In Italia si era rifugiato dalla Romania, paese in cui, giovanissimo, già gli toccò sentirsi straniero in patria. «La mia infanzia, la mia adolescenza in Romania sono state un po' l' equivalente di essere stato negro nello stato del Mississippi», scrive in Riflessi e Ombre, un libro che il suo caro amico milanese Aldo Buzzi riuscì ad estorcergli in molti anni di amicizia e conversazioni, ma che Steinberg, con la riservatezza che lo contraddistinse, non volle pubblicato prima della sua morte, avvenuta nel 1999. «Ti sarà difficile capire - specialmente da bambino - il paese antisemita che è la Romania», scrive in una delle molte lettere a Buzzi raccolte nell' altro volume postumo, Lettere ad Aldo Buzzi, «Quel Paese è una fogna. In più una lingua povera, senza letteratura, parlata con tono di mendicante e scritta con stile di supplica oppure urlata e bombastica... In questa lingua io sono stato umiliato, bastonato, maledetto e peggio - per essere ebreo, l' unica soddisfazione di quei selvaggi». Parlava quasi sempre con immenso affetto e nostalgia del tempo trascorso in Italia, che definiva, nelle conversazioni con me, il suo «paradiso perduto». Nonostante il fascismo vi trovò un mondo di apertura e tolleranza in cui rifiorì. Anche dopo le leggi razziali del 1938 fu in grado di vivere e disegnare, se pur con difficoltà, pubblicando i suoi lavori anonimamente, con l' aiuto di amici compiacenti. In Riflessi e Ombre Steinberg si riferisce a questo periodo con il suo caratteristico umorismo e attaccamento nostalgico, anche quando racconta dell' arresto, che infine arrivò, e dell' internamento assieme a numerosi ebrei stranieri in campi di concentramento in Italia meridionale. «Da qualche settimana mi svegliavo un po' prima delle sei, e appena lavato saltavo in bicicletta e andavo per le strade come uno che va al lavoro. L' aria di Milano era ottima allora, e la luce bellissima, e vedo una cosa che non avevo mai visto, lo svegliarsi tranquillo di una città». La polizia all' epoca si faceva premura di procedere agli arresti tra le sei e le sette di mattina. Dopo le sette Steinberg tornava al Bar Grillo, sotto casa, faceva colazione e a volte tornava a dormire un altro po' «Una mattina, mentre stavo per scendere in strada come tutti i giorni, la più giovane delle quattro sorelle proprietarie del Grillo è entrata nella mia camera con grande ansia: "Sono qui da basso". Per fortuna c' era un modo per uscire non visti attraverso il cortile. Tornato alle otto... sono stato festeggiato come un eroe, come uno che l' ha scampata. Raccontavano che uno dei questurini, da vero Sherlock Holmes, aveva toccato il letto e aveva detto: "è ancora caldo". Erano dei poveracci, dei meridionali che facevano questo lavoro senza nessun interesse. Ma la loro pigrizia, il fatto che l' organizzazione non funzionava bene, generavano una inefficienza che si traduceva poi in mancanza di ingiustizia». Quando lo arrestarono e lo portarono a San Vittore, si sentì importante, scrive, come se stesse realizzando una fantasia infantile sulla falsariga del Conte di Montecristo. Descrive l' interesse, romantico si direbbe, manifestato negli sguardi dalle ragazze che lo vedevano passare in treno, diretto al confino negli Abruzzi. Il suo esilio a Tortoreto è descritto con pari umoristica nonchalance. «Le donne di Tortoreto derivano direttamente dai mosaici bizantini di Ravenna...». Ma, come indica l' ottimo nuovo saggio di Mario Tedeschini Lalli, nato da accurate ricerche sul periodo italiano di Steinberg e da un' attenta analisi di epistolari, diari e disegni inediti, la realtà dell' ultimo periodo di permanenza in Italia fu ben più difficile e terribile di quanto Steinberg volesse ammettere. L' Italia era per lui il paradiso, ma un paradiso perduto e il saggio di Tedeschini Lalli ci aiuta a capire meglio la misura e la valenza di quella perdita. In un momento di grande candore nella sua corrispondenza con Buzzi, Steinberg scrisse: «Non volevo accettare la realtà, il tradimento. La cara Italia, che diventò Romania, patria infernale». Sotto molti aspetti, l' Italia perduta fu uno dei traumi della vita di Steinberg, che il suo talento seppe trasformare in grande arte, ma che rimase sempre tale. In conseguenza delle leggi razziali del 1938 il suo status giuridico divenne estremamente precario. Essendo un ebreo entrato nel paese dopo il 1919, avrebbe dovuto lasciare l' Italia, ma non aveva dove andare. Un' ordinanza del Ministro Giuseppe Bottai non solo vietò agli ebrei di iscriversi all' università, ma proibì di portare a termine i corsi di laurea già iniziati. Per un certo periodo parve quindi che Steinberg dovesse abbandonare la facoltà di architettura di Milano. In seguito la norma fu modificata per consentire ai già iscritti di terminare gli studi. Comunque laurearsi in quella situazione deve essere stato penoso. Come scrive Tedeschini Lalli, «il suo diploma di laurea portava la dizione "di razza ebraica", stampato in perfetto gusto, ben composto in Bodoni che lo rendeva ancora più sinistro, il che trasformava la formula tradizionale del rilascio "a tutti gli effetti di legge" in una condanna e in un ossimoro burocratico: nell' Italia della discriminazione razziale l' effetto della legge era di negarne la validità, un diploma per fare una professione che non gli era consentita.
ALEXANDER STILLE 10 agosto 2008