Ad maiora semper

Catullo: odi et amo

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Maggio 2022

Catullo è noto ad oggi per essere stato, oltre che un grande poeta, un uomo tanto innamorato, il primo che fece della donna l’oggetto della sua poesia. Egli è l’iniziatore del genere della poesia neoterica, nota anche come poesia nuova, che nacque a Roma in piena età di Cesare. Essa rappresenta la massima espressione dell’ellenizzazione, in quanto ripropone le caratteristiche della poesia lirica, ampiamente diffusa in Grecia. Si trattava, in modo particolare, di una poesia d’occasione: ogni avvenimento diventava la tematica centrale attorno a cui si sviluppava una poesia di alto livello, raffinata e limata come se fosse una bomboniera. Infatti, tali poesie non venivano scritte di getto, bensì sottoposte ad un preciso lavoro di revisione, analogo al concetto di labor limae, elaborato, diversi secoli dopo, da Francesco Petrarca. Dunque, le poesie nuove si presentavano superficiali nei contenuti, ma perfettamente curate nello stile e nella tecnica. Il maggiore esponente di tale corrente letteraria (nonché l’unico di cui ci giungono i componimenti) è proprio Catullo. Egli nacque a Verona nell’anno 87 a.C. La sua vita fu caratterizzata dall’amore nei confronti di Clodia, una donna bella e colta, ma anche spregiudicata, dal momento che, pur essendo sposata, portava avanti una relazione adultera con Catullo. Il poeta farà dell’amore la tematica che collega tutti i 116 carmi della sua più nota opera, il Liber. Catullo, attraverso i suoi componimenti, realizza un percorso di tutti i momenti della storia d’amore vissuta da lui e dall’amata, a cui darà il falso nome di Lesbia (in onore dell’isola Lesbo, patria di moltissimi poeti lirici). Il poeta narra la sua relazione con Lesbia a partire dagli albori, per poi continuare a descrivere la crescita del sentimento d’amore che li lega, fino a giungere, tuttavia, alla triste fine della storia, dovuta alla perdita di sentimenti da parte della donna. Catullo, così, subirà una profonda metamorfosi, passando dall’essere l’amante perdutamente innamorato di Lesbia all’uomo ferito, ostile a Lesbia e a tutto il genere femminile, a cui rivolge dure parole. Tra i numerosi carmi composti dal poeta, alcuni rappresentano momenti fondamentali della relazione tra i due amanti. Il carme numero 5 è indubbiamente il manifesto d’amore per Lesbia, in cui Catullo descrive un amore puro, genuino, ma anche passionale, fatto di mille e cento baci (“Da mi basia mille, deinde centum”), con il desiderio di vivere una notte infinita. Tuttavia, man mano che si va avanti con la storia d’amore, le tematiche dei carmi cambiano radicalmente. A tal proposito, il carme 70 ci dà l’immagine di un Catullo completamente differente, talmente ferito e adirato da non riuscire nemmeno a scrivere il nome di Lesbia, che definisce, piuttosto, mulier mea (la mia donna). Rispetto al carme 5, dunque, viene meno la passione travolgente che caratterizzava i due amanti; a questa si sostituisce, piuttosto, l’amarezza e il rancore del poeta, che, nonostante tutto, dimostra ancora un certo legame affettivo nei confronti di Lesbia, tramite l’utilizzo dell’aggettivo possessivo (la “mia” donna). Ma Catullo prova anche rancore: Lesbia, che diceva di essere talmente innamorata di lui che non avrebbe accettato neppure l’abbraccio di Giove in persona, lo ha abbandonato. Allora il poeta rivolge il suo disappunto a tutto il genere femminile, dimostrandosi maschilista e anche misogino: afferma infatti che ciò che una donna dice all’amante è fugace, come parole nell’acqua o nel vento. Tale stato d’animo di Catullo persiste anche nel carme 72. Qui, egli cerca di andare avanti, voltare pagina, ma l’amore resiste ancora. Tuttavia, l’amore da solo non è abbastanza, poiché, anche se Catullo brucia ancora di passione, ormai è venuto meno il bene velle, il volere bene: se manca uno dei due elementi, allora una storia non può di certo andare avanti. Rispetto al carme 70, Catullo si mostra qui più ferito e meno adirato, come se fosse ancora in una lunga fase di accettazione della fine della storia, mentre la rabbia subentrerà in un tempo successivo. Questo carme ci dà così l’idea di un Catullo che continua ad amare anche se non prova più affetto, dichiarando (o forse, più propriamente, sperando) che Lesbia gli sia ora vile e leggera, quando in realtà non è così. Ma le contraddizioni interiori del poeta vengono poi fuori nel suo componimento più famoso, il carme 8: “Odi et Amo”. Qui, il poeta è consumato da due sentimenti contrastanti, che coesistono dentro di lui: l’odio e l’amore (coencidentia oppositorum). Il poeta non sa come sia possibile provare al tempo stesso due sentimenti così in contrasto tra loro; eppure, non può cambiare la sua condizione e ciò causa in lui uno struggimento, quasi come se fosse crocifisso (non a caso, usa il termine latino excrucior). Dunque, rispetto al carme 72, all’affetto venuto meno, che deve essere complementare all’amore in una relazione, si sostituisce ora l’odio. Si completa così il percorso di trasformazione dello stato d’animo di Catullo: dall’uomo innamorato del carme 5, all’uomo ferito che cerca di accettare la fine della relazione nel carme 72, poi ancora all’uomo adirato che sfoga la sua frustrazione su Lesbia e sul genere femminile tutto del carme 70, infine all’uomo devastato e consumato da due sentimenti contrastanti nel carme 85.

