Un breve incontro per conoscere meglio l’architetto Beniamino Servino



Figura poliedrica del panorama contemporaneo, Beniamino Servino sin da subito ha dimostrato la sua diponibilità nell’aprire un dialogo. L’obiettivo è stato quello di instaurare un primo punto di contatto che potrà portare poi a successivi confronti. L’intervista è stata svolta in maniera telematica tramite una videochiamata, dove ho prima di tutto introdotto il mio lavoro di tesi, che appartiene al meta-progetto del Professor Antonino Saggio: “UNLost Territories - The Aniene Rims: riqualificazione delle sponde del Fiume Aniene” (Roma), spiegando i motivi che mi hanno portato a questa intervista.



Nel panorama contemporaneo la sua professione è quella di architetto, ma le sue opere più famose sono i suoi disegni. Cosa la spinge a farsi conoscere tramite i disegni piuttosto che tramite le opere realizzate?

Questa domanda mi crea sempre un piccolo disturbo, perché io nasco ed esercito la professione di architetto, sono un progettista e i miei disegni mi servono per costruire la forma dell'architettura, nonostante la mia attività di progettista ha visto poche opere realizzate (qualche mio lavoro è sul sito Divisare). Questo, comunque, non mi impedisce di continuare ad elaborare progetti di architettura, a costruire delle storie di forme, che rimangono disponibili all'uso qualora ce ne sarà un'occasione reale. In quel caso, in tempi abbastanza veloci riesco ad elaborare un prodotto. Di volta in volta scelgo dal mio archivio di forme e di edifici già compiuti, quello che mi sembra più adatto all'occasione, e lo vado a calare in quel contesto specifico. Il passo successivo è quello di adattare la dimensione e la funzione che quella forma dovrà poi avere, forma che ho già precostituito in un ambiente asettico. Importate a questo punto è il discorso della leggibilità: se questa condizione di adattamento lo deforma al punto da renderlo incomprensibile rispetto alla sua idea originaria, tolgo quel pezzo e ne scelgo un altro. Quindi la mia ricerca è finalizzata alla costruzione dell'architettura attraverso la sua forma, e lo strumento che più utilizzo, cioè quello del disegno, serve proprio a confezionare una serie di prodotti già pronti, per un uso reale, in attesa di un agire concreto.

Unendo tecniche diverse (disegno tradizionale, digitale e collage) realizza queste sue visioni di città. Quale è l’innesco del processo creativo? Quale è l’elemento che cattura la sua attenzione?

Di recente mi è capitato di essere stato incaricato per una consulenza al Piano Urbanistico Comunale di Caserta, un’assistenza non tanto per la costruzione di una serie di norme urbanistiche, ma piuttosto per un’idea di città. A me interessa molto la forma di una città, anche se ho una interpretazione più umanistica e rinascimentale. Nella forma della città, vado poi ad individuare quelle zone in cui è ancora possibile l'intervento.

Per esempio, nel caso di Caserta, c'è tutta una parte che da Oriente si spinge verso le montagne, molto frastagliata e dispersiva, oppure ci sono altre zone come le cave, grandi crateri che sembrano quasi delle ferite, e altre parti ancora… dove di volta in volta, vado ad immaginare una possibile risoluzione di questi spazi urbani. Per fare ciò, utilizzo ancora una volta questi elementi che sono parte del mio vocabolario espressivo, che costruisco da anni attraverso varie stimolazioni che possono essere reali cioè osservo dei luoghi o degli edifici, li fotografo e poi li ridisegno oppure lavoro su immagini recuperate da internet o ancora intervengo su architetture del passato di autori più o meno noti, riscrivendo queste forme, andando a creare un repertorio. Quando mi capita poi di osservare delle parti di città, penso alla trasformazione di queste zone attraverso il mio vocabolario, quindi vado a collocare in questi luoghi queste forme che sono già compiute. Ottenendo immediatamente la restituzione di uno spazio nuovo e di una dimensione nuova. Vado quindi a fantasticare e prefigurare delle città dove le lacune e i momenti di crisi siano risolte da queste architetture preordinate.

Quanto influisce il colore nella trasposizione del suo pensiero? Mi affascina molto osservare come in ogni sua opera vengono utilizzati talvolta forti contrasti e talvolta colori più omogenei. Cosa vuole comunicare attraverso il colore?

