Le violenze allo stadio, e attorno allo stadio, erano divenute intollerabili. Risse, scontri tra tifoserie rivali erano frequenti in quegli anni. Ma stavolta avevano oltrepassato il segno. A metà gennaio il pubblico si era scatenato sulle tribune, c' erano già stati tafferugli. I disordini si erano estesi alle strade circostanti. Intervenne la polizia. Ci scappò il morto. Fioccarono gli arresti, tra ultrà dell' una squadra e dell' altra. A quel punto successe qualcosa di imprevisto: i sobillatori dell' una e dell' altra tifoseria sospesero le ostilità tra di loro e si coalizzarono contro la polizia e il governo, chiedendo la liberazione degli arrestati. Le autorità a quel punto commisero un errore fatale: sottovalutarono la gravità della situazione, decisero il proseguimento delle attività sportive come se niente fosse successo. Forse volevano dimostrare che pochi facinorosi non avevano il potere di sconvolgere la città; forse speravano che la passione sportiva avrebbe avuto la meglio sulle esplosioni di rabbia. Gli spettatori diedero fuoco alle tribune, poi si riversarono in città dando fuoco alla sede della polizia, alla chiesa di Santa Sofia, all' intero quartiere circostante. Il 17 gennaio furono fatte intervenire le truppe tracie fedeli all' imperatore, ma negli angusti vicoli di Costantinopoli non poterono molto e furono costrette a battere in ritirata nelle caserme. Domenica 18 Giustiniano si ripresentò nuovamente all' ippodromo, dove le corse continuavano a restare in programma, con i vangeli sottobraccio in segno di disponibilità a perdonare i facinorosi e a non deludere i tifosi. Subissato da fischi e lanci di oggetti sia da parte degli Azzurri che dei Verdi, dovette allontanarsi in tutta fretta. Intervennero le truppe. Vittime del panico, calpestate dalla folla, soffocate davanti alle porte sbarrate, trucidate dai soldati, perirono trentamila persone, in uno stadio che poteva contenerne centomila: la più grande strage di tifosi della storia. Era il gennaio dell' anno 532. Nella "Nuova Roma" cristiana fondata da Costantino. Così ce la racconta Procopio di Cesarea. Ed è l' esordio di un libro dell' antichista Fik Meijer appena tradotto da Laterza: Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell' antica Roma (244 pagine, 18 euro). Per molti secoli (quasi un millennio) l' equivalente delle nostre partite di calcio erano state le corse all' ippodromo. Ma è a Costantinopoli-Bisanzio che la tifoseria estrema, la divisione dell' intera città in due fazioni principali, Azzurri e Verdi, aveva raggiunto il massimo, era divenuta un' abitudine, anzi addirittura un' istituzione. C' erano anche i Rossi, alleati ai Verdi, e i Bianchi, alleati alcuni agli Azzurri, altri ai Verdi. I Neri erano scomparsi. Dall' originario ambito sportivo e di entertainment, il fenomeno si era esteso alla politica e alla religione. L' organizzazione della tifoseria aveva assunto una dimensione indipendente dalla gestione tecnica delle scuderie. Il capo veniva reclutato tra i possessori delle maggiori fortune, gente che aveva forti interessi commerciali e sapeva maneggiare il denaro. Giravano molti soldi. Le cose si erano ulteriormente aggrovigliate quando l' imperatore Giustiniano si schierò apertamente con una delle due fazioni, gli Azzurri. Così facendo, "finì col creare un disordine e uno sconvolgimento generali", "benché comunque non tutti gli Azzurri approvassero le sue idee, ma solo gli estremisti", ci dice Procopio nelle Carte segrete (Anecdota). Gli ultrà avevano introdotto nuove mode. La prima si manifestò nelle capigliature: "Gli estremisti non si radevano barba e baffi, ma se li facevano crescere all' ingiù, secondo l' uso persiano". Altri "si facevano rapare sino alle tempie, dietro invece lasciavano penzolare capelli lunghissimi e incolti~ perciò questa moda fu detta alla unna". Insomma, skin e capelloni. La seconda bizzarria era nel modo di abbigliarsi: "Portavano le maniche della tunica strettissime introno al polso ed esageratamente ampie verso la spalla. E quando nei teatri e all' ippodromo si sbracciavano, come si usa, per gridare e incitare, questa parte della tunica si gonfiava e svolazzava~ e dava l' impressione agli