I martiri della stazione

La sera del 10 dicembre 1944, durante un trasferimento dalle carceri mandamentali verso il comando tedesco di San Donà di Piave situato a Villa Amelia, quattro prigionieri partigiani vennero fucilati dalle Brigate nere in via Venezia, nei pressi della Stazione ferroviaria di San Donà. Oggi un cippo commemorativo, situato di fronte all’edificio della farmacia comunale, dove un tempo sorgevano le scuole di via Venezia, ricorda i loro nomi: sono Gustavo Badini, Bruno Balliana, Angelo Bonfante e Giuseppe Scardellato.

Tra le carte della Corte d'Assise Straordinaria di Venezia, chiamata a giudicare dall’aprile 1945 gli imputati accusati di collaborazionismo durante il governo della Repubblica sociale italiana, è possibile trovare il resoconto di quanto accadde la notte in cui vennero uccisi:

«A notte i cinque detenuti furono fatti uscire dalla sede delle SS e instradati per Noventa di Piave. La scorta era composta da un reparto,[...] al comando del tenente Haupt, e da un plotone comandato da Curasì. Questi diede in seguito ordine di [...] disporre i detenuti in linea di fronte, l'uno affianco dell'altro: seguiva immediatamente, a una decina di passi, il plotone anzidetto.

Era stato percorso circa mezzo chilometro fuori dall'abitato, quando il Curasì, dato l'alt, diede ordine ai detenuti di voltarsi e intimò ai suoi uomini: 'fuoco'. Seguì una violenta raffica da parte del plotone, che cagionò la morte immediata del Badini, Scardellato, del Balliana e di Bonfante Angelo: il fratello di quest'ultimo, Bonfante Bruno, rimase invece miracolosamente ferito alle natiche ed ebbe il consapevole ardimento di buttarsi subito fuori della strada e darsi alla fuga, riuscendo, benché inseguito, a sottrarsi all'eccidio ed alla detenzione.»[1]

Stando alla testimonianza orale di Francesco Bonfante, raccolta da Morena Biason, il fratello Bruno era riuscito a salvarsi ruotando il corpo al momento dell’esecuzione e approfittando di un litigio tra i nazifascisti per fuggire. Riuscito, poi, a trovare rifugio presso l’abitazione di un partigiano, era stato successivamente trasferito presso l’abitazione della sorella a Spercenigo.

Tra i quattro “martiri della stazione”, uccisi il 10 dicembre 1944, quello di cui si hanno più informazioni è Gustavo Badini. Sulla base del racconto del figlio, la sua storia di resistente ebbe inizio dopo l’8 settembre 1943, nel momento in cui molti giovani, per sfuggire all’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale, si rivolgevano a lui alla ricerca di un rifugio. Il Conte Gustavo Badini, infatti, nato il 10 settembre 1909 e residente a Zenson di Piave, era un noto antifascista, che ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione della Resistenza nel Basso Piave. Stretto sarà il legame tra il gruppo partigiano organizzatosi intorno a Badini e i resistenti sandonatesi organizzati da Attilio Rizzo. Quando, con la missione “Argo”, gli alleati lanciarono rifornimenti e armi per i partigiani, si decise di nascondere temporaneamente queste ultime proprio presso la residenza di Badini a Zenson. Oltre che luogo per nascondere le armi, la villa del conte Badini divenne luogo di rifugio per soldati sbandati, piloti alleati precipitati sotto i colpi della contraerea tedesca, partigiani ed ebrei. A costoro Badini fornì rifugio, una rete di supporto e, spesso, documenti falsi, con l’aiuto determinante di Virgilio Marcon, podestà di Zenson, ma anch’egli antifascista. Sarà uno degli ebrei salvati da Badini, il veneziano Vittorio Salvadori, come raccontato nel documentario A Righteous legacy, a volere fortemente, dopo la guerra, che al conte e alla moglie venisse assegnato il titolo di “Giusti tra le nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme, titolo che verrà loro conferito nel 2011. L’enorme esposizione pubblica di Gustavo Badini si rivelò però fatale, quando un partigiano, arrestato e obbligato a parlare, fece il suo nome. La notte del 29 novembre 1944 Badini venne arrestato e condotto a Villa Pasini a San Donà. A ricordare la sera dell’arresto saranno il figlio, Alvise e la moglie Rosanna.