Il progetto di architettura così come la ricerca della forma dell'architettura è un'operazione di lettura interiore, un processo psicoanalitico e sicuramente autobiografico. Dipende quindi anche dai momenti e dai periodi. Decenni fa ero molto più sensibile e legato ad un approccio politico dell'architettura e della città, lavoravo molto su temi sociali, su architetture degradate e parti di città abbandonate. Il mio lavoro era quello di pensare l'architettura come atto politico, come forma di riscatto di alcune parti della comunità. In quei momenti, nei primi anni della mia ricerca, i materiali che utilizzavo erano molto materici. Ho usato la pietra e il tufo, ho disegnato parti di città utilizzando gli archetipi delle architetture minori di cui è disseminata la città e la campagna.

Con il tempo, invece, ho avuto una forma di delusione politica, da quando il popolo non esiste più ed è diventato gente. Da lì ho un po' rivisto la mia visione politica e di conseguenza il mio modo di immaginare l’architettura, che è diventato più personale, più immaginifico e più onirico. Ho quindi cominciato a recuperare memorie infantili, oggetti della mia fantasia quasi a volermi costruire un mondo parallelo di sogni e di speranze, molto personale.

Il colore interviene in questa seconda fase (la più recente) a costruire un mondo parallelo e distaccato che porti speranza e gioia, ma soprattutto che lasci all'architettura il compito originario che è quello di produrre meraviglia e stupore.

L'architettura deve proprio fare questo: deve produrre meraviglia.



L’architettura è fatta dall'uomo e per l'uomo. Eppure nelle sue opere non compare quasi mai la figura antropica. Come mai?

È vero che l'architettura nasce per risolvere delle esigenze umane ma poi si astrae da queste, e si sublima nella forma pura - vacua forma. Fortunatamente le grandi architetture, o meglio l'architettura con la A maiuscola, resiste e sopravvive alla funzione che l'ha generata e quando diventa forma pura, quindi quando l'edificio si sublime in forma, perde anche la sua misura e la sua dimensione, di conseguenza il confronto con la scala umana è un quesito che non è necessario. O meglio, lo diventa solo nel momento in cui quella forma deve diventare edificio. Ma se resta nell'ambito della ricerca allora può anche farne a meno.



Le sue ricerche si concentrano sui “luoghi dell'abbandono” e sulle “pennate”, questo interesse deriva dalla sua storia? È legato alla sua città natale o è una crisi avvertibile in tutta l’Italia?

No, come ti accennavo prima questa ricerca, soprattutto delle pennate e dei luoghi dell'abbandono, appartiene ad un momento della mia vita che in qualche maniera è compiuto, e sta lì. La pennata è una specie di architettura, di nucleo, costruito nelle campagne casertane e campane, ma se ne trovano tracce in tutto il mondo.

È un’architettura costruita senza una regola costruttiva reale, la può costruire anche chi non ha mai studiato la statica o la tecnica delle costruzioni. È un modo per edificare un riparo per le derrate alimentari, per le macchine agricole, ma aveva, anzi HA la grande forza di essere un elemento altamente riconoscibile, archetipico. Ho lavorato a lungo su queste tracce di architetture minori perché mi interessava costruire una forma partendo dal basso che potesse essere riconosciuta da quella fetta sociale che di solito si sente imporre, anzi vive l'imposizione di forme date dall'alto, nelle quali non ci si riconosce. Era un modo politico per costruire, dal basso, una forma in cui ci si poteva riconoscere. Poi col tempo ho cambiato un po' la mia prerogativa, ho cominciato a ragionare sull'astrazione dell'architettura.

Quale è stata la sua prima pennata? Quando è avvenuto questo imprinting? E come ha realizzato l’importanza di questo tema?

La prima volta la ricordo bene, era il 1998-99. La data corrisponde alla costruzione di un edificio nella campagna casertana, nella valle del fiume Volturno: Casa con Padiglione.

