L'immagine dell'Islam oggi, dovunque la incontriamo, è svincolata e immediata. Vi è una supposizione non dichiarata, in primo luogo, che denota con il nome “Islam” qualcosa alla quale si può far subito riferimento con facilità.
(E. Said, Covering Islam, p. 40-41)
Said nel 1981 analizzò in Covering Islam come i paesi musulmani vengono rappresentati nei media. Le teorie ricalcano quelle esposte nella sua pubblicazione precedente, Orientalism1, ma in questa nuova opera vengono applicate al linguaggio utilizzato dai giornali e dalle televisioni. Dopo sedici anni, nel 1997, l'autore decise di aggiornare il testo modificando in parte i contenuti. L'argomento era rimasto attuale poiché in più occasioni il Medio Oriente aveva continuato ad attirare l'attenzione dei media internazionali. Negli anni '80 si accese il conflitto in Afghanistan, fece clamore l'uccisione di 240 marines statunitensi nel 1983 a Beirut e l'attentato a Lockerbie nel 1988 rivitalizzò la paura del terrorismo. Nel 1987 scoppiò l'Intifada in Palestina, nel 1989 una fatwa fu pronunciata contro lo scrittore Salman Rushdie2 e nel 1993 furono fatte esplodere bombe presso il World Trade Center a New York. Nel corso degli anni le notizie sui paesi islamici furono abbondanti, e con esse vennero ripetute le immagini tipiche dell'orientalismo. Queste rappresentazioni non si limitano dunque soltanto al campo delle discipline accademiche e della letteratura; sono anzi un fenomeno complesso che perdura e coinvolge le comunicazioni nel loro complesso, televisioni e stampa inclusi.
Il ruolo dei media, l'uso del linguaggio e la prassi di chi racconta i fatti favoriscono il proliferare di descrizioni erronee. Specialmente quando bisogna raccontare paesi molto differenti, come quelli musulmani, è facile il diffondersi di rappresentazioni stereotipate. Per raggiungere un ampio pubblico, i media cercano di esprimersi in un linguaggio che sia il più conforme possibile a quello maggiormente diffuso, presumendo che le persone abbiano un pensiero piuttosto uniforme. Così l'immagine dell'Islam, e similmente anche quella degli altri argomenti, viene mostrata in maniera omogenea, riduttiva e monocromatica. Ciò produce il ripetersi di stesse rappresentazioni che, nei media statunitensi ed europei, sono in genere denigratorie nei confronti dei paesi musulmani. Spesso nelle televisioni e nei giornali si sentono infatti espressioni come “mentalità islamica” o l'“inclinazione degli sciiti al martirio”. Said denuncia allora il modo in cui i musulmani e gli arabi sono essenzialmente rappresentati, ad esempio, o come avidi fornitori di petrolio oppure come potenziali terroristi da temere. I mass media, in effetti, mostrano caricature della realtà, immagini di folle in lotta, fanatismo religioso o punizioni islamiche. Sono interessati solo in minima parte a indagare la religione e le società. Il risultato è il trionfo di una sola particolare conoscenza dell'Islam, di una sola interpretazione.
Una visione monolitica del mondo musulmano è il frutto di interpretazioni generiche, facili da immaginare, ma in effetti questo presunto “mondo musulmano” è inesistente nella realtà; è impossibile raggruppare sotto una medesima etichetta di “Islam” tanti paesi culturalmente differenti, dalla Nigeria alla Cina. Said commenta che una confusione così enorme nella copertura delle notizie sarebbe inaccettabile se riguardasse i paesi europei.
Uno dei modi per studiare l'ampio uso delle generalizzazioni è ricorrere all'analisi della comunicazione giornalistica. Negli Stati Uniti e in Europa molti stati islamici e personaggi sono appena conosciuti dalla maggioranza della popolazione, tuttavia in maniera rapidissima possono ritrovarsi al centro dell'attenzione dei media e acquisire lo status di notizia. Il passaggio è molto veloce. Solo poche persone sono in grado di comprendere quel che appare come un fenomeno nuovo, cosicché il termine Islam, dovunque lo incontriamo, tende a essere associato a un'immagine diretta, senza che vi sia un discorso articolato sentito come una spiegazione necessaria: il solo nome denota subito qualcosa al quale si possa far riferimento immediatamente.
