardoantica sfociando poi nell'arte medievale. Funzionari, artisti e imperatori stessi infatti provenendo dalle province portarono a Roma, con un'influenza sempre crescente, i caratteri dell'arte tipici proprio dei loro territori d'origine (non è corretto quindi parlare di una "decadenza" dell'arte). Un altro segno evidente di queste nuove tendenze è la figura dell'imperatore che, circondato dai suoi generali, arringa la folla durante l'adlocutio: non siamo ancora agli ingigantimenti gerarchici tipici delle raffigurazioni imperiali del IV secolo, ma già l'imperatore si trova su un piano rialzato, emergendo sulla massa dei soldati come un'apparizione divina.
Queste tendenze furono ancora più evidenti nell'Arco di Costantino, del secolo successivo.
L'ambientazione delle scene è unica, con un generico paesaggio roccioso (ottenuto bucherellando la superficie del marmo), con accenni di fiumi (come il Tigri nel pannello di Nord-Ovest) e le schematiche raffigurazioni di città. La narrazione in alcuni punti è continua, in altri mostra scene isolate, istantanee. La comprensione dei fatti è spesso affidata a gesti eloquenti e situazioni facilmente intelligibili.
Da un punto di vista stilistico alcuni storici hanno individuato due maestri, anche se almeno tutti i pannelli e il fregio sopra i fornici laterali sono opera unitaria, con stringenti affinità con la colonna di Marco Aurelio, di pochi anni anteriore. Qui però si registra la tendenza ad isolare maggiormente le figure dallo sfondo tramite netti sottosquadri a quella di preferire una rappresentazione piatta, pittorica.
Uno dei pannelli più significativi è quello dell'Assedio e presa di Ctesifonte, dove è particolarmente evidente l'uso del trapano, che crea zone profonde con forti ombreggiature alternate a quelle in luce sulla superficie, dando un effetto coloristico già visibile in alcune opere sin dall'età di Antonino Pio. Ma una novità ancora più eclatante è la rappresentazione della figura umana, ormai appiattita in scene di massa ben lontane dalla visione "greca" della rappresentazione dell'individuo isolato e plastico. Si tratta di una testimonianza evidente della nascita di nuovi stilemi legati al filone dell'arte "provinciale e plebea" che dominarono l'arte tardoantica sfociando poi nell'arte medievale. Funzionari, artisti e imperatori stessi infatti provenendo dalle province portarono a Roma, con un'influenza sempre crescente, i caratteri dell'arte tipici proprio dei loro territori d'origine (non è corretto quindi parlare di una "decadenza" dell'arte). Un altro segno evidente di queste nuove tendenze è la figura dell'imperatore che, circondato dai suoi generali, arringa la folla durante l'adlocutio: non siamo ancora agli ingigantimenti gerarchici tipici delle raffigurazioni imperiali del IV secolo, ma già l'imperatore si trova su un piano rialzato, emergendo sulla massa dei soldati come un'apparizione divina.
Queste tendenze furono ancora più evidenti nell'Arco di Costantino, del secolo successivo.
L'arco venne eretto per celebrare le vittorie dell'imperatore Tito Flavio Vespasiano e del figlio Tito nella guerra giudaica, così detta in quanto terminò con la sconfitta dei Giudei e con la conseguente distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.. Inglobato parzialmente entro strutture medievali (la fortezza dei Frangipane) che lo hanno preservato dai danni, l'Arco è stato isolato e restaurato nell'Ottocento. La costruzione è a un solo fornice (la parte denominata anche luce in un arco) e presenta su ogni fronte quattro colonne dal fusto scanalato (sono a fusto liscio solo quelle del restauro integrativo ottocentesco). Tutte le colonne sono coronate da capitelli di ordine composito, che compare qui per la prima volta in un monumento trionfale. La trabeazione corre appiattendosi contro le facce dei pilastri, ma sporge in corrispondenza sia delle semicolonne sia dell'intercolumnio centrale. Al di sopra della trabeazione l'attico conserva ancora l'iscrizione con la dedica all'imperatore vittorioso. La volta a botte cassettonata, ornata di rosoni, è introdotta da un arco il cui concio di chiave è costituito da una doppia voluta, che qui, per la prima volta, è impiegata in un monumento ufficiale. Questo motivo architettonico e ornamentale diventerà ricorrente anche negli archi trionfali costruiti successivamente.
Incisione raffigurante l'arco di Tito.
L'arco di Costantino è il più grande arco trionfale, o per alcuni semplicemente onorario, giunto fino a noi, e svetta sull'antica Via dei Trionfi. Situato a Roma, a breve distanza dal Colosseo, non venne abbattuto soprattutto in quanto Costantino fu pubblicizzato come il primo imperatore favorevole alla religione cristiana. L'arco fu voluto dal senato che lo dedicò all'imperatore per onorare il "liberatore della città e portatore di pace", in parte per ingraziarselo, come del resto facevano con ogni imperatore, in parte forse perché fu effettivamente un valente condottiero capace di difendere l'impero.
Il monumento venne sottoposto a restauri e a diversi studi sin dalla fine del Quattrocento e nel 1733 ha ricevuto notevoli lavori di integrazione delle parti mancanti. Nel 1530 Lorenzino de' Medici venne cacciato da Roma per aver tagliato per divertimento le teste sui rilievi dell'arco, che vennero in parte reintegrate nel XVIII secolo. Oltre alla notevole importanza storica l'arco è un vero e proprio museo di scultura romana ufficiale, straordinario per ricchezza e importanza. I fornici sono inquadrati sulle due facciate da quattro colonne corinzie su alti piloni e addossate alle pareti, con una trabeazione sormontata da un attico a una altezza di 25 m, e scandito in tre settori da statue di prigionieri barbari.
