I?Calabresi

Il ponte del diavolo di Paola

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Maggio 2022

Il ponte del Diavolo è situato sopra il torrente Isca, il quale attraversa la vallata di Paola e scorre di fianco al Santuario di san Francesco; si narra che San Francesco di Paola volesse realizzare un ponte che attraversava il torrente ma, data la costituzione rocciosa del terreno, vennero riscontrati numerosi problemi nella costruzione. Il santo, allora, decise di scendere a patti col Diavolo e, in cambio della riuscita del lavoro di costruzione, gli offrì l'anima del primo essere vivente che avesse oltrepassato il ponte. Non appena l’opera venne completata, San Francesco fece in modo che il primo a percorrere il ponte fosse un cane, in modo tale che il Diavolo prendesse la sua anima, ma egli si adirò per l'inganno subito ed ingaggiò una violenta lotta con il santo: tirò un calcio al parapetto di sinistra, i cui i segni sono tuttora visibili, poggiando la mano sulla parete opposta dove sarebbe rimasta la sua impronta.

Padre Rocco Benvenuto, superiore provinciale dei frati, ha dimostrato l’infondatezza di questa leggenda nel corso del terzo Convegno Internazionale che è stato organizzato a Roma per ricordare il V centenario della morte di san Francesco di Paola affermando che si tratta di una tradizione inventata di sana pianta. Grazie all'analisi della vita di san Francesco, il padre cappuccino si è soffermato sulla leggenda del ponte ed ha scoperto che la sua origine sarebbe addirittura preesistente alla nascita del santo; infatti nei pressi del ponte avvenne una frana che la gente attribuì al demonio, ma san Francesco arrestò il macigno che stava per travolgere i fedeli.

Lago artificiale del Melito

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Aprile 2022

Il lago artificiale del Melito, con i suoi 108 metri d’altezza e 100 milioni di metri cubi d’acqua di capacità, sarebbe dovuto essere la soluzione al grande problema dell'approvvigionamento idrico, riuscendo a fornire del bene più importante per la sopravvivenza umana circa 50 comuni in provincia di Catanzaro e Vibo Valentia. Per diverso tempo il progetto non solo ha destato speranze, poi diventate vane, ai cittadini calabresi per avere finalmente acqua a sufficienza nei territori più a rischio ma anche per le centinaia prospettive di lavoro per la costruzione e la manutenzione del lago. In realtà, la realizzazione del progetto ha subito diverse interruzioni per più di 40 anni le quali hanno rallentato notevolmente i lavori ed hanno portato al conseguente declino con uno sperperamento del denaro pubblico che ammonta a 190 milioni di euro circa. Tutto è nato attorno al 1978 nelle zone di Gimigliano, nello stesso anno il progetto è stato incluso nel programma della Cassa per il Mezzogiorno. Quattro anni dopo i primi fondi iniziano ad arrivare, infatti sono stati stanziati ben 503 miliardi di lire per la sua realizzazione. Finalmente iniziano gli scavi e ad adattare il terreno al progetto, quando però nel 1993 viene tutto interrotto dal ministero dell’Ambiente per una “valutazione d’impatto ambientale carente”, la ditta quindi abbandona i lavori e la Calabria si ritrova con un grande buco mai più riempito nè portato a termine e con mezzi di lavoro lasciati lì e destinati alla ruggine. Ci sono voluti quasi dieci anni prima che la Cassazione, nel 2001, sbloccasse la faccenda ed a quel punto i lavori sono sembrati ripartire anche per il governo Berlusconi che stanzia 262 milioni di euro con data di consegna dicembre 2009. La nuova ditta, però, nel 2007 decide di far emergere i primi dubbi sull’effettiva resistenza dell’opera e richiede quindi la perizia di un collegio arbitrale. La sentenza sarà molto chiara: l’opera progettata in quella maniera non avrebbe mai retto l’impatto dell’acqua e l’alta sismicità della zona.

