...gimo a MORRA
a cura di Francesca Barbagli
a cura di Francesca Barbagli
Quello che segue è il racconto di un semino: una piccola esperienza d’indagine etnocoreutica svolta nel territorio aretino e degli anziani che hanno avuto voglia di raccontarsi. Questo articolo è anche la testimonianza della pianta che ne è germogliata e che continua a crescere tutt’oggi, attraverso esperienze nelle scuole del territorio aretino e riflessioni sull’utilizzo delle danze etniche come attività educativa, culturale, artistica, sociale e sportiva, nei contesti dove la loro pratica rituale è caduta in disuso.
Era la primavera del 2005, avevo in testa una musica della manfrina di Morra sentita dal gruppo folcloristico Agilla e Trasimeno di Castiglion del Lago, conoscevo dei balli della Valdichiana e dell’Alta Valtiberina appresi nei corsi dell’Associazione culturale Taranta di Firenze[1], ma soprattutto avevo tanta voglia di incontrare anziani che se li ricordassero: non solo informatori, antropologicamente parlando, ma “nonni” che avevano ballato per piacere in gioventù, persone che vivendo vicino casa mia, potevano raccontarmi un pezzettino di storia del mio territorio e delle mie radici.
Prima di tutto ho ricercato documentazione da chi aveva fatto ricerca sulle danze etniche nella provincia di Arezzo: l’etnocoreologo Giuseppe Michele Gala dell’Associazione culturale Taranta di Firenze, ha pubblicato alcune tracce registrate a Morra dal suonatore di fisarmonica Nicasino Nicasi (tracce n. 35, 36, 37, nel CD n.4 della collana Ethnica, Balli tradizionali in Umbria [Gala, 1992a]) e un articolo dove viene citata la manfrina ballata a Morra (PG) e a Santa Maria della Rassinata (AR) [Gala, 1993]. Morra e Santa Maria della Rassinata sono due paesi situati ad una manciata di chilometri da Arezzo, così una domenica pomeriggio d’inizio maggio, insieme a Stefano Tartaglia dell’Associazione culturale Musicanti del Piccolo Borgo, decidiamo di indagare se in quei territori c’era ancora traccia delle danze menzionate dal Gala.
Per le trasformazioni socio-economiche avvenute durante il corso del ‘900 (emigrazione dalle campagne alle città o in altri paesi, venir meno delle comunità agro-pastorale, trasformazione delle mode coreutiche, ecc. …) molti repertori sono andati perduti anche nel nostro paese. Il primo giorno di indagine ci siamo scontrati proprio con tale scomparsa di biodiversità culturale e il ritornello che ci sentivamo ripetere era sempre lo stesso: le persone incontrate ci dicevano che i balli e la musica che stavamo cercando, quelli antecedenti al liscio, erano praticati dalla generazione dei loro padri, che adesso avrebbero avuto più o meno novant’anni, ma tra i pochi rimasti in vita di quest’età non c’erano più né ballerini, né suonatori.
Santa Maria della Rassinata, località a 16 chilometri dal comune di Arezzo in direzione Valtiberina, si raggiunge da Palazzo del Pero imboccando la strada provinciale della Rassinata (SP 41); è costituita da case sparse, una di queste è il ristorante il Gallo Nero: intervistiamo il proprietario che ci racconta della festa del paese che si volge tutti gli anni a fine agosto durante la quale, se c’è il clima giusto, qualche anziano si lancia nello sciot (scotis locale), un ballo molto ritmato con degli stop (ma purtroppo la festa di quell’estate non fu partecipata causa maltempo) e ci indica Morra come “epicentro” di provenienza dei suonatori tradizionali. Tuttavia, anche in questo secondo paese che decidiamo di visitare, le persone con cui ci intratteniamo a parlare ci indicano, in un primo momento, solo delle tracce: il proprietario del bar-alimentari ci dice che ballerini e suonatori sono ormai tutti morti; gli anziani che giocano a carte sotto il pergolato conoscono la manfrina, ma nessuno la vuol ballare, compreso Duilio Bassini (80 anni circa), ex-barocciaio, un tempo ballerino, ma che ora, «con le vene chiuse che si ritrova», non può più ballare; Romano Zambri (65-70 anni circa) ci parla del cugino Riccardo (classe 1924), fisarmonicista di Città di Castello, che, successivamente contattato ci dirà di sentirsi fuori allenamento per farci ascoltare anche solo qualche melodia; Gianvincenzo (70 anni circa), che un po’ conosce la manfrina, ci parla di Nicarete Nicasi, cugina di suo padre, che organizzò in paese un gruppo folkloristico durante il fascismo; infine il signor Romano, che ci accompagna da un appassionato di tradizioni popolari del paese, Giancarlo Vichi, che diventerà la chiave di volta della nostra caccia al tesoro: il padre, Renato Vichi, era un bravo ballerino del paese, lui si ricorda di quando lo vedeva ballare la manfrina e ci promette che avrebbe fatto qualche tentativo di indagine anche tra i suoi parenti. E infatti all’inizio di agosto Giancarlo ci telefona per dirci che ad un pranzo di parenti, ha rincontrato una vecchia zia acquisita, Piera Bassini, emigrata in Francia, che faceva parte anch’ella, da giovane, del gruppo folcloristico I Selvarini di Morra, insieme al padre di Giancarlo.
[1] Per maggiori informazioni segnalo il sito dell’Associazione Culturale Taranta di Firenze fondata dall’etnocoreologo Giuseppe Michele Gala www.taranta.it
"I Selvarini di Morra" 2 giugno 1938, in primo piano da sinistra Dina Vichi con Nicasino Nicasi, Ferri Angelo con Guerrina Vichi, Piera Bassini con il dottor Amici, foto gentilmente donata da Giancarlo Vichi.
Piera sarebbe ben contenta di insegnare a qualcuno i balli che ancora ricorda, così combiniamo un incontro a casa della sorella Pia Bassini per il pomeriggio del 12 Agosto 2005. Ci rechiamo nuovamente a Morra, ma questa volta passando da Castiglion Fiorentino e proseguendo per la meravigliosa Val di Chio (SP 104). Quando arriviamo al paese quattro generazioni sono pronte ad aprire il “baule dei ricordi” e a condividerne con noi il contenuto: le sorelle Bassini, Piera (18/12/1919) e Pia (22/3/1925); Angelo, il marito di Pia; la figlia Lisetta, il genero, la nipote Daniela e la pronipote; Lorenzina, cugina di Giancarlo; Giancarlo stesso, Elio Peli presidente della Pro Loco e altri vicini di casa (i legami di parentela degli informatori sono riassunti nella tabella 1). Con la musica registrata nel già citato cd, in questo primo giorno di riprese, le sorelle Bassini (a volte aiutate da Giancarlo e da Daniela) danzano per noi: la sciottisse o scioltisse morrigiana, il puntatacco, il Sor Cesare, il ballo della lavandaia, passi e prese antiche di mazurca e valzer, la cenni di manfrina morrigiana, una polca, un valzer “strisceto” e qualche passo di trescone, ricordi di paparagianni (tutti balli per la maggior parte già documentati da Giuseppe Michele Gala).
Le dimostrazioni dei balli sono intervallate dalla visione di vecchie foto del gruppo folkloristico che Giancarlo ha gelosamente conservato e da un’intervista a Piera, che in molti momenti diventa una chiacchierata collettiva: il “baule dei ricordi” si apre ed entriamo nella Morra di circa 80-90 anni fa. Urbano Bassini, il padre di Piera e Pia, era un fabbro ma, proprio sotto casa, aveva anche una bottega con vendita di carne e mescita di vino, importante luogo di ritrovo per il paese. Inoltre suonava la fisarmonica, così erano frequenti le feste in casa Bassini, al Palazzo (raggruppamento di case poco prima di Morra, dove si trova ancora la casa natale di Piera e Pia):
[Piera] «Quando prendeva la fisarmonica sulle mani tutt’ il contorno si riempiva la casa, e poi si ballava!»
Tuttavia già negli anni ‘30, quando le sorelle erano adolescenti, quei balli erano considerati antichi:
[Piera] «[Si ballava] valzer, polca e ‘sti balli antichi che piacevano, de già erano antichi quando ero giovane io eh! Perché si ballava i balli che facevano i nostri nonni, perché il mio babbo di già aveva 40- 45 anni, questi erano balli che facevano quando lui era giovane.»