Il monumento è in opera quadrata di marmo nei piloni, mentre l'attico, con uno spazio accessibile, è realizzato in muratura e in cemento, rivestito all'esterno di blocchi marmorei. Sono stati utilizzati marmi bianchi di diverse qualità, reimpiegati da monumenti più antichi, e sono stati riutilizzati anche buona parte degli elementi architettonici e delle sculture della sua decorazione. L'arco è a tre fornici, e quello centrale, che è il più grande, è lungo 6,5 m e alto 11,45, mentre complessivamente misura 21 m di altezza con l'attico, 25,70 m di larghezza e 7,40 di profondità. Sopra è munito di un attico, di 21 m x 26. La struttura architettonica riprende quella dell'arco di Settimio Severo nel Foro Romano, con i tre fornici inquadrati da colonne sporgenti su alti plinti, e pure alcuni temi decorativi, come le Vittorie dei pennacchi del fornice centrale.
La cornice dell'ordine principale è di reimpiego, di età antonina o severiana, integrata da copie costantiniane per gli elementi sporgenti sopra le colonne, più accurate sulla fronte che sui fianchi. Ancora di reimpiego sono i capitelli corinzi, di epoca antonina, i fusti in marmo giallo antico e le basi delle colonne. Capitelli e basi delle retrostanti lesene sono invece copie costantiniane, mentre i fusti delle lesene, probabilmente di reimpiego, sono stati quasi tutti sostituiti nei restauri settecenteschi. Di epoca domizianea, ma con rilavorazioni successive, è anche il coronamento del fornice centrale. Di epoca costantiniana sono invece gli archivolti del fornice centrale, i coronamenti, zoccoli, fregio, architrave e basi dell'ordine principale, archivolti e coronamenti di imposta dei fornici laterali, con modanature semplificate e con andamento non allineato.
Ricostruzione della Curia Iulia.
La Curia Iulia- in origine Curia Hostilia, edificata da Tullo Ostilio-, il cui nome fa riferimento alle assemblee dei curiati- i cittadini riuniti in base alle curie- nel Comizio, danneggiata da un incendio nel 52, e restaurata da Ottaviano nel 29, era l’antica sede del Senato romano.
Contigua al Foro di Cesare, è un edificio di pianta rettangolare, con quattro pilastri esterni che fungono da contrafforti, con le due facciate coronate da timpani, in travertino, dall’ingresso in bronzo. Il grande interno rispetta le proporzioni indicate da Vitruvio per le curie, in quanto l’altezza è la metà della somma tra larghezza e lunghezza (infatti: altezza 21 m, base 18 x 27 m). la notevole altezza è un probabile accorgimento per l’acustica. L’aula è divisa in tre settori, con a destra e sinistra tre gradoni larghi e bassi, dove originariamente erano collocati i 300 seggi per i senatori. Sulla parete di fondo è collocata solo la base della statua della Vittoria, simbolo del potere delle istituzioni romane, in quanto fu rimossa dall’imperatore Costanzo II, dopo che divenne una chiesa. Il pavimento risale al periodo bizantino.
La Basilica Emilia è l'unica rimasta delle basiliche repubblicane: la Sempronia, la Porcia e l’Opimia - di cui non resta quasi traccia. La Basilica Iulia, immediatamente successiva, è infatti considerata di età imperiale, anche se in realtà Cesare non fu imperatore. L’edificio doveva essere decorato con un fregio raffigurante le origini di Roma. I resti della basilica più antica in opera quadrata di tufo di Grotta Oscura sono ancora visibili sul lato ovest. La basilica veniva usata soprattutto in inverno, per le attività connesse al Foro, ai tribunali e alle operazioni economiche, che in estate si svolgevano all’aperto.
La Basilica Emilia fu innalzata nel 179 a.C., a un piano unico, su commissione di Fulvio Flavio Nobiliare – motivo per cui in origine fu chiamata basilica Flavia -, e di Marco Emilio Lepido, entrambi censori. Il fatto però che fosse pagata del tutto o soprattutto da Emilio Lepido fece sì che il senato decidesse di dare a Marco l'onore dell'intestazione - onore fondamentale per la sua campagna propagandistica -. All'inizio del I sec. a.C., fu articolata su due piani. Dopo i vari restauri dovuti ai membri della gens Aemilia, nel 78, 54 e 34, ve ne fu uno grandioso, dispendioso e sostanziale nel 14 a.C., sotto Augusto, in cui fu ricostruita in marmo lunense. Il pavimento della navata centrale era in preziosi marmi policromi, e le due navate laterali in marmo bianco. I due ordini interni avevano colonne in marmo africano, quelle inferiori con capitelli ionici e le superiori con capitelli corinzi. Sulle pareti interne ricoperte di marmi si trovavano ampi rilievi in marmo pentelico, mentre all'esterno l'attico era coperto da bassorilievi e, al centro delle lastre applicate sul parapetto, c'erano immagini degli esponenti sia della gens Augusta che della gens Aemilia, affiancate da monumentali colonne. L’edificio era preceduto a sud da una facciata a due ordini sovrapposti di sedici arcate su pilastri con semicolonne, sostituito in seguito all’incendio del 410 con un colonnato molto più fitto. Tre di queste colonne granitiche sono state in seguito poste sul lato est, assieme ad una grande iscrizione dedicata a Lucio Cesare e ai frammenti di un’altra, per il fratello Gaio. Ambedue queste iscrizioni dovevano appartenere ad un monumento (porticus) dedicato ai due futuri eredi di Augusto, probabilmente collegato all’arco Partico dell’imperatore. Dietro il portico si aprivano ambienti con struttura quadrata in tufo, le tabernae novae, legate poi alle tabernae argentariae d’origine imperiale, destinate ai banchieri, dietro cui si innalzava la basilica. Sembra però che tali tabernae fossero anche usate come punti di vendita e di ristoro.