Da questo momento in poi, del lago Azzurro e della diga di Melito non si saprà più nulla. Per la realizzazione del progetto, inoltre, sono state espropriate le frazioni di Umbri, Militello e Canne che oggi si sarebbero dovute trovare nel bacino del lago. Famosa è la storia di un’anziana signora che continua a vivere lì: "Quando verranno a prendermi sarà buon segno, perché vuol dire che stanno facendo la diga”, ha dichiarato. Non solo gli espropriati ma anche centinaia di lavoratori assunti per completare il cantiere si sono trovati senza lavoro, nonostante abbiano vinto cause in tribunale.

Pietra Cappa di Natile di Careri

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Marzo 2022

Pietra Cappa è situata sul versante orientale del Parco Nazione d’Aspromonte, tra i comuni di San Luca e Careri, occupa circa quattro ettari di terreno e con i suoi 140 metri di altezza è riconosciuto come il monolite più grande d’Europa. Le sue origini sono antichissime, tanto che negli antichi documenti medioevali si legge di pietra Gauca, ovvero “pietra vuota”, che rappresenta una tipologia di monolite presente in maniera numerosa in tutta la zona circostante a Pietra Cappa. La zona è contraddistinta, infatti, da insediamenti rupestri, con grotte che richiamano i paesaggi della Cappadocia (storica regione dell’Asia Minore). Per questo motivo il monolite assunse il sostantivo di pietra ‘Cappa’. Una seconda ipotesi, invece, attribuisce il nome di Pietra Cappa alle varie leggende sul monolite. Si dice infatti che la Pietra sia legata all’apostolo Simone, detto Pietro, lo stesso a cui Gesù diede le chiavi del Regno e su cui volle edificare la sua Chiesa. Nei testi greci dei vangeli Simone ricevette da Cristo stesso il nome di Kefa, che in aramaico significa “roccia”, quindi si presume che dalla lettera iniziale k del termine sia stato assegnato alla grossa pietra il nome di Pietra ‘Cappa’. Ancora oggi il monolite è avvolto da diverse leggende: una tra queste narra che il diavolo sia rinchiuso all’interno della roccia, tanto è vero che se si osserva attentamente la pietra, si può notare un’impronta che ha le sembianze di un corpo umano ma di dimensioni più grandi. Questa figura è attribuita al diavolo che assalì Gesù mentre meditava sulla pietra. Egli riuscì a respingere il diavolo e a resistere alla sua persecuzione facendosi il segno della Croce che lo scaraventò violentemente sulla pietra lasciando così un’impronta ancora oggi visibile sul monolite. Pietra Cappa è addirittura associata ai Cavalieri Templari, e proprio a Reggio militavano Longino, il legionario che trafisse con la lancia il costato di Cristo, e numerosi crociati dai quali ebbero origine i cavalieri di Malta. Reggio fu anche il punto di partenza dei monaci che fondarono l’ordine di Sion, i quali ebbero proprio a Pietra Cappa la rivelazione del Graal, la simbolica coppa del sangue di Cristo. E qui si sarebbero insediati i Cavalieri del Tempio.