Lucrezio: quando la poesi incontra la filosofia

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Aprile 2022

Lucrezio è un importantissimo poeta latino, considerato l’iniziatore della poesia filosofica. Egli visse a Napoli durante l’età di Cesare, tra il 98 e il 55 a.C. Tutta la sua vita fu caratterizzata da una patologia, una forma di follia, che lo portò addirittura a tentare il suicidio, probabilmente a causa di un amore non corrisposto. Tra i suoi vari scritti, l’opera che gli conferisce maggiore notorietà è intitolata De rerum natura (“Sull’origine delle cose”). Si tratta di un poema epico didascalico, ossia un poema che fornisce un insegnamento: quello relativo alla filosofia di Epicuro. Infatti, tutti i libri che compongono l’opera sviluppano, sotto forma di poesia, le dottrine del filosofo greco Epicuro. L’obiettivo di Lucrezio è quello di salvare l’umanità dal buio dell’ignoranza, tramite la conoscenza della filosofia epicurea; pertanto, egli fa assumere al poema un tono epico, ponendosi come un eroe che salverà l’essere umano. Il De rerum natura è diviso in sei libri, comunemente distinti in tre coppie, in base all’argomento di cui trattano. L’opera si apre con un proemio di circa cento versi, nel quale è presente l’invocazione alla dea Venere e la “protasi”, una sorta di sintesi dell’opera intera. Qui, Lucrezio celebra Venere come genitrice della stirpe di Enea, in quanto simbolo di origine e voluttà e le chiede di supportarlo nella stesura del poema. Prosegue poi con un elogio rivolto ad Epicuro, esaltato come filosofo eroe. Il grande merito a lui riconosciuto è quello di essere stato il primo uomo della Grecia a sfidare la religione (considerata da Lucrezio come un mostro che opprime il mondo, portando gli uomini a compiere scelleratezze), per cercare la vera origine di tutte le cose. La prima coppia di libri sviluppa il tema della fisica epicurea, ossia la nascita del mondo stesso. Epicuro era un materialista, pensava che tutto intorno all’uomo fosse costituito da piccolissime particelle, gli atomi. Essi fluttuano nell’universo e finiscono con l’aggregarsi, dando origine a tutte le cose. Tuttavia, tutto ciò che è creato è destinato a distruggersi: dunque, gli atomi prima o poi si disgregheranno e il ciclo ricomincerà. Lucrezio afferma qui l’inesistenza della creazione: non sono stati gli dei a creare il mondo, poiché nulla si crea dal nulla. La seconda coppia di libri è incentrata sul tema dell’antropologia. Lucrezio sostiene che anche l’uomo è fatto di materia e, dunque, come tutte le altre cose, gli atomi che lo compongono si disgregheranno: questo evento rappresenta il momento della morte. Per questo motivo, l’uomo non deve avere paura della morte (che altro non è che una disgregazione di atomi), poiché dopo la morte c’è il nulla. Lucrezio, quindi, non crede in un aldilà pagano, né nell’immortalità dell’anima. Seguendo la filosofia di Epicuro, egli è convinto che anche l’anima sia costituita da atomi e, per questo, si disintegrerà. Tuttavia, è possibile che, dopo molti secoli, gli atomi che compongono la nostra anima vadano ad aggregarsi e a dare vita ad una nuova anima. Questi rari casi sono la causa dei dejavù. L’ultima coppia di libri affronta l’argomento della cosmologia. Secondo Lucrezio, l’uomo ha paura non solo della morte, ma anche degli dei. Tuttavia, anche in questo caso la paura è legata all’ignoranza dell’uomo. Infatti, Lucrezio afferma che gli dei vivono negli inter mundia, dei luoghi isolati nel cielo, e sono completamente estranei e disinteressati rispetto a tutte le vicende umane. Dunque, i fenomeni atmosferici, come vortici o tornadi, non sono causati dall’ira degli dei, ma hanno una spiegazione scientifica. Il De rerum natura si conclude, infine, con una descrizione della peste di Atene del 430 a.C, di cui Lucrezio offre un’esposizione cruda e dettagliata. La decisione di concludere in tal modo l’opera ha scatenato non pochi dubbi e critiche. Infatti, l’episodio finale raccontato da Lucrezio si scontra con tutto il messaggio dell’opera, che è un messaggio di salvezza. Pare che Lucrezio voglia indicare che, nonostante la sapienza conduca alla felicità e alla salvezza, ci sono ancora eventi catastrofici dai quali l’uomo non può salvarsi.

