Una parola tira l'altra

Leggere nel profondo

di Cristina Fabiano, 4ALS

Maggio 2022

Spesso il peso di alcune parole viene sottovalutato, non si pesa con precisione il loro valore; eppure, sarebbe importante farlo sia con ciò che si dice sia con ciò che ci viene detto. È comune definire qualcuno “intelligente”. Ci si immagina subito un genio, generalmente bravo a scuola, un po’ asociale e magari con gli occhiali, perché no. Tuttavia, come tutti gli stereotipi, anche questo non tiene conto della varietà di personalità di cui il mondo in cui viviamo è composto. Il termine intelligenza deriva dal latino intelligĕre, “intendere”, composto dall’avverbio intus (dentro), e legere (leggere). L’intelligenza, quindi, è la capacità di “leggere dentro, nel profondo”, di immedesimarsi nella realtà. L’Oxford Dictionary, definisce l’intelligenza la “capacità di attribuire un conveniente significato pratico o concettuale ai vari momenti dell'esperienza e della contingenza”. Essere definiti intelligenti, quindi, è molto più bello di quel che sembra. Allo stesso tempo, sono molte di più di quel che sembrano le persone che potremmo definire intelligenti. Intelligente è la persona che riesce a cogliere un significato profondo, originale o nascosto in un qualsiasi evento; la bellezza di questo sta nel fatto che probabilmente tutti colgono significati diversi e magnifici al loro modo.

L'intelligenza non è una sostanza nella testa come l'olio in un serbatoio di petrolio. È una raccolta di potenzialità che sono state completate

(H. Gardner)

Nel 1983 Howard Gardner, ricercatore di Harvard, pubblica Formae mentis, in cui sostiene che l’intelligenza non è un elemento quantificabile numericamente ma è composta da diversi fattori. Nello specifico, egli individua cinque tipi di sfere di intelligenze diverse che vanno da quella emotiva a quella morale e sfociano persino in quelle musicale e introspettiva. Secondo Gardner, il famoso test del QI (quoziente intellettivo), che classifica l’intelligenza in un numero, esamina solo la cosiddetta intelligenza accademica, ovvero quella che comprende le sfere logico-matematica e in minor parte la sfera linguistica. Essere “intelligente” è un concetto molto vario, invece. Tutti possiedono una predisposizione, un “destino”, per essere più sentimentali – e questo non è identificabile in un modo universale per tutte le persone. Ma se volessimo dar credito al QI, una delle persone con il QI più alto di sempre disse:

Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.

(Albert Einstein)

L’intelligenza è anche empatia ed emotività. Capire l’intelligenza dell’altro è essa stessa intelligenza; e saper tirarla fuori – fuori da quel famoso intus dei latini – lo è ancora di più. A volte una persona con un’attenzione spiccata a ciò che la circonda si rende triste, motivo per cui si dice che le persone intelligenti siano sempre tristi; è vero in parte perché è più facile essere autocritici, preoccuparsi eccessivamente e, di conseguenza, tendere alla negatività. Ciò accade, probabilmente, quando le proprie capacità non sono valorizzate appieno e non si trova lo scopo delle proprie predisposizioni. La società in cui viviamo, disegnata ad hoc per persone standard, non permette di valorizzare la bellissima varietà di quelle famose intelligenze multiple di cui parla Gardner. Egli, ancora, magari un po’ sognante, scrive:

Il progetto della mia scuola ideale del futuro si basa su due ipotesi: la prima è che non tutti hanno gli stessi interessi e le stesse capacità; non impariamo tutti allo stesso modo. La seconda ipotesi può far male: è che ai nostri giorni nessuno può imparare tutto ciò che c'è da imparare.