sciocchi che avessero bisogno di abiti tanto ampi per coprire un corpo straordinariamente muscoloso~ sceglievano mantelli, brache e soprattutto scarpe secondo la foggia unna". Procopio dipinge a tinte fosche il passaggio alla violenza sistematica. "Allora cominciarono a girare quasi tutti visibilmente armati, di giorno portavano lungo la coscia pugnaletti a doppio taglio, nascosti sotto il mantello; appena imbruniva si riunivano in bande e rapinavano la gente per bene~". "Questa associazione a delinquere attirava masse di giovani che prima non avevano mai provato desiderio per cose del genere, e ora venivano trascinati dalla prospettiva di una violenza esercitata senza rischi". "Perdurando l' allarmante situazione senza che l' autorità di polizia intervenisse contro i responsabili, l' impudenza di costoro cresceva di giorno in giorno". Al punto che "la gente non ne poteva più, compresi i meno scatenati degli Azzurri, che non venivano risparmiati neanche loro". Procopio non è un testimone imparziale. Ce l' ha visceralmente con Giustiniano e, soprattutto, con sua moglie Teodora. Ai due non gliene risparmia una. Arriva ad insinuare che fossero complici anche quando fingevano di litigare: "L' imperatore e la moglie generalmente fingevano di avere vedute differenti sulle questioni controverse: ovviamente prevaleva la decisione già concordata dai due in privato". Negli Anecdota tira fuori tutto il veleno che aveva tenuto nascosto nei libri precedenti, quando "era ancora in vita" l' autore dei misfatti che denuncia. Al padre del diritto occidentale rimprovera in particolare le leggi ad personam: se la giustizia creava difficoltà a qualcuno, "bastava allungare un altro po' d' oro a Giustiniano e subito gli si confezionava su misura una legge~", se invece poi "a qualcuno faceva comodo la legge abolita, non ci metteva molto a riesumarla e rimetterla in vigore; insomma, nessuna norma era solidamente fissa, ma la bilancia della giustizia oscillava da una parte e dall' altra, e si abbassava il piatto dove più forte era il peso dell' oro". Non è chiaro cosa differenziasse Azzurri e Verdi, a parte il tifo per la rispettiva squadra. Neanche Procopio riesce a spiegarsi perché i tifosi "si accapigliano con gli avversari senza nemmeno sapere esattamente perché, tranne il fatto che, se ammazzano gli avversari, rischiano di finire in prigione". Non gli è chiaro il meccanismo per cui in questi uomini "cresce un' ostilità senza ragione nei confronti di altri esseri umani, e non cessa e non cede di fronte a legami di matrimonio e di amicizia, neppure tra fratelli e parenti~ Non gli importa di nulla di umano e neanche di divino, se non dei colori della propria squadra". Gli fa senso che a fare il tifo ci si mettano "persino le donne". "Non saprei come definire tutto questo, se non psicopatologia (psyches nosema)", conclude Procopio (Storia delle guerre, I, XXIV). Le interpretazioni "marxiste" per cui gli Azzurri avrebbero rappresentato aristocrazia e classi più abbienti e i Verdi gli artigiani e i piccoli commercianti sono oggigiorno in disuso. Pare che entrambe le fazioni avessero ricchi e poveri, professionisti e uomini politici. Identici i metodi e anche gli slogan. Alan Cameron, autore di alcuni degli studi più approfonditi in materia (Circus Factions. Blues and Greens at Rome and Byzantium, e un saggio sul più celebre degli aurighi di Costantinopoli, Porfirio), riferisce cori tipo: "Brucia qua, brucia là / Non più Verdi alalà"; oppure: "Incendiamo incendiamo / Azzurri non vogliamo". Ai, ai, oloi oloi, il ritornello, come dire la ola di entrambi. Tra le cose più divertenti nel libro di Meijer, un paio di citazioni da defissioni (tavolette incise dai tifosi). Sfiorano l' arte sublime della jella. "Io t' invoco, o demone, chiunque tu sia, e ti chiedo di tormentare i cavalli dei Verdi e dei Bianchi e di ucciderli e di far morire in uno scontro gli aurighi Clarus, Felix, Romulus e Romanus, e che in loro non resti più un alito di vita", si legge in quella incisa da un tifoso degli Azzurri. Elenca uno per uno i nomi dei cavalli della squadra avversaria da azzoppare, e gli accidenti augurati, nominativamente, uno per uno, ai loro conducenti, un' altra