Ricostruzione della Basilica Emilia e incisione del porticato.
Con Massenzio (306-312) iniziò la costruzione della basilica romana che ancora oggi porta il suo nome, anche se venne ultimata da Costantino (312-337). Nelle basiliche - tradizionalmente edificate in prossimità della piazza del Foro - si amministrava la giustizia e si trattavano gli affari. Solitamente esse erano composte da un grande ambiente rettangolare, spesso diviso in tre o più navate da due o più file di colonne, con ingresso posto su uno dei lati maggiori o anche, ma più raramente, su uno di quelli minori o su ambedue, indifferentemente. Al centro di uno dei lati maggiori o di uno di quelli minori (o su entrambi), opposti all'ingresso, si apriva un'abside, a pianta rettangolare o semicircolare, al cui interno era situato il seggio del magistrato che amministrava la giustizia. La copertura dell'ambiente poteva essere costituita da capriate lignee. L'illuminazione proveniva da grandi finestre che si aprivano in alto nelle pareti della navata centrale, che solitamente superava in altezza quelle laterali. La basilica si presentava so-bria esternamente e sfarzosa all'interno, con soffitti e capitelli dorati, marmi preziosi che rivestivano pavimenti e pareti, colonne di marmi rari.
La Basilica di Massenzio, edificata sull'altura della Vèlia, di fronte alla Via Sacra che attraversava il Foro Romano, era internamente divisa in tre navate. Quella centrale, che in pianta ha le dimensioni di 80×25 metri, era alta circa 35 m e aveva una copertura costituita da volte a crociera. Otto altissime colonne di marmo la ornavano, collocate in corrispondenza dei quattro angoli e di fronte alle teste dei muri trasversali. Le due navate laterali, formate ognuna da tre grandi vani, fra loro comunicanti per mezzo di aperture realizzate nelle pareti divisori, erano coperte da volte a botte. Tali volte, costruite in opus caementicium, erano ornate da cassettoni il cui disegno era basato sull'alternanza di ottagoni e quadrati. In origine, l'accesso - preceduto da un lungo vestibolo - avveniva dal lato orientale, mentre all'estremità opposta si apriva un'abside semicircolare. In età costantiniana venne aperto un ulteriore accesso - preceduto da un piccolo portico - sul lato meridionale e, conseguentemente, la parete di fronte, quella del vano di mezzo della navata laterale settentrionale, venne forata per permettere l'aggiunta di una nuova abside. Grandi finestre, infine, probabilmente a mezzaluna, si aprivano in alto sui muri della navata centrale, mentre aperture ad arco illuminavano direttamente le due navate laterali.
La tecnica dell'opus caementicium, usata per la costruzione dei grandi edifici cupolati o voltati, era quella che, evolvendo e perfezionandosi, consentiva i cambiamenti e le sperimentazioni più ardite. Purtroppo della Basilica di Massenzio non restano che i tre ciclopici vani della navata laterale settentrionale, essendo crollati più di due terzi della fabbrica, forse già durante il pontificato di Papa Leone IV (847-855), a causa di un terremoto.
Immagine della Basilica di Massenzio e ricostruzione degli ambienti interni.
Il Tempio di Antonino e Faustina sorge su un alto podio preceduto da una scalinata, ricostruita in epoca moderna in mattoni, al centro della quale vi sono i resti in laterizio dell’antico altare. Il pronao è costituito da dieci colonne di cipollino, sei sulla facciata e due coppie sui lati, alte 17 metri, con capitelli corinzi di marmo bianco. La cella, in opera quadrata di peperino ma originariamente rivestita in marmo, è sormontata da un architrave marmoreo decorato con grifi, girali d’acanto e candelabri. Il tempio fu eretto nel 141 d.C. dall’imperatore Antonino Pio in memoria della moglie Faustina; soltanto nel 161 d.C., alla morte dell’imperatore, il tempio fu dedicato ad entrambi ed all’originaria iscrizione sull’architrave “DIVAE FAUSTINAE EX SENATUS CONSULTO” fu aggiunto “DIVO ANTONINO ET”, per un testo completo che così recita: “Al Divino Antonino ed alla Divina Faustina per decreto del Senato”. Nel VII secolo il tempio divenne una chiesa, dall’XI secolo conosciuta come S. Lorenzo in Miranda, probabilmente per ricordare il luogo in cui il martire venne condannato a morte, mentre il termine Miranda si riferisce alla mirabile vista sul Foro Romano. Da notare l’altezza del portale di accesso che testimonia quale fosse il livello di calpestio prima degli scavi ottocenteschi.
Il tempio di Saturno fu edificato nei primi anni dell'età repubblicana e subì numerosi restauri fino al tardo IV secolo. Si trova ai piedi del Campidoglio, a sud-ovest dei Rostra imperiali. Consacrato sotto il consolato di Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio Augurino (il 497 a.C.), il Tempio di Saturno è il più antico luogo sacro di Roma dopo il Tempio di Vesta e quello di Giove. Sede del tesoro di stato, il tempio conteneva una statua di Saturno che veniva riempita di olio e avvolta in bende di lana. Durante i Saturnali, le festività che si tenevano dal 17 al 23 dicembre, le bende venivano tolte, si teneva un banchetto pubblico; secondo la tradizione, le festività si concludevano al grido di "Io Saturnalia". Durante i sette giorni di festeggiamenti, i più famosi di Roma, l'ordine sociale basato su padroni e schiavi veniva sovvertito e i padroni si mettevano servizio dei loro schiavi al momento dei pasti. In questo tempio si trovava un antichissimo altare, da collegare, secondo la tradizione, alla mitica fondazione della città sul Campidoglio da parte di Saturno. A conferma della leggenda vi sono infatti la presenza di un villaggio sulla collina fin dal periodo protostorico e l'antichità del culto saturnino, già presente nel "Latium Vetus" durante l'età dell'oro. La costruzione dovette essere già iniziata nel periodo regio, con l'inaugurazione nei primissimi anni della Repubblica. La data della prima consacrazione oscilla infatti, secondo gli studiosi, tra il 501 e il 498 a.C.: le fonti riportano come votato (promesso in voto) dal re Tarquinio il Superbo e dedicato da Tito Larcio (dittatore in entrambe le date). Altre fonti lo attribuiscono ad un Lucio Furio, ma si tratta forse di un restauro agli inizi del IV secolo a.C. in seguito alle distruzioni dell'incendio gallico. Si tratterebbe quindi del più antico tempio del periodo repubblicano, secondo solo al tempio di Giove Capitolino.
