Si tende a dimenticare che tutte le guerre hanno due linee di trincee, due barricate, due apparati miliari. Come la guerra contro l'Islam sembra aver unificato l'Occidente attorno all'opposizione contro l'Islam, così anche la guerra contro l'Occidente ha unificato molti settori del mondo arabo.
(E. Said, Covering Islam, p. 65)
Covering Islam non descrive solamente l'immaginario dei media statunitensi ed europei riguardo ai paesi musulmani. Said commenta anche come venga recepita nel modo islamico l'informazione occidentale. I notiziari prodotti negli Stati Uniti, specialmente dai network satellitari, non sono diretti solamente agli americani, ma sono pensati anche per un pubblico mondiale. Ad esempio, il canale televisivo Cnn è guardato in tutti i paesi, nei più disparati angoli del mondo, anche nelle nazioni antagoniste agli Stati Uniti. Said ricorda infatti che durante la guerra del Golfo del 1991 era noto che perfino il presidente dell'Iraq Saddam Hussein si teneva aggiornato sulle operazioni militari statunitensi guardando il celebre canale satellitare americano1. Tutto il mondo utilizza le informazioni provenienti da poche agenzie giornalistiche. Si verifica così che anche i paesi mediorientali ricevono le notizie sui loro stessi territori da aziende straniere. A Said pare quindi che i paesi occidentali abbiano nelle loro mani il potere di rappresentare il resto del mondo, che detengano la capacità di raccontare gli eventi.
Analizzando la diffusione globale dei media occidentali, in Covering Islam viene esaminato anche come i paesi mediorientali rispondono ai giudizi su di loro formulati. Secondo l'autore entrambe le parti si comportano in maniera erronea poiché si arroccano su posizioni ideologiche, chiuse a ogni dialogo. Per esemplificare questo aspetto, estremamente rilevante nella sua argomentazione, racconta una disputa avvenuta nel 1980 tra l'Arabia Saudita e il Regno Unito, un conflitto causato proprio dalla rappresentazione della religione musulmana. Il 9 aprile in Inghilterra fu trasmesso il film Death of a Princess, prodotto dal regista britannico Antony Thomas2, nel quale si raccontano le esecuzioni di una donna adultera, una principessa saudita, e del suo amante. La trama della fiction riprendeva un fatto realmente avvenuto, la condanna della diciannovenne Misha'al bint Fahd al Saud nel 1977, e l'opera televisiva fu realizzata come un documentario investigativo. Il film provocò subito una forte protesta delle autorità saudite, che lo giudicarono non solo denigratorio della religione islamica, ma particolarmente offensivo nei confronti del loro paese. Dopo un mese dalla messa in onda in televisione, il governo saudita ritirò perfino l'ambasciatore da Londra. L'evento sul quale il film era basato venne considerato solo un pretesto dell'Occidente per giudicare male la religione islamica e la monarchia saudita. Dopo un mese di polemiche, il 12 maggio 1980 il film fu mostrato anche al pubblico statunitense dalla televisione Pbs, ma non in tutti gli Stati Uniti. Alcuni governatori non ne permisero la trasmissione poiché giudicarono l'argomento controverso.
Said non indaga la vicenda della condanna e dell'esecuzione mostrati nel film, intende invece commentare sia le accuse dei sauditi contro il documentario, sia le intenzioni dell'autore. Critica entrambi i comportamenti poiché hanno innescato un conflitto senza alcun dialogo. Secondo Said sia il regista Thomas, sia le emittenti televisive si sentivano nel loro pieno diritto di rappresentare l'Islam, in quanto la possibilità di raccontare è attualmente un potere nelle mani dell'Occidente. Per loro tale prerogativa era indiscutibile, e poco importava se i sauditi siano più ricchi e posseggano maggior capitale economico. Tramite il film hanno voluto mostrare che la produzione e la distribuzione delle notizie di fatto incarnano una forma di potere ancora più influente di quello economico. I sauditi invece accusarono l'opera definendola un grave insulto all'Islam. Criticarono la presunzione dei paesi occidentali e rigettarono per intero il film, senza rilasciare commenti sull'evento in esso raccontato. Le autorità saudite tentarono di controbattere mostrando gli aspetti migliori dell'Islam, ma la mossa non apportò nessun beneficio. Non rese possibile alcun dibattito poiché tale risposta si basava sulla negazione del caso stesso. Secondo Said i sauditi non hanno colto l'occasione per discutere sulla loro società, inoltre dovrebbero rispettare maggiormente le inchieste giornalistiche e abolire il rigido controllo sull'informazione vigente all'interno del loro paese.