Esprimi un desiderio

di Cristina Fabiano, 4ALS

Aprile 2022

La parola “desiderio” ha un’etimologia che ogni eterno romantico non può non conoscere. Deriva dal latino de-sidera: il prefisso de- indica lontananza e privazione, mentre sidus significa stella. Desiderare, quindi, significa sentire la mancanza delle stelle, ovvero del buon auspicio, di qualche segno fortunato. Questo ci porta a pensare che, forse, desiderare o esprimere un desiderio siano un evento negativo, che indica che c’è un vuoto di qualcosa di cui avremmo invece necessità nella nostra vita. Però, la presenza di una cosiddetta “buona stella” può cambiare il corso delle cose. È chiaramente solo superstizione (probabilmente), eppure anche i più scettici alzano il naso al cielo quando una stella cadente lo attraversa. Straordinariamente si sentono tutti investiti dalla fortuna di un evento raro che merita l’espressione di un desiderio. Il legame tra le stelle e i desideri è molto stretto, come ci dimostra, quindi, l’etimologia assieme all’esperienza della vita quotidiana. Ma come nasce la tradizione? Qualche secolo fa, vedere un corpo celeste inusuale come una stella cadente preannunciava un evento nefasto, una variazione dell’equilibrio. Nella tradizione greco-latina, si credeva anche che le stelle cadenti fossero le lacrime degli dèi, delusi dalle azioni degli uomini. Per coincidenza, vari eventi negativi si sono presentati dopo la comparsa di una stella cadente. Nel 902 d.C., per esempio, dopo l’invasione della Sicilia e della Calabria da parte dei Saraceni si verificò una “pioggia” di stelle cadenti, che il popolo interpretò come un pianto per le perdite di vite umane avute in battaglia. Si trattava, in realtà, delle Leonidi, che si verificano ancora oggi nel mese di novembre. Col tempo, la considerazione delle stelle cadenti è cambiata e il cielo ha iniziato ad essere guardato dal basso con più amore. Un grande contributo lo diedero i Vangeli, visto che l’avvento di Cristo è preannunciato proprio da una stella cadente. Un desiderio può essere una spinta positiva nella vita di ognuno, ma può anche offuscare i limiti degli eccessi. Sempre guardando all’antico, troviamo qualche consiglio: lathe biosas, scrisse Epicuro, ovvero “vivi nascosto”. Egli credeva che l’unico modo per trovare la felicità fosse eliminare tutti i desideri superflui, assecondare solo i piaceri necessari alla sopravvivenza ed isolare ogni tipo di distrazione che potesse allontanare dal proprio equilibrio spirituale. Una vita di otium incentrata sulla cura e specialmente sulla conoscenza di se stessi. Il desiderio, però, è un istinto umano. Non ci si accontenta mai perché si punta sempre alla versione migliore che si possa raggiungere della propria esistenza. Si desidera migliorare il proprio aspetto, compiere meglio il proprio lavoro, passare più tempo con le persone che si amano, guadagnare sempre di più, rendersi ogni giorno più forti. Quando si smette di desiderare qualcosa, si smette di crescere; per questo, bisogna sempre puntare alle stelle.

Il desiderio mi brucia

il desiderio di cose belle

che ho viste e non vissute.

(Cesare Pavese, Il desiderio mi brucia)

Tante maschere e pochi volti

di Cristina Fabiano, 4ALS

Marzo 2022

Nell’antica Roma le rappresentazioni teatrali erano di fondamentale importanza, tanto che i testi teatrali sono le prime forme di letteratura latina che ci sono pervenute. La messa in scena avveniva con delle maschere che coprivano l’intera testa e avevano tratti somatici molto marcati, spesso esagerati, in modo che lo spettatore potesse riconoscere subito i personaggi. Questi ultimi, infatti, erano estremamente tipizzati: basti ricordare le prime opere, con Plauto e Terenzio, dove apparivano i senes avari o libidinosi oppure i servi callidi, costruzioni di personaggi ripetitive, con psicologie molto semplici, finalizzate solo al messaggio morale della rappresentazione o alla comicità della stessa. In latino la parola “persōna” non indicava l’essere umano, ma la maschera teatrale che gli attori indossavano durante le rappresentazioni. Di conseguenza, da “maschera teatrale” la parola ha assunto il significato di “individuo indefinito”, proprio per l’estrema stilizzazione e stereotipizzazione dei personaggi. Solo in seguito, il termine è entrato in uso per come lo conosciamo noi oggi. Fa riflettere, però, che “persona” e “maschera” siano state, ad un certo punto del lungo processo evolutivo della nostra lingua, due sinonimi. Effettivamente, siamo tutti personalità indefinite, che indossano maschere diverse, marcandone tratti diversi, in base alle occasioni. Siamo ciò che vogliamo mostrare di essere agli altri, ma specialmente a noi stessi.