Le due sorelle, tra le feste in casa e quelle in paese, il ballo lo praticavano spesso; danzavano principalmente in autunno e in inverno, quando l’attività agricola era scarsa, e soprattutto nel periodo di Carnevale, perché d’estate c’era da lavorare nei campi, e poi c’era il prete che non avrebbe benedetto le case se si continuava a ballare anche durante la Quaresima:
[Lisetta] «D’estate cantavan più che mai, nei campi.»
[Piera] «D’estate no, perché c’eran i lavori nei campi, le serate…, sono stanchi, perché quassù eron tutti contadini, e poi quando fa caldo non è che piace ballare, erano balli un po’ faticosi.»
[Giancarlo] «Nel periodo delle castagne era tutto un ballo, per le castagnature era tutto un ballo.»
[Piera] «Se balleva dal carnevalino che sarebbe stato da settembre a novembre, fino a quando no?»
[Angelo] «Per ballè era dopo Natale.»
[Piera] «Tutti i sabati si ballava e solo per carnevale, se no c’erano i preti che non volevano. […] Sì perché fuor de Carnevale, dopo veniva Quaresima dopo finito il Carnevale, a mezzanotte toccava smettere netti, che dopo era Quaresima. […] Dopo en venuti dei preti che erano più esigenti e dove ballavano non andavano a dare l’acqua santa, questo a Quaresima. Perché veramente il male sul ballo non si fa perché si s’ascolta la musica se balla ‘un è che ci abbraccia come credevano i preti. Adesso ‘un dico più niente…ha capito! C’era quello Don Placido, che era venuto dall’alta Italia, se no han ballato sempre anche i preti ai tempi dei vecchi e dopo è venuto un prete dall’alta Italia a Morra e ha bandito il ballo, era peccato.»
[Pia] «C’era Calderoni.»
[Piera] «Era un altro prete che dove han ballato non andava a dare l’acqua santa. Perché lì passano a Pasqua a benedir le case e dove avevan ballato non ci passavano. Allora era una cosa grave per la famiglia»
Tutti gli intervistati ci confermano quindi che i tempi della festa erano legati al calendario agropastorale e religioso «divenendo rituali appuntamenti di riferimento per le popolazioni che conservano tali tradizioni» [Gala, 2013, p.66].
Quando si ballava lo si faceva anche a lungo:
[Piera] «Delle volte fino alla mattina.»
[Francesca] «Ah! Vero?»
[Pia] «Il mi marito ha ballato anche fino alla mattina qua.»
[Angelo] «Per dispetto si balleva fuori, per il prete no.»
[Pia] «Per fargli vedere al prete.»
Come scrive l’etnocoreologa Placida Staro[2], in una ricerca sulle valli del Savena, Reno, Setta, Sambro, Idice e Zena, «si iniziava dopo il vespro e si andava avanti fino a quando filtrava la luce dagli scuri. Il padrone di casa serrava gli scuri dal di fuori per restare in un’eterna notte, per allontanare sole e fatica, per trasformare la vita in una danza eterna» «proprio in questo momento risuonava l’invocazione surreale “Che non venisse mai giorno!”» [Staro, 1995, p.2].
Una delle esperienze centrali nella vita di ballerina della Piera è stata indubbiamente la sua partecipazione dall’età di circa 15 anni al gruppo folkloristico del paese, i Selvarini di Morra, organizzato, con sei-otto coppie del paese, dalla signora Nicarete Nicasi (proprietaria terriera di Morra e dintorni e madre di Nicasino Nicasi, il suonatore registrato da Gala nel 1988).
[2] Per maggiori informazioni segnalo il sito dell’Associazione Culturale E ben venga maggio di Monghidoro di cui Placida Staro è fondatrice e dove si possono trovare le sue ricerche: www.ebenevengamaggio.it .
Gruppo folkloristico "I Selvarini di Morra" 2 giugno 1938, foto gentilmente donata da Giancarlo Vichi
[Piera] «Ho cominciato a quindici anni, proprio giovane. Io ho cominciato a quindici anni, quando siamo andati a Roma ne avevo diciotto.»
[Francesca] «Quindi è stata una bella esperienza?»
[Piera] «Sì sì perché a quell’epoca non c’era niente per noialtri e allora una volta s’andava de qui…poi si facevano le…come se dice…le canzoni. […] Questo gruppo è arrivato con Città di Castello che c’era la festa del miele e alla Nicarete hanno domandato, non so se sei coppie o più per ballà i balli vestiti in costume e fare i balli antichi, allora lei ci ha fatto il costume e ci ha fatto andà a ripete questi balli perché se doveva partì tutti da un piede, perbene e siamo andati a Città di Castello al teatro. Po’ dopo siamo stati a Spoleto a Monte…che veniva il federale, di Mussolini. Un’altra volta siamo stati a Passigna del Lago e c’era il federale, un’altra volta a Bocca Trabaria, che c’era tanti…non solo noialtri.»
Piera, già brava ballerina, esibendosi con i Selvarini ha potuto maggiormente fissare le danze nella sua memoria, che è viva ancora oggi, nonostante abbia smesso di praticarle da dopo il matrimonio (avvenuto dopo la seconda guerra mondiale) e nonostante gli acciacchi dell’età. Tuttavia si rammarica di non riuscire più a mantenere quel passo saltellato, caratteristica stilistica di molti dei balli che ci propone, sul quale puntualizza molto durante tutte le interviste. Gala cita tra gli elementi di individuazione di un ballo tradizionale il repertorio modulare di passi e gestualità, e la postura dominante del corpo che influisce sullo stile esecutivo generale [Gala, 1999a]. Piera è quindi molto consapevole degli aspetti stilistici locali sia dei balli staccati che di quelli legati ed è cosciente anche delle modificazioni ad essi apportate per esigenze spettacolari, nel gruppo folkloristico morrigiano: ci racconta con dovizia di particolari delle differenze che a volte venivano introdotte dalla signora Nicasi rispetto al modo di ballare paesano:
[Piera] «E’ la signora che ce l’ha fatta fare così!»
La scioltisse veniva eseguita: con presa ad una mano (destra dell’uomo-destra della donna) diversamente dalla forma staccata o legata a liscio comunemente usate; sempre in cerchio, mentre normalmente si ballava in ordine sparso; inoltre i primi due moduli erano entrambi camminati (si rimanda più avanti alla spiegazione del ballo), invece quando la si ballava alle feste, il secondo modulo poteva anche consistere, a piacimento del singolo ballerino o di entrambi, in una serie di passi di galoppo laterale strusciati. Nel puntatacco comunemente si eseguivano due tacco punta, ma nelle esibizioni dei Selvarini se ne e facevano tre. Nicarete Nicasi aveva dunque eliminato elementi di variabilità e creatività e uniformato le geometrie coreutiche: e questo è un esempio di come molti gruppi folkloristici, a partire dal XIX secolo, tendano a costituire esempi di esposizione stilizzata di balli tradizionali locali (realmente tradizionali o coreografati ad hoc) [Gala, 1999b], e, per la loro natura di gruppi da spettacolo, creano una danza di composizione che spesso elimina le varianti locali e separa i ballerini sul palco dal pubblico spettatore, divisione non presente nella pratica tradizionale dove i partecipanti all’evento danza sono al contempo pubblico e attore in un ciclo continuo tra questi due ruoli. Tuttavia, la presenza dei gruppi folkloristici è spesso preziosa, perché, in zone dove la tradizione è venuta meno, permette la conservazione di nomi, musiche, e alcuni passi dei balli stessi.
Piera ricorda delle esibizioni fatte nelle feste a Morra e nei paesi limitrofi e dell’esperienza più emozionante vissuta con i Selvarini: la loro partecipazione allo spettacolo organizzato da Mussolini a Roma in piazza di Siena a Villa Borghese per la visita di Hitler in Italia, la sera del 6 maggio 1936. Fu un grande spettacolo folcloristico di danze tradizionali con la partecipazione di ballerini di tutt’Italia, evento testimoniato anche in filmati dell’Istituto Luce [Istituto luce, 2005, 10’,51’’-11,14’’] e che lei ricorda con queste parole:
[Piera] «Ma a Roma s’era diciotto coppie di Morra. Allora l’aveva aggiunte più e più, perché lì volevano riempire, volevano tante coppie, allora era riuscita a farne diciotto. Allora siamo andate un mese a ripetere tutte le sere perché c’erano i nuovi che dovevano imparare. Noialtri s’era, me sembra sei o otto coppie. […] S’era novecento coppie de ballerini che se ballava il salterello che sarebbe il trescone. Poi c’era novecento fisarmoniche e novecento della banda che suonaveno. Prima c’era i cori che cantavano e poi noialtri a piazza di Siena dove fanno tutte le feste, l’altro giorno hanno fatto la festa dei Carabinieri.»