Lucilio: l'iniziatore della satira

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Marzo 2022

“(…) quelli è Omero poeta sovrano;

l’altro è Orazio satiro che vene;

Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano. (…)”

Ci troviamo nel canto IV dell’Inferno dantesco. Dante, descrivendo la condizione delle anime di illustri poeti che, essendo morti prima di conoscere Cristo, si trovano a vagare per l’eternità nel limbo (I cerchio dell’Inferno), cita il “satiro Orazio”. Questi, uno dei più importanti autori di satire, riconobbe il poeta latino Lucilio come iniziatore di tale genere, nonché come suo maestro. La satira è un genere letterario tutto latino, che non trova precedenti testimonianze in Grecia, e prese avvio con Lucilio, autore di 30 libri di satire, di cui ci sono pervenuti circa 1370 versi. Egli scrisse in versi e utilizzò l’esametro. La satira è un genere contraddistinto dal suo carattere goliardico e burlesco e dal suo tono pungente, che presenta, inoltre, una vasta gamma di contenuti, come le probabili etimologie del suo nome confermano. La “satura” latina, infatti, potrebbe derivare dalla figura del “satiro”, creatura mitologica contraddistinta dal suo atteggiamento spiritoso e goliardico (elementi caratteristici del genere letterario), o potrebbe ancora discendere dalla “lex satura”, una legge piena di proposte, o dalla “lanx satura”, una cesta piena di vivande da presentare agli dei. Proprio in riferimento a queste ultime possibili etimologie, la satira era un genere che non presentava una determinata tematica centrale, bensì una pluralità di aspetti più comuni e quotidiani della vita: l'amicizia, l’amore, l’erotismo, il simposio. La satira aveva punti di contatto con il genere della commedia, poiché, proprio come quest’ultima, voleva fotografare la realtà. Infine, la satira, rappresentando la realtà circostante, voleva trasmettere un messaggio o un rimprovero, sempre con un tono goliardico. A caratterizzare le satire di Lucilio è il loro carattere fortemente personale e soggettivo: Lucilio, molto spesso, fece riferimento ad esperienze personali, mantenendo un tono scherzoso anche nella narrazione di fatti spiacevoli, come il tradimento di un amico. Inoltre, un altro aspetto fondamentale delle sue opere è l’aggressività, che si esprime in attacchi personali ad importanti esponenti della società romana. Infatti, Lucilio utilizzò frequentemente le sue satire come strumento di attacco contro considerevoli uomini, soprattutto Lentulo Lupo, un princeps senatus, contro cui il poeta mosse un attacco scoperto e feroce. Frequentemente, fece delle sue satire una parodia dell’epica, inserendo le situazioni descritte in un contesto immaginario, come un banchetto degli dei (in quanto gli dei erano personaggi chiave nell’epica). Lucilio utilizzò un linguaggio comune e semplice (sermo), ricco di termini tecnici e grecismi. Lo stile era medio, non elevato (Petronio lo definirà Luciliana humilitas), in quanto Lucilio intendeva rivolgersi ad un pubblico di lettori né troppo ignoranti né troppo colti.

Catone: il difensore del mos maiorum

di Adi Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Febbraio 2022

Catone fu il più grande storiografo latino. Egli nacque a Tusculum, nel Lazio, nel 234 a.C., e visse per ben 85 anni. Fu denominato “il Censore” per via della carica politica da lui ricoperta, ma anche per il suo carattere fiero, orgoglioso, tipicamente romano. Catone si colloca in un periodo storico in cui la storiografia era molto in voga tra gli autori latini. Si tratta di un genere letterario che narra la storia di un popolo, nella maniera più oggettiva e fedele alla realtà possibile. I primi storiografi, tra cui Fabio Pittore e Cincio Alimento, si cimentarono nella narrazione della storia del popolo romano dalle origini fino all’età loro contemporanea. Dovettero, loro malgrado, inserire elementi epici (soprattutto i racconti relativi alle origini di Roma), in quanto si trattava delle uniche fonti a loro disposizione per comprendere la genesi della storia romana. Ma soprattutto, caratteristica dei primi storiografi fu l’utilizzo della lingua greca, poiché era la lingua più diffusa e conosciuta della loro età, ma anche perché il greco era la lingua dei loro nemici, a cui avevano intenzione di inviare “messaggi”. Catone si differenziò da tali primi autori, poiché decise di utilizzare il latino piuttosto che il greco. Era un anti-ellenico, contrario all’ellenizzazione in tutti i suoi aspetti: era ostile all’utilizzo della lingua greca, all’assunzione di precettori greci per l’educazione dei bambini romani, al Circolo Scipionico. D’altra parte, era il difensore del “mos maiorum”, ossia degli usi, delle tradizioni e dei costumi romani, che non potevano essere “contaminati” dalla cultura greca. Pertanto, concepì la sua attività letteraria (complementare a quella oratoria) come strumento di lotta politica, per sradicare l’ellenizzazione dalla società latina. La notorietà di Catone è legata alle “Origines”, di carattere storiografico, in cui descrive la storia romana di anno in anno, dalle origini fino al 151 a.C. L’opera, che ci giunge in frammenti, era originariamente formata da sette libri. Dalle Origines traspare l’innovativa concezione di Catone, secondo cui la storia non è fatta dal singolo uomo (da un illustre condottiero, senatore, comandante), bensì dall’intero popolo. Pertanto, egli, nella sua opera, non scrisse quasi mai i nomi dei condottieri o comandanti romani (utilizzando, piuttosto, appellativi come “Il comandante”), se non in particolari occasioni. Altra importante caratteristica delle Origines è l’inserimento di “digressioni”, ossia punti in cui la narrazione della storia di Roma viene interrotta, per lasciare spazio ad approfondimenti di tipo etnico-geografico, inerenti, quindi, alla cultura dei popoli conquistati e alla geografia delle loro terre. Catone, oltre ad essere uno storiografo, fu un eccellente oratore in senato. Celebre è la sua massima “Vir bonus dicendi peritus” (L’uomo buono è esperto nel parlare), con cui descrive le caratteristiche del perfetto cittadino romano: un uomo onesto e attivo nella vita politica (bonus), ma anche esperto nell’arte del parlare (dicendi peritus). Sempre in senato, Catone pronunciò la famosa frase “Carthago delenda est” (Cartagine deve essere distrutta), con cui si fece promotore della Terza guerra punica. Si dedicò poi alla stesura di opere enciclopediche, come i “Libri ad Marcum filium”, in cui raccolse tutto lo scibile umano dell’epoca, affinché il testo potesse essere utilizzato per l’educazione in primis del figlio Marco, poi di tutti i bambini romani (dal momento che Catone mirava ad un’educazione uniforme, nazionale, libera dai precettori greci). Infine, l’unica opera di Catone che ci perviene per intero è il “De Agri cultura”, un trattato sulla spartizione delle terre.