C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno. Luigi Pirandello, potremmo definirlo il teorico della maschera come “frammentazione dell’io” e dimostrazione della sostanziale differenza presente tra l’essere e l’apparire. L’essenza della persona si cela nello spazio sottile che separa la maschera e il volto: con la maschera indosso, si è chiunque; senza la maschera, non si è nessuno. Ma le ragioni che si celano in quella maschera rimettono insieme tutti i piccoli frammenti dell’io, fino a formarne una psicologia complessa, completa, reale. Con tutto ciò, la maschera più letale è quella che impedisce di essere se stessi con se stessi: è in quel momento che si diventa davvero nessuno. Sul palcoscenico della vita, si fallisce quando non si ha più niente da dire una volta chiuse le tende. Forse per questo, anche Oscar Wilde disse in proposito: “L'uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.”

In fondo, si deduce che è impossibile vivere senza maschere, com’è giusto che sia. Il nostro essere persone riconduce già di per sé all’essere maschere; nondimeno, non tutti riescono a comprendere tutti i tratti del nostro aspetto. Alcuni possono vedere solo la maschera della felicità, altri la maschera della riflessione, altri ancora quella del pianto o della serietà o dell’amore. È possibile, però, che esista qualcuno che possa vederci senza maschera? Messe da parte le maschere, si può essere ancora persona?

Animae dimidium meae

di Cristina Fabiano, 4ALS

Febbraio 2022

Due corpi e un’anima sola, è l’equilibrio che tutti cerchiamo, con chiunque ci stia accanto – amante, amico, collega. La forza di due persone nella concretezza di una sola: una rivoluzione sociale di collaborazione con cui concorderebbe Aristotele, perché l’uomo è animale sociale, ma che contraddirebbe Hobbes, perché homo homini lupus. Quinto Orazio Flacco aveva trovato il suo equilibrio nell’attività letteraria, nel circolo di Mecenate e, in particolare, nella sua amicizia con Virgilio. La terza Ode del I libro si rivolge proprio alla nave di Virgilio, diretta in Grecia probabilmente nel 19 a.C., quando Virgilio cercava di documentarsi sui luoghi che aveva descritto nell’Eneide. Orazio fa una richiesta appassionata e partecipata agli dèi dei mari, dei venti e a tutte le stelle del cielo affinché Virgilio arrivi sano e salvo nell’Attica perché, se così sarà, verrà salvata metà della sua anima, “animae dimidium meae”: questo è ciò che Virgilio rappresenta per Orazio. È difficile trovare la vera essenza dell’amicizia, forse anche perché non esiste un’essenza universale, ma ogni rapporto umano è fatto su misura di ogni persona. Eppure si prova e Orazio ci ha provato così. Un amico è colui per il quale ti struggi nei momenti di difficoltà, vorresti vederlo sempre nelle migliori condizioni ed è colui che ti completa perfettamente tanto da creare la pace dell’anima. Cicerone, a proposito, scrisse:

Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum?

Cosa c’è di più dolce che avere qualcuno con cui parlare così come con se stessi?

Probabilmente non c’è niente di più dolce. A volte non è semplice parlare con se stessi, eppure parlare con un vero amico o compagno - con una metà dell’anima - lo rende naturale, come se i pensieri fluissero da se stessi. Ancora Cicerone, nel suo De Amicitia, disse che seppure un uomo salisse in cielo e contemplasse le meraviglie più grandi dell’universo, sarebbe comunque dispiaciuto se non avesse nessuno a cui raccontarle. Niente di più vero. Però un’amicizia vera non è scontata, anzi, è difficile trovarla. Un amico è messo continuamente a dura prova per dimostrare la sua lealtà, il suo affetto, la sua affidabilità, forse tutti i giorni.

Amicus certus in re incerta cernitur.

