DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE 

IN ETÀ INFANTILE

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE IN ETÀ INFANTILE

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Gior Neuropsich Età Evol 2006;26:445-457

Psicopatologia dell’infanzia e follow-up dei disturbi della sfera alimentare

M. AMMANITI, L. LUCARELLI, S. CIMINO

Università di Roma “La Sapienza”

Parole chiave. — Disturbi alimentari infantili - Fattori di rischio - Studi longitudinali

Background teorico-clinico e quesiti sui disturbi alimentari infantili

La definizione e classificazione dei disturbi psichici nei primi tre anni di vita, includendo i disturbi alimentari dell’infanzia che saranno tema specifico di questa rassegna, è molto più problematica rispetto ad altre fasi del ciclo vitale per le quali la tassonomia psicopatologica ha raggiunto risultati abbastanza sod- disfacenti, come dimostra, ad esempio, il sistema diagnostico del DSM 2 3, sufficientemente condiviso per l’età adulta dagli esperti in campo internazionale.

Le richieste di estratti vanno inviati a: Prof. Massimo Ammaniti, Professore Ordinario di Psicopatologia dello Sviluppo, Università di Roma “La Sapienza”

Uno degli aspetti problematici nella definizione dei disturbi alimentari precoci è che difficoltà alimentari transitorie sono comuni durante l’infanzia; si stima infatti che più del 25-50% dei bambini possa presentare problemi alimentari 10 15 30, alcuni non specifici (coliche dei primi tre/sei mesi di vita), altri che si riferiscono direttamente ai comportamenti alimentari (rifiuto selettivo o totale del cibo, vomito, ruminazione, pica, terrore alla vista del cibo). 

Riferendosi tuttavia a gravi difficoltà nell’alimentazione infantile, quali il rifiuto intenso e persistente del cibo o il vomito ricorrente che si associano a difficoltà di accrescimento (failure to thrive), i dati indicano una prevalenza intorno al 4-14% delle visite ambulatoriali e di circa l’1-5% dei ricoveri ospedalieri 18 29 30; il difetto di crescita non organico (non organic failure to thrive), in assenza di un causa me- dica alla sua origine, ha un’incidenza di circa il 50-58% sul totale dei casi di fai lure to thrive 3.

In alcuni casi, difficoltà alimentari lievi e transitorie, come “il bambino che mangia poco” si presentano come espressione di una turba o perturbazione evolu- tiva temporanea in alcuni momenti critici dello sviluppo, che può essere facilmente e rapidamente risolta e che non costituisce necessariamente un disturbo 7 43; altri problemi comuni sono le preferenze alimentari, restrittive o selettive, dei bambini descritti come “spiluccatori” (picky eaters) o “selettivi” (choosy eaters) 34 38 47. Ad esempio, fra i sette e i nove mesi, all’epoca dello svezzamento e della comparsa dell’angoscia dell’estraneo, o fra il secondo e il terzo anno di vita, nel passaggio verso l’alimentazione autonoma, il comportamento di rifiuto del cibo è comune come espressione di un normale processo maturativo, durante il quale le capacità biologiche, cognitive e affettive del bambino si riorganizzano a un livello di sviluppo più complesso, che richiede una negoziazione reciproca della coppia bambino-caregiver per giungere ad una nuova regolazione interattiva che tenga conto del maggiore senso di autonomia del bambino. Le figure di accudimento possono reagire a questi cambiamenti in modi differenti che spesso riflettono le loro esperienze evolutive nel processo di separazione-individuazione; alcuni genitori possono incoraggiare l’autonomia del bambino, altri si sentono a disagio e diventano iperprotettivi.

È ormai riconosciuto dai contributi dell’Infant Research, ossia la ricerca in campo infantile orientata da quesiti clinici, che la qualità degli scambi interattivi e dell’esperienza affettiva del bambino con il proprio caregiver durante l’alimen- tazione fornisce il contesto entro il quale i segnali emotivi e la condivisione degli affetti promuovono la comunicazione di bisogni, desideri e piacere, intenzioni ed aspettative, così come la stabilizzazione dei ritmi psico-biologici.