[Francesca] «Ma queste novecento coppie erano di varie parti d’Italia?»
[Piera] «Sì de tutta l’Italia e ballavano tutti la stessa cosa, chi a un modo chi a un altro perché el salterello anche c’è più modi de ballarli, ma però tutti insieme.»
Siamo molto incuriositi anche dai suonatori e chiediamo se ancora c’è qualcuno che è rimasto vivo, ma tutti i componenti dei Selvarini sono morti, tranne lei, e anche i suonatori non ci sono più.
[Francesca] «Ma e quando andavate a fare gli spettacoli c’avevate i musicisti? Chi è che suonava?»
[Piera] «Si ci s’aveva la fisarmonica e il clarino.»
[Francesca] «E chi erano loro?»
[Piera] «E….si chiamava Cimboli.»
[Francesca] «E questo clarino non se lo ricorda?»
[Piera] «Non eran del nostro paese.»
[Francesca] «E quindi qua in paese c’era questo Cimboli, questo Nicasino che suona la fisarmonica, lui era piccolino però anche lui suonava la fisarmonica, e poi altre persone che suonavano anche magari al di là del gruppo?»
[Pia] «Ma Nicasino ora è armasto da solo, mica ‘un c’è più a Morra, mica ce l’ha tenuto la su nora.»
[tutti] «E dove l’ha messo?»
[Pia] «A Castello.»
[Lisetta] «E’ anziano. Quanti anni c’ha?»
[Pia] «E’ del 23.»
[Lisetta] «Allora 82 anni.»
[Angelo] «Marrino c’è a Giovane, Cimbali c’è al Mulin Novo.»
Chiediamo informazioni per contattare Nicasino Nicasi, ma ci dicono che, oltre che non risiedere più a Morra, non è più in grado “d’intendere e di volere”: morirà il 24 giugno del 2007.
Continuando il suo racconto Piera ci dice che smise di ballare dopo il matrimonio e si trasferì a Volterrano (paese che s’incontra poco prima di Morra venendo da Castiglion Fiorentino e percorrendo la Val di Chio in direzione Trestina, lungo la SP 104 al confine tra comune di Arezzo e comune di Città di Castello). Piera accenna anche al tema della differenza di genere rispetto alla pratica del ballo:
[Piera] «Io nn’ ho più ballato, dopo mi s’ho sposata, è sessantacinque anni che n’ho più ballato. […] Io è sessantacinque anni che so’ sposata e non li ho ballati più, ne questi e ne altri. […] Bandito el ballo. E’ bandito perché se sa che dopo c’è i figlioli, continuavano a ballà lassù ma io non ci so’ più andata. Facevano le feste de Carnevale, le feste de…non lo so…se mettevan d’accordo.»
[Piera] «Mi sa che non ballavano manco più, mi sa che ballavano il salterello, qualcuna, ma non c’erano. Perché gli uomini ballavano fino a che potevano, le donne smettevano prima.»
[Pia] «Poi c’erano i figlioli de mezzo.»
[Piera] «Che ne so vol dire che la donna quei tempi invecchiava prima.»
[Stefano e Giancarlo] Mah! A guardarvi non sembra.»
[Piera] «A quei tempi le donne stavano più in casa, gli uomini ...»
Dopo il matrimonio la guerra. Morra non viene distrutta dal passaggio del fronte, ma anzi è luogo di sfollati, tuttavia la Seconda guerra mondiale segnerà la fine del gruppo folkloristico.
[Piera] «Eh! Dopo la guerra non c’era più chi ci faceva ballare. Perché era lui [il federale] che ce faceva queste feste, dei raduni, del pubblico con le ballerine, mica noialtri soli.»
E dopo la guerra, alla fine degli anni cinquanta, un’altra esperienze segna la vita di Piera, infatti emigrerà a Carros, vicino Nizza, dove tutt’ora risiede. Ma appena arriva il caldo ogni anno torna in Italia, a Volterrano, dove ha mantenuto la casa in cui era andata a vivere da sposata e in cui sono nati i suoi quattro figli (e ci tiene a ribadire che la sua progenie è stata molto prolifica: 18 tra nipoti e pronipoti!).
[Piera] «Nel ‘57 sono andata a Nizza. Ma quante volte c’ho pensato tra me, ho detto non c’è stato nessuno a Morra che ha domandato de continuare questi balli. Sono balli antichi, cercon tutti l’antichità! […] Dopo il ‘62, ‘63 c’era lavoro per tutti anche qui , ma a quell’epoca c’avevo i figlioli, due maschi grandi, non c’era verso di avviarli al mestiere, ne nulla…e in Francia c’avevo una sorella.»
[Giancarlo] «Nella zona di Nizza là c’erano già italiani che si conoscevano.»
[Piera] «Son tutti italiani là.»
Il “baule dei ricordi” ormai aperto, in realtà contiene una memoria di comunità, e come in una ricerca azione che in qualche modo va ad attivare i soggetti stessi della ricerca, rendendoli attori di cambiamenti migliorativi, il 18 Agosto siamo di nuovo a Morra perché alla Piera sono tornati in mente altri ricordi, altri balli e altre precisazioni e al recupero dei ricordi questa volta partecipa Elio Peli, presidente della pro loco, con un CD registrato a Morra e datogli dal sindaco di Città di Castello. Non si sapeva bene quali canti e danze contenesse e i nostri informatori saranno di fondamentale aiuto per capirne il contenuto: canti di castagnatura e di mietitura, episodi di ballo, suonatori della zona e finalmente la musica adatta per la scioltisse. Non possedendo l’attrezzatura per amplificare in modo adeguato il CD, accostiamo la nostra macchina alla finestra della sala e con lo stereo a tutto volume, che sparge quella vecchia registrazione per tutto il cortile, la Piera e la Pia, da dentro la sala gridano:
[Piera e Pia] «Questa è perfetta! Questa se ballerebbe bene, te fa movere le gambe, eh! ‘Na scioltisse bella, con la fisarmonica, questa è suonata bene!»
Il marito di Pia, ascoltando il CD, è sempre più convinto che i brani da ballo in esso registrati (tre polche, un trescone, la scioltisse, il puntatacco e il sor Cesare) siano eseguiti dal suonatore di fisarmonica Eugenio Barbanera, detto Micalino.
[Pia] «E’ Micalino? Te sembra Micalino?»
«Il suonatore da ballo ha un ruolo centrale come cerimoniere della festa» scrive Placida Staro, [Staro, 2014, p.374] e un bravo suonatore è indimenticabile per chi, come Angelo ha ballato sulle sue note. Facendo un parallelismo tra Morra e le valli emiliane, dove la Staro ha fatto ricerca: «Nella cultura emiliana montanara la danza è ritenuto uno strumento di rassicurazione individuale e di riconferma sociale così potente da essere fuoco centrale sia della ritualità ordinaria che di quella straordinaria (la veglia notturna, come il fidanzamento o la veglia funebre). L’evento danza è una cerimonia i cui celebranti sono i suonatori, riconosciuti socialmente come persone dallo straordinario potere, perché in grado di regolare lo star bene e la meraviglia. Maravèja e il soprannome attribuito al suonatore in grado di regolare l’emozione e la commozione degli altri» [ivi, p.391]. Come sosteneva il noto suonatore da ballo di violino Melchiade Benni, «oltre a conoscere le regole della cultura di danza locale e a rispettare correttamente l’“interpretazione” del tempo musicale, per “fare” un suonatore da ballo ci vuole anche l’“onda”, […ovvero…] sapere quali variazioni “chiamano” il ballerino a camminare, saltare o prillare.» [Staro, 2002, pp.37-38] e Micalino, dalle esclamazioni di Pia e Piera, pare proprio che ce l’avesse avuta!