Il vero amico si riconosce nei momenti incerti (Ennio)

L’amico genuino aperit calamitas, direbbero ancora i latini. Tuttavia, bisogna anche ammettere che l’amicizia onesta splende quando l'altro ha successo: è facile asciugare le lacrime di un amico, è più difficile applaudirlo senza gelosia. L'amico perfetto è colui che non ha il parassita dell'invidia nel cuore. Il termine “invidia” deriva dal latino invidere, con “in” avversativo che indica il videre di traverso, proprio con ostilità. Per fortuna non è questo ciò che Orazio trovò in Virgilio, e viceversa, ma trovò probabilmente l’amore, in qualsiasi forma esso fosse. E non bisogna dimenticare che amor vincit omnia et nos cedamus amori.

Candido pallore

di Cristina Fabiano, 4ALS

Gennaio 2022

Assurdamente il colore della pelle crea ancora oggi distinzioni nella società e il "colore idealmente perfetto" cambia in base alle culture, alla zona geografica e specialmente in base all'epoca cui ci si riferisce. Questo, poi, porta a tristi fenomeni di razzismo.

Frequentemente utilizzata per rimandare al colorito europeo, la parola pallore deriva dal sostantivo latino pallor, - oris, che deriva a sua volta dal verbo pallere. Ha, in primis, il significato di impallidire ma può essere trovato in vari modi di dire. Amisso sanguine palleo, impallidire nel perdere sangue, probabilmente l'uso più ovvio ancora oggi del termine, per esprimere il pallore causato da un malessere fisico, o argenti pallet amore, impallidire per l'amore del denaro, usato nel senso di consumarsi e struggersi per l'estrema passione verso qualcosa - che sia il denaro nel più materiale dei casi o un qualsiasi sentimento. Nel suo uso più arcaico, quindi, il pallore rimanda ad accezioni relativamente negative. Nel tempo, tuttavia, specialmente nel periodo medievale o subito dopo, un colorito molto chiaro era sinonimo di nobiltà e di prestigio. I nobili, infatti, passavano molto tempo chiusi in casa e uscivano all’aperto solo per brevi passeggiate o, al massimo, per cacciare e pescare. Il loro pallore è probabilmente uno dei motivi che ha dato vita all’espressione sangue blu: i membri delle classi più alte, infatti, erano così chiari da poter vedere le loro vene chiaramente in superficie, di colore blu-verde. Seppure, ragionandoci un po’, il pallore nobiliare possa sembrare sintomo di salute precaria e di poca vitamina D, agli occhi della collettività la pelle molto chiara diventò un alto ideale di nobiltà anche spirituale, a cui bisognava aspirare - tanto che, in seguito, i ceti più abbienti iniziarono a truccarsi usando della cipria bianca in volto. Ancora oggi, in paesi orientali come Cina, Giappone e Corea, la pelle molto chiara è un simbolo di bellezza nonché nobiltà e purezza d’animo. È molto diffuso l’utilizzo di cosmetici di sbiancamento, così come è frequente incontrare per strada donne giapponesi con gli ombrelli parasole. Un antico proverbio giapponese recita che “la pelle bianca copre sette difetti”. A proposito di nobiltà d’animo, è impossibile non ricordare l’importanza che il pallore ha avuto nella letteratura italiana. I poeti stilnovisti, pur non soffermandosi sulla descrizione dell’aspetto fisico, hanno stilizzato la figura della donna-angelo come una donna bionda, con pelle e occhi chiari, oltre alla purezza nell’animo che ingentiliva anche il poeta che l’ammirava – “Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; non me fu fallo, s’in lei posi amanza”, Guido Guinizzelli. I colori chiari come simbolo della purezza della donna permangono ancora con Dante e poi con Petrarca quasi allo stesso modo. Nei “Trionfi” di quest’ultimo, Laura lascia la vita terrena così:

“Pallida no, ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, / parea posar come persona stanca. / Quasi un dolce dormir ne’ suoi belli occhi, / sendo lo spirto già da lei diviso, / era quel che morir chiaman gli sciocchi: / Morte bella parea nel suo bel viso.”