Ennio: il poeta dai tre cuori

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Gennaio 2022

Ennio è considerato il vero padre della letteratura latina. A conferirgli questo titolo concorre il fatto che egli introdusse l’esametro, metro tipico dell’epica greca, e compose il primo vero poema epico latino, gli Annales. Con Ennio, dunque, si abbandona la narrazione primordiale dei primi autori (come Nevio) e si va oltre la sola stesura di tragedie e commedie (come Plauto e Terenzio avevano fatto), per lasciare spazio al genere dell’epica. Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. nella Magna Grecia. Combatté durante la Seconda guerra punica, al termine della quale giunse a Roma, insieme al poeta e amico Catone. Qui, entrò in contatto con la cultura e con la società territoriale, fortemente influenzata dal fenomeno dell’ellenizzazione. Strinse amicizia con Scipione l’Africano e, grazie ad una serie di contatti, ottenne la cittadinanza romana. Morì, infine, nel 160 a.C. Egli affermava di avere tre cuori, poiché conosceva perfettamente tre lingue: il greco, il latino e l’osco, una lingua locale diffusa nell’Italia meridionale. Ennio fu autore di tragedie di successo, che proponevano alla riflessione importanti problemi politici, morali e religiosi del popolo romano e avevano come modello le tragedie greche. Di queste tragedie ci giungono, però, solo pochissimi titoli o frammenti, probabilmente perché tante andarono distrutte o vennero censurate. Tuttavia, l’opera che dà maggiore notorietà ad Ennio è, senza dubbio, quella ricordata come gli Annales. Si tratta di un poema epico diviso in diciotto libri, che Ennio in prima persona pubblica a gruppi di sei (come faranno anche autori successivi, come Dante). Il poema racconta la storia del popolo romano anno per anno (da qui il titolo dell’opera), in ordine cronologico, a partire dalle origini di Roma fino al 171 a.C. In tal senso, Ennio si rifece al modello di Nevio, che, nel suo Bellum Poenicum, aveva narrato le origini della storia di Roma, introducendo importanti personaggi, tra cui Enea (le cui avventure saranno riprese proprio negli Annales). Il poema ha inizio con la caduta di Troia e il successivo arrivo di Enea in Lazio; sono poi narrate le vicende di Romolo e Remo, la successiva instaurazione e, in seguito, la caduta della monarchia, per poi arrivare alla conclusione, con l’età repubblicana. La grande novità del poema consiste nella scelta da parte dell’autore di utilizzare l’esametro (e non più il saturnio, utilizzato dai suoi predecessori) e nel fatto che Ennio diede inizio alla tradizione, ripresa poi dai successivi storiografi, di descrivere la storia romana di anno in anno. Ciononostante, gli Annales non possono essere considerati un’opera storiografica, ma piuttosto un poema epico, che si colloca a metà strada tra epica e storiografia. Ciò è dovuto al fatto che il poeta decise volontariamente di inserire personaggi epici e leggendari e di narrare le loro imprese, raccontando, di pari passo, la storia di Roma. Per giustificare questa ripresa della tradizione dell’epica greca, nonché l’utilizzo dell’esametro, Ennio raccontò di aver fatto un sogno, nel quale gli sarebbe apparso Omero, che gli avrebbe consegnato, metaforicamente, le “chiavi dell’epica”, rendendolo, di fatto, più che legittimato a mandare avanti la sua tradizione narrativa e ad usare il suo caratteristico metro. Ennio va ancora oltre, affermando di essere non solo il successore, ma addirittura la reincarnazione di Omero, basandosi sulla dottrina pitagorica della metempsicosi. Lo stile degli Annales è elevato e solenne, ricco di arcaismi e figure retoriche, che danno prova della grande abilità poetica di Ennio.

Terenzio: tra accuse e difese

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Dicembre 2021






“Nullumst iam dictum quod non dictum sit prius”

“Non c’è nulla che non sia già stato detto”.