Gradualmente l’equilibrio dinamico fra legame di attaccamento al caregiver ed autonomia emergente, che si esprime nel bambino anche con il desiderio di man- giare da solo, promuove e sostiene lo sviluppo delle capacità autoregolative del bambino, le iniziative di autonomia, i sentimenti di fiducia e di auto-efficacia (self-reliance) e la spinta a padroneggiare le situazioni(mastery); lo sviluppo dei comportamenti alimentari e della regolazione interna dei ritmi biologici si allinea dunque con lo sviluppo del funzionamento emotivo-adattivo e sociale del bambino ed è parte integrante del processo di transizione verso l’autonomia durante i primi tre anni di vita. Le esperienze socio-affettive collegate all’alimentazione costituiscono dunque un organizzatore fondamentale non solo dei ritmi biologici, ma anche dello sviluppo del Sé e, come hanno messo in luce varie ricerche cliniche, le interazioni disfunzionali tra il bambino e il caregiver nel contesto dell’alimentazione rappresentano un fattore potenziale all’origine delle difficoltà alimentari e/o del loro mantenimento.

Riferendosi alla valutazione delle dinamiche della relazione bambino-caregiver nel contesto interattivo dell’alimentazione, un ulteriore aspetto problematico nella definizione dei disturbi alimentari ad esordio precoce considera se si possa parlare nell’infanzia di psicopatologia individuale sufficientemente strutturata, chiaramente identificabile in un comportamento anomalo del bambino, oppure se non sia più opportuno inquadrare tale patologia come un disturbo della relazione con le figure di accudimento. Ad esempio, è fondamentale osservare la qualità dell’interazione bambino-caregiver durante gli scambi alimentari e comprendere se un bambino presenta un rifiuto del cibo solo quando è la madre a farlo mangiare, mentre con gli altri adulti non manifesta problemi, oppure se manifesta difficoltà di alimentazione con ogni adulto. Nel primo caso, il rifiuto del cibo da parte del bambino sembra essere insito nella relazione conflittuale fra madre e bambino, mentre nel secondo caso le difficoltà sarebbero piuttosto espressione di un disturbo ormai strutturato del bambino che interessa la sfera alimentare.

In quest’ottica che individua la necessità di definire le difficoltà alimentari dell’infanzia secondo un modello transazionale, che considera l’interazione dinamica e continua fra le caratteristiche individuali del bambino, ovvero le sue predisposizioni temperamentali e le sue specificità cognitive, emotive e relazionali e l’esperienza affettiva fornita dalla relazione con i caregiver sin dalle fasi più precoci del suo sviluppo, è importante considerare i risultati di alcune ricerche longitudinali che hanno studiato l’evoluzione nel tempo dei disturbi dell’alimentazione nell’infanzia. Queste ricerche evidenziano come precoci difficoltà alimentari, soprattutto quando siano caratterizzate da comportamenti di rifiuto del cibo da parte del bambino e da una relazione conflittuale con le figure di accudimento, possano costituire i segni iniziali di un quadro più complesso che coinvolge lo sviluppo affettivo e sociale del bambino esprimendosi con difficoltà più ampie di regolazione emotiva e nel funzio- namento adattivo, caratterizzate da sintomi internalizzanti ed esternalizzanti e con la persistenza e continuità del disturbo alimentare nelle età successive, prescolare, scolare ed adolescenziale.

Sistemi di classificazione e modelli diagnostici dei disturbi alimentari nell’infanzia.

Sebbene sia stata evidenziata la prevalenza dei problemi alimentari infantili e la correlazione significativa fra i disturbi alimentari ad esordio precoce e i disturbi alimentari nelle età successive, è solo in tempi recenti che il DSM-IV 2 e il DSM-IV-TR 3 definiscono la categoria diagnostica dei “Disturbi della Nurizione e dell’Alimentazione dell’Infanzia o della Prima Fanciullezza”, includendo i seguenti criteri: “persistente incapacità di alimentarsi adeguatamente, di aumentare di peso o significativa perdita di peso durante un periodo di almeno 1 mese; un disturbo non causato da una condizione medica associata, o non attribuibile ad un altro disturbo mentale o a mancata disponibilità di cibo; esordio prima dei 6 anni”.

La categoria diagnostica dei disturbi alimentari infantili, secondo il DSM, è fondata su una dicotomizzazione a due assi, che si basa sull’identificazione di cause organiche e non organiche all’origine di questi quadri clinici. Mentre le cause organiche sono individuate nella presenza di un problema medico diagnosticabile, l’effetto delle cause psicologiche, nella genesi e persistenza del disturbo, si considera quando l’eziologia organica viene esclusa. 