Nell’età umanistico-rinascimentale, l’autodeterminazione dell’uomo attraverso le sue capacità di ragione acquista una posizione centrale nel pensiero della società e ci si aspetterebbe quasi di vedere abbandonate quelle idealizzazioni astratte e quasi surreali della donna, ma, invece, gli ideali estetici quasi si rafforzano diventando più realistici e terreni. Lorenzo de’ Medici, nel suo “Comento de’ miei sonetti”, contestualizza il sonetto XXXIX, “Quello amoroso e candido pallore”, raccontando dell’incontro con la donna e descrive il suo stupore, per la sua bellezza, nel trovarsela davanti di colpo:

“Mi parve similmente adorna di uno amoroso e bellissimo pallore, non però di colore smorto, ma che pendesse in bianchezza. E di principio mi parve fussi suta grande presunzione di quel colore pallido ad essere venuto in sì bel viso; ma pensando poi meglio, vidi che aveva agiunto forza all’altre bellezze”.

Anche qui, il pallore è indice di grande bellezza e, inoltre, è una caratteristica che arricchisce anche le altre. Ancora in Tasso, qualche anno dopo, ritroviamo la descrizione della donna in quel candido pallore. Nel XII canto della “Gerusalemme Liberata”, la prima descrizione che si ha dell’aspetto fisico di Clorinda è proprio “D’un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a’ gigli sarian misti le viole”. Toltole l’elmo, è come se Clorinda diventasse di nuovo donna, mentre prima era solo guerriera. Il tono nel descriverla cambia: prima non c’era la necessità di sottolineare il suo essere femminile con indosso l’armatura, ma quella stessa armatura quasi simbolicamente sembra essere la copertura della purezza femminile che, in fondo, le appartiene, e che l’autore rivela e sottolinea solo alla fine. E non a caso la femminilità si manifesta per prima cosa nel pallore candido del volto di Clorinda, sia ciò dovuto ai canoni di bellezza della società o alla forte cristianità dell’opera, che ha bisogno di rimandare alla purezza d’animo. Ben lontano è invece il romanzo di Bram Stoker, “Dracula”. Anche l’autore irlandese “si serve”, per così dire, dell’elemento del pallore ai fini narrativi, ma in modo diametralmente diverso. Il Conte Dracula è un vampiro e, precisamente, il padre di tutti i vampiri; prende spunto da Vlad III, re della Valacchia nel ‘400, ricordato in Romania come un eroe popolare ma, al di fuori, come un despota assetato di sangue, un assassino che provava gusto nel torturare le sue vittime. Tra i tanti dettagli che rendono il conte Dracula spaventoso, Stoker inserisce un estremo pallore associato alla fotosensibilità, motivo per cui lo si vede girovagare fuori dal castello solo di notte. Il narratore del romanzo, Jonathan Harker, riassume bene qual è il significato del pallore, assieme alle altre cose, nel romanzo e nella Romania del romanzo, che ovviamente non è simbolo di purezza o nobiltà d’animo: "Ho letto che tutte le superstizioni conosciute al mondo sono riunite nel ferro di cavallo dei Carpazi, come se fosse il centro di una specie di idromassaggio immaginativo, se così fosse la mia permanenza potrebbe essere molto interessante." Ancora oggi, molte caratteristiche dei vampiri sono vive nei racconti popolari e generano la superstizione descritta da Stoker.

Ad oggi, ci sentiremmo di dire che è importante non impallidire né in salute né in pensieri; riprendendo le parole di uno dei più grandi autori di sempre: “II pallore del pensiero infetta il colore acceso della risolutezza”, William Shakespeare.

Hakuna Matata

di Cristina Fabiano, 4ALS

Dicembre 2021

L’espressione Hakuna Matata suonerà ormai familiare a buona parte della popolazione mondiale. Resa famosissima dal film d’animazione firmato Walt Disney, “Il Re Leone” (1994), questa frase è da sempre associata alla leggerezza e alla simpatia degli animali della savana che la canticchiano allegramente in alcune scene del film, sulle note dell’omonimo brano scritto da Elton John – che fu, tra l’altro, premiato con l’Oscar alla migliore canzone originale. Il significato di questo modo di dire è, tuttavia, molto profondo, tanto da poter diventare una filosofia di vita: deriva dalla lingua swahili, parlata in alcune regioni dell’Africa centro-orientale come Kenya, Tanzania e Uganda e potrebbe essere tradotta in italiano come “senza pensieri”, “nessun problema”. Molti considerano Hakuna Matata come la versione africana di carpe diem. Ci sono, però, alcune differenze. Il carpe diem di Orazio, citato nel carme I, 11, possiede uno sfondo molto più cupo, denso di preoccupazioni. L’autore dedicò il componimento a Leuconoe, una ragazza per la quale nutriva dei sentimenti, che dava troppa importanza agli eventi del futuro e ne era spaventata, consultando continuamente gli astri per scoprirne gli esiti; per questo motivo Orazio cercava di distoglierla, ricordando che a nessun essere umano è dato sapere per quanto tempo siamo destinati a vivere, quanti inverni vedremo passare davanti agli occhi

… seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi

Spem longam reseces


e proprio per questa limitatezza della natura umana, Orazio consiglia quasi di arrendersi, presentando il tempo come un nemico: tutto ciò di cui ci si può fidare è l’attimo, che va colto prima che sfugga dalle stesse mani di Leuconoe così come da quelle di tutti gli uomini che si pongono degli interrogativi sulla fugacità del tempo e sul proprio destino. Hakuna Matata è, invece, conosciuto nel mondo come un respiro di leggerezza, un’interpretazione serena della vita, specialmente grazie alla rappresentazione che ne ha fatto la Disney che non è stata, però, da tutti apprezzata: molti keniani, infatti, hanno ritenuto il gesto della nota multinazionale una vera e propria appropriazione culturale, avendo fatto della locuzione swahili una loro proprietà dal punto di vista dei diritti d’autore e non avendo riconosciuto la sua reale provenienza. Altri keniani hanno invece apprezzato che un’espressione della loro vita quotidiana abbia ricevuto tanta fama nel mondo. Nonostante le differenze, entrambe le espressioni racchiudono una visione della vita molto ampia, che spinge a non avere preoccupazioni, a cogliere gli attimi e a goderne liberamente, consapevoli ma non preoccupati delle incertezze che riserva il domani. È, inoltre, un modo per ricordare che è inutile rimuginare sul passato, su cui non si può più intervenire, ma è invece importante partecipare attivamente al proprio presente per renderlo il futuro che ci si immagina.

In un momento difficile, quindi, è sempre bene ricordarlo: Hakuna Matata!