È un edificio residenziale con annesso un padiglione dove poter svolgere degli eventi, feste e cerimonie. È una forma vuota tenuta da colonne troncopiramidali. La mamma del committente, una signora molto semplice di origine contadina, entrando in questo ambiente imponente aveva notato, con un certo disgusto, che questa cosa le ricordava le pennate, lo definì un “pennatone”. Rimase sorpresa che un architetto avesse voluto costruire un pennatone, un edificio della sua memoria storica, che in qualche maniera la rimandava a delle architetture minori. Questo, che poteva sembrare una sorta di disappunto, mi ha aperto alla riflessione di cosa significa la riconoscibilità: quando un’architettura diventa riconoscibile? Questa cosa mi ha incuriosito molto, ho quindi cominciato a fare una ricerca su queste pennate e mi sono accorto che erano dei manufatti, di dimensione anche molto modeste, ma che avevano però un elemento comune: rappresentavano un archetipo.

Da qui ho cominciato a ridisegnarle, ad elaborarle, a cercare di portarle in una dimensione ipertrofica per capire se queste trasformazioni dimensionali potessero conservarne la riconoscibilità. Nasce quindi questa lunga ricerca sulle pennate, come elemento archetipico, che potesse essere utilizzato per interventi in alcune parti del territorio per poter ospitare funzioni diverse, ma che potessero comunque avere un senso di appartenenza e di generazione dal basso.

Le pennate rappresentano la sua soluzione alla crisi dell’abbandono dei fabbricati industriali, crisi che appartiene alla “vecchia generazione”. Quale sarà secondo lei la prossima crisi e di conseguenza la pennata del futuro?

Diciamo che la crisi interviene laddove c'è una ferita, una frattura o una cesura tra l’edificato, il costruito e la memoria personale di chi lo abita. C'è un termine che viene molto spesso utilizzato, senza però coglierne la matrice etimologica, che invece è altamente indicativa e risponde anche alla tua domanda: che è SIMBOLO.

Simbolo deriva dall’antica Grecia: in questi luoghi era solito prendere un bastoncino e spezzarlo a metà, affinché le due persone che avevano i due pezzi di legno, ricongiungendoli potessero riconoscersi. Come nel caso dei bambini lasciati alla Ruota Degli Esposti e quindi abbandonati, a questi bambini si lasciava una mezza medaglietta che permettesse poi il riconoscimento in età adulta della mamma. Allora i due bastoncini greci o la medaglietta, che ricomposti ricostituiscono l'unità, è un segnale di riconoscimento, quindi simbolo significa proprio riconoscimento. Nel momento in cui chi abita riconosce e si riconosce nell'edificio o nella città che abita allora c'è un equilibrio, quando questo riconoscimento viene a mancare allora c'è la crisi.


Quindi per evitare la crisi dobbiamo sperare di riconoscerci sempre nei luoghi della città?

Esattamente, dobbiamo augurarci di riconoscerci attraverso il repertorio di immagini che ognuno di noi costruisce nella propria memoria, e che ci fa sentire nel posto giusto, ci fa evitare il senso di spaesamento.

L'architettura, il simbolo tende a cancellare il senso di spaesamento e a ricostruire la sensazione di familiarità, di appartenenza e di adeguatezza. Quindi l'augurio che si può fare è di continuare a costruire dei luoghi in cui ci sentiamo appartenenti e non estranei.



In una conferenza presso SAAD - Scuola di Ateneo Architettura e Design _ UNICAM (marzo 2021) ha esplorato il concetto di contemporaneità: « I frammenti di paesaggio sono vivi nello stesso momento in cui sono vivo io. Questo approccio “schiaccia” tutti gli elementi su un unico piano: quello del presente. »

Ma l’architettura è soggetta al tempo, altrimenti non esisterebbero i luoghi dell’abbandono. Siamo quindi giunti ad un paradosso?

Il concetto di contemporaneo è proprio questo: le cose sono vive mentre vivo io. Questo concetto annulla il tempo passato e futuro e schiaccia tutto sul tempo del presente. Questo significa che le forme che appartengono al passato e quelle che arriveranno dal futuro sono utili, o meglio utilizzabili, solo se sono “schiacciate” sul tempo del presente.

È possibile lavorare con queste forme quando queste sono tutte sullo stesso piano di una scrivania, e allora comporre insieme, innestare, trasformare le forme è possibile solo se sono utilizzabili e disponibili sullo stesso piano: il presente. È un modo per poter rendere praticabile il metodo del progetto, che è quello della trascrizione delle forme. Trascrizione significa riscrittura, significa intervenire con degli innesti e modificazioni senza preoccuparsi della lettura diacronica, cioè quella lettura che va in profondità e che mi fa collocare quella forma in un determinato periodo. A me interessa quella specifica forma SE può essere utilizzata insieme ad altre forme che appartengono a due date diverse, e questa utilizzazione simultanea e sincronica mi dà la possibilità di combinarle insieme, di modificarle, generando nuove forme. Questo è possibile solo quando tutti questi oggetti sono appoggiati su di un unico piano, diversamente dovrei andare a cercare sotto la scrivania o chissà dove. Questo unico piano, quello del presente, rende tutte le forme dell'architettura contemporanee tra loro.