Spesso il mondo musulmano è descritto con le caratteristiche tipiche dei paesi totalitari. Ogni volta che vengono espressi tali giudizi sembra che si faccia ricorso alla teoria del contenimento elaborata nel periodo della guerra fredda, quando l'obiettivo degli Stati Uniti era arginare il diffondersi del comunismo nel mondo. Alle società islamiche in genere viene attribuita la presenza di un potere repressivo. Secondo Said questi giudizi sono troppo astratti, rapide prese di posizione su temi estremamente complessi. In Covering Islam sono riportate come esempio frasi di John Kifner («New York Times» – 14 settembre 1980), corrispondente da Beirut, il quale sostenne che nel mondo musulmano non vi è separazione tra stato e chiesa e non vi è distinzione tra religione e vita quotidiana3. Ancora una volta l'Islam è rappresentato come qualcosa di atavico, il regresso da tenere a bada. Insomma, al mondo musulmano vengono associati i mali da esorcizzare, tutto quel che non piace, e poco importata se le analisi non sono accurate. Addirittura George Carpozi, reporter del «New York Post», nel 1979 pubblicò un libro intitolato Ayatollah Khomeini's Mein Kampf nel quale paragona il leader della rivoluzione iraniana a Hitler4.
Tutte le espressioni che definiscono il mondo islamico come arretrato concordano con un'ideologia di fondo: la volontà di modernizzare i paesi non occidentali. Ovviamente portare la modernità è un modo per giustificare l'ingerenza politica ed economica in un paese straniero. Nel ventennio che seguì la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si sforzarono enormemente di modernizzare l'Iran, dove il governo dello Shah era appunto appoggiato ed esaltato per la sua modernità. Per mostrare come queste idee permangano fino ai tempi recenti, Said cita il giornalista Ernest Conine («Los Angeles Times» – 10 dicembre 1979) nel quale emergono le posizioni dell'orientalismo classico, coloniale. In un suo articolo spiega che la modernizzazione in stile occidentale è stato come un tentativo in buona fede per portare l'Iran e l'Islam fuori dal passato, verso la contemporaneità. Gli iraniani però non hanno apprezzato gli sforzi degli Stati Uniti e dei Pahlavi perché non conoscono il valore della modernità5.
Negli avvenimenti dove sono coinvolti i musulmani si tende ad eliminare il contesto geografico e temporale, come se si potesse interpretare allo stesso modo ciò che accade in Iran, in Palestina o nelle Filippine. C'è la tendenza a trattare l'Islam senza indagare adeguatamente la storia nel suo spessore. Il passato o è ritenuto irrilevante, oppure è utilizzato per rapide spiegazioni, dal momento che violenza, dispotismo e fanatismo sembrano replicarsi uguali nel corso dei secoli. Sull'Islam, quindi, i giornalisti esprimono formule estremamente imprecise. In genere ripetono l'esistenza di un Islam “classico”, supponendo che il modo di vivere islamico sia immodificabile, e trascurano i processi storici. Anche gli esperti accademici, non prendendo in considerazioni i mutamenti dell’Islam nella storia moderna, si focalizzano su un passato risalente al settimo secolo ed erroneamente se ne servono per spiegare gli eventi presenti. Per quanto riguarda questa tematica, della collocazione temporale dell’Islam, Said dimostra apprezzamento nei confronti del lavoro dell’antropologo Johannes Fabian, che ha messo in evidenza nelle ricerche antropologiche la frequente disattenzione sulla storia, da lui definita una negazione della contemporaneità, invitando così a ripensare le “politiche del tempo”, vale a dire le modalità con cui il pensiero occidentale ha collocato l’Alterità culturale in un passato immutabile o, il più delle volte, in un’allocronia che è, di fatto, una naturalizzazione definitiva dell’Altro6.
1Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in Europa, Milano, Feltrinelli.
2La ragione della sentenza fu la pubblicazione del libro che, paradossalmente, rese lo scrittore famoso in tutto il mondo, vale a dire: Salman Rushdie, 1988, The Satanic Verses, London, Viking Press; trad. it. 1994, Versi Satanici, Milano, Mondadori.
3Edward Said, Covering Islam, cit., p. 11-12.
4George Carpozi, 1979, Ayatollah Khomeini's Mein Kampf, New York, Manor Books, cit. in Edward Said, Covering Islam, cit., p. 43-44.
5Edward Said, Covering Islam, cit., p. 115-116.
6Johannes Fabian, 1983, Time and the Other: How Anthropology Makes its object, New York, Columbia University Press; trad. it. 2000, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli, L'ancora del Mediterraneo.