Il CD portato da Elio contiene anche stornelli, ninne nanne e filastrocche. Si tratta di stornelli alla mietitura (cantati da donne e uomini durante la raccolta del grano) e stornelli alla castagnatura (cantati dalle donne durante la raccolta delle castagne), che Pia e il marito Angelo cominciano a intonare insieme al CD, ricordandosi di quando li cantavano da giovani: la vita nelle comunità agro-pastorali era profondamente legata alla terra. Melchiade Benni sosteneva che «[…] per poter tirar fuori l’anima dagli uomini bisogna saperla prendere dalla terra […] perchè l’onda [quella della musica] viene infatti direttamente dal collegamento tra uomini e ambiente naturale [Staro, 2002, p.44 e p.53]. Pia e Angelo si ricordano che negli ultimi anni in cui le donne andavano a raccogliere le castagne, le più giovani cantavano anche Celentano! Con l’arrivo del pop la cultura tradizionale si comincia a perdere e, in certi luoghi, sembra non esserci abbastanza spazio per coesistere. In quei luoghi dove i processi produttivi industrializzati o le migrazioni hanno sfaldato il tessuto sociale delle piccole comunità locali (e ancora di più nelle città), in quei luoghi dove la cultura di massa ha spazzato via le biodiversità culturali locali, si è perso il collegamento con la terra e più in generale con l’ambiente naturale indigeno di cui parla Melchiade Benni e presente nelle vite dei nostri informatori.
Durante le due giornate in cui ci siamo incontrati a casa Bassini-Laurenti, le danze sono state ballate, ma di danze si è anche parlato, commentando il filmato, da me realizzato, delle loro esecuzioni: la Sciottisse o Scioltisse morrigiana, il Puntatacco, il Sor Cesare, il Ballo della lavandaia, passi e prese antiche di valzer e mazurca, cenni di Manfrina morrigiana, una polca, un valzer “strisceto”, qualche passo di Trescone, il Ballo degli schiaffi, ricordi in merito al Ballo della scopa, al Ballo delle fave e al Paparagianni.
In questo paragrafo arricchirò la testimonianza delle sorelle Bassini con notizie, provenienti dalle importanti ricerche di Giuseppe Michele Gala, in merito alla diffusione e alla storia di queste danze; frammenti dei filmati della ricerca, schede dettagliate sull’esecuzione delle danze e alcune trascrizioni musicali, sono visionabili su questo sito cliccando sui bottoni verdi in cima all'articolo.
Prima di entrare nel dettaglio di questa parte della mia indagine, vorrei inquadrare l’area coreutica in questione. Morra, anche se amministrativamente in Umbria è al limite con la Toscana. La nostra regione è terra di confine tra varie famiglie di balli: le danze della zona appenninica con il prevalere della struttura chiusa [3], dove a frase musicale corrisponde figura coreutica, o chiusa con alcune parti aperte: es. manfrine, gighe, moresche; le danze della fascia centrale e maremmana maggiormente a struttura aperta o pantomimica: es. tarantelle, saltarelli, trescone; infine sono diffusi in tutta la regione balli cantati, balli ad invito, liscio figurato, balli gioco, quadriglie e scotis [Gala, 1987]. Anche l’Umbria si trova al centro di differenti aree folkloriche mostrando una compresenza di famiglie etnocoreutiche differenti [Gala, 1992a]: il Saltarello nella zona orientale appenninica verso le Marche; Manfrina, Paroncina, Furlana, Ballo degli schiaffi nella parte settentrionale corrispondente all’alta Valtiberina che risente di influenze romagnole; Trescone, Tacco e punta, Polca rossa, Sor Cesare nella Valdichiana umbra caratterizzata da influenze toscane; Saltarello e Tarantella nell’area ternana e orvietana dove arrivano le influenze sabine, laziali e in generale dal meridione. Si ritrovano tuttavia elementi coreutici originali (vedi in particolare TAB.2) come ad esempio alcune manfrine, alcuni scotis, una giga in forma di contraddanza (Ballindodici), balli a invito (Ballo della sala, Ballo del sospiro), balli gioco (Paparagianni, Ballo imperiale, Ballo della lavandaia, Linea Garibaldi) [ivi].
[3] Giuseppe Michele Gala ha individuato in Italia quattro tipi di corrispondenza tra musica e danza: ballo a struttura chiusa quando ad ogni parte o figurazione coreografica corrisponde un motivo melodico e viceversa (es. manfrine); ballo a struttura aperta quando la corrispondenza è solo ritmica: suonatore e ballerino organizzano liberamente il repertorio dei moduli melodici e l’ordine e la durata dei passi e delle figure coreutiche, e’ necessaria quindi una profonda acquisizione delle regole e del linguaggio globale del ballo, una discreta abilità compositiva, una forte intesa fra ballerini e fra ballerini e suonatori (es. tarantelle); ballo a struttura modulare quando esecuzione musicale e coreutica sono costituite da moduli metrici codificati e iterativi: quindi uno stesso schema di passi viene mantenuto per tutto il ballo, le variazioni sono possibili purché rientrino nelle cadenze principali e nello schema ritmico fondamentale (es. balli sardi, scotis); ballo a struttura pantomimica il ballo consiste nel mimare più o meno liberamente un tema che spesso è il corteggiamento espresso con movenze erotiche e allusive (es.trescone) [Gala, 1991].
“I Selvarini di Morra” 2 giugno 1938, foto gentilmente donata da Giancarlo Vichi
3.1 LA SCIOLTISSE O SCIOTTISSE
La Scioltisse o Sciottisse è il primo ballo che Piera e Pia ci presentano, ma il primo giorno ci sono problemi di musica; secondo le ballerine nelle scotis umbre che ho a disposizione, o mancano le battute, o il ritmo non è ben cadenzato per il loro ballo; solo con il provvidenziale CD della Pro Loco riusciamo a trovare la musica giusta. Si tratta di una scotis con quattro moduli ripetuti per tutta la durata della musica di 4 tempi ciascuno, dove a ogni modulo si cambiano i passi (due passi camminati, mezzo giro antiorario di polca; quattro passi doppi laterali frontalmente al proprio ballerino, oppure si ripete il primo modulo; un giro orario di polca; due saltelli semplici in avanti e due indietro). Questo ballo è eseguito anche dal gruppo folkloristico di Lucignano (Arezzo) ed è stato documentato in una forma simile anche dalla Compagnia Il Cilindro di Monsigliolo, in una ripresa fatta ad un ballerino di Cortona chiamato Podi. Dunque potrebbe trattarsi di una scotis diffusa tra alta Valtiberina e Valdichiana.
Entrambe le sorelle mi fanno notare le differenze di stile tra le generazioni che erano già presenti quando loro erano adolescenti: i più giovani ballavano la Scioltisse legata a liscio, mentre i più anziani e anche i ballerini più bravi la ballavano sciolti, senza alcuna presa. Anche se la scotis di per sé nasce come ballo legato, come in altri contesti italiani, si era adattata alle caratteristiche dei balli locali (vedi nota n.4), dando vita a Morra a una versione staccata; tuttavia, come era successo per altri balli staccati, con la diffusione massiccia del liscio, si assiste anche ad un processo inverso, di “polchizzazione” [Gala, 1992a], e in molti dei vecchi balli si sostituiscono i giri di polca ai giri di braccia, che permettono un contatto fisico maggiore. Pia si ricorda che ballava la Scioltisse con un signore (di 55 anni circa quando lei ne aveva 15-18) e la ballavano senza connessione, quindi la cosa difficile, ma bella, era fare tutti i movimenti coordinati, restando sempre uno davanti all’altra: era necessaria un’intensa intesa per condividere lo stesso spazio di ballo.
[Pia] «Quand’ero ragazza, se ballava a casa mia, e c’era un uomo anziano, che ballava tanto bene la Scioltisse! Se ballea ognuno per conto suo, senza tenesse, e se girea in coppia…tutto bene, bene, bene!!![Piera] Però ce voleva uno che sapeva ballà.»
[Pia] «Io ballavo con lu [Eugenio Conti] e con Cencio de Cicalino.»
[Piera] «Che stava quaggiù. Erano già anzianotti per noialtri.»
[Pia] «Potevon essere il mi babbo!»
[Piera] «Eran vecchi!»
