Nessun processo di traduzione dell'esperienza in espressione è scevro da contaminazioni. Ogni processo di rappresentazione è ab origine necessariamente contaminato dal coinvolgimento con il potere.
(E. Said, Umanesimo e critica democratica, p. 75)
Criticando le pretese di veridicità delle discipline, Said avvia una serie di riflessioni sul ruolo delle rappresentazioni nel campo della conoscenza. Gran parte delle sue opere sono dedicate a questo tema, cioè a quel delicato processo che avviene quando si vuol comunicare un'esperienza. Ogni volta che una situazione viene espressa intervengono numerosi fattori nel discorso, anche quando vi è lo sforzo di rimanere fedeli alle proprie osservazioni. Per Said questo aspetto è fondamentale per capire il mondo della cultura poiché mostra quanto siano infondate le pretese di neutralità delle discipline scientifiche e artistiche. Sostiene che bisogna riunire quel che fu diviso da Kant, vale a dire l'estetica e l'interesse1.
L'arte, la cultura, il sapere non sono disgiunti dall'interesse, bensì sono plasmati dalla mondanità, ossia dalle situazioni sociali. Qualsiasi impegno implica sempre un coinvolgimento diretto, in quanto nulla può essere svolto con totale distacco e anche le passioni più personali non sono giustificabili con il semplice piacere esterico. Chiunque fruisce di un'opera artistica o si accinge a studiare un argomento è sempre coinvolto nel campo in cui agisce la materia presa in considerazione, entro le sue logiche, cosicché vi è sempre un legame tra la conoscenza e le strutture di potere proprie della società. Secondo Said non esiste il sapere disintereressato poiché, dato che ogni enunciato incide sempre sulla realtà, tutte le ricerche si possono spiegare esaminando le esigenze che hanno favorito il loro sviluppo. Le discipline teoriche, nonostante mostrino una parvenza distaccata e apolitica, in realtà sono condizionate dall'ambiente entro le quali sono immerse. Said invita perciò a
pensare le rappresentazioni (esatte o inesatte, la distinzione è, al più, una questione di grado) comprese in un comune spazio scenico definito non solo dall'argomento della rappresentazione, ma da comuni tradizioni, retaggi storici, universi del discorso2.
Nessuna teoria è situata in un tempo e spazio astratto; tutti gli enunciati si fondano su un processo storico che fornisce loro il linguaggio entro il quale svilupparsi, pertanto
il vero problema è se possa mai esistere qualcosa come una rappresentazione veritiera, o se piuttosto ogni rappresentazione, proprio in quanto tale, sia immersa in primo luogo nel linguaggio e poi nella cultura, nelle istituzioni e nell'ambiente politico dell'artefice o degli artefici della rappresentazione. Se quest'ultima alternativa è quella giusta (come io credo), allora dobbiamo essere pronti ad accettare il fatto che ogni rappresentazione è eo ipso intrecciata, avvolta, compresa in molti altri fattori oltre che nella “verità”, senza contare che quest'ultima è a propria volta una rappresentazione3.
Tali affermazioni dimostrano che l'orientalismo, così come tutte le descrizioni dell'alterità, non è altro che una rappresentazione. L'intento delle sue analisi non consiste né nella difesa dell'Oriente, né nella totale condanna degli studi orientalisti. Said afferma che ha voluto “descrivere uno specifico sistema di idee, e nient'affatto sostituirlo con uno migliore”4. Non intende demolire tutto quel che è stato scritto a proposito dei paesi orientali in Europa. Poiché non privilegia la prospettiva dell'insider a discapito di quella dell'outsider, non crede “che solo un nero possa scrivere sui neri, o solo un musulmano sui musulmani”5. La sua intenzione è raccontare come la conoscenza si intrecci con i rapporti di potere, indagare come le persone provenienti da un paese dominante abbiano raffigurato l'alterità a loro subalterna. Riflettendo sull'orientalismo ha osservato
come funzionano di solito le rappresentazioni, cioè per uno scopo, secondo una tendenza e all'interno di un contesto storico, intellettuale e persino economico ben preciso6.
Nella sua ricerca ha voluto riflettere sui rapporti di potere sottostanti alle narrazioni. Per Said ogni opinione è partigiana, nel senso che rappresenta sempre la visione di una parte, di determinati interessi.
Avendo criticato le pretese di obiettività delle descrizioni degli orientalisti, che ripetono caricature da loro stessi accettate, Said pone l'attenzione anche sul grado di veridicità di tutti i discorsi sull'alterità. L'autore afferma che è scorretto condannare gli orientalisti perché non hanno compreso la vera natura dell'Oriente, Essi non hanno mal interpretato le vere caratteristiche degli orientali perché queste in realtà non esistono. Precisa infatti che
la tesi che mi sta a cuore non è che quel sistema implicasse il fraintendimento di qualche essenziale caratteristica dell'Oriente - al momento, dubito che tali caratteristiche essenziali esistano davvero7.
Non ci sono connotazioni veritiere, assolutamente autentiche, che denotano il reale aspetto di una cultura. Tutte le rappresentazioni sono la combinazione di numerosi fattori. Ogni discorso dipende da chi esprime un'opinione e dalla sua formazione personale, varia a secondo del soggetto al quale è indirizzato, dalle ragioni che muovono la comunicazione e dal momento storico nel quale avviene. Le interpretazioni sono attività sociali legate a una specifica situazione e non possono essere obiettive. Non è onesto dunque chi pretende di essere neutrale, libero dai condizionamenti.