Nella stessa conferenza dice: « L’aspirazione dell'architettura è quella di rudere e nella sua condizione di rudere l'architettura perde la funzione che l'ha generata, e si mostra come scatola vuota, come forma vuota. Questa è la vera essenza dell'architettura: forma vuota e libera dalle funzioni. »

La scissione di questi due elementi cosa comporta? La parte funzionale dell’edificio ne uscirà depotenziata? Perché l’una è più importante dell’altra?

Se l'architettura avesse dovuto risolvere i bisogni dell'uomo non sarebbe mai nata. I bisogni dell'uomo possono essere risolti da qualunque altra disciplina, chiunque può costruire una stalla o un riparo per la pioggia o qualunque altra cosa. L'architettura nasce per costruire dei simboli, per costruire una spiritualità. La dimostrazione che sia questo il significato antico, intimo e profondo dell'architettura è proprio che le grandi architetture resistono alle funzioni che l'hanno generata, resistono perché conservano un involucro che è quello che poi fa riconoscere un edificio rispetto ad un altro, o lo identifica rispetto ad un altro, perché gli attribuisce dei valori che vanno aldilà della funzione. Il rudere mostra in maniera netta ed esplicativa questa definizione, perché si resta colpiti dalla vita dell'architettura anche se non ricordiamo più cosa poteva svolgere, quale era la pratica che teneva in vita quell'edificio. La forma conserva una forza, che è lo spirito originario della costruzione.

A questo proposito mi ricollego anche al tema della cattedrale, da me molto indagato. La cattedrale è la rappresentazione più visibile dell'idea di architettura forma-vuota, cioè di architettura come vacua forma, e insieme alla cattedrale anche il tendone del circo è una forma vuota. Questi due esempi rendono molto l'idea dell'architettura come ospitante e non come un'architettura che nasce per ospitare. L'architettura si costruisce a prescindere da quello che ci si farà dentro. In una cattedrale chiunque potrebbe immaginare delle funzioni, si potrebbero costruire delle stanze, un ospedale, una mensa, una scuola ma non possiamo fare l'inverso: non è il programma funzionale che genera automaticamente la forma, ma è la forma che ospita dentro di sé tante funzioni possibili.



Nei libri Monumental Need e Obvious scrive un manifesto che stabilisce un nuovo ordine all'architettura contemporanea. I toni sono quelli di una rivoluzione civile e i disegni sono armi con cui dimostra la potenza delle sue idee. In questi libri parla di SèRVEN LE VERT un manifesto contro i luoghi comuni e contro il perbenismo verso l'architettura eco-sostenibile. Ritiene che il concetto di architettura eco-sostenibile (di cui tanto si parla in questo periodo) non si sa un elemento di crisi su cui focalizzarsi?

Volevo fare una critica un po' ironica a tutta questa ridondanza di termini vuoti, come eco-sostenibilità. Ritengo che fortunatamente l'architettura non ha bisogno di essere ecosostenibile, perché l'architettura è già nella sua essenza sostenibile perché necessaria. Era un modo per non “appiccicare” delle etichette a qualcosa che non ha bisogno di attribuzioni, tutto qui senza voler fare polemica!



Nel libro “La mente nel progetto. L'analogia e la metafora nell'architettura e nel design” di Matteo Zambelli c’è questa citazione: « Mostrare semplicemente agli studenti dei buoni progetti non è necessariamente il modo più utile di sviluppare la loro stessa expertise. » - [Lawson, Dorst (2009), p.10]

Secondo lei si può insegnare l'architettura? E insegnare a fare architettura? Ritiene che sia utile per uno studente applicare un “esercizio di adattamento” di ciò che esiste e di ciò che vede prima della progettazione?

Questo è un argomento su cui spesso il Professor Saggio ci chiede dei pareri. Ritengo che sia interessante osservare più punti di vista, non solo quelli degli studenti ma anche quelli delle diverse figure professionali.