«Nella notte dal 26 al 27 novembre – raccontò Rosanna Badini – vennero in casa molti soldati tedeschi e italiani delle SS (Schutzstaffel: squadre di salvaguardia) per fare una perquisizione domiciliare. Faceva da interprete un soldato italiano aggregato alla SS tedesche, che si chiama "Adria" ... non trovarono nulla e quindi se ne andarono.

Dopo qualche tempo e precisamente nella notte del 29 novembre alle ore 3,00, tornarono gli stessi militi. Entrò nella stanza da letto l"'Adria" ed ordinò a mio marito di mettersi le scarpe ed uscire dalla stanza: fu condotto in una camera un po' appartata ed ivi torturato perché volevano sapere dove erano le armi. Sentivo delle grida e perciò tre volte tentai di andare in detta stanza, ma mi fu sempre proibito. Riuscii a vedere una volta mio marito bocconi, altra volta lo vidi seduto, pure in terra. […] L'"Adria" mi diceva: “Abbiamo notizie sicure che suo marito ha delle armi nascoste e se non parla lo ammazzeremo a legnate.” Io rispondevo che armi non ce ne sono ed egli di rimando: "Io non so se voi lo sapete o meno, ma armi ce ne sono". Venne dopo un quarto d'ora di torture a chiedermi un vestito dicendomi che avrebbero portato in caserma mio marito [ ... ].»[2]

Dal suo luogo di detenzione Badini spedì alla moglie e ai figli delle brevi lettere, oggi raccolte nell’archivio digitale delle Ultime lettere dei condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana. In una di queste lettere, Gustavo scriverà ai figli: «Cara Andreina e Alvise Il vostro papà che vuol tanto bene vi manda tutti i suoi bacioni e spera di vedervi presto. Ancora tanti bacioni e ricordatemi come vi ricordo io. Papà». Poi chiude la lettera, probabilmente rivolgendosi alla moglie, scrivendo: «Che vengano perché ho tanta voglia di vederli. Saluti affettuosi [Nino]».

E’ proprio il racconto di un incontro avvenuto in prigione tra Alvise e il padre Gustavo, che ci ha permesso di conoscere le torture, cui il conte era stato sottoposto durante i giorni di detenzione: «lo rividi ... il pomeriggio in cui passai il Piave sotto il fuoco degli aerei da caccia alleati per recarmi a salutarlo in prigione, ... non si reggeva quasi in piedi da solo ... non riconoscevamo quasi la sua faccia deturpata dalle torture». Stando alla testimonianza di Bruno Bonfante, riportata da Morena Biason, Badini, nonostante le torture, si assunse tutte le responsabilità pur di non fare i nomi dei propri compagni resistenti.

Alla fine della guerra, la Corte d’Assise Straordinaria di Venezia, con sentenza del 22 agosto 1945, condannò Francesco Curasì, milite della Brigate Nere, alla pena di morte per l’omicidio di Gustavo Badini, Bruno Balliana, Angelo Bonfante e Giuseppe Scardellato. Dopo numerose revisioni della sentenza, i delitti di cui Francesco Curasì era stato accusato vennero dichiarati estinti per amnistia dalla Corte d’Appello di Venezia nel 1959.

Alla memoria di Gustavo Badini, oltre al cippo di via Venezia a San Donà di Piave, è dedicato un cippo a Zenson e la via principale della stessa città. Gli è stata, inoltre, conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare. A Bruno Balliana è, invece, dedicata una via a San Donà di Piave.


[1] Borghi, Reberschegg, Fascisti alla sbarra. L'attività della Corte d'Assise straordinaria di Venezia, 1945-1947, Iveser – Comune di Venezia, Venezia, 1999, p. 155.[2] Biason, Un soffio di libertà. La Resistenza nel Basso Piave, Nuova Dimensione -Iveser -Anpi S. Donà, Portogruaro, 2007, p. 253

Fonti