Presso i Greci e i Romani, il simposio era quella pratica conviviale (da qui anche chiamato convivio), che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti conviviali, si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi ecc.).
Il simposio era il convegno dei cittadini maschi adulti al banchetto e agli intrattenimenti che lo animavano, e cioè la conversazione arguta e colta, la musica dell'aulòs, strumento a fiato quasi sempre a due tubi e della lyra, la compagnia di bei giovani e ragazze compiacenti, i giochi e gli spettacoli. Il simposio, nello spirito greco, condensa ed esemplifica quei valori che rendono nobile l'uomo. Si tratta una vera e propria forma di conoscenza, magari parziale, cui si accede proprio attraverso il simposio e l'abbandono alle sue pratiche: la conversazione, il vino, l'eros, il canto, la musica, la poesia, la danza. Il kòmos, la baldoria che seguiva il simposio, era un'importante componente nella vita della polis greca. Celeberrima è, ad esempio, la scena dell'irruzione, nel Simposio platonico (416 a.C.), di Alcibiade, la testa inghirlandata, completamente ebbro e sorretto dalla sua combriccola:
« Poco dopo si udì la voce di Alcibiade nel vestibolo, ubriaco fradicio e che gridava forte, chiedendo dove fosse Agatone e di condurlo da Agatone. Fu portato tra i convitati sorretto dalla flautista e da alcuni altri del gruppo: rimase sulla soglia, con una folta corona di edera e viole sul capo, e una gran quantità di nastri. »
(Platone, Simposio 212d-e)
Qualcuno ha definito la polis come un luogo per soli uomini. Il banchetto si teneva in un'ala separata della casa, nella quale non era consentito l'accesso alle donne sposate e ai bambini. Il simposio e il banchetto, alla maniera greca, conobbero un'immensa fortuna nella società etrusca, che li assimilò e li fece propri, adattandoli alla diversa sensibilità sociale e spirituale. Le immagini ad essi connesse divennero una fonte iconografica per le rappresentazioni dell'arte funerea.
Veniva fatto girare un recipiente di vino non diluito in modo che ciascuno potesse riempire la propria coppa e berne per poi offrire una libagione a Dioniso, accompagnata dall'invocazione del suo nome. A questo punto si cantava un inno al dio, il peana: si tratta di una forma lirica greca, inizialmente di derivazione dialettale dorica, dedicata alla celebrazione del culto di Apollo e Artemide. Il suo uso si diffuse in tutto il mondo greco che lo destinò al culto di tutti gli dei olimpici, per poi estenderlo ad altri usi, come la celebrazione degli uomini illustri. Se ne conosce bene anche l'uso propiziatorio negli istanti che precedevano la battaglia. Nei Persiani di Eschilo (472 a.C.), si descrive l'effetto terrificante prodotto dall'ascolto del «nobile peana», che i persiani udirono levarsi dall'altra parte dello stretto di Salamina. Lo cantavano i greci, in coro, prima di lanciarsi «in battaglia con cuore intrepido», e solo dopo, a garanzia del buon andamento del simposio, veniva nominato o estratto a sorte con gli astragali, un simposiarca, con il compito di garantirne la riuscita. A lui spettava di stabilire e far osservare le regole del gioco: le proporzioni da rispettare nella miscelazione del vino, la quantità spettante a ciascuno, le regole della festa. Una regola non convenuta, ma spesso seguita, doveva essere la stessa sana trasgressione delle regole: in tal caso la punizione comminata dal simposiarca era bonaria, spingendosi tuttalpiù a qualche blanda forma di penitenza canzonatoria. Il simposio non poteva essere celebrato prima del tramonto; anche se poeti, come Alceo, incitavano a bere sempre, in presenza del sole o meno.
Vi erano giovani donne, appositamente convocate, che suonavano l'aulòs e danzavano: le etere, le uniche donne ammesse al simposio. La musica aveva un ruolo importante nella convivialità simposiaca. Oltre all'aulòs si suonava la lira o, spesso, la cetra. Sulle raffigurazioni vascolari compaiono più raramente il crotalo e piccoli tamburi.