Su come si insegna la progettazione si potrebbe aprire un capitolo sconfinato. Ho l'abilitazione alla docenza universitaria e sono professore associato di progettazione architettonica. Credo che l'educazione al progetto si può fare attraverso il racconto e la testimonianza delle esperienze personali. Una cosa è la costruzione e l'apprendimento di una grammatica che è necessaria, io negli anni in cui mi sono laureato ho studiato approfonditamente la grammatica dell'architettura, le tipologie costruttive, le aggregazioni, sono tutte cose che vanno a disporre il progettista di quell’alfabeto minimo che gli sarà utile quando dovrà poi produrre un progetto. La cosa migliore che può fare un progettista, nel momento in cui si trova ad avere a che fare con degli studenti, è mostrare il proprio approccio al progetto, che è sempre molto personale. Infatti quando ne ho la possibilità, faccio lavorare gli studenti su delle immagini, e il più delle volte queste mie rappresentazioni sono sempre bidimensionali, e l'esercizio che propongo è quello di costruire da quella bidimensionalità una tridimensionalità, cioè far diventare tridimensionale un disegno.

Rendere tridimensionale una forma disegnando anche quelle parti che non sono visibili e che comunque dovranno essere compatibili e coerenti con quelle che invece sono mostrate nel disegno. Poi in questa forma modellata tridimensionalmente capire quali sono le funzioni che possono essere compatibili. Questo esercizio, che sembra un esercizio in cui lo studente è chiamato in forma passiva (perché deve ricostruire un disegno di altri e una forma di altri), è un modo invece per comprendere il meccanismo di costruzione di quella forma ed è un modo per attivare, per analogia, un approccio. Lasciare la libertà di progetto ad uno studente è quantomeno fuorviante perché esiste un mondo incontrollabile in cui il docente non può più intervenire se non accettando o negando ogni tipo proposta.

Ritengo che sia più corretto proporre un tipo di approccio al progetto, andando a definire dei dispositivi che portano poi a dei risultati più concreti. La cosa importante è che accanto alla grammatica, che si acquisisce con degli studi di natura un po' più tecnica, C'è tutto un mondo esplorabile, fertile, che è quello della propria biografia, della propria memoria e del proprio immaginario, che strutturato dalla grammatica può portare alla costruzione dell'architettura.



È più un visionario o un utopista? Secondo me lei è un rivoluzionario, crede che la nostra società sia pronta a questo tipo rivoluzione?

Io non mi sento né visionario e né utopista. Spesso mi danno del visionario però questa cosa un po' mi disturba, così come quando mi danno dell'artista, anche se forse lo fanno per lusingarmi. Io mi sento visionario se diamo a questo termine la definizione di "colui che guarda la realtà con i propri occhi". Ma non visionario nel senso di pre-visionario cioè che io immagino il futuro. Io il futuro non lo immagino, sarebbe un esercizio inutile che porta a dei risultati sicuramente comici. Non credo che le cose che faccio e che penso siano quelli del futuro, io credo soltanto che le cose che faccio che penso sono le uniche possibili. Guardo alla realtà con i miei occhi e l’osservazione della realtà significa averne una visione, ma che non è una pre-visione. L'utopia poi è l'isola che non c'è, un luogo che non esiste. Spero che queste cose possano almeno costruire un mio mondo nel quale io mi muovo con una certa naturalezza e con una certa adeguatezza, dove mi sento a mio agio.

Quindi non riconosco né il termine visionario e né il termine utopista, se non come chi si costruisce con le proprie mani avendo guardato le cose con i propri occhi un mondo in cui si trova proprio agio.


E per il concetto di rivoluzione?

Joseph Beuys, artista tedesco, diceva: « la rivoluzione siamo noi!»

Se ognuno di noi lavora provando a costruire una parte di mondo in cui si trova a proprio agio, allora sì, questa è rivoluzione.


Quindi una rivoluzione individuale e personale?

La rivoluzione siamo noi!



Programmi per il futuro?

Da ragazzo facevo teatro a Caserta, nella città di Toni Servillo. Nonostante poi abbia preso un'altra strada, ho partecipato ad uno spettacolo degli anni ‘80 che si intitolava "Studio per una gioia di vivere”.

Ecco i miei progetti sono per una gioia di vivere.





Martina Ciarletta

12 Ottobre 2021