Ricostruzione del Tempio di Saturno.
Il dies natalis del tempio corrispondeva al 17 dicembre, festa dei Saturnali, in occasione dei quali si celebrava in scatenata libertà la fine dell’anno. Le fonti antiche ricordano che la statua di culto, velata e con in mano una falce, era cava e interamente riempita di olio. Le gambe venivano legate con bende di lana, sciolte solo in occasione dei Saturnali. Nel tempio si conservava il tesoro statale (aerarium) di cui si occupavano i questori, gli archivi dello stato, le insegne e una bilancia per la pesatura ufficiale del metallo. Successivamente l'aerarium dovette essere spostato in un apposito edificio nelle vicinanze e anche gli archivi furono trasferiti nel Tabularium. Il podio del tempio era utilizzato per l'affissione di leggi e documenti pubblici.
Un totale rifacimento dell'edificio si ebbe a partire dal 42 a.C. ad opera del console Lucio Munazio Planco, con il bottino del suo trionfo sulla popolazione alpina dei Reti, o secondo altre fonti col bottino di guerra preso in Siria. Dopo l'incendio di Carino del 283 d.C. dovette di nuovo essere restaurato. I resti attualmente visibili dell'edificio appartengono sia a questa fase (il podio) che al restauro del tardo III secolo, a cui si devono i fusti di colonna in granito grigio e rosa (restano solo quelli della facciata e i primi due dei lati) e i capitelli ionici a quattro facce.
Su un alto podio sorgono le tre colonne corinzie superstiti del Tempio dei Dioscuri, ovvero dei due gemelli divini Castore e Polluce. La leggenda narra che, nel corso della battaglia presso il lago Regillo (499 a.C.), che opponeva i Romani ai Latini, alleati di Tarquinio il Superbo nel tentativo di riconquistare Roma, apparvero due misteriosi cavalieri, che guidarono i Romani alla vittoria. Subito dopo, gli stessi cavalieri furono visti abbeverare i cavalli alla Fonte di Giuturna ed annunciarono in città la vittoria, per scomparire subito dopo. Il popolo riconobbe in essi i Dioscuri: il dittatore Aulo Postumio Albino fece voto di erigere un tempio in loro onore, che fu dedicato da suo figlio nel 484. Il tempio fu restaurato da L. Cecilio Metello Dalmatico nel 117 a.C. e poi ancora da Verre. Un ultimo restauro si ebbe dopo l’incendio del 12 a.C. ad opera di Tiberio: il nuovo edificio, al quale appartengono i resti monumentali ancora visibili, fu dedicato nel 6 d.C. Il podio, di cui resta soltanto la parte in opera cementizia, è in gran parte quello del 117 a.C. ed ingloba vari resti della fase precedente: vogliamo ricordare che un blocco marmoreo del tempio fu asportato ed utilizzato come base della statua equestre di Marco Aurelio.
Attualmente restano, dell'edificio ricostruito da Tiberio, tre delle colonne del lato lungo orientale e il nucleo del podio in opera cementizia (si tratta del riempimento tra le parti portanti, costruite in opera quadrata, ma i cui blocchi sono stati in seguito asportati per il reimpiego). Il podio del tempio tiberiano ingloba strutture delle fasi precedenti. Il tempio del V secolo a.C. Delle murature in opera quadrata di cappellaccio si riferiscono al primo edificio del 484 a.C. e consentono di ricostruirne l'originario aspetto.
Si trattava di un tempio di tipo italico, con tre celle e un profondo pronao, con lo stesso orientamento dell'attuale e di poco più piccolo; a questo tempio appartengono probabilmente i frammenti di decorazione architettonica in terracotta rinvenuti negli scavi.
Una ricostruzione del II secolo a.C. Resti in opera cementizia si riferiscono ad una trasformazione dell'edificio della prima metà del II secolo a.C., legata probabilmente all'istituzione del tribunale: il pronao venne reso meno profondo e la parte anteriore del podio venne abbassata e coperta con lastre in peperino per essere utilizzata come tribunale. Il tempio fu forse trasformato in un periptero sine postico (con colonne anche lungo i lati, ma non sul retro). Il pavimento della cella doveva essere in mosaico bianco.
Il tempio metelliano del 117 a.C.. In questa fase il podio era costituito da tre strutture in opera cementizia, inglobate nel successivo podio tiberiano, rispettivamente per la cella, per il pronao e per il tribunale antistante, con i muri più esterni del podio più antico utilizzati come fondazioni per le colonne laterali. Il tempio aveva probabilmente l'aspetto di un tempio ottastilo (otto colonne sulla fronte) periptero sine postico (con colonne anche sui lati lunghi, ma non sul retro). Le colonne e la trabeazione dovevano essere in travertino rivestito di stucco, mentre i muri della cella erano costruiti in blocchi di tufo dell'Aniene. Le pareti interne della cella erano decorate da tre colonne ciascuna, delle quali restano le fondazioni. L'originario pavimento della cella era in mosaico, con un bordo decorato da un meandro policromo in prospettiva. Nel I secolo a.C. il mosaico venne sostituito da un pavimento in opus sectile marmoreo, con una decorazione di cubi in prospettiva.