Said dunque non condanna il film nel complesso, anzi, secondo il suo parere doveva essere mostrato su tutto il territorio degli Stati Uniti, e non trasmesso in maniera limitata. L'opera aveva il difetto di essere impregnata di rappresentazioni stereotipate e discriminatorie nei confronti dell'Islam, tanto diffuse in Europa e negli Stati Uniti, però avrebbe potuto dar luogo a un serio dibattito sui fatti raccontati. Ciò non avvenne a causa dello scontro ideologico che ne è scaturito3.
A quindici anni dalla realizzazione di Death of a Princess l'arroccamento ideologico sembrava non aver subito modifiche, al punto che nel 1995 la Pbs trasmise il film Jihad in America4 del regista Steven Emerson. L'opera, prodotta un anno dopo l'attentato contro il World Trade Center di New York, rappresenta i musulmani con una visione irreale, esotica e ideologica. Piccoli gruppi di terroristi vengono considerati come se fossero i portavoce della religione musulmana. Per Said il film è nettamente discriminatorio e contro l'Islam poiché rappresenta i fedeli come violenti, sempre pronti ad attaccare occidentali ed ebrei. È quindi un'opera che non fa altro che ripetere erroneamente l'esistenza di una netta separazione tra le culture5.
Said interpreta il conflitto tra i paesi occidentali e orientali sempre in maniera bidirezionale. La contrapposizione agisce non solo nei paesi ritenuti aggressori, ma anche nelle nazioni che occupano il ruolo delle vittime. Gli effetti sono presenti in entrambe le parti. L'opposizione contro la religione musulmana da parte dei paesi occidentali ha unito differenti settori del mondo islamico. Sembra infatti averli accomunati la condivisione di una stessa guerra contro l'Occidente. Coloro che percepiscono tale conflitto tendono a rafforzare la loro identità musulmana per tenere testa allo scontro con una civilizzazione presunta occidentale. Pertanto le generalizzazioni diffuse nel pensiero orientalista vengono riprodotte in maniera speculare anche da coloro che si riconoscono come vittime. Ad esempio, durante la rivoluzione iraniana settori del clero sciita definirono gli Stati Uniti come il “grande Satana”, portatore di rovina e causa dei mali. Ovviamente Said commenta quanto sia erronea tale affermazione poiché gli Stati Uniti sono una società complessa6. Non si può considerare un paese come un'unica entità aggressiva, così come è sbagliato ritenere l'Islam un blocco compatto.
Settori del mondo islamico tendono a inasprire le proprie posizioni ogni volta che ricevono critiche contro il fanatismo medievale e la crudele tirannia della regione musulmana. La difesa di un'identità islamica diventa pertanto un atto di sfida cosmica, e trincerarsi viene considerata una necessità per la sopravvivenza. Una contrapposizione questa che secondo Said rischia di alimentare la deprecabile tesi dello scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington7. Sia nei paesi occidentali sia nel mondo islamico è necessario quindi evitare l'uso di formule semplicistiche per inquadrare le appartenenze perché ciò comporta il perpetuarsi di uno sterile conflitto.
Come Said critica l'orientalismo, in maniera analoga invita gli arabi e musulmani a smettere di lamentarsi dell'ostilità dell'Occidente. I paesi mediorientali dovrebbero evitare di considerarsi soltanto delle vittime, ponendosi sempre dalla parte della ragione, oltraggiati ma in rettitudine. Un cambiamento è possibile, ma deve essere intrapreso un ruolo più attivo nella produzione dei significati. Said si augura dunque che gli stati musulmani possano mostrare la capacità di articolare una consapevole immagine di sé, per evitare di essere rappresentati secondo modelli che non appartengono neanche alla loro cultura.