tavoletta: "Lega loro le mani, sottrai loro la vittoria, non farli arrivare al traguardo, nega loro la vittoria, annebbiagli gli occhi, in modo che non possano vedere gli avversari, afferrali, sbalzali dai carri, sbattili a terra, così che cadano e siano trascinati per tutta la pista, specie lungo le colonne, e che si feriscano gravemente, sia loro che i cavalli", suona l' invocazione agli spiriti ritrovata a Cartagine. Con l' avvento del cristianesimo cambia solo qualche dettaglio. "Io vi invoco santi angeli e santi nomi, domani nell' arena legate Eucherio l' auriga, imbrigliatelo, fatelo cadere, feritelo, distruggetelo, uccidetelo e fatelo schiantare~ impeditegli di sorpassare, fatelo cascare~ che venga spappolato, che venga trascinato~. adesso adesso, subito subito", suona una delle tavolette ritrovate sulla via Appia. Curioso come molti intellettuali, già allora, faticassero a capacitarsi del fenomeno. Plinio il Giovane non riesce a spiegarsi come mai "tante migliaia di uomini, ridiventando a quel punto bambini, desiderino periodicamente contemplare dei cavalli in corsa e degli aurighi piantati su cocchi". Dice che "se il loro entusiasmo nascesse dalla velocità dei cavalli o dalla maestria degli aurighi, questa passione avrebbe ancora una qualche giustificazione". Ma gli risulta incomprensibile che "fanno il tifo per una maglia, spasimano per una maglia, e se, proprio nello svolgersi della corsa e nel cuore della competizione, questo colore passasse di là, e quello venisse di qui, si scambierebbero anche l' ardore e il tifo e abbandonerebbero di colpo i celebri guidatori, i celebri cavalli che sogliono riconoscere da lontano e di cui non si stancano di gridare i nomi. Tanto è il credito, tanto è il prestigio di cui gode una camicia da quattro soldi, non dico agli occhi del volgo, che vale ancor meno dei quattro soldi della camicia, ma agli occhi di certi signori di gran peso". Il cristiano Tertulliano l' avrebbe messa giù ancora più dura: "Questa è la prova della loro cecità: non vedono quello che è stato fatto cadere; credono si tratti di un drappo, ma in realtà è l' immagine del diavolo precipitato dall' alto. Così a partire da quell' istante si scatenano il delirio, le passioni, le liti~ Quindi maledizioni, insulti senza vero motivo di odio, e persino entusiastici apprezzamenti senza vero motivo d' amore. Quale vantaggio ha intenzione di ricavare, che cosa sta a fare lì gente che non è più neppure sé stessa?... e allora, che cosa vi è di più triste dello stadio?". Ma Agostino, che di corse non era appassionato, ma di politica, emozioni umane e psicologia delle folle sì, era, come dire, più comprensivo in tema di fanatismo sportivo: in un sermone arrivò a indicare ai fedeli il tifo allo stadio, l' amore incrollabile e incondizionato, dimentico di qualsiasi altra cosa per l' auriga della propria squadra, come esempio di come ci si dovrebbe abbandonare al vero unico Dio.
SIEGMUND GINZBERG
La letteratura del millennio bizantino, arrivata in Occidente dentro i bauli dei profughi dopo la caduta di Bisanzio, non ha mai superato le barriere accademiche ed è rimasta per lunghi secoli a raccogliere polvere nelle biblioteche. Il Rinascimento aveva selezionato dai bauli bizantini soprattutto i testi dei classici greci approdati fortunosamente in Italia immersi in una strabordante marea di pedantissimi commentari scolastici. I testi di autori bizantini, giudicati spesso non a torto noiosi, erano rimasti reclusi negli archivi a disposizione di pochi studiosi che non ne ritenevano interessante la divulgazione. La valanga delle agiografie era del tutto inutilizzabile in Occidente che con i Santi suoi aveva già riempito il calendario. Qualche interesse e stupore avevano invece suscitato i Padri del Deserto, nominati anche come erbivori, e i Santi folli che si distinguevano per i comportamenti bizzarri come frequentare i postriboli, camminare nudi nelle strade di Bisanzio, distribuire ai poveri le merci esposte nei negozi o scippate nelle strade della Capitale. Fino a una ventina di anni fa l' unico testo ristampato più volte da diversi editori era la Storia segreta di Procopio di Cesarea, un furiosissimo spaccato storico sulla quotidianità