L’ ambientazione cambiò subito.
Ora mi trovavo in quell’unica casa di campagna che ho vissuto nella mia infanzia e che ricorre spesso, sotto forme e luci diverse, nei miei sogni o più facilmente nei miei incubi.
Ero lì,in un salone polveroso dove di tutto si era accumulato negli anni, e cercavo di togliere dal soffitto delle ragnatele,con la mente nell’età che ho, ed il corpo fermo al principio della pubertà. Indosso, solo abiti infantili dal colore tenue di favole e meringhe; scarpette da corsa, ai piedi di una bimba che ride con la cugina coetanea, la ritroverà accanto già sposata e separata, mentre gli anni fingeranno d’essere trascorsi e non consumatisi in un soffio.
Aspetterò quel giorno senza che un fiato o un immagine cambi anche di poco il predestinato progetto,attenderò che le parole si compiano e le opere si realizzino,senza un fiato, senza un immagine,senza un gesto.Io…allevierò la mia coscienza dal fardello di idee svendute e sogni rinnegati in nome di un modus vivendi di più veloce realizzazione, tutti errori, solo, soltanto maledettissimi errori, dettati dalla sfiducia e dalla vigliaccheria.
Li ho sentiti i mie presagi ma non erano così plateali ed evidenti come nei racconti, nei film, nelle fantasie;i miei presagi non sono stati molti, ed alcuni non possono esser contati perché di essi, l’esito delle situazioni cui derivavano, era fin troppo facilmente delineabile; ma quell’estate a sedici anni io sentii per la prima volta l’immutabile destino delle mie realizzazioni, io seppi quel pomeriggio estivo all’imbrunire, allo scurirsi del cielo, io seppi come avrei concluso i miei studi, vidi una parte di futuro.Ed un’altra estate mi fu chiaro mentre scendevo le scale con difficoltà ed il sole di Luglio, forte ed ingannevole, dal profumo di desideri irrealizzabili,mi chiudeva gli occhi,bè…mi fu chiaro, nitido il termine dei miei tentativi di restare bambina. Quell’ anno, a Dicembre, avrei cominciato la terapia.
Mentre scendevo le scale dietro casa tua, Marx, mentre tu partivi per lavoro e gioco, mentre mi scivolavi dalle mani senza che un sufficiente legame mi avrebbe garantito la tua vicinanza malgrado l’innegabile assenza corporea, su quelle scale,attenta a non incrociare i piedi, sbagliando gradino e cadendo, sulle scale ho sentito che il trenta del giorno prima all’università, era l’ultimo, era la fine del credere nel realizzarsi al di là degli altri!
Due sole volte quindi ricordo di aver realmente potuto sporgere il mio volto nell’immediato ma permanente destino, e due volte non vi ho creduto…mio DIO!! E l’imprecazione o l’invocazione non è dovuta alla frase che subitanea la precede, ma alla successiva, alla seguente:
nello scrivere mi ero permessa una breve digressione sull’idea che spesso covo di farla finita,l’idea del morire così come e quando tu stesso decidi,..non so, ma il computer si è bloccato come se io non dovessi meditare quel progetto, stavo scrivendo di segni o sentori da premonizione e mi accade questo, che pensare?!
Forse il caso, un mio gesto involontario, eppure ad ora inspiegabile esattamente, un atto casuale che però si colloca proprio in quel preciso,inconfondibile istante………
Ed il cielo si sta scurendo,le nubi cominciano ,danzando, ad andarsi incontro, svaniscono le più inconsistenti e permangono quelle più dense e scure, si incamminano flessuose verso il posto e l’angolazione esatta che devono rivestire e creano parte del paesaggio che coppie d’occhi d’animi sensibili o meno, si ritroveranno a definire il nostro tramonto.
Un tramonto o un’alba immortalati dall’iride del fortunato passante, un cielo che invecchia od uno che sorge, una Luna che si specchia nel mare come la sfida più elementare alla Terra, una ragazza da sola che l’ammira e gioisce, ma con una sensazione turpe nello stomaco, e che sente confusamente soddisfatta sopraggiungere i passi del ragazzo che è convinta di amare, e registra quell’immagine, quel paesaggio, come la sua Luna ed il suo mare;ma quello scorcio di cielo, ed il muretto su cui si siedono,a quante anime sono invece appartenuti?!Ed ora sembrano essere soltanto loro, di quelle braccia e di quei progetti, e dei respiri di quelle bocche, di nessun altro, di nessun altra.
