Ivone "Cesco" Chinelli E Francesco biancotto

Di seguito il testo letto e scritto dagli studenti Stefano Pirani e Mattia Biancotto.

11 gennaio 1944: un’esplosione all'interno della Casa del Fascio di San Donà. L'edificio inaugurato nel 1926 è all’angolo di “Piazza Indipendenza”, a pochi metri da qui, su quella che era via Vittorio Emanuele e oggi “Corso Silvio Trentin”. I partigiani del “Gruppo di Azione Patriottica” di San Donà vi hanno piazzato della dinamite. I gappisti di San Donà sanno che, alle sei di sera, ci sarà una riunione presieduta dal commissario; vogliono mandare un segnale ai fascisti, vogliono far capire che c'è chi non accetta che siano calpestate le libertà. L'11 gennaio 1944 un fragore, del fumo, qualche danno: è uno scoppio innocuo. Vogliono ridurre la sede dei fascisti in macerie, ucciderne più che possono. Ma, alle sei di sera, la Casa del Fascio è deserta, è un scoppio SENZA CONSEGUENZE.

Ernesto D’Andrea aveva guidato parecchie imprese, sì, parecchie imprese. Era a capo della cellula comunista di San Donà, e anche del G.A.P. della zona. Si era guadagnato la fiducia dei suoi compagni, di quei ragazzi che gli affidavano la vita ogni volta in cui sfidavano la morte. Andavano a sabotare lo stabilimento di Porto Marghera dove lavorava come operaio, razziavano armi ai tedeschi. Ernesto D’Andrea, il capo, era sempre in prima linea, come durante l'atto terroristico sulla linea ferroviaria tra Ceggia e San Donà, o come quell'11 gennaio 1944, quando tentarono di far esplodere la Casa del Fascio. Non li aveva mai lasciati soli, lui, i suoi compagni, e i suoi compagni si fidavano ciecamente di lui. Assieme a loro combatteva per liberare la Patria dai fascisti e dai nazisti, faceva la Resistenza.

Non fu solo nemmeno la notte del 13 gennaio 1944, due giorni dopo l'innocuo scoppio. Arrivarono proprio i fascisti a casa sua, lo arrestarono, e arrestarono anche Gusso, Nardean, Tamai, Levorin, Momesso, Bertazzolo e Gressani, dopo una riunione al bar Paolin. Tutti insieme, come erano stati fino ad allora, vennero portati prima in caserma a San Donà e poi al carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Vi uscirono soltanto all'alba del 28 luglio, ma non per tornare a casa. Camminarono fino a Ca' Giustinian, ridotta in macerie da uno scoppio meno innocuo, provocato da altri gappisti veneziani. Lì, loro e Biancotto, Tronco, Peruch, Felisati e Basso, i 13 partigiani scelti per la rappresaglia, divennero i Tredici Martiri di Ca’ Giustinian.

Ti raccomando di essere forte, qualunque cosa possa accadere io sono rassegnato a tutto. Ti raccomando una cosa sola, di educare la bambina”. Un mese prima della fatidica alba di luglio, Giovanni Tronco scrisse queste parole alla moglie. Le raccomandava solo una cosa: di educare Caterina, la loro bambina. Noi, oggi, siamo qui, all'angolo opposto rispetto a dove D’Andrea e compagni fecero esplodere della dinamite, per far rimbombare quel fragore, per riascoltarne l'eco lontana. Siamo qui per rivivere i sentimenti e il dolore di chi ha lottato per liberare l’Italia DAI fascisti, DA CHI HA SOPPRESSO LA LIBERTA’ E HA FATTO DELLA REPRESSIONE UNA PRATICA QUOTIDIANA.

Giovanni Tronco, il fabbro, era iscritto al partito comunista, e, dopo l’armistizio, entrò a far parte della Brigata Venezia; diffondeva la stampa clandestina, portava i messaggi da un nucleo all’altro della Resistenza veneziana. Era un duro, aveva preso il suo ruolo molto seriamente, sapeva quanto fosse importante collegare le varie brigate e recapitare nuove informazioni al più presto. Si occupava anche di far espatriare gli ex prigionieri alleati, che dopo l’Armistizio diventarono i nostri alleati.