[Pia] «Ma ballean bene!»
Approfondendo diffusione e notizie storiche, lo scotis [Gala, 1992b], è una danza di coppia legata o staccata ed eseguita da un numero variabile di coppie miste, facente parte dell’ampia famiglia di polke figurate. Innumerevoli in tutt’Italia le varianti melodiche, coreutiche e la terminologia utilizzata per indicare questo ballo a seconda delle influenze linguistiche locali (scotis, sciotis, scioltise, sciortis, sciolis, scortis, sótice, scòtese, scòttis, scòttise, scottisa, sciotise, sciottë, scotino, ecc...). Fu inventata durante la prima metà del 1800 in Germania dai coreografi di palazzo con il nome di schottisch. Secondo Sachs, era il risultato di una fusione tra l’écossaise francese, il valzer della zona austro-bavarese e la polca figurata. Molto di moda nell’area germanica nella prima metà del XIX secolo, la schottisch si propaga rapidamente in Francia e giunge in Italia come danza per sale aristocratiche, passando subito nei ritrovi della piccola borghesia cittadina e di paese e diffondendosi (anche attraverso la circolazione a stampa dei motivi musicali) tra i suonatori della fascia artigiana (barbieri, sarti, falegnami, impiegati) capaci di leggere la musica, e in parte anche nel mondo contadino. La scotis si cominciò a ballare in tutta la penisola, ma mentre le esecuzioni in ambienti aristocratici e borghesi tendevano a conservare un maggior legame coi modelli originari, nelle feste popolari delle città e dei centri rurali si mescolò ai balli preesistenti dando luogo ad una miriade di forme differenti, e quella di Morra ne è un esempio.
Piera e Pia Bassini, fotogrammi del filmato realizzato a Morra il 12 e 18 agosto 2005 da Francesca Barbagli
3.2 PUNTATACCO E SOR CESARE
Il Puntatacco e il Sor Cesare, rispettivamente una polca e una mazurca figurate, sono altri due balli di coppia che le sorelle ricordano molto bene.
Nel primo si abduce, lateralmente alla coppia, la gamba puntando a terra il tacco e si adduce la stessa gamba puntando a terra l’avampiede per due volte e poi si eseguono dei passi doppi di galoppo laterale nella stessa direzione del tacco-punta; si ripete il tutto dall’altra parte e infine si eseguono dei giri di polca. Nel secondo ballo, una mazurca, si gira alternatamente a dritto e a rovescio, il cambio di giro è segnato da un accento della musica in corrispondenza del quale si esegue uno stop battendo il piede lateralmente.
Piera insiste molto, nei vari incontri avuti, sul carattere saltellato e non strusciato dei passi anche nel liscio figurato.
L’area di diffusione del tacco e punta o punta e tacco è l’Italia centromeridionale dove Giuseppe Michele Gala ha trovato più informatori che conoscevano questa danza o ne ricordavano il motivo coreutico. La versione dell’Umbria occidentale (dove è chiamata puntitacco) di questa polca figurata è uguale a quella toscana aretina-maremmana. Nella bassa Valdichiana il ballo viene anche accompagnato da un cantato che suggerisce i movimenti che i ballerini devono compiere: “Punta e tacco e tiralo qua, punta e tacco e tiralo là!” [Gala, 1994, pp. 291-292].
Rispetto alla diffusione e alle notizie storiche sul Sor Cesare tale ballo, diffuso tra Valdichiana, Maremma, Val d’Orcia (Toscana) e alta Valtiberina (Umbria), è nato probabilmente in Toscana da una canzone narrativa, che riprendeva un fatto di cronaca rosa fra Cesare detto “Bon Bon” e Nina. La canzone fu diffusa dai cantastorie nei loro spettacoli durante le fiere e mediante la vendita di fogli volanti. Sullo stesso motivo musicale si sono poi inventati dei ritornelli per memorizzare meglio la coreografia: es. “Sor Cesare di qua, sor Cesare di là” che forniva un’indicazione coregica infatti la coppia si gira e batte il piede esterno o le mani da ambo le parti [Gala, 1994, pp. 256-258]. La versione umbra del ballo prevede che le coppie siano sempre legate a liscio facendo continui giri; la versione toscana, ha una durata maggiore della parte di mazurca e prevede differenti modalità di marcatura degli stop, anche con l’apertura della coppia da un lato e dall’altro restando legata solo con un braccio.
Piera Bassini e Sante Operanti, fotogrammi del filmato realizzato a Morra il 25 maggio 2006 da Francesca Barbagli durante l’incontro con i bambini della scuola elementare
3.3 IL BALLO DELLA LAVANDAIA
Proseguendo l’intervista, è la volta di un ballo gioco, cantato e mimato, il Ballo della Lavandaia dove uomo e donna, uno di fronte all’altro, duettano in un canto accompagnato da gesti che mimano il dialogo tra i due, che ha per oggetto la lavatura di un fazzoletto in segno dell’amore, seguono quindi giri di polca. Piera spiega così l’origine del ballo e di alcuni suoi gesti:
[Piera] «A l’epoca s’andava a lavà fuori, allora se sbatteva i lenzuoli.»
Si tratta di un antico ballo pantomimico a carattere narrativo e rappresentativo, diffuso nell’Italia centrale. Molte delle versioni prevedono un dialogo di corteggiamento cantato e mimato fra un uomo ed una lavandaia: la richiesta di lavare il fazzoletto è chiaramente un pretesto amoroso, che si conclude, dopo la risposta positiva della donna, con l’unione simboleggiata dal ballo legato in coppia. Ricorda indubbiamente “La bella lavanderia, che lava i fazzoletti, per i poveretti della città ...” una danza cantata che tutti abbiamo ballato da piccoli. Questo ballo era largamente diffuso in Europa sin dal tardo Medioevo (è citato già come Branle des lavandères dal Thainot Arbeau nel XV in Francia). La tradizione italiana scarseggia di balli di narrazione e questa danza, che ne è un raro esempio, doveva avere una larga diffusione in tutta la penisola (nel XIX il Belli lo cita come uno dei balli più usati nella Roma popolare insieme al saltarello, ma anche in tutta la Romagna e l’Abruzzo) dove viene anche chiamato La vanderina (Romagna), Ballo della lavandera o Ballo del fazzoletto [Gala, 1992a; Gala, 1998, p.73-74].
3.4 VALZER, POLCHE E MAZURCHE
Piera e Pia si divertono a mostrarci anche Valzer, Polche e Mazurche. La memoria di Piera è così viva che addirittura si ricorda passi di liscio antico, in disuso anch’esso già quando erano piccole (anni ’30 del Novecento) e cerca di insegnarmene il particolare stile:
[Piera] «Questa sarebbe la mazurca, se fa tre passi e po’…s’alza la gamba e nella presa stavano più distanti per poter alzare la gamba.»
[Piera] «Anche il valzer era saltellato.»
Poi però il valzer si cominciò a ballare più strusciato, anzi “strisceto”.
[Pia] E ma prima prima se balleva strisceto il valzer. Questo è strisceto!»
3.5 MANFRINA MORRIGIANA E DI SANTA MARIA DELLA RASSINATA
La Manfrina morrigiana è, tra i balli antichi, quello che Piera si ricorda di meno, anche perché non lo eseguivano nel gruppo folkloristico dei Selvarini. Così nei due nostri incontri mi accenna il passo saltellato che sta alla base del ballo
[Piera] «Bisogna saltellare.»
e altri frammenti, che mi fanno pensare senza ombra di dubbio che si tratti del ballo descritto da Giuseppe Michele Gala [Gala, 1993] praticato sia a Morra che a Santa Maria della Rassinata: ballo per due coppie, composto da un passeggio (braccetto o polca), un saluto, e una terza parte variabile (stella, ponti, intreccio), così decido di farle vedere l’intreccio (la figura che tentava di eseguire ma non si ricordava bene):
[Piera] «E’ vero! E’ così! Ha ragione!»
Mi dice anche che si divertivano a darsi delle sederate durante l’intreccio:
[Piera] «Ce se dava le sfiancate.»
[Francesca] «Ah, quando vi passavate vicino?»
[Piera] «Chissà quanto l’ho studiato, ma se ballava questo a casa mia.»
[Francesca] «Ah questo si ballava quando suonava il suo babbo?»