Sopra: incisione raffigurante una ricostruzione del tempio. Sotto: Fonte di Giuturna.
In seguito alla distruzione del tempio metelliano, dovuta probabilmente ad un incendio (14 o 9 a.C.), l'edificio venne interamente ricostruito nella forma che conserva tuttora e inaugurato nel 6 d.C. da Tiberio. Il podio venne ulteriormente alzato e ingrandito (32 m x 49,5 m), ancora con tre strutture in opera cementizia per la cella, il pronao e il tribunale, in origine rivestite da muri in blocchi di tufo dell'Aniene e travertino, oggi scomparsi. Nel podio si aprivano ambienti utilizzati come deposito e banca, chiusi da grate, mentre altri dovevano essere affidati a privati per attività commerciali. L'elevato, in marmo lunense (marmo di Carrara) aveva l'aspetto di un tempio ottastilo periptero, di ordine corinzio, con 11 colonne sui lati lunghi. L'interno della cella era decorato con colonne più piccole dai fusti in marmo giallo antico e aveva un pavimento in mosaico bianco e nero, più tardi sostituito da uno in lastre di marmi colorati.
Davanti al tempio si trova un tribunale, più piccolo dei suoi predecessori, dal quale un'ampia scalinata permette di accedere al tempio; altre scale laterali permettevano l'accesso diretto al pronao. Entro la fine del II secolo d.C. il tribunale, non più utilizzato, venne eliminato e rimpiazzato da un'unica gradinata frontale di accesso. Il tempio doveva già essere in rovina nel IV secolo, quando un muro presso la fonte di Giuturna ne reimpiegò parte del materiale. Un blocco di marmo del tempio fu anche usato per la base della statua equestre di Marco Aurelio nel Campidoglio. Nel tempio si riunì più volte il Senato. Sul podio del tempio era posta una delle tre tribune di Rostri del Foro (le altre erano i Rostri imperiali e quelli sul podio del tempio del Divo Giulio). Da questa tribuna Cesare perorò la sua riforma agraria. Il podio fu anche usato come tribuna presidenziale durante i comizi legislativi, che si tenevano nella piazza. Qui si trovava anche l'ufficio dei Pesi e Misure e nelle stanzette trovate tra gli intercolumni sul lato orientale dovevano avere sede i negozi di banchieri citati dalle fonti.
Il culto dei Dioscuri nel Lazio è molto antico, come ha rivelato il ritrovamento di una lamina a Lavinio con dedica a Castore e Polluce. lo stile fortemente grecizzante del reperto ha fatto supporre che il culto fosse arrivato da una città della Magna Grecia, probabilmente Taranto. Come in Grecia, i due fratelli erano protettori dei cavalieri, che a quell'epoca erano composti dalla sola aristocrazia. Le fonti citano a Roma un altro tempio dedicato ai Dioscuri, situato nella zona del Circo Flaminio, probabilmente collocato tra questo e la riva del Tevere: in questa zona infatti, presso la chiesa di San Tommaso ai Cenci, vennero ritrovate le due statue dei Dioscuri attualmente collocate sulla balaustra della piazza del Campidoglio. A causa dello stretto spazio disponibile ebbe una pianta con cella disposta trasversalmente (come il tempio di Veiove sul Campidoglio e il tempio della Concordia nel Foro Romano). Secondo le ipotesi degli studiosi il tempio potrebbe essere datato tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. e la sua costruzione essere forse attribuibile a Quinto Cecilio Metello Pio, dopo il suo trionfo sulla Spagna (71 a.C.): questa attribuzione sembrerebbe confermata dallo stile delle statue attualmente conservate sul Campidoglio.
Il tempietto circolare, interamente costruito in mattoni, coperto a cupola e preceduto da una facciata accentuatamente concava nella quale si aprono quattro nicchie destinate ad altrettante statue è il cosiddetto Tempio di Romolo, ma è noto che non è dedicato né al mitico fondatore di Roma né a quel Romolo figlio di Massenzio: l’ipotesi più accreditata è quella secondo cui si tratta del Tempio dei Penati. Recentemente è stato anche identificato con il Tempio di Giove Statore, fondato, secondo la leggenda, da Romolo e dove i Romani, inseguiti dai Sabini dopo il Ratto, avrebbero opposto la prima, valida resistenza.
Il Volcanale (in latino Volcanal) era un antichissimo santuario dedicato al dio Vulcano collocato sopra il Comitium, nell'area Volcani, un'area all'aperto ai piedi del Campidoglio. Nel santuario si trovavano un'ara dedicata al dio e un fuoco perenne.
Secondo la tradizione romana, esso era stato dedicato a Vulcano da Romolo, il quale vi aveva anche posto una quadriga di bronzo dedicata al dio, bottino di guerra sottratto ai Fidenati sconfitti, e una propria statua con un'iscrizione delle sue vittorie redatta in caratteri greci; Romolo era rappresentato incoronato dalla Vittoria. Inoltre il re avrebbe piantato nel santuario un albero di loto sacro, che esisteva ancora ai tempi di Plinio il Vecchio e che si riteneva tanto antico quanto la città stessa. Si è ipotizzato che il santuario risalisse all'epoca in cui il Foro era ancora fuori della città. Il Volcanal è menzionato due volte da Tito Livio in merito al prodigium di una pioggia di sangue avvenuto nel 183 a.C. e nel 181 a.C..