Com’è triste dover dire addio a qualcosa che non pensi possa finire, dire addio alle persone che muoiono, a quelle che decidono di allontanarsi, a coloro che perdi negli anni o nella folla, salutare per l’eternità visi e voci che non ti apparterranno più!
Così ho dovuto dire addio a mia madre, alle anime e gli amici che non potevo più avere, agli amori che non mi sono mai realmente concessa del tutto e che ora si consolano con la loro vera anima gemella, ed io , sola ed egocentrica, spero comunque di valere di più nella memoria loro, come quelle briciole di sogno che si è assaggiato e non si dimentica.
Perché sogno sempre bagni?
Di ogni tipo, di ogni modo, angusti e stretti da claustrofobia, bianchi ed accoglienti, larghi ma sudici, maleodoranti e profumati,in ordine o con volgari scritte sulle pareti…
La sola cosa che non differisce è il mio stato d’animo, è pur sempre l’alcova del mio più turpe comportamento primordiale, e per tale lo vivo, lo sento comandarmi gesti e decisioni, io schiava del mio corpo, del suo aspetto più riprovevole.
E non vedo l’ora di abbandonarli, di chiudermi la loro porta alle spalle, di entrare e riuscirvi mutata, altra vita ed altro futuro.
Il buio ha corrotto le serate ormai, nulla può recuperarle dal sonno stanco e lugubre cui hanno meritato di affidarsi, Morfeo abbraccia ogni creatura vivente compreso un tempo del Tempo, una stagione appunto.E’ Autunno…perché negarlo?
Sento nel profondo della mia sicura destinazione, un lampo di nostalgia e di indolenza,avverto l’accasciarsi di ogni fermento e l’abbandono dell’intenzione.
Sfinita mi appare l’anima mia ed il suo sopravvivermi, inconcludenti saranno le gesta di un illusorio medicamento,ho deciso io stessa,dall’angusta volontà medesima, di condannarmi a vita, ed ora rinnego?!…Replico ad i miei indugi e alle mie vigliacche sospensioni?
Incoerente sarei a non ammettere nel fallimento del progetto un barlume di codardo desiderio di realizzazione,ad accettare tutto come segno del fato per giustificare il nuovo, eccentrico futuro cui mi ero destinata, ne avrei goduto delle altrui singolari capacità, ma non ne avrei posseduta alcuna mia, accanto alla luminescenza di una stella, e le mie velleità, che valle avrebbero abitato, che solco ricoperto?!
Mi sarei persa come mille altre volte, nascosta dietro sogni irrealizzati da altri, per sfuggire al dovere inconscio di compiere i miei. O forse,in angusti e soffocati desideri di affermazione che la mia ormai atavica codardia mi condannava all’attuarsi in coppia.
E così mi ritrovai ad aver bisogno della carne e del pensiero di cui mi nutrivo l’anima, idealizzando, soffrendo, rinnegando i lati peggiori sperando che la mia coscienza un giorno, accortasi dell’inganno, non mi obbligasse a recidere ogni scelta in merito.
Il buio è sempre più fitto, mi sento davvero al sicuro dietro le mie finestre, sento davvero di resister agli agguati per questa notte e questi sogni?!
Buona notte.
linea d'orizzonte...
All'imbrunire la dama s'accommiatò,
il suo paggio la seguiva da lontano con lo sguardo,
finkè l'ultima sua skeggia d'ombra
nn fu ingoiata dal serrarsi dell'uscio.
La notte trascorse tranquilla,
le lingue di fuoco del giorno gia' aveano
illuminato monti e valli dall' eco profonda,
i suoni del mattino, popolari e faccendieri,
rinvigorivano le sale del maniero...
Il diletto servitore attendeva la sua Signora
lungo il sentiero,
"tardare è segno di regalità"-pensò,
e nn si diede cruccio di tanta attesa,
ma colto or ora da 1 angustiato presagio,
decise di violare la nobile riservatezza della sua dama,
la raggiunse nell' ala delle sale da notte,
ancora l'ombra del mattino nn aveva destato voci o colori..
tutto appariva sognante e latente,
tutto restava assopito come in 1 incanto di morte.
Fu lì ke il paggio incontrò la Signora..
raggiante e perfetta dondolava...dal soffitto decorato,
la sua sottile figura disegnava sulle pareti
ombre danzanti,
dai suoi polsi rigoli caldi e purpurei scivolavano sulle vesti.