Questa frase riassume la poetica di Terenzio, uno dei commediografi latini maggiormente criticati dai suoi contemporanei. Publio Terenzio Afro nasce a Cartagine, probabilmente tra il 185 e il 184 a. C. Scrive sei commedie, le quali, per la maggior parte, non sono particolarmente apprezzate dal pubblico. Egli, infatti, riceve un elevato numero di diffamazioni da parte di altri autori di opere teatrali, che lo accusano di plagio e di non essere il vero autore delle commedie che porta in scena, bensì di essere un prestanome. Terenzio si difende, di volta in volta, nei prologhi delle sue commedie, che, pertanto, vengono definiti “prologhi polemici”. Qui egli afferma di prendere come riferimento modelli greci, come anche altri autori prima di lui avevano fatto. Per quanto riguarda la seconda accusa, Terenzio dichiara che, se proprio si fosse voluto credere che le sue commedie non erano di sua produzione originale, allora si sarebbe sentito onorato che i veri autori delle opere avessero scelto proprio lui come prestanome. Terenzio, tramite i suoi testi, ha intenzione di trasmettere un messaggio, che, tuttavia, non sempre risulta moralmente corretto ai nostri occhi. Per raggiungere il suo intento, egli decide di eliminare il metateatro: gli spettatori si sarebbero dovuti immedesimare nelle vicende dei vari personaggi e coglierne un insegnamento. Terenzio viene definito “modello di latinitas”, in quanto il suo linguaggio sobrio ed elegante è prototipo della raffinata lingua latina. Inoltre, viene anche considerato “modello di humanitas”: i suoi personaggi rispecchiano la fragilità degli esseri umani, che si mettono a nudo per far uscir fuori le proprie debolezze. Ciò viene enfatizzato dalla frase “Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo: niente di ciò che è umano considero estraneo a me”), pronunciata nella commedia “Il punitore di se stesso”. Tale sentenza dimostra la fiducia di Terenzio che gli uomini possano riconoscersi e aiutarsi nella reciproca benevolenza, amicizia e solidarietà, secondo il concetto greco della philantropia (la latina humanitas), con cui si intende l’amore e il rispetto per gli altri, scaturiti dalla consapevolezza della comune vulnerabilità e debolezza degli uomini, di fronte alla sorte. Nelle sei commedie si possono rintracciare delle tematiche comuni: tre sono incentrate sul tema dell’educazione; due sono generalmente definite plautine, a causa delle numerose affinità con le commedie del suo predecessore Plauto; la sesta, invece, risulta essere un caso singolare, unico nel suo genere (commedia sui generis). Si tratta di “Hecyra”, in italiano “La suocera”. Il giovane Panfilo, dopo aver intrattenuto per anni una relazione sentimentale con la cortigiana Bacchide, viene costretto dal padre Lachete a sposarsi. Decide così di prendere in moglie la figlia dei vicini, Filumena. Tuttavia, dopo pochissimo tempo dal matrimonio, i due neosposi si trovano in crisi, al punto che la fanciulla decide di abbandonare la casa, per fare ritorno all’abitazione dei genitori. In paese non si parla d’altro: l’allontanamento di Filumena dalla casa dello sposo crea scalpore; tutti si domandano quale possa essere la motivazione. Secondo il pensiero comune, la causa di tale separazione è la mamma di Panfilo, Sostrata: è infatti noto il luogo comune secondo cui tra suocera e nuora non scorra buon sangue. Tuttavia, in verità, Sostrata risulta essere una donna premurosa, che ha sempre provato ad agire nel migliore interesse del figlio e della nuora. Si verrà poi a scoprire che il vero motivo della separazione è la gravidanza di Filumena. Si scopre che la ragazza, durante una notte, era stata violentata da un giovane ubriaco, rimanendo incinta. Filumena non era riuscita a riconoscere l’uomo; l’unico dettaglio che ricorda è che egli, quella notte, strappò dal suo dito un anello. Quando Panfilo scopre della gravidanza della moglie, cerca una plausibile scusa per separarsi da lei, senza suscitare scandalo. Lachete, che non è a conoscenza della violenza subita da Filumena e della conseguente gravidanza, crede che il figlio stia cercando di lasciare la moglie, perché è ancora innamorato della cortigiana Bacchide. Decide quindi di parlare con la stessa, la quale tuttavia dichiara di non incontrare Panfilo ormai da mesi. Nel mentre, Sostrata riconosce al dito di Bacchide lo stesso anello che, una volta, era appartenuto a Filumena. La cortigiana dichiara che si tratta di un regalo ricevuto da Panfilo, in una notte in cui il ragazzo era particolarmente ubriaco. Si capisce perciò che l’uomo che ha violentato Filumena, nonché il padre del bambino che porta in grembo, è proprio il marito Panfilo. Ciò provoca immensa felicità in tutti i personaggi; tutti i problemi sono così risolti e Panfilo e Filumena possono vivere felicemente insieme. Hecyra viene definita la “commedia degli errori”. Infatti, tutta la vicenda ruota intorno ad una serie di malintesi, provocati da luoghi comuni e false apparenze. Ad esempio, quando Filumena abbandona la casa di Panfilo, tutti sono convinti che la causa sia la suocera Sostrata; pertanto, nessuno indaga sulle reali motivazioni dell’abbandono: “Sono convinto, io, che il tuo modo di fare, e niente altro, è la sua malattia. Certo è così. Non ce n'è una di voi che sia contenta che il figlio prenda moglie.” Ella, in realtà, è una brava donna, che supporta l’amore dei due giovani, al punto che, nel momento in cui teme di essere la causa della loro separazione, si offre di abbandonare la propria casa e rifugiarsi in campagna. Terenzio vuole in tal modo dimostrare come non sempre la realtà rispecchia l’apparenza o i pregiudizi a cui si è soliti credere. Tali luoghi comuni, nella commedia, non si limitano soltanto alla figura della suocera, riguardano, bensì, tutte le donne. “Tutte uguali, le donne, voglion le stesse cose, tutte, non le vogliono, tutte, e tu non ne trovi una, dico una, che sia un filo diversa dalle altre. Tutte quante sembra quasi che siano andate alla stessa scuola di malizia.” Questi pensieri rispecchiano la mentalità tradizionale della società romana: una realtà caratterizzata da maschilismo e, addirittura, misoginia, che riflette una società patriarcale, eretta sul potere del pater familias. Per questo motivo, Hecyra, all’epoca, non ebbe molto successo: venne infatti portata più volte in scena, affinché il pubblico potesse apprezzarla. Ma in realtà, tale commedia non fu particolarmente apprezzata neanche dalla critica moderna, in modo particolare per il modo in cui viene trattato il tema della violenza. Infatti, quando, alla fine, si scopre che a violentare Filumena era stato proprio Panfilo, tutti i personaggi sono felicissimi, considerano quanto accaduto un vero e proprio miracolo: poiché Panfilo è il padre del bambino, allora il matrimonio non è più in crisi e l’onore di Panfilo (più di quello di Filumena) non è minacciato. Non viene fatta leva sul fatto che l’esperienza traumatica vissuta da Filumena sia stata provocata proprio da colui che avrebbe dovuto amarla e con il quale, adesso, dovrà spendere il resto della sua vita. Di fronte ad una scoperta del genere, ci si aspetterebbe indignazione, sdegno, paura nel cuore della vittima e collera negli altri personaggi. Invece, nulla di tutto ciò avviene: l’unico sentimento che accomuna tutti i protagonisti è un senso di sollievo e di felicità. In tal modo, sembra quasi che Terenzio tendi a giustificare la violenza, sorvolando sulla gravità del fatto accaduto. Tuttavia, bisogna condividere il messaggio trasmesso dall’autore riguardo al tema delle apparenze e dei luoghi comuni: ancora oggi, nella società contemporanea, sappiamo bene che “non si giudica un libro dalla copertina”.