Abbazia di Corazzo

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Febbraio 2022

L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo è situata nella Sila piccola, in provincia di Catanzaro, in una valle solcata da due fiumi: Amato e Corace. Nel 1059, dopo che i Normanni si impossessarono dell’Italia meridionale, a Roberto il Guiscardo venne conferito dal pontefice il titolo di Duca di Calabria, Puglia e Sicilia, e Riccardo I di Aversa fu riconosciuto principe di Capua. Secondo la prima delle tre ipotesi riguardanti l’edificazione dell’Abbazia situata in questa vallata per via della fertilità delle terra, i Normanni la innalzarono su un preesistente monastero Basiliano di rito greco-ortodosso, ma questa tesi non è supportata da alcun documento storico. La seconda ipotesi è collegata alla bolla papale del pontefice Onorio II, che accenna ai privilegi di cui godette l’Abbazia dove viene citata una concessione di Alessandro II e in cui si confermano i preesistenti benefici dell’Abbazia. Basandosi su queste testimonianze si può affermare che la stessa sia stata fondata intorno al 1060. La terza ipotesi, invece, posticiperebbe la fondazione di novant’anni: infatti, l’Abbazia sarebbe stata costruita nel 1157 come abbazia cistercense, anche se la maggior parte ritiene che essa sia nata prima come benedettina. Nel 1348 la peste arrivò in Calabria provocando numerose vittime; l’anno successivo un forte terremoto la distrusse in parte. Nel corso del 1500, gli abitanti del villaggio di Castagna decisero di finanziare i lavori di recupero della chiesa e dell’abbazia ma, il 27 marzo 1638, un terremoto dell’11° grado della scala Mercalli provocò il crollo di entrambe. L’abate Ginetti, in seguito, si adoperò per la rinascita di Corazzo attraverso la ricostruzione degli ambienti del monastero e della chiesa e incaricò gli artisti napoletani per le decorazioni degli interni con addobbi religiosi e immagini sacre. Tuttavia, nel 1783 un nuovo terremoto distrusse sia la rinata chiesa che il monastero. La storia dell’Abbazia di Santa Maria di Corazzo si conclude nel 1808, quando fu soppressa da un decreto del governo del Re di Napoli Giuseppe Bonaparte. Nel corso degli anni il monastero è stato abbandonato a se stesso; solamente negli ultimi decenni l’amministrazione di Carlopoli si è interessata alla questione, presentando dei progetti di restauro e recupero. L'Abbazia divenne dimora di alcuni monaci, i quali deviarono il corso del fiume Corace per aumentare la fertilità dei terreni vicini, edificarono mulini ad acqua e costruirono un acquedotto per l'attività pastorizia e agricola.

Il mistero che coinvolge i monaci cistercensi riguarda il ritrovamento di un importante documento redatto da Cornelio Pelusio, abate cistercense, che venne in Calabria a visitare diverse abbazie. Nel documento viene riportato un elenco di reliquie conservate nell’Abbazia risalenti al XIII secolo: un legno della croce di Cristo, alcune vesti di Gesù, una pietra del Santo Sepolcro e una ciocca di capelli di Maria Maddalena. Le reliquie furono probabilmente portate fino a Corazzo dai cavalieri templari ed ad oggi, purtroppo, non sono state ritrovate, anche se qualcuno sostiene siano ancora sepolte all’interno di cripte nel sottosuolo dell’Abbazia. Un’altra leggenda che risalta tra le tante riguarda una coppia di sposi che, recatasi in quel posto per le foto cerimoniali, subì un avvenimento raccapricciante. La giovane moglie, mentre si trovava in posa per uno scatto, venne morsa da un piccolo serpente velenoso e nel giro di pochi minuti morì. Si narra che da quel giorno, durante le notti di pioggia e di nebbia, alcuni passanti si imbattono in una donna completamente fradicia e infreddolita che chiede un passaggio per Soveria Mannelli. Le persone che si sono fermate per darle un passaggio raccontano che, dopo averla fatta salire in macchina e aver percorso solo pochi metri, la donna fosse scomparsa improvvisamente lasciando il sedile bagnato. Inoltre pare che tra la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo, molte donne tra coloro che si recavano a comunicarsi presso la badia di Corazzo non facessero più ritorno a casa. Ciò destò molto scalpore tra gli abitanti fino a quando i signori di Murachi, piccolo borgo situato nelle vicinanze dell'abbazia, decisero di irrompere nell'abbazia ma ciò che videro fu davvero sconvolgente: una donna sdraiata su un tavolo di legno, con tutte le vesti stracciate e molti monaci pronti a farle violenza. Gli stessi monaci obbligavano le donne a confessarsi e a compiere il percorso di ritorno dall’abbazia completamente sole ed al buio così da non destare particolari sospetti.

