Virginia nel foro romano: il silenzio e l'orrore

Virginia nel foro romano: il silenzio e l'orrore - di M. Cassia (Università di Catania)


 

I media, purtroppo quasi ogni giorno, danno notizia di femminicidi perpetrati da uomini che non accettano né rispettano il diniego femminile e che, pur di non “mollare la preda”, non esitano a commettere delitti efferati. 

È tuttavia assolutamente peculiare il caso di Virginia, giovanissima donna d’età compresa fra i 12 e i 14 anni, accoltellata dal padre affinché, con la morte, fosse libera dalla violenza e dalla schiavitù del “tiranno”: le fonti antiche – Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso – tratteggiano il profilo di una ragazza che non manifesta mai con la parola il proprio pensiero, ma è capace soltanto di emettere grida disperate. Il finale è drammatico, ma la pudicitia e la dignitas della giovane e di tutta la sua famiglia plebea sono “salve” mentre la tirannide patrizia è rovesciata. La pudicitia, virtù matronale per eccellenza, era l’“onore”, la “rispettabilità”, e, insieme alla verecundia, cioè il “pudore”, la “riservatezza”, costituiva uno dei tratti caratteristici del sesso femminile: la donna pudica aveva facoltà di parola unicamente all’interno delle pareti della domus, ma doveva tacere in pubblico, poiché altrimenti si sarebbe “denudata”, e il suo silenzio costituiva garanzia di inattaccabilità, almeno fino a quando ella non veniva violata. 


Ma veniamo al racconto. Durante il governo dei decemviri, dieci uomini eletti negli anni 451-450 a.C. – durante i quali fu sospesa l’elezione dei due consoli, tradizionali supremi magistrati della Repubblica – con pieni poteri per la redazione delle leggi delle XII Tavole, la giovane e bellissima Virginia, figlia del comandante plebeo Lucio Virginio e promessa sposa del tribuno della plebe del 456, Lucio Icilio, suscita le insane voglie del leader del collegio decemvirale, Appio Claudio, il quale, non potendo sposarla perché il matrimonio fra patrizi e plebei era ancora vietato e non essendo riuscito a corromperla con denaro e promesse, chiede al suo cliente, una sorta di “lacchè”, Marco Claudio, di farle causa e dichiararla sua schiava. 


Così, un giorno, mentre Virginia si reca nel foro, Marco tocca la fanciulla, afferma che gli appartiene in quanto sua serva e la strattona per portarla via. Alle grida della ragazza, la folla, che conosce il padre, non crede a Marco e impedisce il rapimento. Il cliente di Appio cita in giudizio Virginia, dichiarando che la donna sarebbe nata in casa sua da una sua schiava e poi sarebbe stata rapita da Virginio che l’avrebbe spacciata come figlia propria. In quanto serva, la fanciulla avrebbe dovuto seguire nella sua abitazione il padrone che ne avrebbe potuto fare ciò che voleva. Secondo il diritto romano, infatti, la donna non era un soggetto sui iuris, cioè connotato da autonomia giuridica, ma era sottoposta – come tutti i membri della familia, schiavi inclusi – dapprima alla patria potestas, cioè al potere proprio del pater familias, e poi, una volta celebrate le nozze, alla manus, ossia all’’autorità maritale. Dietro la figura del fidanzato “ufficiale”, si celava in realtà la scelta strategica del pater familias: il matrimonio, infatti, suggellava non l’unione fra due persone, bensì quella fra due gruppi familiari e il suo fondamentale scopo era la procreazione di figli legittimi destinati a diventare cives, ossia cittadini di pieno diritto.


Dal momento che il padre è assente perché si trova al fronte per la guerra, interviene il fidanzato Icilio, il quale arringa la folla e minaccia coraggiosamente persino Appio: “questa ragazza diventerà mia moglie… Io ti chiedo, Appio, di valutare con estrema attenzione la strada che hai intenzione di percorrere. Virginio deciderà cosa fare per la figlia non appena sarà qui… Quanto a me, nel rivendicare la libertà della mia promessa sposa, rinuncerò prima alla vita che alla parola data”. Così scrive Livio (Storia di Roma dalla sua fondazione, 3, 45, 6-11), mentre un’arringa in difesa di Virginia è attribuita da Dionigi (Le antichità romane, 11, 30, 1-7) allo zio materno della ragazza, Publio Numitorio, anch’egli plebeo. 