Nulla di più composto e preciso s'era mai visto..
ancora 1 volta la Morte dettava la sola,unica certezza...
Quando il cielo cambia colore, e il sole sembra morire nella foskia;quando
il suono della città mi riporta ad estati trascorse, quando odori e gesti mi
accompagnano verso una malinconia muta ed irremovibile,quando sento di poter
morire mentre fisso un tramonto dalla mia finestra;quando mi accorgo di non
essere nulla di più delle foglie strappate dal vento, quando vorrei
costruire ma l'indolenza mi accascia, quando sento di aver perduto parti di
me ke sembravano non dovermi abbandonare mai, quando soffro per l'assenza di
un qualcosa che vorrei saper definire ma non riesco, quando piango di dolore
o rassegnazione...quando mi sento sola...
...vorrei conoscere una preghiera di quelle che affrancano il cuore, che
spazzano via gli affanni, di quelle da rivolgere all'Altissimo, una supplica
di esistenza...
quando mi sento sola...vorrei non essere mai nata!
In silenzio, sono viva.
Setacciano ghiaia i miei sogni,
plausi d'infantile ignoranza.
All'erta, nei campi coperti d'oro,
sopravvivono scorci di risentimento.
Svegliati dal vento,
dondolano come spighe di grano,
all'unisono come mare giallo ed amaro;
ne seguo, con lo sguardo muto,
l'ondeggiare lento, minaccioso.
La luce al mattino mi ferisce!
Mesta, desidero adagiarmi sinuosa
sulla distesa mugghiante e combattiva,
..ke mi nascondano i miei rimpianti..ke mi proteggano!
Al risveglio ..sudato e convulso,
aspirerò alla NOTTE e a null'altro!!!
THE TELL OF THE WHITE COULD AND THE WIND
Sulla rupe la giara vacillava all’ incalzante spirare del vento,
erta e spinosa risaliva il superbo anfratto la pallida parete scoscesa,
triste,la luna fissava le dimore nascoste negli angoli solitari,
dai gelosi custodi della terra ,abitate.
-Arsa e taciturna sorrideva la nube bianca-ERA SOLA.
Non credeva forse…non credeva alla sua sorte,
da sempre solita all’indifferenza,la piccola nube restava attonita,
diffidente s’affacciava nel suo squarcio di luce
per dipingere il cielo di contorni indefiniti
TEMEVA IL RISVEGLIO E L’ASSENZA,
per secoli evito’chiarori e incandescenze,
ma alla sua comparsa,inevitabile come pioggia d’autunno,CEDETTE.
La corteggiava silente la brezza del nord,
le danzava intorno scivolando sui pendii dell’ombra sua,
veloce sibilava tra le celesti sfere perchè s’alzassero le maree.
Terra e cielo..questo soffio d’esistenza movea lungo il contorno della pavida nube,
incredula ancora di tanto colore,di tanto calore..
Se AMORE dovea esistere,
certo tale era ciò che spingeva il vento.
Ma poteva il soffio suo muovere solo lei?
-la nube s’interrogava mesta-
sola e indifferente preferiva morire,
sciogliersi in una scheggia di sole al sorgere del mattino,
ma non confondersi ad altre nubi
nella tracotante e veemente passione ventosa.
Ma,premuroso,paziente,il vento le cinse i fianchi e la invitò a danzare.
Il suo soffio le recitava drammi d’amore per calmarle l’anima,
l’audace suo spirare lungo inesistenti distese d’essenza la spingeva a ballare…
ed il mondo era pavimento e l’universo soffitto.
La nube ancor più del principio tremava incredula
“Che tutto fosse vero?”-pensò-
“Che anche per me giunga l’aurora e il sogno sbocci in esistenza?”
Combattuta,la nube bianca resisteva all’impetuosa corte del vento,
pudica,evitava baci e abbracci suoi,ne sfuggiva le danze e gli sguardi attenti.
Ma una notte,quando la solitudine del silenzio
si fece acuta come mai dal giorno della creazione,
timida,la nube accostò il suo passo a quello dell’amato,
solitaria creatura d’aria…ne attese il respiro,
il vigoroso e gentile soffio,invano immaginò il colore e l’odore suoi…
ma il vento s’era spento,tristemente adagiato sullo scoglio dell’indifferenza,aveva ceduto..
compresi i timori della sua piccola nube
silenzioso,dolente,aveva scelto l’ASSENZA.
Una sola notte durò l’amore incantato e mesto della nube e del vento,
la paura ne impedì germogli e frutti vivi,
la solitudine ne soffocò battiti e respiri.