A questo proposito, nella letteratura anglosassone è stata introdotta la classificazione che distingue i problemi alimentari con difficoltà di accrescimento in Difficoltà di accrescimento organica (Organic failure to thrive) e Difficoltà di accrescimento non or- ganica (Non organic failure to thrive).

Una rigida differenziazione fra difetto di crescita organico e non organico sembra tuttavia avere scarso rilievo clinico, in quanto alcuni bambini presentano fattori organici che contribuiscono alla loro difficoltà di accrescimento, ma che non la spiegano completamente; in altri casi, pur in presenza di cause organiche e/o funzionali in grado di spiegare un disturbo alimentare, si riscontrano spesso difficoltà alimentari gravi e persistenti, più di quanto il problema medico comporti, e che permangono anche dopo un’adeguata terapia medica e/o chirurgica; inoltre non tutti i bambini con un difetto di crescita presentano un disturbo alimentare e non tutti i bambini con disturbo alimentare presentano una difficoltà di accrescimento.

Sono comunque evidenti sul piano clinico le analogie fra le manifestazioni sintomatologiche del difetto di crescita (failure to thrive) e quelle del disturbo precoce dell’alimentazione, come messo in luce anche dalla frequente compresenza dei due. Uno studio di Drewett, Kasese-Hara e Wright descrive caratteristiche particolari di questi bambini per quanto riguarda l’assunzione di cibo e il comportamento alimentare: nei primi anni di vita i bambini con difficoltà di accrescimento presentano un’assunzione di cibo significativamente inferiore rispetto ai bambini della stessa età che non presentano tale sintomatologia, sebbene le madri tendano ad alimentarli allo stesso modo, o anche maggiormente; questi bambini rifiutano o vomitano il cibo in misura significativamente maggiore; sembrano presentare risposte anomale ai bisogni interni di fame e sazietà, manifestano minori richieste di essere alimentati e maggiori difficoltà a regolare e stabilizzare i loro ritmi alimentari rispetto ai bambini non affetti da tale disturbo.

Queste osservazioni cliniche suggeriscono una concettualizzazione dei problemi alimentari infantili secondo un’eziologia multifattoriale, che prenda in considerazione il complesso intreccio di fattori costituzionali e temperamentali,

organici, psicogeni e relazionali, che possono coesistere oppure presentarsi separatamente, determinando in modo costante influenze reciproche gli uni sugli altri.

Un modello “transazionale multifattoriale” viene proposto dalla classificazione clinico-evolutiva dei disturbi alimentari associati con difficoltà di accrescimento, proposta da Irene Chatoor, e inclusa nella recente revisione della Diagnostic Classification of Mental Health and Developmental Disorders of Infancy and Early Childhood-Revised: 0-3R 49, che si occupa più specificamente dei disturbi di sviluppo nell’infanzia. La tassonomia psicopatologica della Classificazione Diagnostica: 0-3R fa riferimento a fattori eziologici multipli, prevedendo una valutazione clinica multiassiale, al cui interno le categorie diagnostiche presentate sono sia di tipo descrittivo, cioè registrano un insieme di sintomi e comportamenti dei bambini e dei genitori, sia di tipo eziologico, cioè segnalano caratteristiche individuali del genitore e del figlio e della loro relazione, come fonti causali del disturbo. Quindi, un presupposto importante di questo modello diagnostico multifattoriale, che tiene conto del ruolo svolto dalla relazione bambino-caregiver, è che la comprensione del bambino e dei suoi disturbi sia inseparabile dal contesto delle relazioni significative. Inoltre, all’interno di questa prospettiva, qualsiasi patologia dell’infanzia è considerata come un fattore che può limitare o distorcere le esperienze cognitive, emotivo-affettive e sociali, mettendo a rischio le potenzialità evolutive e adattive del bambino.

La classificazione evolutiva di Chatoor e la ricerca clinica sui disturbi alimentari nell’infanzia

La classificazione clinico-evolutiva di Chatoor, inclusa nella recente revisione della Classificazione Diagnostica 0-3, a differenza delle altre nosologie correnti, si fonda su un modello diagnostico che prende in esame il disturbo del bambino in una prospettiva di sviluppo e relazionale, alla luce di risultati dell ’Infant Researc h

Tiene conto cioè delle connessioni evolutive dinamiche, durante i primi tre anni di vita, fra regolazione e stabilizzazione dei ritmi biologici, legame affettivo dell’attaccamento e processo di separazione-individuazione, collegando le difficoltà alimentari del bambino a tre principali tipologie di disturbo: 

1) Disturbo Alimentare di Regolazione di Stato (omeostasi); 

2) Disturbo Alimentare di Reciprocità nella Relazione Caregiver-Bambino;

3)Anoressia Infantile *.