[Piera] «Avevo diciassette, quindici anni, con la Nicasi non si ballava questo. E’ bellino!»
Infine mi precisa che si poteva ballare anche con 3 coppie.
Parlando di diffusione e notizie sulla danza, possiamo dire che la manfrina è la più ampia famiglia di danze dell’Italia centro-settentrionale, infatti era diffusa in Lombardia, Veneto, Trentino, Emilia e Romagna, Montefeltro, Toscana e Umbria fino alla Sabina e, a seconda del dialetto è chiamata: manfrina, manféna manfrènna, manfrèina, manfereina, monfreina, monfereina, moffrina, muffrina, monferina, monfrina, manfrone. Riguardo l’origine del ballo, etimologicamente si è soliti far derivare la manfrina dalla toponimica Monferrina (ballo del Monferrato), ma secondo altre ipotesi nasce dalla Manfredina, danza colta del XIII secolo o dalla Manfrolina, danza citata già nelle raccolte musicali rinascimentali del XV secolo. Formatasi nelle forme giunte sino a noi probabilmente nel corso del XVIII secolo o nei primi decenni del XIX, la manfrina è una danza articolata in più parti coreografiche corrispondenti ad altrettanti parti musicali. Nel tempo c’è stato un proliferare di varianti, quasi che ogni comunità tendesse a elaborare una propria forma e una propria melodia (sotto l’aspetto melodico c’è una frequente somiglianza fra manfrine e quadriglie) [Gala, 1993]. Tutte le manfrine a struttura chiusa, erano eseguite generalmente da due coppie miste oppure da un numero indeterminato di coppie disposte in cerchio e hanno l’intreccio come figura ricorrente, tranne che nelle valli emiliane. Ne esiste poi una forma pantomimica ballata in coppia, dove si inscena un corteggiamento, documentata in Val d’Intelvi e in forma simili anche nelle Alpi venete e tra le comunità italiane in Istria. A proposito di questa forma, è interessante notare che la definizione che si può trovare nel dizionario della lingua italiana dell’espressione “che manfrina!”, indicante un “atteggiamento insistente e petulante con cui si cerca di ottenere qualcosa”, è una sintetica descrizione di ciò che fa l’uomo durante le due prime parti della Manfrina della Val d’Intelvi [Coluzzi, 1995].
Piera e Pia Bassini, Giancarlo Vichi e Daniela Pellegrini; fotogrammi del filmato realizzato a Morra il 12 e 18 agosto 2005 da Francesca Barbagli
3.6 IL TRESCONE
Sono molto curiosa di vedere come la Piera balli il Trescone ma, data l’età e la mancanza di un uomo che lo sappia ballare, mi accenna solo qualche passo. Non potendo farmi capire con la pratica, non si risparmia nei racconti legati a questo ballo, per farmi capire il contesto che si creava:
[Piera] «Perché c’erano le vecchiette che quando se ballava qui, perché quello a due se balla, tutte in circolo e nel mezzo due che ballavano.»
[Francesca] «Quindi tutti intorno e la coppia nel mezzo che ballava?»
[Piera] «Sì, quando si ballava qui, quando s’andava via [con i Selvarini] tutti in branco se ballava. […] Si diceva nella sala “si balla il trescone” alè, saltavano in mezzo ‘sti due e ballavano il trescone. Quando s’andava a Roma tutti in branco, a Roma s’era novecento coppie…[…] C’eran le vecchiette che venivano lì in mezzo con la su bella sottana grande, perché ci fanno gli scherzi, quando si era giovani c’era la forza per…»
[Pia] «Una donna alzava la sottana dietro e faceva vedere il sedere! Alzavano il vestito per far vedè cosa c’aveva lì.»
[Francesca] «L’uomo che faceva?»
[Piera] «Facevan gli scherzi che volevano, ma ha visto se girava intorno, facevan gli scherzi.»
[Giancarlo] «Questo era quello che sempre seguendo la musica, ognuno portava una variante sua.»
[Francesca] «Ma si chiamava trescone o saltarello?»
[Piera] «Noialtri se diceva trescone, se no salterello, quando siamo andati a Roma dicevano saltarello.»
[Francesca] «Però gli anziani di qua lo chiamavano trescone?»
[Piera] «Si, trescone lo chiamavano.»
Ricerche su questo ballo nella nostra regione sono state fatte sia dal Gala che da Marco Magistrali e Filippo Marranci dell’Associazione culturale La Leggera della Val di Sieve (Firenze), e, a proposito degli scherzi (come li chiamano Piera e Pia), riporto un frammento dell’intervista a Dino Sarti, un loro informatore: «I comportamenti gestuali legati al ballo del Trescone si caratterizzano quindi per essere definiti dagli stessi ballerini come sequenze di “versi” e non di danza […]. “Che versi a bischero che fò! A’ tempi mia lo chiamavamo il trescone, eran due o tre che lo ballavano. Non era un ballo così comune come il ballo abbracciati, questo trescone era separato e lo ballava solo qualcuno. […] quand’ero ragazzo qualche volta si ballava facendo dei versi anche con un mestolo tra le gambe legato in modo che quando le apri si rizza! L’è faticoso, l’è tutt’un sartar pe’ l’aria, l’è una tarantella”» [Magistrali e Marranci, 2014, p.437].
Il trescone è per eccellenza il ballo della Toscana, era infatti presente in ogni parte della regione con forme simili, tendenti al pantomimico e a rappresentare scherzosamente la sessualità. Dalla Toscana si è poi diffuso nelle regioni attigue Emilia, Romagna, Umbria, Marche, Liguria e alto Lazio, anche con denominazioni differenti: ballo sciolto in Val Bisenzio, galletta nella Maremma pisana, trescone col fiasco e ballo col fiasco nella Maremma interna, furlana in Romagna. Il nome, con diversi significati, ha però una diffusione più ampia che va dal Veneto (trescun e tarascoun), alla Basilicata (tarasconë) e alla Sicilia (tarascuni) e ad altri paesi europei es. Provenza (tarascon), Catalogna, Corsica (tarascone) [Gala, 1992a, Ethnica 4-Umbria; Gala, 2001 Ethnica 13-Maremma; Gala e Gori, 1998 e 2001 Ethnica 9 e 17 Romagna].
Le parole tresca e trescone sembrano aver origine medioevale dall’antico germanico thriskan che corrisponde al tedesco moderno dresken, cioè trebbiare. L’etimologia lega quindi la danza alla funzione ergologica della trebbiatura che prima della sua meccanizzazione, avveniva calpestando il grano disteso sull’aia con passo pesante e cadenzato. Il termine germanico si ritrova diffuso in tre aree linguistiche principali: francese, ibero-occitanica e italiana, col significato rispettivamente di ballare, fare i salti di gioia, trebbiare (tranne in toscana dove appunto designa il ballo). Per capire il rapporto tra il significato primario di trebbiare e quello derivato di ballare si deve porre attenzione ai movimenti impiegati nelle due pratiche: sia nella trebbiatura che nella danza si usano passi calpestati ed è proprio il calpestio che mette in rapporto la trebbiatura con la danza [Nocentini, 1991].
Con riferimento alla danza, tresca, trescare e trescone sono in italiano fra i termini più antichi (XIII - XIV sec.) che si riferiscono ad un ballo specifico. Infatti la tresca è citata da Dante in più punti della Divina Commedia: l’incedere di David “trescando alzato” (Purg. X, 65), alludendo ad un passo saltato che obbliga a sollevare le vesti e quando; il movimento incessante dei violenti per proteggersi dalla pioggia di fuoco come “la tresca delle misere mani” (Inf. XIV, 40) facendo riferimento al movimento ritmato delle mani che accompagna il ballo. Boccaccio, commentando la Commedia, spiega: “È la tresca una maniera di ballare, la quale si fa di mani e di piedi» [ivi].