…La piccola nube bianca non danzò mai più!
Acerenza 10/06/2007
“Si attendeva il tuo arrivo già da tempo…”
Le sue parole pronunciate con ineccepibile indifferenza,si trascinavano ancora lungo le pareti bianche ed austere del corridoio silenzioso, da ospedale, pensai.
Mi fece segno di seguirla, ci addentrammo nelle sale da lettura che erano dopo l’ingresso,superammo il salone e la biblioteca dagli scaffali alti sino al soffitto, e percorremmo in silenzio un secondo corridoio lucente ed ostile, alle pareti affreschi rovinati e larghe finestre con delle grate tristi e robuste quanto le inferriate delle prigioni di stato, non che le conoscessi personalmente,è ovvio, ma le immaginavo esattamente così.
Avvertivo l’inconfondibile presagio che quella mia esperienza forzosa nel convento delle Carmelitane avesse esattamente le stesse caratteristiche di una prigionia:gli orari,le imposizioni, la privazione di libertà, e, non meno importante, l’aspetto truce e dimesso della struttura che mi avrebbe ospitato.
La mia camera, o celletta, come la definivano le consorelle,era infatti non meno angusta e spoglia di una gabbia, mi sentivo un’ape invischiata nel miele da lei stessa prodotto,un animaletto catturato per la vendita o per la produzione di qualcosa che non avrebbe mai visto concluso, un criceto tra le dita di una bimba ricca e viziata…
“Posa la tua roba.Ti aspetto giù nella biblioteca per presentarti alla madre superiora.”
La suora svicolò dall’uscio, silenziosa e nera come uno spirito di morte, il suo viso pallido ma giallastro e l’incuria delle fattezze, lasciavano intuire che fosse rinchiusa lì dentro da molti anni, per scelta sua o della famiglia era facile indovinarlo; dopotutto si era in tempi in cui nelle famiglie dabbene, almeno una figlia monaca era necessaria.
Mi tolsi il pesante soprabito con cui mi avevano avvolta in quel ricovero in città, era di due o tre taglie in più, di un tessuto ruvido e grezzo, ma quasi nuovo,forse il paltò di un vecchio signore passato a miglior vita e donato ai poveracci come me, per liberare le casse e sollevarsi la coscienza.
Provai a sedermi sul letto, presagendo a quale triste ma ben nota sorpresa andavo incontro;non mi sbagliavo…il giaciglio era una sfoglia sottile e consunta che faceva intravedere la struttura di legno rigido e forte su cui poggiava, ovvia abitudine all’auto-mortificazione del corpo tipica nei conventi.
Scesi dalla madre superiora, aveva un’aria truce e beffarda,come una regina avida e superba, sembrava ghignare mentre mi metteva al corrente delle regole e degli orari che vigevano nel suo regno; mi allontanò senza darmi la possibilità di chiedere nulla, salutai con riverenza e mi accomiatai.
Suor Giovanna, questo era il nome della madre che mi guidava per il convento a visitare il refettorio, la cappella e quant altro mi toccava conoscere di quel maniero aspro e solitario,era la prima che sembrava rivolgersi a me con tono, se non amichevole almeno benevolo.Terminato il giro turistico, mi accompagnò alla mia celletta e mi consigliò di prepararmi per il pranzo che si teneva alle undici e trenta in punto.
Non indugiai,mi lavai nel catino alla meno peggio, riassettai i capelli, legandoli con un nastro nero, ed indossai il saio di tela grezza che suor Giovanna mi aveva lasciato, per scendere in refettorio, dietro raccomandazione della superiora:
“Qui siamo tutte uguali, tutte figlie di Dio Padre nostro, immeritevoli della potenza e della misericordia sue.”
Pensai che doveva essere difficile sentirsi uguali a chi non avevo mai preso in considerazione, o a chi doveva pur essere il Padre mio, non avevo mai abbracciato.
cosa resta da spegnere?
forse un bosco nei paraggi arde
ma non riuscirete miei inutili servi,
non riuscirete perché ad altri è dato,
non a voi che di carne cibate le cruente
fauci da lupi, luminose sui volti vostri come
lame di luna argentee nel nero cielo d’inverno,
come screanzati avvoltoi dall’ala vibrante nel vento
gemete di pianti di dolori arcaici, che lugubremente
vi accompagnano, e seguono, e segnano all'orizzonte.
Tacete,
voi che a null’altro siete destinati,
se non alla fine.