Il Disturbo Alimentare di Regolazione di Stato (omeostasi) ha il suo esordio durante il periodo neonatale e il primo sviluppo dei cicli sonno-veglia e dei ritmi psico-biologici dell’alimentazione.  

Affinché possa svolgersi un pasto calmo e ben riuscito (omeostasi nutrizionale), durante l’allattamento, il neonato deve raggiungere uno stato vigile e calmo e il caregiver deve rispondere ai segnali di fame-sazietà in modo reciproco e contingente. L’allattamento è infatti un’attività privilegiata per la relazionalità emergente, una delle prime attività sociali ricorrenti, che nel normale sviluppo crea gradualmente fra madre e figlio un ritmo condiviso, definito da Kaye 26 turn-taking (alternanza dei turni) e paragonato da Stern 44 ad un “ritmo di danza” con cui i due partner si adattano reciprocamente, per cui la madre è in grado di riconoscere i segnali di fame, di sazietà e quando il neonato ha bisogno di avere una pausa. Il caregiver quindi for- nisce, nella relazione, il supporto alle capacità autoregolative del bambino (scaffolding) e l’alimentazione crea un ritmo di reciprocità degli scambi, che rappresenta la prima forma di dialogo che influenzerà successivamente i ritmi del dialogo verbale e dell’interazione sociale. Alcuni neonati hanno difficoltà nel raggiungere e mantenere uno stato vigile e calmo durante l’allattamento, ad esempio è difficile svegliarli e tendono ad addormentarsi, oppure sono ipereccitati e/o troppo stressati per iniziare l’alimentazione. 

Alcune madri riescono a compensare queste caratteristiche psico-biologiche dei loro bambini, e adattano il loro comportamento modulando le caratteristiche dell’ambiente e il grado di stimolazione offerto al bambino durante il pasto; altre madri, in questa situazione, sono ansiose, stressate, depresse. Ad esempio, la “vulnerabilità psicologica” di una madre depressa e ansiosa, eccessivamente preoccupata di non essere “una buona madre” può renderla meno responsiva e sensibile nel modulare il suo comportamento e in difficoltà a relazionarsi con la minore responsività del figlio. Le modalità disadattive che si instaurano nella relazione bambino-care giver interferiscono con lo svolgimento di un pasto calmo e ben riuscito; il neonato non assume adeguate quantità di cibo, non aumenta di peso o presenta una perdita di peso.

Il Disturbo Alimentare di Reciprocità nella Relazione Caregiver-Bambino è caratterizzato dalla mancanza di adeguati scambi affettivi e sociali fra il bambino e il caregiver, quando, durante il primo anno di vita, la reciprocità degli scambi visivi, tattili, mimici e gestuali, nel contesto interattivo dell’alimentazione, sviluppa e consolida la relazione di attaccamento fra la madre e il suo bambino; la mancanza di un coinvolgimento reciproco ostacola la stabilizzazione di un ritmo condiviso negli scambi alimentari, necessario per sostenere lo sviluppo delle capacità autoregolative del bambino e il naturale passaggio dalla mutua regolazione bambino-caregiver verso un’alimentazione internamente regolata. 

Le madri dei bambini con disturbo hanno difficoltà a riconoscere in modo empatico i segnali di fame/sazietà del loro bambino e a regolare gli stati affettivi della relazione; le rotture interattive si presentano meno riparabili per le modalità relazionali meno flessibili e meno sensibili ai segnali comunicativi. 

Depressione materna e fattori stressanti psicosociali e ambientali attuali e/o passati nella storia del caregiver (relazioni familiari conflittuali e/o instabili, povertà, deprivazione affettiva e sociale) risultano spesso associate alle difficoltà del caregiver nel fornire un adeguato sistema di comunicazione emotiva ed affettiva al bambino e una relazione sensibile e responsiva nelle cure di accudimento.