Il castello di Pizzo e il fantasma di Gioacchino Murat


di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Gennaio 2022

La costruzione del castello di Pizzo Calabro risale al XV secolo, voluta da Ferdinando d’Aragona durante il periodo di dominazione aragonese. In seguito, quando Napoleone aveva ormai conquistato la Calabria, fu Gioacchino Murat ad ottenere un posto d’onore nel regno. Dopo la caduta di Napoleone, quest’ultimo venne ostacolato dai suoi successori: Murat tentò di riconquistare il regno, ma, imprigionato da Ferdinando IV di Borbone, venne rinchiuso proprio nel castello di Pizzo dove, nel 1815, venne fucilato.

In origine era stata eretta una torre di avvistamento, detta Torre maschia e risalente alla fine del 1300, con lo scopo di contrastare le incursioni dei pirati saraceni. Ferdinando I, re di Napoli, con un decreto del 12 novembre 1480 ordinò di fortificare ulteriormente il regno, tramite l'edificazione di altri castelli. Vennero quindi aggiunti alla torre delle mura che danno l'aspetto attuale al maniero. Ad oggi, il luogo di sepoltura di Murat è sconosciuto e ci sono diverse ipotesi sui gioielli indossati dal giovane al momento della cattura e sul tesoro che possedeva prima di essere imprigionato. Secondo alcuni, il corpo venne seppellito in una fossa comune nella navata centrale della chiesa di S. Giorgio, fatta edificare dallo stesso Murat. Secondo altri studiosi, il corpo potrebbe trovarsi in un’altra fossa comune all’interno del cimitero. Nel corso dei secoli si è inoltre sviluppata l’ipotesi che il corpo fosse stato gettato in mare, ma senza testa, la quale sarebbe stata inviata a Ferdinando di Borbone come segno di prestigio e potenza. Sulla figura di Murat, e in particolare sul suo fantasma che ancora oggi viene visto vagare per il castello, si sono venute a creare varie leggende. Ci sono , infatti, diversi testimoni che nel corso dei secoli hanno riferito di aver sentito, di notte, rumori di catene all’interno della chiesa. Quest’ultima, poi, è stata vista illuminarsi all’improvviso, mentre una voce inquietante rimbombava pronunciando parole incomprensibili. In passato, alcuni cittadini hanno riferito che per anni, sempre alla stessa ora e nello stesso giorno in cui la flotta di Murat venne catturata, in cielo si è verificato uno strano fenomeno atmosferico, caratterizzato da lampi e tuoni, definita da tutti “a tempesta di Giacchinu”.

La leggenda del tesoro sepolto di Alarico

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Dicembre 2021

Alarico fu il primo vero re dei Visigoti, i quali, dopo circa vent’anni di guerra ininterrotta contro gli Ostrogoti, compresero la necessità della figura di un re che amministrasse il potere supremo. I Visigoti, malgrado le istruzioni di Alarico di non commettere atrocità, furono protagonisti di diversi saccheggi e violenze a Roma che terminarono il 26 agosto 410, quando con prigionieri e con l’immenso tesoro saccheggiato si misero in marcia verso la Calabria. Fecero irruzione nella città di Consentia (l’attuale Cosenza) uccidendo uomini e donne e la saccheggiarono completamente. In seguito la malaria colpì Alarico che lo portò alla morte. I Goti decisero di rendergli onore seppellendolo nel fiume Busento con il suo cavallo, l’armatura e i tesori raccolti nelle varie guerre. Per evitare che la tomba venisse profanata, il fiume venne deviato dal suo corso sfruttando l’attività di centinaia di schiavi, che, dopo averlo ricondotto nel suo letto naturale, furono trucidati per preservare la segretezza del posto. Si tramanda che il tesoro del condottiero ammonti a 25 tonnellate di oro e 150 tonnellate d’argento, ma il luogo esatto della tomba e del leggendario tesoro di Alarico rimane da sempre un mistero che ha ispirato, tra gli altri, anche August von Platen a comporre una poesia dal titolo Das Grab im Busento, tradotta in italiano da Giosuè Carducci, La tomba del Busento.