Plauto e il mondo alla rovescia

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Novembre 2021

Tutti abbiamo sentito parlare dell’avaro di Molière, o del parsimonioso Mazzarò di Verga, ma forse in pochi sanno che entrambi questi autori si ispirarono ad uno dei grandi padri della letteratura latina, Plauto. Egli fu un illustre commediografo romano, nato a Sarsina nel 250 a.C; per tutta la sua carriera, si occupò di commedie e, più nello specifico, di “palliate”, ossia commedie di argomento e ambientazione greci. Sebbene ci siano pervenute più di un centinaio di opere, tutte firmate a nome di Tito Maccio Plauto, solo ventuno, tra queste, possono essere con certezza attribuite a lui, in quanto presentano caratteristiche comuni, sia a livello di struttura, sia a livello di trama. Il vero protagonista delle opere di Plauto è il servo, definito “servus callidus”, in quanto caratterizzato dalla sua immensa astuzia e abilità. Egli manipola i vari personaggi, permettendo lo svolgersi stesso della commedia. Dal punto di vista stilistico, Plauto fa uso del “sermo familiaris”, un linguaggio immediato e quotidiano, talvolta osceno, all’altezza di personaggi altrettanto semplici e umili. Un’altra caratteristica di queste commedie è il cosiddetto “rovesciamento della realtà”: i personaggi sono descritti con qualità opposte rispetto a come risultavano essere nella società romana; pertanto, si può affermare che il mondo raccontato da Plauto sia un vero e proprio “mondo alla rovescia”, che genera l’effetto comico. Infatti, lo scopo di Plauto è quello di far ridere e far divertire il pubblico; affinché ciò sia possibile, egli si avvale di diverse tecniche. Innanzitutto, ricorre al “metateatro”, che consiste nell’inserimento di scene in cui i personaggi si rivolgono direttamente agli spettatori, facendo loro capire che si trovano dinanzi a pura finzione e, per questo motivo, non devono immedesimarsi nelle vicende, cercando di trarne una morale, ma devono solo godersi lo spettacolo e divertirsi. Un’altra tecnica ampiamente utilizzata è la “commedia di carattere”: Plauto si sofferma su una determinata qualità di uno specifico personaggio e ne fa una caricatura. Tale tecnica viene usata nella commedia de “L’Aulularia”. Il protagonista è il parsimonioso Euclione, il quale possiede una pentola piena d’oro, che ha ereditato dal nonno. Nonostante la pentola sia sepolta nel giardino della sua casa, al sicuro da occhi indiscreti, Euclione vive con la costante paura che possa essere rubata: per questo motivo, si aggira sempre con fare sospetto, convinto che chiunque gli si avvicini conosca il suo segreto e stia tramando un piano per derubarlo. Euclione ha una figlia, Fedra, la quale, durante una festa, è stata violentata da un giovane, Liconide, che si dichiara innamorato della fanciulla. Allo stesso tempo, lo zio di Liconide, Megadoro, un uomo maturo di mezza età, chiede ad Euclione la mano della figlia. I due, non a conoscenza della violenza subita dalla ragazza, concordano nell’organizzare il matrimonio la sera stessa (chiaramente tutto a spese di Megadoro!!!). Cuochi, flautiste e servi vari irrompono nella casa di Euclione, che, temendo per la sua pentola, decide di nasconderla nel tempio della dea Fede. Nel frattempo, Liconide viene a sapere delle nozze che avranno luogo tra la giovane da lui amata e suo zio; ritiene allora di dover confessare a Megadoro la violenza che ha commesso, nella speranza che rinunci al matrimonio e permetta a Liconide di sposare Fedra. Contemporaneamente, Liconide chiede al suo servo Strobilo di andare a reperire informazioni riguardo ai preparativi per le nozze. Questi si reca proprio nel tempio dove si trova Euclione e scopre il nascondiglio della pentola, che decide, allora, di rubare. Euclione è sconsolato: la sua più grande paura è diventata realtà. In questo momento di sconforto, si avvicina a lui Liconide, che ammette di aver violentato Fedra e che, per questo motivo, il matrimonio con Megadoro è annullato. Tuttavia, il giovane afferma di essere innamorato della fanciulla e, pertanto, pronto a prenderla in moglie, se Euclione lo permetterà. Il vecchio, più interessato alla