Per contrastare la visione del mondo islamico inteso come un'entità monolitica, presentata dai media, Said mostra come all'interno del pensiero musulmano vi siano molte sfaccettature. In Medio Oriente infatti vi sono numerose realtà che si possono porre perfino all'opposto dei soliti stereotipi diffusi in Occidente. Ad esempio, in Covering Islam viene ricordato il pensiero politico di Alì Shariati, personalità che ha contribuito molto al diffondersi delle idee rivoluzionarie in Iran. Per il noto intellettuale iraniano l'Islam, specialmente quello sciita, è contrario alla passiva sottomissione nei confronti di un'autorità. Nella sua interpretazione la religione si concilia con il continuo sforzo per pretendere un giusto governo ed è legittima la ribellione contro ogni forma di oppressione. Esponendo il pensiero di Shariati, Said intende mostrare come, all'interno dell'Islam stesso, siano sorte idee che si battono per la libertà e la democrazia. La religione musulmana quindi può anche essere l'opposto di come viene spiegata nei media, dato che non è necessariamente connessa al totalitarismo e alla dittatura8. Secondo l'autore nei paesi occidentali le rappresentazioni di un Islam legato all'autoritarismo, alle punizioni e alla teocrazia sono il frutto di una scelta. Si preferisce evidenziare certi aspetti piuttosto di altri perché si ritiene maggiormente utile che il conflitto permanga.
Nell'ambito del pensiero islamico ci sono molti aspetti che differiscono dagli stereotipi raccontati nei media statunitensi ed europei. Se adeguatamente esposte, le diverse realtà possono contribuire a elaborare un'immagine del mondo musulmano meno dipendente dallo sguardo degli occidentali. Said ricorda che c'è una grande varietà di Islam. A seconda delle interpretazioni, la religione sembra giustificare sia il capitalismo che il socialismo, sia la militanza che il fatalismo, sia l'ecumenismo che l’esclusivismo. Ogni stato nazionale, ogni componente della società, sembra rivendicare il proprio Islam. Per l'Arabia Saudita, la religione si concilia con il conservatorismo e l'anticomunismo, per i ribelli dell'Afghanistan significa resistenza contro gli invasori e invece per il libico Gheddafi è terzomondista; c'è un Islam per la Fratellanza Musulmana in Egitto, uno per il partito Baath in Siria e un altro per i Mujahideen in Iran, differenti visioni circolano nelle scuole, nelle moschee, nei partiti, nelle associazioni, nelle università e nei movimenti, vari approcci alla religione cambiano da paese a paese, e c'è differenza tra centri urbani e piccoli paesi9.
Insomma, la situazione è variegata e complessa, e non si può certo dire che la religione musulmana sia un'entità monolitica. I media occidentali invece sembrano focalizzarsi su un solo modo di considerare la fede islamica. In Covering Islam Said ricorda pertanto le opinioni di Mohammed Arkoun, professore di filosofia islamica all'Università Sorbonne di Parigi, il quale ribadisce che il mondo musulmano non è a una dimensione e che negli studi sulle società orientali è doveroso indagare i dettagli10.
1Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 321. Edward Said, Covering Islam, cit., p. 56.
2Antony Thomas, Death Of A Princess, 1980, United Kingdom, Associated Television (ATV).
3Edward Said, Covering Islam, cit., p. 69-76.
4Steven Emerson, 1994, Terrorists Among Us: Jihad in America, United States, Pbs.
5Edward Said, Covering Islam, cit., p. 76-79.
6Ivi, p. lxvii.
7Samuel Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster; trad. it 2000, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti Libri.
8Edward Said, Covering Islam, cit., p. 67-68.
9Ivi, p. 64.
10Ivi, p.117.