Tutte le descrizioni, i racconti, non sono altro che rappresentazioni. L'Oriente, e in maniera analoga la cultura occidentale, sono entità costruite, immerse nelle situazioni storiche e in determinate circostanze sociali. Nel caso delle ricerche su un fenomeno complesso, come l'Islam, la conoscenza deriva dalle immagini, dai testi, dalle esperienze che ci sono state raccontate, cioè dalle interpretazioni, e non da fattori direttamente provenienti da un'entità astratta chiamata Islam.
Le argomentazioni utilizzate per definire una razza o una nazione, oppure i sentimenti che denotano l'essere inglesi o asiatici, sono in genere determinate dalle situazioni politiche e culturali vigenti, benché pretendano di giustificarsi per la loro naturalità. Più volte Said sottolinea che gli aspetti autentici non esistono. Le identità svolgono lo stesso ruolo delle etichette perché definiscono la realtà dividendo le parti in maniera netta. Said invita perciò al superamento della dicotomia Oriente/Occidente e della geografia immaginaria che suddivide il mondo tra “terre nostre/terre barbariche”. Specialmente nella postfazione a Orientalism, scritta nel 1994, l'autore spiega quanto siano artificiali le identità culturali, per niente naturali, e cita le ricerche di Martin Bernal sulle radici della cultura greca8 e le analisi di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger sull'invenzione delle tradizioni9.
Said mette in evidenza come le immagini delineate in Occidente siano così persuasive da diffondersi anche negli stessi paesi mediorientali. Questa è stata la forza delle potenze coloniali, la capacità di introdurre i propri discorsi anche nelle realtà a loro estranee. Oggi il processo continua, ma si realizza tramite strumenti diversi rispetto al passato perché è veicolato dai moderni mezzi di comunicazione. Avverte infatti che l'orientalismo tende a
estendersi allo stesso “Oriente”: le pagine di libri e giornali scritti in arabo abbondano di analisi di second'ordine condotte da arabi intorno alla mentalità araba, all'islam e ad altre entità mitologiche10.
Perfino in Medio Oriente le persone cominciano a immaginarsi secondo gli stereotipi diffusi dalle immagini dei media statunitensi ed europei. Scrive Said che “il paradosso dell'arabo che si abitua a immaginarsi come un 'arabo' di tipo hollywoodiano è uno dei più assurdi, ma anche ovvi”11. Le rappresentazioni tipiche dell'orientalismo, che dipingono gli arabi e i musulmani ripetendo delle caricature, non sono decadute con la fine dei domini coloniali. Negli Stati Uniti e in Europa caratteristiche come la pigrizia, la brutalità, l'irrazionalità, il dispotismo, e ora il terrorismo e il fondamentalismo, vengono comunemente utilizzate per descrivere i paesi mediorientali. Scrive infatti Said:
una sorta di volgarizzazione dell'orientalismo contemporaneo è largamente diffusa nei giornali e nella mentalità popolare. Per molti, gli arabi sono venali, lascivi, potenziali terroristi, con nasi adunchi, e per lo più a dorso di cammello; la ricchezza di alcuni popoli e paesi arabi è fortuita o addirittura disonesta, frutto dell'estorsione petrolifera a danno delle nazioni veramente civili12.
L'autore dedica attenzione all'immaginario messo in scena nei film americani, produzioni diffuse in tutti i continenti e ovviamente anche in Medio Oriente:
al cinema e alla televisione l'arabo è sovente caratterizzato come lascivo e disonesto, persino come un autentico degenerato sessuale, capace di tessere intrighi astutamente malefici, ma sopratutto sadico, infido e amorale13.
Queste sono alcune delle caratteristiche negative che contraddistinguono i ruoli dell'arabo nelle produzioni cinematografiche. Gli stereotipi denigratori si possono notare in molti film d'azione, ad esempio True Lies e Delta force, e l'intera saga di Indiana Jones è permeata di immagini orientaliste14. Negli Stati Uniti nei libri scolastici, nei serials televisivi, nei cartoni animati e nelle pubblicità l’iconografia sui popoli islamici è uniforme. I musulmani sono rappresentati sempre con caricature: ricchi petrolieri, terroristi o folle fanatiche. Perfino nei fumetti le ambientazioni esotiche sono popolate di personaggi che raffigurano qualità negative. Dopo la guerra del 1973 Said notò infatti che gli arabi vennero disegnati come avidi sceicchi, con sguardo torvo e minaccioso, vicini ai distributori di benzina15.
1Immanuel Kant, 1963 [1790], Kritik der Urteilskraft, Hamburg, Unveranderter Neudruck; trad. it. Critica della facoltà di giudizio, 1999, Torino, Einaudi.
2Edward Said, Orientalismo, cit. p. 269.
3Ibid.
4Ivi, p 323.
5Ivi, p 320.
6Ivi, p. 270.
7Ivi, p. 269.
8Martin Bernal, 1987, Black Athena: The Afrosiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick, Rutgers University Press; trad. it. 1997, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Milano, Nuova Pratiche Editrice.
9Eric Hobsbawm - Terence Rangers, 1983, The invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge; trad. it. 1983, L'invenzione della tradizione, Milano, Einaudi.
10Edward Said, Orientalismo, cit. p. 320.
11Ivi, p. 322.
12Ivi, p. 112.
13Ivi, p. 283.
14Edward Said, Covering Islam, cit., p. xxvii.
15Edward Said, Orientalismo, cit., p. 282.