sorte della pentola che a quella della figlia, chiede a Liconide di fargli una promessa: se verrà a sapere chi ha rubato la pentola, glielo riferirà immediatamente; così potrà prendere in moglie Fedra. Liconide lo promette, pur non sapendo che è stato proprio il suo servo a commettere il furto. Di ritorno presso la sua abitazione, il giovane si imbatte in Strobilo, che dichiara di aver derubato il vecchio Euclione. Acconsentirà a consegnare la pentola al padrone Liconide, in cambio della libertà. La parte successiva della commedia, che coincide con il finale, a noi non è giunta. Possiamo, tuttavia, prevedere dal prologo che Liconide concederà la libertà a Strobilo e si farà così consegnare la pentola, che restituirà, a sua volta, ad Euclione, il quale permetterà a Liconide e Fedra di sposarsi. Tema centrale della commedia è, come si può intuire, il carattere del protagonista, Euclione. L’avarizia che lo caratterizza è talmente evidente, che persino il suo nome significa, letteralmente, “colui che chiude bene”. Si tratta di un esempio lampante di “nomi parlanti”, altro particolare delle commedie plautine: Plauto attribuisce ai suoi personaggi nomi che rimandano alle qualità che li contraddistinguono. Tornando alla storia, in paese tutti conoscono Euclione come un vecchio un po’ squilibrato, che passa le giornate a lamentarsi della sua povertà. Ciò risulta evidente dalle numerose frasi pronunciate da servi, cuochi e flautiste in riferimento al vecchio. “Per Ercole, quando si lava piange, per l’acqua che va persa.” “Quello, quando va a dormire, s’attacca alla bocca un soffietto, per non perdere, mentre dorme, neanche un poco di fiato.” “Per Ercole, lui non ti darebbe nemmeno la fame, se gliela chiedessi in prestito.” Si può quindi notare come, malgrado le ricchezze da lui possedute, Euclione rimane, nell’apparenza e negli atteggiamenti, un uomo povero e miserabile. Inoltre, dalla commedia traspare il peso che il matrimonio ricopriva nella società romana. Come una lunga tradizione di re ed imperatori ci insegna, un uomo senza figli non aveva nessuno a cui tramandare i suoi averi e il suo prestigio, motivo per il quale il matrimonio diventava, ad un certo punto della vita, una scelta obbligatoria. Proprio basandosi su questi presupposti, lo zio Megadoro decide di prender moglie. Tuttavia, nonostante gli uomini agiati, in genere, chiedessero in sposa donne con una ricca dote, Megadoro opta per la giovane e povera Fedra. Ciò che può sembrare una dimostrazione di disinteressamento nei confronti della ricchezza è, in realtà, una decisione astuta. Secondo Megadoro, sposare una ragazza senza dote assicura all’uomo un maggiore potere e controllo sulla donna. Ciò denota come, per il vecchio, la donna doveva essere posta in una condizione di inferiorità rispetto al marito, nonché di dipendenza economica. La moglie era tenuta ad obbedire al marito, in quanto da lui dipendente e a lui sottomessa.

La seguente frase, tratta da un monologo di Megadoro, riassume perfettamente il suo pensiero: “È certo: se anche gli altri facessero come me, sposando le figlie dei più poveri, portandosele a casa senza dote, in città ci sarebbe più concordia, e quanto! Noi ricchi saremmo meno invidiati, le nostre mogli avrebbero maggior timore di comportarsi male, e noi spenderemmo meno di quel che ora spendiamo.”

Questo è uno specchio della società romana, una società patriarcale, in cui le donne dovevano sottostare al potere del pater familias. Infine, un ultimo tema affrontato nella commedia è quello della violenza sessuale. Fedra è stata violentata da Liconide; tuttavia, nessuno sembra davvero preoccuparsi della gravità del terribile atto commesso. L’unica conseguenza negativa derivante dalla violenza pare essere la reputazione e l’onore non della fanciulla, bensì di colui che la prenderà in moglie. L’indifferenza che tutti i personaggi, nonché Plauto stesso, dimostrano nei confronti della vicenda, prova come la violenza sessuale, all’epoca, non fosse considerata tanto grave quanto lo è ai nostri giorni; ciò è anche dimostrato dagli innumerevoli miti greci e romani, in cui l’atto dello stupro è decisamente ricorrente.