A cantare e suonare non erano solo i musicisti ma spesso, a turno, gli stessi convitati, che si esibivano in uno nei già citati skòlia. I canti conviviali, nati a Lesbo nel VII secolo a.C. ma diffusisi presto in tutta la Grecia, finirono per diventare un vero e proprio genere letterario, non di sola matrice aulica, ma anche di impronta popolare. I canti popolari andarono a costituire un vasto corpus, la cui esistenza si reggeva sulla tradizione orale, ma che non disdegnavano nemmeno di cimentarsi in danze ed acrobazie, a volte mostrando, anche a causa dei fumi alcolici, una perizia e una destrezza non sempre impeccabili, come evidenziato dalle posture scomposte immortalate in alcuni vasi.
Chi non sapeva suonare sottolineava il ritmo del suo canto segnando il tempo con ramoscelli, di alloro o di mirto, gli àisakos.
Durante il simposio, a differenza di quanto avveniva nel banchetto, si beveva abbondante vino accompagnato da assaggi della tipica alimentazione greca: formaggio, olive, frutta secca o esotica, assaggi di stuzzichini salati o piccanti. Giovani coppieri mescolavano il vino all'acqua in grandi vasi, spesso all'esterno delle stanze del simposio, e mettevano il liquido dentro speciali brocche da vino, le oinochoe, e da queste in tazze per bere: l'elegante e prestigiosa kylix, lo skyphos, la kotyle, o più raramente e in epoca più tarda, il kantharos, la tazza dagli alti manici ricorrente nelle raffigurazioni dei rituali al dio Dionisio. Nella stagione calda il ghiaccio sostituiva spesso l'acqua oppure il vino tenuto in freddo in un apposito recipiente, lo psyktèr, a sua volta immerso nel ghiaccio. Nella miscela l'acqua era in misura maggiore. Un vino troppo ubriacante era considerato un'usanza barbarica. Tuttavia occorre ricordare che le libagioni, specialmente di bevande inebrianti, sono ricorrenti in tutte le forme di simposio o banchetto almeno dei popoli indeuropei e hanno dato origine sia a specifici generi di discorso ('brindisi', promesse, voti, vanterie) sia a veri e propri motivi letterari e culturali
Per i Greci il vino era il dono di Dioniso, divinità giunta da remote terre asiatiche, ed era l'essenza stessa della civiltà; l'ebbrezza che esso causava era vista come una compensazione degli affanni della vita, a patto di farne un uso giudizioso. I Greci, infatti, bevevano raramente vino puro e avevano piena coscienza dei rischi che comportava un uso smodato. Sul retro di molte kylikes di età arcaica compaiono spesso dei grandi occhi spalancati. Sollevando la tazza alle labbra e inclinandola per bere, gli invitati si trovavano ad indossare quasi una maschera che ricorda indubbiamente il volto della Gorgone, una delle più selvagge e feroci creature del mito.
Oltre al bere e al conversare, i convitati si dedicavano a vari intrattenimenti ludici, in genere indovinelli ed enigmi, attestati in considerevole numero: il lessicografo greco Giulio Polluce (II secolo d.C.), nel suo Onomastikon, arriva ad enumerarne addirittura cinquantadue.
Dal banchetto conviviale greco, divenuto palestra di sapienza, nacque un genere letterario che ebbe cultori specialmente fra i socratici (Platone e Senofonte su tutti). La successiva letteratura conviviale prese a modello quei primi esempi e trasformò il genere in vero e proprio dialogo; esso fu usato in età ellenistica per opere di erudizione (Plutarco, Ateneo, Macrobio), mentre ebbe carattere parodistico e caricaturale con Luciano e con Petronio.
"E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu! Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita! Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti!"
E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito:
"Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là".
Socrate si siede e fa: "Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimoni!"
"Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare".
E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie d'uso, ci si preparò a bere.
"E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista che è appena entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico".
Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo:
"Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, «perché non son mie queste parole», che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato: «Non è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana composti dai poeti e che in onore dell'Eros, un dio così potente, così grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama: scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico.
