TRAUMA

                                                            IL TRAUMA

Il trauma psicologico è il risultato di un evento stressante o di una serie di eventi che hanno un effetto cumulativo sulla psiche dell’individuo. 

L’effetto traumatico si evidenzia soprattutto nella perdita delle certezze personali sia sul presente che sul futuro, uno stato di allerta costante con un’attivazione sia emozionale che fisica associati a stati soggettivi di impotenza e vulnerabilità.

Perché un evento risulti traumatico non necessariamente ci devono essere gli estremi di morte o minaccia per la propria incolumità ma qualsiasi situazione che induca sentimenti di impotenza e sopraffazione, anche senza danni fisici è potenzialmente traumatica poiché è il vissuto soggettivo legato alla persona, alla sua storia, alla costituzione psichica e alla sua costellazione affettiva che fanno la differenza.

In generale possiamo considerare un evento come traumatico quando è violento e inaspettato e interrompe il normale flusso della vita, ma anche quando la minaccia è ripetuta e continuativa, in taluni casi, anche se poi non si verifica, è sufficiente che il soggetto continuamente la tema; l’evento è vissuto come traumatico quando l’individuo sente che è superiore alla  sua forza di resistenza individuale, oppure si sente in balia di qualcuno o di qualcosa (causa del trauma) dai quali non può sfuggire.

Eventi traumatici verificatasi nell’infanzia possono essere stati rimossi ma permanere a livello inconsapevole e i loro effetti perdurare nel presente senza che il soggetto ne abbia percezione cosciente.

 

Trauma Albasi.pdf

"Il peso delle esperienze traumatiche infantili precoci nello sviluppo di patologie e sofferenze destinate a manifestarsi in età adulta è considerato in modi molto diversi. Le difficoltà cominciano quando si cerca di stabilire quali esperienze debbano essere considerate traumatiche nel singolo caso, anche perché la valutazione può essere fatta solo a posteriori. Come viene elaborata l'esperienza traumatica dipende in grandissima parte dalla risposta degli adulti che si prendono cura del bambino. 

Se esiste una presenza affettiva costante e comprensiva dei genitori, le conseguenze del trauma saranno minori". 

Franco De Masi 

Attaccamenti traumatici.  I modelli operativi interni dissociati . Cesare Albasi. Clicca e leggi l'articolo

Cesare Albasi è: Psicologo, Specialista in Psicologia Clinica, Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico relazionale; Dottore di Ricerca in Psicologia Clinica e delle Relazioni Interpersonali, Ricercatore in Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Psicologia e docente presso la Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Torino, di Psicologia Clinica, Aspetti normali e patologici dell’attaccamento, Problematiche affettivo sociali in ambito evolutivo, Psicopatologia, Psicoterapia; docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, e della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, entrambe della Facoltà di Psicologia di Torino, della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica, e altre scuole di specializzazione.

 Albasi, all’interno di una cornice teorica che rimanda alla tradizione psicoanalitica relazionale statunitense, all'Infant Research e alla teoria dell'attaccamento descrive i risultati di una ricerca teorica su alcuni aspetti della psicopatologia e della psicoterapia che

 riguardano i processi dissociativi.

 La ricerca ha condotto alla formulazione di un concetto utilizzabile nella valutazione della

 psicopatologia e nella presa in carico psicoterapeutica di molti pazienti: quello di Modelli

 Operativi Interni Dissociati (MOID).

 I MOI sono memorie delle relazioni che acquisiscono un valore strutturale per la mente. Le

 esperienze delle relazioni di attaccamento non vengono semplicemente ricordate ma

 offrono anche le regole per organizzare i ricordi e i contenuti dell'esperienza.

 Le relazioni di attaccamento possono favorire lo sviluppo di processi adeguati alla

 regolazione degli stati affettivi del bambino oppure, come accade nell'attaccamento

 traumatico, disconoscere le sue necessità di regolazione. Nel secondo caso, le esperienze

 evolutive costituiranno strutture che custodiscono la memoria di questi fallimenti, sia sul

 piano dei contenuti che dei processi. Queste strutture prendono nome di MOID.