Il Disturbo Alimentare dell’Anoressia Infantile diventa generalmente evidente fra i 6/9 e i 18 mesi di vita del bambino, prima dei tre anni di vita, durante il graduale passaggio verso l’alimentazione autonoma, quando le maggiori capacità sociali e l’assertività relazionale del bambino si esprimono anche con il desiderio di toccare, afferrare il cibo, portarlo alla bocca, esprimere preferenze alimentari; il riconoscimento sensibile, da parte del caregiver, di questi pattern di sperimentazione e autonomia facilita e sostiene lo sviluppo delle abilità alimentari, della regolazione interna dei segnali di fame-sazietà e del processo di separazione-individuazione. 

I bambini con anoressia infantile manifestano un rifiuto alimentare intenso e persistente e sono riferiti alla valutazione psichiatrica per il loro deficit di accrescimento, in assenza di una causa medica che spieghi il disturbo. 

È stato messo in luce che i pattern interattivi fra madri e bambini con anoressia infantile sono caratterizzati da un sistema di comunicazione più rigido e meno flessibile durante il pasto, caratterizzato da intrusività e controllo, più bassa reciprocità relazionale e più alto conflitto diadico. 

Questi bambini sono descritti dalle loro madri come dipendenti, protestatari ed oppositivi, difficili e presentano sintomi internalizzanti ed esternalizzanti (disforia dell’umore e irritabilità, lamentele somatiche, ansia alla separazione dal caregiver, comportamenti aggressivi e di ritiro sociale). Inoltre, ricerche cliniche volte ad indagare la personalità delle madri dei bambini con anoressia infantile e la presenza di loro eventuali caratteristiche sintomatiche hanno evidenziato, rispetto alle madri dei bambini di controllo, profili psicopatologici a rischio, caratterizzati da depressione, ansia, ostilità, sensibilità interpersonale, atteggiamenti alimentari disfunzionali (impulso alla magrezza, controllo dei comportamenti alimentari), anoressia e bulimia nervosa.

La percezione di sé ipercritica e i livelli di autostima bassi di una madre depressa sono all’origine di una percezione di sé negativa come genitore; di umore triste e irritabile, le madri depresse mostrano minore calore emotivo e sensibilità nel riconoscere e rispondere ai segnali inviati dal figlio, si impegnano di meno in attività condivise; 

la madre depressa non sa attendere il proprio turno ed assecondare l’iniziativa spontanea del figlio, per cui interviene ansiosamente con lui, limitando gli spazi di autonomia e determinando interazioni asincrone, disimpegnate e caratterizzate da emozioni negative. A causa della minore responsività e disponibilità emotiva della madre depressa il bambino non ottiene il sostegno allo sviluppo delle capacità autoregolative e possono presentarsi difficoltà nella regolazione emotiva e fisiologica.

Inoltre viene suggerito che, a causa delle difficoltà di regolazione dei propri stati somatici ed affettivi, le madri con disturbi alimentari siano incapaci a riconoscere in modo empatico i segnali di fame-sazietà del figlio e a modulare gli scambi di reciprocità con lui a causa dei comportamenti intrusivi del caregiver durante il pasto (azioni che interrompono, o limitano l’iniziativa del bambino), della tendenza ad usare il cibo con proposte non nutritive (ricompensa o per calmare il bambino) e a ritardare lo svezzamento, con difficoltà nel riconoscere ed accettare, senza un conflitto interno, i pattern di autonomia e di sperimentazione del bambino, con conseguenti difficoltà nel sostenere lo sviluppo del proprio bambino nel passaggio verso l’alimentazione internamente regolata.

In sintesi, le linee guida, sia sintomatologiche, sia eziologiche, della Classificazione diagnostico-evolutiva dei disturbi alimentari infantili di Chatoor, e le recenti ricerche in questo ambito clinico, evidenziano l’importanza di monitorare, nell’assessment dei disturbi alimentari, la qualità delle modalità relazionali madre-bambino e l’utilità di un approccio multidimensionale, globale ed integrato, che analizzi, secondo una prospettiva di sviluppo, le possibili interconnessioni fra caratteristiche individuali, riguardanti il bambino e le sue specificità cognitive, emotivo-affettive ed evolutive e riguardanti il caregiver, il suo profilo psicologico e la sua storia affettiva, e le caratteristiche relazionali del sistema di comunicazione affettiva bambino-caregiver nella formulazione della diagnosi e di strategie di intervento efficaci.