Le prime indicazioni a noi note del lemma trescone come alterato dispregiativo di tresca risalgono al secondo Cinquecento. Il nome del ballo indica quindi un irrozzimento della tresca tant’è che ancora oggi [Gala, 1993], la gente lo considera un ballo volgare e pesantemente scherzoso. Si tratta di un ballo pantomimico dal carattere allusivamente erotico possibile residuo delle danze orgiastiche per cui erano famosi gli etruschi. Fra gli esempi italiani Gala distingue principalmente:
- una forma a struttura chiusa e bipartita, per coppia mista, giunto probabilmente dalla Romagna e diffusosi anche nel Montefeltro e in alta Valtiberina nella quale però si ritrova un nucleo arcaico (una scarpetta eseguita con moduli cinetici saltati e incrociati dell’uomo e giri della donna intorno all’uomo), che collega questa forma al ballo pantomimico più diffuso: ad esempio ad Umbertine (passeggio e mosse) a Pietralunga (polca e scarpetta);
- una forma a struttura pantomimica, sicuramente più antica, ballata in coppia o a piccoli gruppi nel quale si simula l’amplesso in forme scherzose, ma dalla mimica seria, con movenze erotiche e fortemente allusive, capillarmente diffusa in ogni parte della Toscana. Il ballo consisteva in mosse goffe, marcato corteggiamento, allusione evidente alla sfera sessuale, pantomime dell’amplesso, travestimento caricaturale da donna, sequenze di “versi” e non di danza, definiti così dagli stessi ballerini [Magistrali e Marranci, 2014]. Poteva esserci un fiasco carico di connotati simbolici legati alla sessualità (fallo, iniziazione, rito orgiastico) e all’estasi (possessione etilica, pratiche estatiche). Per quanto riguarda la musica, bastava qualsiasi motivetto un po’ vivace, suonato con qualsiasi strumento e il canto poteva essere o meno presente. Gli aspetti essenziali per questo ballo erano piuttosto gli esecutori e il contesto sociale: si ballava solo durante particolari occasioni (befanate, carnevali, feste private, veglie, ecc…) nei quali il gruppo sociale era unito in armonia conviviale e il momento della serata era riscaldato dal vino, dal cibo, dall’allegria, dalla battuta spinta, ingredienti necessari per far cominciare un ballo simile; la sua esecuzione era affidata a persone speciali, dette tresconi, uomini con qualità di estroversione e improvvisazione, e qualche donna di spirito ma, in caso di tresconaie, solo con un pubblico di conoscenti e familiari.
Altri balli solo dal nome simile o simili al trescone anche nella forma sono: la tresca, di forma simile ad una quadriglia, eseguita a conclusione della giga marina sull'Appennino pistoiese e nell'alto Mugello (ricerche di T. Biagi e G. M. Gala); la tresca, eseguita da un uomo e una donna, a fine dei balli saltati montanari diffusi in val del Savena, nell’Appennino Emiliano (ricerche di P.Staro); la tresca ballo autonomo ma trasformato in una sorta di polca sull'Appennino mugellese o il Trescone di Castell’Azzara (passeggiata e giro sul posto) che ricorda più che altro una scotis (ricerche di di T. Biagi e G. M. Gala); la vita d’oro in Val d’Orcia, parte coreutica che poteva integrare il trescone, nella quale i ballerini sciolti o abbracciati si gettavano per terra e si rotolavano fino a che non finiva la musica lenta di questa parte (ricerche di di T. Biagi e G. M. Gala); il trescun e tarascoun, contraddanza simile al saltarello romagnolo, la cui presenza è attestata anche in Veneto (ricerche del Cornoldi).
3.7 BALLI GIOCO: BALLO DELLE FAVE E BALLO DELLA SCOPA
Piera mi racconta che, oltre i balli che mi ha eseguito, nelle feste, si divertivano anche con altri balli gioco come il Ballo delle fave:
[Piera] «Si mette una sedia in mezzo al ballo con una signorina seduta, e poi gli portano i cavalieri e lei li guarda. Se gli piace va bene se no prende la sedia e si gira di spalle e se proprio non gli piace fa due giri, sempre seduta con la sedia. Quando gli arriva uno che gli piace, un bel ragazzo allora cominciano a ballare.»
E il Ballo della scopa:
[Piera] «Quello della scopa ballano tutti e po’ uno tiene la scopa e va, la dà al cavaliere e gli prende la compagna e lui a sua volta va da un’altra da un’altra coppia e si rubano le ragazze.»
Balli gioco come questi erano diffusi in tutta la nostra penisola e appartengono a questa famiglia danze destinate a diverse età. Potremmo dividere i balli appartenenti a questa famiglia in tre categorie: alcuni balli gioco avevano carattere un po’ licenzioso, destinati ad un pubblico esclusivo di adulti e anziani, ed eseguiti come passatempo nelle osterie; altri, che invece erano reputati degni di rimanere nell’ambito delle feste ufficiali, rispondevano a funzioni utili come la formazione delle coppie (e il ballo della sedia e delle fave che ci hanno raccontato Piera e Pia appartengono a questo tipo) o la pura pantomima comica; infine i balli gioco destinati ai bambini: spesso si trattava di balli in origine per adulti, caduti in disuso e passati, magari semplificati, al repertorio infantile. Quest’ultimi erano inoltre funzionali all’apprendimento imitativo che i bambini, frequentando le occasioni di ballo, avrebbero fatto dei balli da adulti, in quanto attraverso il gioco, erano stimolati sulla coordinazione tra movimenti, struttura geometriche e a volte canto [Gala, 1994].
3.8 IL BALLO DEGLI SCHIAFFI
Piera e Pia si ricordano anche del Ballo degli schiaffi, forse un ballo gioco, diffuso soprattutto nell’alta Valtiberina, che a Morra si eseguiva con una parte di gesti e una di giro di polca. Raccontano che a volte si divertivano a dire nomi di familiari in corrispondenza dei battiti di mani:
[Giancarlo] «Negli schiaffi dicevano i nomi dei familiari.»
[Pia] «La conoscevi la ‘Ngiulina del Ricchino? Uno era quella la fiola, si faceva “Marchin, Bettin, la Livietta e l’Angiulin”. Marchin era il padre, Bettin era la madre Livietta e Angiulin erano le fiole.»
[Piera] «Bisogna ballare allegri»
La disposizione nella sala di questi balli era sempre in cerchio:
[Francesca] «E questo come si ballava coppie sparse oppure?»
[Piera] «sempre al tondo, a quei tempi si ballava a giro.»
Questo ballo era in uso nell’alta Valtiberina umbra e nell’aretino (Toscana) e anche in Romagna. Secondo il Gala più che appartenere alla famiglia dei balli gioco o delle polche figurate, esso appartiene alla famiglia delle manfrine polistrutturate. Dagli anni ’20 del Novecento, la diffusione dei balli legati influenzò notevolmente l’assetto dei balli arcaici dando luogo, anche per questo ballo, come in molte altre danze italiane, ad una sostituzione dei giri di braccia in giri di polca (così detto fenomeno della “polchizzazione” di cui abbiamo parlato a proposito della scotis) [Gala, 1992a].
Piera e Pia Bassini, fotogrammi del filmato realizzato a Morra il 12 e 18 agosto 2005 da Francesca Barbagli
3.9 IL PAPARAGIANNI
Gli chiedo anche del Paparagianni, un ballo gioco diffuso nella zona: lei si ricorda il nome (familiare anche a Elio) ma l’ha ballato una volta che è andata a Perugia e non gli vengono in mente i passi.
Si tratta di un ballo che è stato documentato dal Gala solo in Umbria (tra l’alta valle del Tevere ed il cortonese) con varianti lessicali: paparagianni, papragiagno, papragianni; e nel pesarese (col nome di spaccafilone). Si tratta di una contraddanza dell’ampia famiglia delle gighe che si diffondono dal nord Europa in età barocca e si radicano in vari punti dell’Appennino tosco-umbro-marchigiano [Gala,1992a].
La Piera alla sera del secondo nostro incontro è entusiasta, mi ringrazia per avergli fatto ricordare i suoi balli e insiste perché li insegni ad altri, non vuole che se ne perda la memoria. Più volte durante il giorno ci aveva detto:
[Piera] «Guardateci come si balla che poi la ballate!»