L'area Volcani, probabilmente un locus substructus, era circa 5 metri più alta rispetto al Comitium e da essa i re e i magistrati della prima repubblica, prima che fossero costruiti i rostra, si rivolgevano al popolo. Sul Volcanal c'era anche una statua in bronzo di Orazio Coclite, che era stata qui spostata dal Comizio, un locus inferior, dopo essere stata colpita da un fulmine. Aulo Gellio racconta che furono chiamati alcuni aruspici per interpretare il prodigio, ma questi, mossi da malanimo, fecero spostare la statua in un luogo più basso dove non batteva mai il sole. L'inganno fu però scoperto e gli aruspici giustiziati; in seguito si scoprì che la statua doveva essere posta in un luogo più alto e così fu fatto sistemandola nell'area Volcani. Già nel 304 a.C. nell'area Volcani fu costruito un tempio alla Concordia dedicato dall'edile curule Gneo Flavio. Nel corso del tempo, il Volcanale sarebbe stato sempre più ristretto dagli edifici circostanti fino ad essere ricoperto del tutto. Il culto era comunque vivo ancora nella prima metà età imperiale, come testimonia il ritrovamento di una dedica di Augusto nell'anno 9 a.C..
Agli inizi del XX secolo furono ritrovate, dietro l'Arco di Settimio Severo, alcune antiche fondazioni in tufo che probabilmente appartenevano al Volcanale e tracce di una specie di piattaforma rocciosa, lunga 3,95 metri e larga 2,80, che era stata ricoperta di cemento e dipinta di rosso. La sua superficie superiore è scavata da varie canaline e di fronte ci sono i resti di un canale di drenaggio fatto di lastre di tufo. Si avanzò l'ipotesi che si trattasse dell'ara stessa di Vulcano. La roccia mostra segni di danni e di riparazioni e nella superficie ci sono alcune cavità, rotonde e squadrate, che hanno una qualche rassomiglianza con le tombe e sono perciò state considerate tali, dopo la scoperta di antiche tombe a cremazione nel Foro, e alcuni studiosi sostennero che in origine il Volcanale fosse il luogo dove venivano bruciati i corpi.
Immagine di un bassorilievo raffigurante Vulcano.
A poca distanza dalla Curia Iulia, è collocato il Lapis niger, il cui nome fa riferimento al suo marmo nero, con accezione sinistra, in riferimento alla profanazione della tomba di Romolo. Fu rinvenuto il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni e fu associato a un passo di Sesto Pompeo Festo- lapis niger in Comitio-; costituisce una delle più antiche testimonianze scritte della lingua latina, la prima ad uso pubblico, databile intorno al 575-550 a.C.
L’iscrizione del cippo mutilo nella parte superiore, a forma piramidale in un alfabeto latino arcaico, di derivazione greco-etrusca-, con andamento bustrofedico, tipico dell’antichità. L’iscrizione: “quoi hoi … dx-sx /…sakros es sx-dx /ed sorm… dx-sx /…ia. ias sx-dx /regei ic… sx-dx /…evam dx-sx /quos ri… sx-dx /…m kalato- dx-sx /rem hai… sx-dx /…o iod iouxmen- dx-sx /ta kapia dotav… sx-dx /m ite ria… dx-sx /…m quoi ha- sx-dx /velod nequ… dx-sx /…odiovestod… sx-dx”. Traduzione: “chi violerà questo luogo sia maldetto… al re l’araldo… prenda il bestiame… giusto”. L’altare più antico era più vistoso e ornato, identificato col Volcanale. Inoltre, il suo culto è connesso a quello della Magna Mater, Cibele.
L’Umbilicus urbis Romae, il centro ideale della città di Roma, è situato nei pressi dell’arco di Settimio Severo e del Tempio della Concordia, riprendeva la tradizione degli omphaloi greci.
Probabilmente questa struttura fu eretta utilizzando parte di un tempio monoptero corinzio del II secolo a.C., di cui forse riutilizza anche alcuni materiali. Alcuni mattoni della struttura, grazie alla presenza di bolli (cioè di disegni impressi nella terracotta), sono stati datati all’epoca severiana e dunque è certo un restauro risalente a quest’epoca; non meraviglierebbe poiché Settimio Severo avviò un programma di risistemazione dei luoghi più simbolici della città come il Palatino e il Foro, che sono annoverati tra i siti e i monumenti di Roma più suggestivi. È proprio nel Foro che Severo restaurò numerosi edifici, come i Rostri e l’Atrium Vestae. A conferma della sua identificazione, già circa 1200 anni fa l’Umbilicus era menzionato in un itinerario (scritto dal cosiddetto “Anonimo di Einsiedeln”, di epoca Carolingia) accanto alla Chiesa dei Santi Sergio e Bacco.