La strana lettera di Joe Petrosino

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Novembre 2021


Giuseppe Petrosino nasce il 30 agosto 1860 in Italia a Padula, provincia di Salerno. Il padre, poco tempo dopo, decide di emigrare e porta l'intera famiglia (madre, due sorelle e tre fratelli) a New York, dove il primo figlio Giuseppe, da tutti chiamato Joe, cresce nel quartiere di "Little Italy". Joe voleva cercare di dare un aiuto economico alla sua famiglia, perciò decise di intraprendere vari mestieri e di frequentare, inoltre, dei corsi serali per imparare la lingua inglese. Nel 1883 entra a far parte delle forze dell’ordine ed il suo compito sarà quello di combattere la mafia che, al tempo, era conosciuta con il nome di “Mano Nera”. Si guadagnerà, per questo motivo, addirittura la stima del trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d’America Roosevelt, con il quale stringerà una grande amicizia. Joe muore il 12 marzo 1909 nella piazza Marina di Palermo, dove si era recato per condurre un’indagine sui rapporti tra i mafiosi siciliani e calabresi con quelli emigrati negli Stati Uniti, con quattro colpi di rivoltella. Il ritrovamento della missiva, avvenuto ad oltre un secolo di distanza da quel 5 maggio 1898 (data di scrittura della lettera), lo si deve a Francesco Caravetta scrittore e antropologo di Cosenza, autore della raccolta “Antichi Delitti” che, durante una delle sue ricerche, si ritrovò tra le mani la nota di Petrosino. La lettera tratta di Arcangelo Olivieri che era ricercato dalla polizia di New York per l’uccisione del suo datore di lavoro, John Ryan. L’omicidio di primo grado , in America, era sanzionabile con la pena di morte; perciò Olivieri si imbarcò su una nave per tornare in Italia dove verrà processato e condannato ad 8 anni e 4 mesi di reclusione. Oggi la lettera è conservata nell’Archivio di Stato di Cosenza e Petrosino viene ricordato come il pioniere nella lotta al crimine organizzato.

Il mistero irrisolto di villa Gullì

di Matteo Bertucci e Riccardo Parisi, 4ALS

Ottobre 2021


La casa appartenente alla nobile famiglia dei Gullì venne edificata nel 1753 a Reggio Calabria sugli antichi resti di una villa gentilizia. L’abitazione venne definitivamente abbandonata nel 1943 a causa di una tragedia che lascia, ancora oggi, diverse perplessità e misteri irrisolti. Tommaso Gullì, valoroso militare, medaglia d’oro per onori di guerra, fu ucciso brutalmente a Spalato nel 1920, lasciando la moglie Maria Nesci e i tre figli: Vincenzo, Agata e Anna. In quel periodo la città di Reggio si trovava sotto la dominazione dei nazisti che avevano l’intenzione di trasformare la villa nel loro quartiere generale data la sua posizione strategica. Le figlie dei Gullì iniziarono a frequentare ben volentieri i nazisti mentre Vincenzo, unico maschio della famiglia, era sottomesso alla rigida autorità della madre Maria che gli aveva imposto un'educazione basata su antichi ideali di nobiltà e sull’adorazione assoluta del padre Tommaso. Spesso Vincenzo si rifugiava nella musica del suo pianoforte e il 9 febbraio del 1943, rimasto da solo, prese tutti gli oggetti appartenuti in passato al padre, cosparse se stesso e gli articoli con olio di bergamotto e si diede fuoco. Prima di morire, lasciò un biglietto contenente le seguenti parole: “Ai carnefici di mio padre le mie ceneri”. Alcuni ritengono la sua morte non un suicidio ma un omicidio, forse voluto dai nazisti. Poco dopo, la famiglia Gullì abbandonò definitivamente sia la villa che Reggio, lasciando così un alone di mistero su questa tragica storia. Si dice che da quel momento la casa sia stata occupata dalle anime vaganti di padre e figlio tanto da essere ricordata come “la casa dei fantasmi”: la figura di un uomo vestito di nero sembra vagare tra le stanze in rovina mentre si ode un pianoforte suonare e una voce chiamare la madre.