 I MOID che risultano dall'esperienza di crescita in un contesto che disconosce le

 necessità, i bisogni, la specificità personali, è mutuata dalla tradizione psicoanalitica

 relazionale che affonda le sue radici nel pensiero di Ferenczi, di Sullivan, di Fairbairn. Il

 concetto di dissociazione, in questa linea di pensiero clinico, è stato articolato insieme a

 quello di trauma e ciò ha permesso l'elaborazione di un'ampia prospettiva sulla

 psicopatologia. La dissociazione non è concepita come un sintomo ma come un processo

 che struttura il funzionamento mentale.

 La dissociazione crea discontinuità (una sorta di "buchi") nell'esperienza soggettiva. La

 fenomenologia clinica dei MOID riguarda il paradosso di un'esperienza che non possiede

 un significato soggettivo pur essendo di importanza cruciale per l'individuo. I MOID

 sottraggono al soggetto la sua esperienza. Seducono con la loro promessa di una

 sicurezza posticcia in cambio di povertà nella formulazione di significati.

 La ricerca ha messo in evidenza che sempre più spesso i pazienti che chiedono aiuto

 psicoterapeutico lamentano una mancanza di significato nelle relazioni intime della loro

 esistenza (come, appunto, un'esperienza di "qualcosa che manca"). Al di là dei differenti

 quadri sindromici che possono presentare, soggettivamente i pazienti riferiscono:

 -un deficit di vitalità in ambiti importanti della loro esistenza,

- una sorta di sottile senso di agonia e disperazione;

- auto-distruttività o di distruttività nei confronti dei rapporti intimi;

  - un senso di non esserci come persone in grado di vivere da protagonisti le loro relazioni,

 di perdita di consistenza, di vuoto;

 - un'incapacità di formulare chiaramente una richiesta di aiuto per qualcosa di indefinito e

 di difficilmente formulabile ma che sta condizionando la loro vita portandoli a costruire

 relazioni nelle quali non riconoscono se stessi;

  - una deformazione dei propri desideri, un annebbiamento della capacità di riflettere su di

 sé, un annullamento dello spazio affettivo delle relazioni, un'impossibilità di vivere le

 relazioni come luogo per esprimere e realizzare le proprie potenzialità;

 - nei casi più gravi: un senso interno di morte, di non vitalità in alcune dimensioni di sé, di

 non movimento dei pensieri, di non possibilità di regolazione degli affetti, di estraneità

 dalle proprie esperienze e di assenza di significato.

 I pazienti, pur chiedendo di essere aiutati per qualcosa che li fa soffrire sono

 inconsciamente attaccati alle loro situazioni patologiche, non potendo rinunciarvi in quanto

 esse continuano a rappresentare, paradossalmente, la possibilità inconscia di realizzare

 qualcosa di importanza vitale per loro.

 I MOID offrono la possibilità di orientare l'ascolto clinico ad un formato che si dispiega a

 livello procedurale, implicito: la memoria procedurale di una interazione che fallisce nel

 regolare gli stati affettivi. Ad essere memorizzata e interiorizzata (in modo grezzo, non

 elaborato) è una configurazione relazionale, non semplicemente uno stato, un affetto).

 Questa configurazione di attaccamento è differente:

 - da quelle associate all'attaccamento insicuro (evitante e ansiosa-ambivalente-

 preoccupata), nelle quali il soggetto è in grado di organizzare forme difensive di

 regolazione degli affetti e delle distanze interpersonali, e può essere in grado di costruire

 una narrazione che ne rispecchi i vissuti (e anche di sviluppare una riflessione intenzionale

 su di essi)

 - da quelle osservate nella disorganizzazione dell'attaccamento, nelle quali la molteplicità

 dei MOI si sussegue in modo incoerente.

 I contesti evolutivi all’interno dei quali si sviluppano i MOID sono quelle situazioni in cui

 una persona è cresciuta legandosi a figure di attaccamento che gli chiedevano,

 implicitamente, di rinunciare alla propria soggettività, alla propria sensibilità, al proprio

 punto di vista sull'esperienza.