* A queste tre principali categorie diagnostiche, nella Classificazione di Chatoor, si aggiungono il disturbo alimentare post-traumatico, le avversioni sensoriali e i disturbi alimentari associati a patologie mediche, che non verranno trattati in questa rassegna. La combinazione di fattori organici, psicologici ed affettivo- relazionali può condurre a quadri complessi, come il disturbo alimentare post-traumatico, in cui il bambino presenta rifiuto totale del cibo, uno stato intenso di ansia anticipatoria e reazioni fobiche, incubi e sogni sulla paura di soffocamento e di morte, ritiro dalle attività di gioco, fobia scolare che si manifestano e persistono dopo che il problema medico e/o chirurgico della sfera alimentare è stato risolto.

Disturbi alimentari nell’infanzia e ricerche di follow-up

La ricerca longitudinale mette in luce che mentre alcuni sintomi nella sfera alimentare, come le coliche e il vomito tendono più spesso a risolversi nel primo anno di vita, il rifiuto alimentare e un peso inferiore alla norma persistono a 2, 4, 5-7 anni di vita in una consistente percentuale di circa il 50-80% dei bambini, in associazione ad un ritardo nell’acquisizione di pattern di alimentazione autonoma e a difficoltà affettivo-relazionali, che si esprimono con ansia alla separazione dal caregiver,in particolare la madre, problemi del sonno (dissonnie, co-sleeping), lamentele somatiche (cefalea, il bambino non mangia volentieri, nausea etc.), iperattività e comportamenti oppositivi, ritiro sociale (fobia della scuola). 

Inoltre studi prospettici e retrospettivi riguardanti campioni di bambini più grandi in età scolare, mentre rilevano un relativo miglioramento nel tempo della malnutrizione associata al rifiuto alimentare in età infantile, evidenziano la persistenza di un atteggiamento di diffidenza verso nuovi cibi sia a casa, sia a scuola, modalità alimentari rigide e poco flessibili, rifiuto selettivo e comparsa di fobie di tipo alimentare nell’ambito di un quadro complesso di difficoltà affettivo-relazionali (ansia di separazione, sintomi depressivi, fobia scolare, fobia sociale). 

La continuità clinica dei problemi alimentari dalla prima infanzia alla fanciullezza e all’adolescenza viene confermata dallo studio prospettico di Marchi e Cohen, che hanno esaminato un campione di oltre 800 soggetti, per un periodo di 10 anni; esplorando una varietà di problemi alimentari, questi ricercatori hanno evidenziato che lo scarso appetito e interesse nel cibo e il rifiuto alimentare sono predittivi di un disturbo anoressico adolescenziale, mentre le irregolarità del comportamento alimentare e la pica rappresentano dei fattori di rischio per la bulimia nervosa in adolescenza. Lo stesso campione di circa 800 soggetti è stato riesaminato ad un successivo follow-up di 17 anni dall’infanzia all’età giovane-adulta; pattern conflittuali e intensamente oppositivi e mancanza di piacere nell’esperienza dell’alimentazione nell’età infantile sono stati identificati quali fattori di rischio per lo sviluppo successivo di disturbi nella sfera alimentare.

I risultati delle ricerche longitudinali sono a sostegno dell’importanza di indagare i disturbi alimentari infantili in quanto possibili situazioni evolutive a rischio per lo sviluppo di disturbi psichiatrici in fasi successive del ciclo vitale e stimolano l’approfondimento degli aspetti diagnostici ed eziologici e delle conseguenze a breve e a lungo termine dei disturbi della sfera alimentare ad esordio precoce.

Prospettive future di ricerca

Alla luce dei più recenti risultati in questo ambito, la valutazione clinica delle difficoltà alimentari ad esordio precoce e i quadri più complessi associati alla sindrome di failure to thrive, non può prescindere, oltre che da un’accurata conoscenza della storia alimentare del bambino e delle caratteristiche individuali sintomatiche del disturbo, dall’approfondimento della qualità del sistema di comunicazione affettiva bambino-caregiver e dei fattori psicologici ed affettivo- relazionali nella storia del caregiver e nella relazione attuale con il bambino che possano compromettere le funzioni della genitorialità. 