Linguaggio sessista

di Cristina Fabiano, 4ALS

Novembre 2021

Il 25 novembre 1981 si tenne il primo incontro femminista latinoamericano e caraibico a Bogotà, in Colombia. Da qui nacque la Giornata internazionale della violenza contro le donne, in memoria delle tre sorelle Mirabal, uccise dalla dittatura dominicana contro la quale combatterono da attiviste. La discriminazione di genere è un tema molto discusso: è certo che, seppure tanto sia stato fatto, ancora di più può essere fatto in futuro. Gli stereotipi sono ancora presenti e ben radicati nella società odierna e, spesso, si nascondono nelle cose apparentemente più ingenue, quelle a cui “non si fa caso”. L’argomento femminile spazia in tutti gli ambiti: dalle scelte politiche, come la riduzione della Tampon Tax, alle rappresentazioni dei media, che hanno un enorme impatto sull’evolversi del pensiero collettivo. Si potrebbe pensare al monologo di Paola Cortellesi, pronunciato durante il programma Rai “David di Donatello” del 2018: l’attrice, con un pizzico di ironia e simpatia ma con un sottotono serissimo, sottolineava come alcune parole cambiassero significato dalla declinazione maschile a quella femminile, assumendo sfaccettature stereotipate e volgari. Potrebbero essere considerate solo parole, ma, come riporta uno studio effettuato dalle avvocatesse Arianna Enrichens e Cesarina Manassero, “se, innegabilmente, il linguaggio è lo specchio della nostra società, delle regole che la governano, dei rapporti e delle caratteristiche più profonde che la costituiscono, d’altra parte, si può sostenere che le modalità di espressione contribuiscono a caratterizzare e a forgiare le idee e i modelli di riferimento della società stessa”. La discriminazione verso la donna si trova non solo nel linguaggio parlato, ma anche nei libri di testo scolastici e persino nei dizionari. Nel dizionario Treccani, dopo la definizione di donna, si riporta “donna cannone, donna di proporzioni e di peso eccezionali che costituisce uno dei numeri di attrazione”, definendo la donna in base alle sue caratteristiche fisiche che la rendono, addirittura, un fenomeno da circo. L’equivalente maschile, ovviamente, è difficile trovarlo. Solo di recente è stata modificata la definizione di woman dell’Oxford Dictionary, in seguito ad una petizione portata avanti da Maria Beatrice Giovanardi, una manager italiana che vive a Londra da qualche anno. Il suddetto dizionario è quello utilizzato anche da Google, Apple, Yahoo e Bing, le cui definizioni, quindi, sono la prima risposta che spunta in seguito ad una ricerca di un termine sul web. Il famoso dizionario inglese riportava come sinonimi della parola donna una serie di insulti e parole orribilmente sessiste, senza nemmeno evidenziarle come offensive. La ciliegina sulla torta erano gli esempi di utilizzo del termine: nei pochi casi in cui la donna non era descritta come un’amorevole moglie e casalinga, che passa le giornate a casa a cucinare per il marito, ella era una donna in carriera pur sempre sensuale – ancora una volta mercificata e oggettificata per la propria fisicità. Un altro aspetto deludente nella definizione della parola donna, nella maggior parte dei dizionari, è decisamente la sua dipendenza dalla parola uomo o dall’uomo in generale. Fin dalla prima definizione, la donna è una variabilità, una modifica del suo originale, cioè l’uomo: “femmina adulta dell’uomo”, dizionario De Agostini. Inoltre, sono pochissime le definizioni di donna che richiamano la sua vita professionale, sociale, pubblica e lavorativa, mentre sono numerosissime quelle che la definiscono a partire dal legame che ha con l’uomo: madre, moglie, partner – come se le donne single e senza figli non fossero donne. La donna è, ancora, definita per estremi: una prostituta o, al contrario, un angelo del focolare, una madonna. È impossibile che la donna sia definita in modo realistico, rispecchiando la società odierna? Ci sono milioni di vie di mezzo tra i due esempi estremi proposti. Le definizioni e le rappresentazioni di donna della maggior parte dei dizionari sono ormai superate e riflettono modelli arcaici. Sebbene ci siano ancora tante imperfezioni nella società attuale in merito alla questione femminile, come il gender gap sul salariato, è doveroso notare che la donna può essere ed è certamente un essere umano in carriera tanto quanto l’uomo. Il sessismo non è meno rilevante nel linguaggio parlato rispetto a quello scritto, anzi, i due tipi di linguaggio non sono altro che l’uno il riflesso dell’altro. È molto e fin troppo frequente notare come alcuni equivalenti femminili di nomi di professioni al maschile vengano dimenticati o sostituiti e assorbiti dal maschile stesso.

Perché chiamare una “chirurga”, “chirurgo”, una “poliziotta”, “donna poliziotto” o direttamente “poliziotto”, una “deputata”, “deputato” e così via, per parecchie professioni di rilievo? Spesso le donne famose per cariche politiche sono chiamate per nome piuttosto che per cognome, così come le infermiere o dottoresse vengono appellate “signore” o “signorine”. Ne è un esempio recente quello dell’ambulatorio di Napoli, dove è stato appeso il cartello “In questo ambulatorio non ci sono signorine, ma dottoresse”, proprio in segno di protesta contro il linguaggio sessista. Chiaramente questo utilizzo improprio delle declinazioni maschili o femminili non solo potrebbe essere definito scorretto grammaticalmente, ma è la dimostrazione e, allo stesso tempo, un rafforzamento dell’idea, che un ruolo sociale elevato o una posizione di successo lavorativo sia di ambito esclusivamente maschile. Le ideologie si insinuano nella mente di un individuo in tenera età, fin dai primi anni di studi, quando nei libri di testo si leggono frasi apparentemente ingenue che giustificano comportamenti e punti di vista scorretti. Un libro di grammatica per scuola primaria, “Datti una regola” (2014), recita in un esercizio:

Rossella è così bella da sembrare un angelo, mentre sua sorella è talmente brutta che nessun ragazzo la degna di uno sguardo”.