 L'esperienza interiorizzata nei MOID non favorisce la mentalizzazione ma soltanto la sua

 messa in atto nelle relazioni di attaccamento successive. Una sorta di drammatizzazione

 di ruoli affettivi che viene chiamata enactment.

 Le memorie dei MOID non fanno parte di quell'insieme di rappresentazioni che un

 individuo può utilizzare, più o meno consapevolmente, per comprendere le sue relazioni e

 orientarsi all'interno del loro contesto; non si riattivano nel discorso, come ricordi simbolici,

 non sono a sua disposizione come fonte di significati per comprendere ciò che gli succede

 nei suoi rapporti. Anzi, ad essi è impedita la possibilità di essere sperimentati

 soggettivamente in qualsiasi forma (quindi è inibita l'eventuale connessione tra il livello

 implicito e quello simbolico che permetterebbe una elaborazione degli affetti e del

 significato attuale delle esperienze in essi memorizzati) lasciando un senso soggettivo di

 confusione, insensatezza, vuoto, mancanza, turbamento ecc.

 I MOID chiamano in causa gli altri "significativi", per rimettere in scena (to enact) le

 configurazioni relazionali traumatiche nella ricerca di soluzioni alternative rispetto a quelle

 originarie.

 I MOID possono contenere una doppia motivazione paradossale: una forma difensiva di

 evitamento delle esperienze intime che potrebbero riattivarli e, contemporaneamente, una

 spinta verso quelle stesse esperienze interpersonali, proprio perché esse costituiscono la

 possibilità di "ricordare" (in questo senso "concreto" e non simbolico) e di attivare una loro

 elaborazione.

 Le implicazioni del concetto di MOID sul piano della psicoterapia. Enactment e

 processo terapeutico secondo Bromberg.

 Con i pazienti traumatizzati l’obiettivo della terapia è di “lastricare i buchi sulla strada

 maestra” cioè portare l’esperienza dal livello dell’enactment al livello della riflessione e del

 pensiero.

 Dal momento che nei pazienti traumatizzati alcuni ricordi sono memorizzati in modo

 dissociato l’unico modo che questi pazienti hanno per comunicare al terapeuta il loro

 mondo interiore è attraverso le emozioni che evocano in lui e che il terapeuta sperimenta

 attraverso la sensazione che stia avvenendo un cambiamento di stato in sé e nel paziente.

 Questo è ciò che accade nell’enactment. Il qualcos’altro che il terapeuta percepisce è ciò

 che lo rende sensibile all’assenza di voce del paziente, voce che può essere coinvolta

 nella relazione quando supera la soglia di consapevolezza del terapeuta. Tramite questo

 processo di enactment si sviluppa nel paziente la speranza che le parti per lui mute

 possano comunque essere riconosciute.

 Secondo Bromberg non basta l’arrivare a mettere in parole l’esperienza traumatica perché

 questa possa essere elaborata occorre un processo di convalidazione di un MOID che

 deve essere sperimentato come reale tramite l’esperienza dell’enactment.

 L’enactment è considerabile come un luogo nel quale il passato è rivissuto in modo sicuro

 ma non troppo: grazie a questa dialettica tra sicurezza-insicurezza gli aspetti dissociati del

 paziente possono iniziare a essere espressi e riconosciuti come parte di lui.

 Il processo terapeutico comporta quindi il passaggio nel paziente da un funzionamento

 basato sulla dissociazione e sull’enactment alla crescente capacità di sostenere un

 esperienza di conflitto interno in quelle aree dove la formazione di significati era impedita

 dalla dissociazione. A questo punto i contenuti mentali possono rendersi accessibili a

 un’esplorazione riflessiva. In questi pazienti il conflitto psichico non è la principale causa di

 sofferenza ma anzi un primario obiettivo terapeutico da raggiungere per poi occuparsene

 in un secondo tempo.

Articolo scritto dalla dott.ssa Laura Peveri