La costruzione, come possiamo notare nella foto sopra, è dotata di una porticina per consentire l’accesso alla cavità sotterranea. Il fatto di essere il centro della città e di avere una cavità sottostante riporta al racconto della fondazione di Roma fatto da Plutarco: questi, infatti, narrava che Romolo scavò una fossa circolare “nel luogo che ora è chiamato Comizio” e vi gettò dentro le primizie di ogni cosa. I seguaci di Romolo, a loro volta, vi gettarono un pugno della loro terra di origine. Questa fossa era chiamata dai Romani “mundus”, con lo stesso vocabolo usato per indicare l’Olimpo. Plutarco prosegue dicendo che la fossa chiamata “mundus” era considerata il centro del solco circolare tracciato intorno ad essa con un aratro, trainato da un bue e da una vacca che vi erano stati aggiogati: questo solco era il “pomerium” di Roma. Da qui la tradizione romana di scavare una fossa, il “mundus” appunto, prima di ogni altra opera nel luogo che sarebbe stato il centro della città, perché quella era il collegamento con il “mundus Cereris“, ovvero il confine fra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti. La fossa, di forma circolare a ricordare la volta celeste e l’universo tutto, era chiusa da una pietra e rimaneva chiusa per tutto l’anno ad eccezione di tre giorni, il 24 agosto, il 5 ottobre e l’8 novembre, durante i quali “mundus patet“, ovvero il mondo è aperto, mettendo così in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. L’apertura del “mundus” stabiliva una comunicazione effettiva, visibile, tra i tre mondi (celeste, terreno ed infero), nel luogo stesso dove questi si congiungevano. La pietra che chiudeva l’accesso al mondo sotterraneo dei morti, regno di Plutone e Proserpina, era detta “lapis manalis” perché da lì passavano i Mani, ovvero le anime dei morti buoni, dei “parentes”, delle persone di famiglia dalle quali ci si aspetta protezione e benevolenza anche dopo la morte. In quei 3 giorni in cui “mundus patet“, giorni ritenuti solennemente religiosi ma durante i quali era più facile varcare la soglia perché la pietra era aperta, era proibito svolgere qualsiasi attività pubblica: pertanto era considerata cosa empia non solo dare battaglia o cominciare una guerra, ma anche arruolare soldati, salpare con le navi o unirsi alla moglie per avere figli. Circa il primo interdetto, Varrone sottolinea e conferma come i Romani “ritenessero che era meglio andare a combattere quando fosse chiusa la bocca di Plutone”, ovvero la bocca degli Inferi.
A destra delle fondamenta dell'arco di Tiberio si vede un pavimento di marmo di una piccola stanza; le lastre portano tracce di un sedile collocato tutto attorno, sui lati della stanza e sulla parete di fondo. Delle mura dell'edificio non rimane nulla, ma verso il 1540 negli scavi fatti in quel luogo furono trovati resti di una costruzione piccola ed elegante, risalente ai primi anni dell'Impero. Sull'epistilio si leggeva una duplice iscrizione: secondo la prima durante il regno di Tiberio un liberto imperiale, Bebryx, insieme ad A. Fabius Xanthus ricostruì la schola degli scrivani ed araldi degli edili curuli, e decorò l'edificio con ornamenti di marmo, sedili di bronzo e statuette di argento dei sette pianeti (divinità dei sette giorni della settimana). La seconda iscrizione, aggiunta dopo, menzionava un restauro della schola eseguito sotto Caracalla (verso il 224 d. Cr.) da un tale C. Avillius Licinius Trosius. I resti furono subito distrutti e si dimenticò la località dello scavo, tanto che nel secolo decimo-nono la denominazione 'schola Xantha' venne attribuita erroneamente alle sette camere sotto il Portico degli Dei Consenti. Tuttavia, la schola dei subalterni degli edili doveva essere situata accanto ai rostri e nelle vicinanze dell'erario.
Ricostruzione dei Rostra.
I Rostri (in latino Rostra) erano le tribune nel foro romano dalle quali i magistrati tenevano le orazioni. Il nome derivava dalle prue delle navi nemiche (rostrum) strappate dai Romani durante la vittoriosa battaglia di Anzio, che vennero qui collocate nel 338 a.C.. Cesare fece ricostruire i Rostra al centro del lato corto della piazza rettangolare del Foro, alle spalle della nuova Curia Iulia e del colle Campidoglio. Nei primi anni del secondo triumvirato qui vennero attaccate le teste e le mani dei cittadini presenti sulla lista di proscrizione, tra i quali anche Cicerone (43 a.C.). Inaugurati nel 29 a.C.., presero da lui il nome di Rostra Iulia. Privati della loro funzione politica, furono ornati da statue e monumenti celebrativi, diventando un luogo puramente simbolico.
Dei Rostri rimangono i resti della facciata in opus reticulatum, posti quasi adiacenti all'arco di Settimio Severo. Misuravano circa 23,80 metri e la parte costituita da piccole pietre cementate è frutto dei restauri moderni. Si vedono ancora i grossi fori dei perni che reggevano i "rostri" navali. La parte posteriore, che dà verso il Campidoglio, è composta da una scalinata semicircolare, che ricordava l'originaria forma dei Rostri repubblicani. La vera e propria piattaforma degli oratori, probabilmente lignea, era sostenuta da alcuni pilastri in mattoni ancora visibili (forse originariamente in travertino). La parte verso l'arco è ancora riccamente rivestita di marmo, in corrispondenza di dove si trovava un ambiente triangolare che conteneva, in fondo, un'altra scala per la piattaforma superiore. Verso nord si trova poi un prolungamento in laterizio, che un'iscrizione attribuisce al prefetto Ulpio Giunio Valentino, vissuto verso il 470 d.C.: forse questo ampliamento fu eseguito in seguito alla vittoria sui Vandali, per questo è detto anche dei Rostra Vandalica.
Shakespeare, nel Giulio Cesare, (Atto III, scena II) ambientò ai Rostri il discorso funebre che Antonio fece per la morte di Cesare.
Vicino ai rostri, sotto il tempio di Saturno, era collocata la pietra miliare d’oro, eretta da Augusto nel 20 d. C., che consisteva in un cilindro di marmo rivestito di bronzo dorato; sul bronzo erano segnate le distanze da Roma alle grandi città dell'Italia e delle province. Le miglia delle grandi strade furono, anche nel tempo imperiale, contate dalle porte delle mura serviane, distanti circa un miglio romano dal Foro. Negli scavi del 1835 furono trovati due frammenti di un gran cilindro di marmo, con la superficie lavorata a subbia e con resti dei perni che avevano mantenuto l'incrostazione di bronzo. Questi pezzi, che ora giacciono dinanzi al tempio di Saturno, molto probabilmente appartengono al Miliario. Le dimensioni del cilindro combaciano con i frammenti di un cornicione riccamente intagliato, trovati nello stesso luogo. Tuttavia, il posto preciso in cui era collocato originariamente il Miliario non si può stabilire.