E così il nostro rapporto con la comunità di Morra continua e l’indagine si arricchisce, ancora come in una ricerca azione, di due progetti di rinnesto delle danze morrigiane nella scuola e nella comunità. Il 12 settembre del 2005 mi telefona la Piera dalla Francia, per commentare il modo in cui aveva ballato nel video realizzato durante gli incontri (da lei attentamente visionato!), per darmi delle indicazioni su come insegnare ai miei allievi (gli avevo raccontato che ad Arezzo tenevo dei corsi di danze folk) e su come magari poter costruire uno spettacolo (che di lì a breve verrà realizzato proprio nella scuola primaria di Morra). Riemerge la consapevolezza stilistica e l’attenzione ai dettagli che fin da subito aveva dimostrato di avere e che rendono quel ballo vero linguaggio identitario. Mi dice che lei ora è anziana e non è riuscita a rendere lo stile del tempo: quei balli erano fatti con più energia, più saltellati, no strusciati e mosci e la fisarmonica era lo strumento essenziale per poterli eseguire.
Contemporaneamente Maria Stella e Paola Guerri, due delle maestre della scuola primaria di Morra, che proprio in quello stesso anno avevano in programma un progetto interdisciplinare su Morra al tempo dei nonni intitolato “Un viaggio per scoprire il passato con nonno Arturo”, il dialetto, la vita, i mestieri di un tempo e perché no i canti e i balli", mi contattano per andare a insegnare ai bambini alcuni degli antichi balli morrigiani che verranno poi inseriti nello spettacolo finale “Stesera gimo a veja da….”, commedia scritta dalle stesse maestre in dialetto morrigiano.
Bambini della scuola elementare di Morra durante lo spettacolo “Stesera gimo a veja da…”, fotogrammi del filmato realizzato a Morra l' 8 giugno 2006 da Francesca Barbagli
Il laboratorio inizia nell’inverno del 2006 ed apre anche in altre persone il “baule dei ricordi”: una delle maestre racconta che ha visto eseguire la manfrina durante una veglia a Prato, vicino a Lippiano (frazioni di Monte Santa Maria Tiberina – nella provincia di Perugia), proprio come gliel’ho insegnata io; Remo Gianvincenzi, bidello della scuola, si ricorda del suocero, appassionato ballerino, che forse potrebbe ricordare qualche passo.
E nel maggio del 2006, quando ci rivediamo con i bambini per cominciare le prove dello spettacolo, Piera è di nuovo a Morra, ed è così possibile organizzare un incontro tra i bambini, lei e Sante Operanti, il suocero del bidello, un arzillo signore che, anche se di dieci anni più giovane della Piera, ha ancora memoria di qualche ballo antico: la Scioltisse, il Puntatacco, il Sor Cesare e la Polca rossa (di cui però ricorda solo il nome), danza citata dal Gala nella sua ricerca sui balli umbri [Gala, 1992a]. Siamo finalmente riusciti a trovarle un ballerino per Piera ! L’incontro avviene nella sala del Mutuo Soccorso, accanto alla scuola, dove ci sono ancora appese alle pareti le gigantografie dei Selvarini: Sante non sentiva queste melodie da decenni, ma, riconosciuta la Piera, appena dal registratore scorrono le prime note, i passi escono dai suoi piedi come se avesse ballato quelle danze fino al giorno prima e i bambini rimangono a bocca aperta davanti al loro modo di ballare.
Piera, ci assiste anche nelle prove per lo spettacolo, da’ il suo beneplacito ed è molto contenta che i bambini abbiano imparato così bene. Lo spettacolo è un successo e anche la Piera non smette di ridere dall’inizio alla fine: i bambini hanno imparato Quadriglia, Puntatacco, Manfrina Aretina, Ballo degli schiaffi, Ballo della lavandaia, Paparagianni.
L’unica nota negativa è la perdita di Angelo, marito di Pia: nel naturale procedere della vita, un pezzo di memoria è andato perduto.
Il secondo progetto riguarda la comunità di Morra e non solo. Infatti nell’estate 2007 Piera vuole vedere come i miei allievi hanno appreso le danze e i musicisti le musiche e alcuni componenti della pro-loco morrigiana, vorrebbero imparare quei balli di cui hanno sentito parlare dai loro genitori: “i corsi di ballo della Piera” si svolgono ancora in quella sala del Mutuo soccorso, luogo di ricordi e incontri tra generazioni, con la Piera seduta a supervisionare la mia lezione e a dare consigli. A detta del medico non dovrebbe agitarsi troppo, ma alla fine non resiste alla manfrina e si unisce a noi nella danza. Era il ballo che non ballava da più tempo, perché non inserito nel repertorio dei Selvarini, ma era quello che gli ricordava più da vicino la sua famiglia!
Alla cena che facciamo la sera prima di salutarci, Giancarlo si ricorda di un altro episodio significativo, che ci fa capire come la comunità di ballerini morrigiani era nota e conosciuta: infatti negli anni ‘40 arrivò una richiesta ufficiale a Morra per mandare una coppia a ballare ad un concorso di balli popolari a Ventimiglia (era un festival europeo), e per l’occasione la Nicasi mandò Guerrina Vichi, sua zia, e Angelo Ferri, che si aggiudicarono il quinto premio, tenendo alto l’onore e la bravura dei ballerini morrigiani.
Allievi del corso di danze tradizionali italiane di Francesca Barbagli, 9 giugno 2007, foto di Agnese Rondoni
Voglio terminare l’articolo con il ricordo di un dibattito tra giovani (la nipote di Piera e Pia) e anziani (le sorelle Bassini) presenti in uno dei pomeriggi a casa di Pia: le sorelle giudicavano “mischiume” che ognuno balla da sé, anche se non sa ballare, i balli moderni; la nipote difendeva invece la libertà del modo di ballare della sua generazione in opposizione al carattere strutturato dei balli antichi. La discussione aveva il sapore di un contrasto tra la società tradizionale, con i suoi linguaggi identitari e condivisi come la danza, e quella postmoderna globalizzata, dove si mescolano linguaggi coreutici che accomunano comunità anche molto distanti geograficamente tra loro e significati differenti che il danzare ha assunto rispetto al periodo storico in cui Piera è vissuta. Penso tuttavia che le danze tradizionali possano coesistere con le successive e abbiano ancora molti contenuti educativi da veicolare, e proprio questo sarà il tema del mio successivo articolo. Si conclude qui il nostro racconto, ma i balli documentati dal Gala e insegnatemi dalla Piera Bassini continuano a vivere nelle nostre serate da ballo e sono sopravvissuti anche al Covid ! In seguito a questa esperienza umana e professionale nel CD del gruppo musicale i trioTresca è stata inserita la Scotis e manfrina per Piera, dedicata a tutti i morrigiani protagonisti di questa storia.
Coluzzi Paolo,
1995, Una danza rituale pantomimica: la Manfrina della Val d’Intelvi, in Choreola n.13, primavera/estate 1995, pp.11-18.
Gala Giuseppe Michele,
1987, Relazione sulle danze popolari toscane, in Gruppo di Lucignano 1937-1987, Arezzo, pp. 18-23.
1992a, libretto allegato al cd Balli tradizionali in Umbria, Collana Ethnica n. 4, Associazione culturale Taranta, Firenze.
1992b, Uno scotis col fazzoletto in Sicilia, in Choreola n. 5, primavera 1992b, pp.39-45.
1993, "Io non so se ballo bene". I balli cantati nella tradizione popolare italiana, in Choreola n.9, primavera/estate, Trescone, pp. 219-226 e Manfrina, pp. 236-240.
1994, "Io non so se ballo bene". I balli cantati nella tradizione popolare italiana, in Choreola n. 11, primavera/estate, Valzer, polke e mazurke, pp. 256-258; il gioco a ballo pp. 291-292 e Canti ergo logici a ballo, pp. 264-270.
1995, Il ballo popolare in Toscana, in AA. VV., Costumi e tradizioni popolari. Lazio, Toscana e Umbria, Firenze, Bonechi, vol. I, pp. 72-81.
1998, Il gesto danzato, in Quaderni della SIEM, Gesto Musica Danza, a cura di Patrizia Buzzoni e Ida Maria Tosto, n. 13, pp. 68-84.
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2001, Gala Giuseppe Michele e Gori Gualtiero, libretto allegato ai cd Vecchi balli di Romagna. Manfrine, quadriglie e vecchio "liscio"- vol.2, Collana Ethnica n. 17, Associazione culturale Taranta, Firenze.
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1995, libretto allegato al CD I suonatori della valle del Savena, Che non venisse mai giorno! Balli antichi dell’Appennino bolognese, Associazione culturale E ben venga maggio, Monghidoro (BO).
a cura di Francesca Barbagli