Messo alle strette, Appio dichiara che avrebbe chiesto a Marco Claudio di lasciare libera la fanciulla fino al giorno seguente, ma, se il padre non si fosse presentato in giudizio, allora egli avrebbe emesso la sentenza definitiva. Rientrato a casa, il decemviro ingiunge per iscritto agli altri magistrati del collegio presenti nell’accampamento sul monte Algido (non lontano da Roma) in cui Virginio svolgeva il servizio militare di mettere quest’ultimo agli arresti, ma la richiesta arriva tardi perché il padre della ragazza ha già ottenuto il permesso ed è rientrato a Roma.


Il giorno seguente, Virginio, accompagnato dalla figlia che resta in silenzio, si presenta nel foro vestito a lutto e, insieme a Icilio, chiede alla folla di appoggiare la sua causa, adducendo numerose testimonianze a suo favore. Appio, salito sul banco del tribunale, emette comunque una sentenza di schiavitù provvisoria e ordina di consegnare la fanciulla a Marco, che si fa largo fra le matrone e tenta di afferrare la ragazza. Virginio alza il pugno contro Appio gridando: “mia figlia, Appio, l’ho promessa a Icilio e non a te, e l’ho allevata per le nozze, non per lo stupro!” (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, 3, 47, 7). È bene precisare come la dottrina giurisprudenziale romana distinguesse sottilmente fra lo stuprum, ossia il rapporto sessuale con la virgo (“vergine”) o la vidua (“vedova”), e l’adulterium, cioè l’illecito sessuale commesso dalla nupta (“sposa”) infedele. 


Appio Claudio con l’aiuto dei littori, scorta armata del magistrato, seda la rivolta e disperde la folla. Virginia rimane da sola, ma Virginio ottiene da Appio di poterle parlare in privato un’ultima volta presso il tempio di Venere Cloacina (“Purificatrice”). Afferrato un coltello da macellaio, l’uomo trafigge il petto della fanciulla e maledice il tiranno: “così, figlia mia, rivendico la tua libertà nell’unico modo a mia disposizione! Con questo sangue, Appio, io consegno te e la tua testa alla vendetta degli dèi!” (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, 3, 48, 5). “Libera e casta, o figlia, ti mando agli avi sottoterra. Da viva non ti sarebbe stato concesso di salvare queste qualità a causa del tiranno” (Dionigi di Alicarnasso, Le antichità romane, 11, 36, 6).


Appio, appresa la notizia, ordina l’arresto di Virginio, il quale, però, brandendo l’arma e protetto dalla folla, fugge dalla città. Il corpo di Virginia viene sollevato in alto e mostrato al popolo e, mentre le matrone piangono disperatamente e gridano che non può essere quello il prezzo per la castità, gli uomini insieme a Icilio sobillano la popolazione in difesa della libertà e in odio al decemvirato guidato dal patrizio Appio. 


L’esibizione sulla “pubblica scena” del corpo femminile offeso mostra in effetti un concreto tentativo – perfettamente riuscito – di “interferenza” nella politica anche attraverso la gestione della morte di Virginia: il femminicidio assurge così a simbolo di una fase di transizione, poiché è questo gesto estremo a provocare lo scioglimento del collegio decemvirale e il ritorno alla tradizionale elezione annuale dei consoli. Nel frattempo Virginio, ancora coperto di sangue e con il coltellaccio in mano, giunge all’accampamento, dove racconta l’accaduto ai commilitoni supplicandoli di non condannarlo come omicida della figlia, ma di aiutarlo a vendicare la crudele morte della giovane inflitta da lui stesso, costretto dall’impossibilità di consentirle una vita libera e casta: “anche loro avevano figlie, sorelle e mogli e la libidine di Appio non era morta assieme a sua figlia, ma sarebbe divenuta più sfrenata se non fosse stato punito… la figlia era andata incontro a una morte triste, ma onorata” (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, 3, 50, 7-8). 


La folla dei soldati manifesta la propria solidale vicinanza al dolore di Virginio: i decemviri hanno ormai le ore contate. I commilitoni marciano su Roma, occupano il colle Aventino, tradizionale luogo di riunione per i plebei, mettono in atto una secessio (“allontanamento”, “separazione”), che comportava la grave perdita per la comunità del favore degli dèi. Il decemvirato viene abbattuto, Appio è imprigionato e ucciso e il consolato, usuale magistratura dello Stato romano, viene restaurato.


La storia di Virginia ha attraversato i secoli ed è giunta sino a noi, con il suo duplice finale, tragico per lei ma “glorioso” per la storia della Repubblica romana: Virginio uccide la figlia ma non paga per il gesto compiuto poiché si tratta di un femminicidio “necessario” sia per salvare l’onore e il decoro della famiglia sia per risvegliare le coscienze dei plebei altrimenti destinati a rimanere passivi di fronte alla tirannide dei patrizi. La “sensibilità” di noi moderni di fronte a eventi simili è – o almeno dovrebbe essere – di gran lunga differente…



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