Alle origini della letteratura latina

di Sofia Picciolo e Antonella Trebisacce, 3ALS

Ottobre 2021

La letteratura latina nasce per influsso greco, a seguito del fenomeno dell’ellenizzazione, che coincide con l’inizio dell’espansione dei domini romani. Il periodo storico precedente prende il nome di età preletteraria. In questi anni, iniziarono a diffondersi le prime forme letterarie (dapprima in forma orale, poi scritta), che porranno le basi per lo sviluppo della cultura latina. Prima della fondazione di Roma (e nella fase immediatamente successiva), regnavano le forme orali, comprensibili da tutta la popolazione, sia i ricchi che i poveri. Tra queste, le più note erano, specialmente, quelle di carattere religioso, che prendevano il nome di carmina. Si trattava di preghiere propiziatorie, che venivano rivolte agli dei, affinché il raccolto potesse essere abbondante; erano caratterizzate da formule ed espressioni fisse, così da poter essere più facilmente ricordate. Esse non potevano essere pronunciate da tutti, ma soltanto da determinati frati. Tra i carmina, spiccano il “Carmen arvale”, che veniva recitato dai “Frati arvali” (da arva=campi coltivati), e i “Carmina saliaria”, che venivano proferiti dai “Frati Salii” (da salio=salto). La differenza tra queste due preghiere stava nel fatto che i frati Salii, durante la recitazione dei testi, “saltavano”, ossia accompagnavano la cerimonia a delle danze propiziatorie. Inoltre, in ambito privato, si diffusero formule di tipo celebrativo: le “laudationes funebres”. Si trattava di elogi funebri, che, durante il funerale di un personaggio illustre o del pater familias, venivano recitati dal parente maschio più prossimo. Ancora, quando i romani celebravano una manifestazione con un banchetto, venivano pronunciati i “Carmina convivalia”; quando, invece, veniva festeggiata una vittoria militare, al rientro del generale venivano enunciati i “Carmina triumphalia”. In seguito, iniziarono a circolare le forme preletterarie scritte. Le prime iscrizioni, in latino arcaico, furono rinvenute su degli oggetti, che i latini erano soliti spedire come doni, su cui incidevano delle dediche, composte dal nome del mittente, il nome del destinatario e il luogo di fabbricazione. Tra i ritrovamenti più rilevanti, ci sono la “fibula Praenestina”, la più antica iscrizione in assoluto, che era una spilla, e la “cista Ficoroni”, che, invece, era una boccetta di unguenti. Si trattava di reperti di tipo funerario/celebrativo, poiché vennero ritrovati specialmente nelle tombe. Man mano che si diffuse la scrittura, anche le laudationes funebres iniziarono ad essere poste in forma scritta, sulla superficie delle lapidi. In più, in ambito pubblico, un importante esempio di forme scritte è rappresentato dagli “Annales maximi”, una sorta di antenati dei calendari (istituiti dal pontefice massimo), in cui venivano riportati gli eventi più rilevanti accaduti in un determinato anno, nonché le celebrazioni, i giorni fasti e nefasti. I documenti scritti si diffusero anche nel campo del diritto. Ciò accadde a seguito della Secessione dell’Aventino, quando la magistratura del decemvirato venne incaricata di mettere per iscritto le leggi, fino a quel momento trasmesse dai patrizi in forma orale (e da loro modificate all’occorrenza). Nacquero così le “Leggi delle XII Tavole”, prima forma scritta di diritto romano. Quando Roma iniziò ad espandere i propri confini, la cultura romana entrò in contatto con quella greca. Questo incontro diede il via al fenomeno dell’ellenizzazione, un processo lungo, che iniziò nel momento in cui le famiglie aristocratiche romane cominciarono ad assumere dei precettori greci, per l’educazione dei propri figli. Da questo momento in poi, si può parlare di letteratura latina. Il primo autore fu Livio Andronico. Egli era originario di Taranto (all’epoca colonia greca) e giunse a Roma come schiavo, per poi divenire precettore dei figli del suo patrono. Fu, successivamente, affrancato, ossia reso libero. Egli fu molto importante nell’ambito della traduzione: tradusse il poema omerico dell’Odissea, a cui attribuì il nome “Odusìa”. È nella traduzione di Andronico che, per la prima volta, il protagonista Odisseo venne chiamato Ulixes; così, noi oggi lo conosciamo, comunemente, come Ulisse. Inoltre, compose alcune tragedie e commedie di matrice greca, in cui gli ambienti, i personaggi e talvolta anche i titoli derivavano da già esistenti opere teatrali greche. Insieme a Livio Andronico, anche l’autore Gneo Nevio viene considerato il padre della letteratura latina. Egli proveniva dalla Campania e partecipò alla Prima guerra punica. Sarà questo avvenimento storico il tema centrale della sua più grande opera, “Bellum Poenicum”. Si tratta di un’opera epica, che si rifaceva ai poemi greci di Omero. Il tema principale è, chiaramente, la guerra, a cui si aggiunge l’avventura. Infatti, la prima parte dell’opera narra la storia della nascita di Roma, mentre, la seconda, si incentra sulla Prima guerra punica. Quest’opera rese Nevio l’iniziatore dell’epica latina. Inoltre, tale autore si dedicò alla stesura di commedie e tragedie; in particolar modo, il grande merito che gli si attribuisce è l’aver ideato il genere della “praetexta”, ossia della tragedia di argomento romano. Dunque, questi due autori, insieme, rappresentano le origini della letteratura latina.