Ma c'è di peggio. Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogio del sale, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'Eros, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita! Ecco come ci si dimentica di un grande dio!» Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito; adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio.
Se siete d'accordo, avremmo così un argomento senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'Eros, il più bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parlerà per primo, perché è al primo posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea".
"A dir la verità, Erissimaco, - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania.
Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, così potrete essere maestri a vostra volta.
Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente.
Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina.
Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere.
Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.
Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa.
[190] Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra64. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso.
Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.
Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea.
«lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri65». Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66.
Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura -quella che adesso chiamiamo ombelico.
[191] Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio.
Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.
Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo67. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione68 dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie;
ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso.
[192] Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi nell’occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto – è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte.
Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore72: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza73. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: «Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?» A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'amato. Non più due, ma un essere solo75.
La ragione è questa, che la nostra natura originaria76 è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore.
[193] Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto78, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene.
Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.
Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros.
Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros.
Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo.
Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo: «Ma come Diotima? Allora Eros è cattivo e brutto?»
«Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?»
«Ma certo!»
[202] "E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza?»
«E qual è?»
«Avere un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza».
«E' vero», risposi.
«Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra questi estremi104».
«Però - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente».
«Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?»
«Io parlo proprio di tutti».
Diotima si mise a ridere. «Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è affatto un dio?»
«Ma chi dice questo?» dissi io.
«Tu per esempio - disse - ed anch'io!»
Ed io: "Ma cosa dici?»
«E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?»
«lo non oserei proprio», risposi.
«Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?»
«Certo».
«Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano».
«È vero, ero d'accordo con te su questo».
«E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?»
«Sembra impossibile, in effetti».
«Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio».
«Chi sarà dunque Eros? un mortale?»
«No di certo».
«E allora?»
«E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale».
«Che vuoi dire, Diotima?»
«E' un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli dèi».
«Ma qual è il suo potere», chiesi.
«Eros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito.
[203] Da lui viene l'arte divinatoria107, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros».
«Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre?»
«E' una lunga storia109 - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros110, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Eros111. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per natura amante della bellezza - e Afrodite è bella.
Proprio perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi112, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi113. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è mai ricco.
[204] Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere.
E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza».
«Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?»
«E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra le cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse115.
Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone116. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità. Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto».
Io allora ripresi:
«E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser utile a noi uomini?»
«Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine: ama le cose belle, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando si ama?»
«Noi desideriamo118 che l'oggetto del nostro amore ci appartenga», risposi io.
«Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle?»
Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile.
«E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera?»
«Che siano sue», risposi.
«E cosa accade all'uomo che le possiede? »
«In questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice».
[205] «In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità abbiamo già toccato il fine ultimo del desiderio».
«E' vero», dissi.
"Ma questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi»,
«E' così, questa volontà è comune a tutti».
«Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?"
«Sono stupito anch'io di questo», risposi.
«Non devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi».
«Mi fai un esempio?», chiesi.
«Certo. Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi. La creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti."
«E' vero».
«Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli artisti».
«E' vero», dissi.
«Ed è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per tutti "amore possente, Eros ingannevole". Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati».
«Sei proprio convincente», risposi.
«Molti dicono, però, che amare significa cercare la propria metà121. Io non sono d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei mali.
Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene122. Non la pensi così anche tu?»
[206] «Certo, per Zeus», risposi.
«Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?»
«Sì».
«E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è buono?»
«Certo che dobbiamo».
«E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre».
«Dobbiamo aggiungere anche questo».
«Quindi - disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono?»
«E' così», dissi.
«Se è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire? »
«Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai».
«Allora - riprese -, te lo dirò io: amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza».
«Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto».
«Mi esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non può avvenire se non c'è armonia123: e non c'è armonia tra la bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea.
Ma quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta ancora dentro il suo seme fecondo, e ne soffre. Per questo chi sente la propria creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate, come tu credi».
«E cosa allora?»
«Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza».
«Ammettiamolo», dissi.
«E proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [207] Ora, il desiderio d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità».
Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese:
«Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?»
Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese:
«E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo?»