L’inizio di pensieri pericolosi: il valore e la bellezza di una donna è misurata dalle quantità di attenzioni che le rivolge un uomo. Fortunatamente, a riguardo, il deputato Alessandro Fusacchia ha presentato alla Camera una proposta di legge di contrasti agli stereotipi nei libri scolastici.

“Una donna dovrebbe essere due cose: chi e cosa vuole.” -Coco Chanel

Sereno

di Cristina Fabiano, 4ALS

Ottobre 2021

La parola è l'elemento costitutivo dell'essere umano.

Ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi è, senza dubbio, la capacità di sviluppare un pensiero razionale, che esprimiamo attraverso le parole. Un insieme di suoni, di lettere, di segni, di ideogrammi, diventa un mezzo potentissimo.

Dopotutto, il sofista Gorgia direbbe: “La parola è una gran dominatrice che, anche col più piccolo e invisibile corpo, cose profondamente divine sa compiere. Essa ha la virtù di stroncare la paura, di rimuovere la sofferenza, di infondere gioia e d'intensificare la commozione”.

Poche parole, essenziali, possono dare voce ad un mondo di idee dimenticate.

Dopo tanta

nebbia

a una

a una

si svelano

le stelle


Respiro

il fresco

che mi lascia

il colore del cielo


Mi riconosco

immagine

passeggera


Presa in un giro

Immortale.


Sereno. Così Giuseppe Ungaretti scolpisce le parole, nell'estate del 1918, vicino alla fine della Grande Guerra. E chi, più di lui, poteva conoscere la definizione di "sereno" - un soldato che, per tanto tempo, non ha visto serenità?

È una serenità che arriva lentamente, tanto quanto lentamente si dilegua la nebbia. E, altrettanto lentamente, si riesce a rivedere una stella dopo troppo tempo di oscurità - un lume di speranza dopo troppo tempo di tristezza. La tristezza offusca tutto ciò che c'è di buono, ma basta anche scorgere una stella per poter, poi, vedere chiaramente tutte le altre.

C'è un legame equilibrato tra l'uomo e la natura. Lo dicono i filosofi, lo dicono gli scienziati e lo dice anche la vita quotidiana. Ogni uomo può perdere di vista la sua entità naturale così come può ritrovarla, assieme alla serenità.

“Per conoscere la natura, l'uomo, in fondo, deve soltanto riuscire a fare parlare la natura stessa" - Bernardino Telesio

All'immortalità della natura Ungaretti contrappone se stesso: immagine passeggera. L'essere umano contempla solo momentaneamente lo spettacolo naturale, che lo riempie di pace interiore, ma non potrà mai essere nient'altro che un ammiratore incredulo.

Solitamente, in un giro, inteso come un processo complesso, ci si perde facilmente. Invece, la poesia recita Presa in un giro / Immortale. È bello pensare che questa scelta fosse dovuta al fatto che Ungaretti si sentisse preso, coinvolto, nella magnificenza della natura, nella sua pace, pur consapevole che è una realtà più grande di qualsiasi uomo. Oppure, poteva avere, per il poeta, altri mille significati diversi; la forza della parola è anche questa: l'interpretazione, che la rende immortale.

Ungaretti, anche con uno stile ermetico e un componimento breve, riesce a trasmettere sentimenti importanti ad un secolo di distanza. La serenità che la natura gli infonde, non è un sentimento passivo, ma nasce da una ricerca che può fare solo una mente curiosa, mai soddisfatta, sempre in movimento nella propria vita.

"L'uomo è parte essenziale della natura e la presenza in essa del divino si traduce ineluttabilmente in presenza del divino nell'umano, manifestantesi in quell'eroico furore, in sé sforzo incessante, mai esausto, mai appagato alla ricerca della verità" - Giordano Bruno

Ungaretti si definisce un'immagine passeggera; ma non è stato, forse, il suo utilizzo delle parole a renderlo immortale, tanto quanto quel cielo, quelle stelle, a cui guardava con tanta ammirazione?

Ancora oggi, riuscirà a rendere qualcuno Sereno.


La poesia di Giuseppe Ungaretti è stata scelta dagli alunni dell'IIS "E. Ferrari" per la realizzazione del murales di omaggio alle donne afghane, durante il progetto “La nostra socialità si chiama Scuola”.