Immagine del Lacus Curtius e ricostruzione.
Il Lacus Curtius è un'area trapezoidale nel Foro Romano, a livello più basso del pavimento, con un tratto dell'antica pavimentazione cesariana e un tratto di pavimentazione augustana, ambedue in travertino e, sotto questa, quella precedente di tufo. Sul lato orientale è un dodecagono in tufo cappellaccio, lasciato scoperto a bella posta, in mezzo al quale è un basamento circolare forato al centro: probabilmente il sostegno di un pozzo.
Più a ovest si notano due incassi rettangolari, per basamenti di altari. Sul monumento sono state tramandate molte leggende. Secondo una di queste- Tito Livio, Ab Urbe Condita-, si sarebbe trattato inizialmente di una voragine, nella quale sarebbe caduto, a cavallo, il capo sabino Mettius Curtius durante la guerra tra Romani e Sabini. Tito Livio citò però anche un'altra versione, e cioè che il sabino Mevio Curzio, o Mettius Curtius, partecipò alla guerra contro i Romani a causa del Ratto delle Sabine. Dopo che il re sabino Tito Tazio aveva costretto i Romani ad asserragliarsi sul Campidoglio, Curzio sconfisse in duello il comandante romano Osto Ostilio, che si crede antenato di Tullo Ostilio. Ma Romolo, grande amico di Osto, per vendetta dell'amico ucciso, inseguì il sabino nella palude (lacus Curtius), nel luogo dove poi sarebbe sorto il Foro Romano. Per renderla più credibile Plutarco aggiunge che pochi giorni prima era straripato il fiume nel foro, lasciando un deposito di fango tipo sabbie mobili. Curzio ivi entrò ignaro e perse il proprio cavallo inghiottito dalla melma, salvando a stento la sua vita, anche perché Romolo, credendolo annegato, desistette dall'inseguimento e Curzio fu salvato dai suoi compagni. A seguito dell'evento il luogo fu chiamato Lacus Curtius.
Terenzio Varrone lo indicò invece come luogo sacro, in quanto colpito da un fulmine, e la cui consacrazione avvenne nel 445 a.C. sotto il Consolato di Gaio Curzio Filone.
Secondo Livio invece, si tratterebbe del console del 445 a.C., Caius Curtius, che, su ordine del Senato, avrebbe fatto recingere un luogo colpito dal fulmine.
Secondo un'altra versione, sempre di Tito Livio, sarebbe stato invece un Romano, Marco Curzio, a lanciarsi in una improvvisa voragine colma di fiamme, apertasi per la collera degli Dei nel 362 a.C.. Interpellati i libri Sibillini, si disse che occorreva, per placare quell'ira, gettare nell'abisso la cosa più preziosa posseduta dai Romani. Poiché secondo Marco Curzio la cosa più preziosa dei Romani era il coraggio, indossò armi e corazza e si lanciò, votandosi agli Dei Mani, nella voragine sul suo cavallo e con la spada in mano.
Sotto: immagine del bassorilievo. Quadro: Marco Curzio si getta nella palude, Benjamin Haydon.
Presso la colonna di Foca fu ritrovato nel 1553 un bassorilievo con Curzio sul suo cavallo, interpretato come prossimo al lancio nell'abisso. In effetti il cavallo ha le zampe anteriori piegate ma la posa è strana: un cavallo che cade in un abisso stenderebbe le zampe non le ritrarrebbe, per giunta non si vede alcuna voragine, nemmeno una depressione, e tanto per finire, il cavaliere si trova su un terreno sabbioso in mezzo a piante di palude.
Questo farebbe pensare alla versione del Curzio sabino, ma non giustifica la celebrazione, perché i Romani le stavano prendendo di santa ragione. La Gens Curtia era in effetti di origine sabina, ma molti romani erano ex sabini, la versione del sacrificio del romano che si suicida nella voragine potrebbe ben dar luogo a un luogo di culto con due altari e un rilievo celebrativo, ma sull'effigie restano parecchi dubbi. Credibile sarebbe anche la caduta casuale del comandante sabino Curzio nel precipizio durante la battaglia, come fosse accaduto per miracolo intervento degli Dei e pertanto immortalato nel marmo. Con la caduta del fulmine resta fuori leggenda o storia, di Curzio.
Resta un enigma, tanto più che l'evento è d'epoca regia, mentre il rilievo è d'epoca repubblicana. Viene da chiedersi se fosse una commemorazione o una riedizione di un rilievo più antico, e per quale ragione il pezzo fu riutilizzato.
A fianco del Lacus Curtius c'è il calco del bassorilievo perché l'originale, di epoca repubblicana, si trova nei Musei Capitolini. Il rilievo venne riciclato per la pavimentazione del Foro nel 12 a.C., infatti sul suo retro venne incisa una parte dell'iscrizione che ricordava il finanziatore dell'opera, il pretore Lucius Surdunus. Il che fa supporre che la leggenda fosse decaduta. Ma c'è di più. Anche se è dimostrato che nell'età del ferro ai piedi del Palatino ci fossero paludi, si sa che queste vennero drenate nel VII sec. a.C., e si sa che la Cloaca Massima fu costruita ne VI sec. a.C. e per giunte si sa che il pozzo del lacus è coevo al Lapis Niger.
Al tempo di Augusto, il popolo usava gettare monete nel pozzo, un po' come i turisti a Fontana di Trevi a Roma. Presso il Lacus Curtius fu ucciso nel 69 d.C. l'imperatore Galba.