Giovanni Tronco, poco prima di morire sulle macerie di Ca' Giustinian, raccomandò a sua moglie di educare la loro bambina, e noi oggi siamo qui per imparare da lui e dai suoi compagni a contrapporre alla dittatura l'uguaglianza, alla chiusura l'accoglienza.


«Nella notte abbiamo sentito un gran trambusto, un aprire e sbattere di porte e cancelli con violenza inusitata, comandi urlati, uno sferragliamento di catene, un tramestio di passi in movimento. … durante la giornata: angoscia e terrore avvinghiavano tutto il carcere, un silenzio di tomba impressionante. Nessuno dei mille rumori e delle voci usuali di ogni giorno.»

L’assordante rimbombo del silenzio nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia nel 28 luglio di un troppo distante 1944, doveva essere più allusivo del rintocco funebre delle campane suonate a morto per tutta la laguna, erano state uccise tredici persone; ma Ivone Chinello, detto Cesco, aveva perso il suo compagno di cella, anzi molto di più «era per me più che un fratello», era Francesco Biancotto: era "Cesco".

Oggi siamo qui per dimostrare che quel 28 luglio non è così distante dalle nostre vite e neppure lontano dai nostri sentimenti, tuttavia così come in qualche uomo vi è un’incapacità di provare empatia per persone geograficamente lontane, anche la distanza temporale può disperdere la nascita di tali emozioni. Ecco dunque che ad affiancare il compito dell’analisi pedissequa dei fatti vi deve essere la “memoria storica”, capace di insinuarsi nei nostri ricordi e di stabilire una connessione emotiva forzata con il passato: oggi non vogliamo quindi raccontarvi di un remoto presente, bensì, vogliamo solo farvi ricordare: come se Cesco e la storia dei suoi compagni, fosse sepolta da qualche parte nelle vostre memorie un po’ offuscate.

«È stato in una delle prime mattine d’aria che ho incontrato Francesco Biancotto - un operaio diciottenne - in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato - probabilmente mi avrà visto un po' stordito - e mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello.»

Cesco, appartenendo infatti al Gruppo d’Azione Patriottica di San Donà, aveva partecipato all’attentato che aveva causato l’esplosione di un ordigno, posto su un vagone di un convoglio ferroviario militare la sera del 20 dicembre dell’anno precedente nel tratto compreso tra Ceggia e San Donà, esplosivo non tanto differente da quello che non detonò sui binari tra Trieste e Venezia in un secondo atto di sabotaggio CONTRO I NAZI-FASCISTI; una notte invece, giunta la notizia che la mina che avevano posizionato avrebbe colpito un treno pieno di passeggeri e non una tradotta militare, Cesco, noncurante del pericolo verso il quale andava incontro, rimosse il delicato congegno salvando la vita ad ognuno di QUEGLI ignari viaggiatori.

Venne arrestato il 13 gennaio con l’accusa di aver partecipato ad azioni di sabotaggio, di detenere esplosivo, armi e munizioni e, ancora peggio, con l’accusa di aver rubato una bicicletta.

«siamo stati per due o tre mesi nella stessa cella dividendo tutto quello che avevamo, poi comunque ci vedevamo all'aria ogni giorno, ovviamente si parlava continuamente di politica e di comunismo ma anche della vita e del futuro.»

Le contingenze future, la propria sorte erano argomenti spesso preclusi dalla conversazione, erano posti in secondo piano «ma anche della vita e del futuro». Quell’ “anche” posto alla fine della sua citazione come ad indicarne l’inadeguatezza, è esempio del modo di ragionare sia di Ivone Chinello sia di Cesco: si pensaVA solo alle strette necessità, e dunque si parlaVA solo di politica e di comunismo così come si agiVA nel presente nella consapevolezza di NON POTER AVERE UN FUTURO.


Francesco Biancotto nato il 2-4-1926 a San Donà, morto il 28-7-1944 a Venezia, fu Martire per la Libertà.

Ivone Cesco Chinello, divenne un deputato e senatore del Partito Comunista Italiano, morì il 28-1-2008 a Venezia.