L’osservazione delle dinamiche affettivo-relazionali fra la madre e il bambino durante l’allattamento del neonato e il pasto del bambino più grande può fornire conoscenze utili per orientare la diagnosi; in questo campo è stato creato lo strumento della Feeding Scale, recentemente standardizzato e validato nella versione italiana, che consente di esplorare dimensioni specifiche dell’interazione alimentare madre- bambino, monitorando la qualità dello stato affettivo materno, lo stato affettivo della diade, il conflitto diadico e la non-contingenza materna durante gli scambi, le difficoltà autoregolative dei pattern alimentari del bambino. Gli stati affettivi negativi fra il bambino e il suo caregiver, durante il pasto, possono compromettere lo sviluppo delle capacità del bambino di differenziare i segnali interni di fame-sazietà dagli affetti negativi conflittuali di rabbia e ostilità nella relazione, in quanto il bambino può associare emozioni negative intense all’alimentazione che ostacolano lo sviluppo delle appropriate sensazioni psico-fisiologiche della fame e della sazietà.

Inoltre è importante sottolineare che sia la Classificazione clinico-evolutiva dei disturbi alimentari infantili di Chatoor, sia le ricerche in questo ambito, focalizzano la loro attenzione sulla qualità della relazione madre-bambino e sul rischio evolutivo connesso alla psicopatologia materna. Le madri sono più frequentemente responsabili dell’accudimento del bambino, in particolare per quanto riguarda l’alimentazione durante i primi tre anni di vita e sono anche più accessibili per lo studio dei ricercatori; tuttavia ciò costituisce un limite della ricerca in campo infantile, e ricerche future dovrebbero essere orientate verso lo studio del sistema familiare, focalizzando l’attenzione clinica anche sul padre e sul ruolo critico che può svolgere nel proteggere il bambino da un eventuale rischio psicopatologico o nell’incrementarlo. Alcuni primi risultati di ricerca evidenziano la difficoltà dei padri dei bambini con anoressia infantile ad assumere un ruolo paterno significativo che aiuti la madre a distaccarsi dal figlio e quest’ultimo ad affermare e conquistare la sua autonomia; la coppia genitoriale non riesce a coinvolgersi in una comunicazione emotiva aperta e continuativa e in una condivisione intima di intenzioni e aspettative coerenti sulla crescita del figlio, non sostenendone adeguatamente il “processo di separazione-individuazione”, che risulta ostacolato.

I disturbi alimentari infantili sembrano dunque emergere da un complesso intreccio, in cui possono essere implicate variabili multiple: le caratteristiche individuali del bambino e dei caregiver, la qualità dell’interazione familiare e del sistema di             co-parenting. Trova, quindi, conferma l’importanza di utilizzare un modello di valutazione clinico-psicologica nel processo diagnostico e nella formulazione di strategie di intervento mirate per trattare i disturbi alimentari infantili e la sindrome del non organic failure to thrive.

In conclusione sottolineiamo ulteriormente l’importante contributo di ricerca che può essere offerto dagli studi longitudinali per comprendere meglio la continuità nel tempo dei sintomi nella sfera alimentare e il loro cambiamento in differenti fasi evolutive e con l’attivazione di altri sistemi motivazionali, che possono rendere più complessa l’espressione psicopatologica. In particolare studi prospettici di follow-up possono far luce sulla relazione fra disturbi alimentari dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta, e sul rischio di altri quadri psicopatologici, spesso associati ai disturbi della sfera alimentare in adolescenza e in età adulta, come i disturbi d’ansia, i disturbi depressivi e di personalità. Solo in tempi recenti, la ricerca sta esplorando in modo specifico l’associazione fra i disturbi alimentari materni e i disturbi alimentari infantili dei loro figli, evidenziando le modalità disadattive relazionali che si instaurano nell’interazione alimentare fra bambino e caregiver; la ricerca longitudinale dovrà indagare nel tentativo di comprendere gli elementi di continuità e di ripetizione fra le generazioni di tali disfunzioni che coinvolgono il corpo, la mente e gli affetti e sembrano rappresentare anche un fattore di rischio a lungo termine nella genitorialità.

Bibliografia


1  Ainsworth MDS, Bell SM. Some contemporary patterns of mother-infant interaction in the feeding si tuation. In: Ambrose A, ed. Stimulation in Early Infancy. London: Academic Press Inc. 2000; pp. 133- 170.


 

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L'Educazione alimentare in età evolutiva 

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