nella capitale dell' Impero negli anni di Giustiniano e Teodora: i soprusi i furti le crudeltà la malavita il teppismo la violenza negli stadi la corruzione e le congiure della corte imperiale. Chi voleva leggere qualche altro testo bizantino doveva ricorrere alle edizioni Belles Lettres o alle severissime edizioni di Lipsia con testo originale e traduzione a fronte, ahimè in latino o tedesco. Una delle prime aperture editoriali italiane al millennio bizantino venne negli anni Ottanta dalla Fondazione Valla-Mondadori con la traduzione della Cronografia (Gli Imperatori di Bisanzio) di Michele Psello, un elegante e malizioso repertorio della vita nella Corte imperiale, degno di Svetonio. Il risveglio editoriale su Bisanzio ha prodotto in seguito una serie di ottime traduzioni: la antologia Letteratura bizantina (Garzanti), La guerra gotica di Procopio di Cesarea (Einaudi), Biblioteca di Fozio (Adelphi), I Santi folli di Bisanzio (Mondadori), un volume antologico su Il romanzo bizantino del XII Secolo (Utet) e sicuramente altri testi che mi sono sfuggiti. Finalmente, ancora della Utet, è uscito ora uno splendido volume su La satira bizantina nei secoli XI-XV a cura di Roberto Romano (pagg. 690, lire 115.000), che documenta con una cospicua antologia di testi il malessere di una società in perenne stato di decadenza. Una bella finestra su un aspetto poco noto della letteratura bizantina e su ambienti, figure e situazioni di riferimento. Satire mirate come quelle di Teodoro Prodromo, "Contro un vecchio dalla lunga barba che per questo crede di essere sapiente", "L' ignorante, o grammatico a suo modo", "Contro la vecchia lussuriosa", "Carnefice o medico", che già nel titolo denunciano il loro obiettivo. Vari altri testi propongono il rovescio della fluviale letteratura agiografica prodotta dall' ozio religioso negli innumerevoli conventi sparsi su tutto il territorio dell' Impero. Per chi immagina la vita nei conventi bizantini dedicata alla preghiera alle penitenze e ai digiuni, i "Carmi ptocoprodromici", datati intorno al secolo XII, offriranno una immagine ben diversa da quella proposta nelle agiografie. E' un giovane monaco che esprime i suoi lamenti per l' iniquo trattamento da parte dei superiori, ma soprattutto per la fame canina. E' incredibile, esclama il novizio affamato, la quantità di pesci che vengono portati in tavola davanti agli igumeni, i frati anziani del convento. Prima arriva il pesce bollito, una bella e saporita sogliola, poi il pesce in salsa, un merluzzo con tutte le sue uova, poi ancora un altro pesce condito con zafferano nardo chiodi di garofano cannella funghi aceto e miele. In mezzo al tavolo troneggiano una triglia, grande e rossa, un cefalo lungo tre spanne, con le uova, e un dentice freschissimo, appena pescato. Quarta portata è l' arrosto, quinta la frittura e infine un rombo arrosto condito con il garo e aromatizzato. Oh se potessi, esclama il novizio, divorare almeno i resti del loro pranzo e bere l' intingolo con qualche bicchiere di vino di Chio e poi ruttare a volontà! In un impeto di libidine gastronomica il novizio affamato si diletta a recitare, come una invocazione, la ricetta di uno stufato che ha eccitato le sue sensibili narici: "Quattro cuori di cavolo, belli duri e bianchi come neve, la parte centrale di una carpa, una ventina di sgombri piccoli, filetti di pesce del Don, con sale, circa quattordici uova, quattro formaggette di Creta e un po' di pecorino valacco, una libbra di olio santo, una spruzzata di pepe, dodici teste d' aglio, e poi, sopra il tutto, una bella ciotola di vino dolce: e allora, tutti all' arrembaggio!". Questo per quanto riguarda i cibi. Il trincare, osserva il novizio, è fuori degli sguardi indiscreti, ma io ne ho sentito l' odore e intuito la qualità. Il poveretto se ne sta in disparte e beve solo calici di nera bile mentre sbircia il monaco magazziniere sperando di mettere le mani su una aringa o un po' di tonno avanzato, o qualche crosta di pane secco con salamoia annacquata. Se per caso osa lamentarsi viene trascinato via e preso a legnate. Gli adulatori invece siedono a fianco del superiore ed esaltano a gran voce tutte le sue gesta e ottengono in compenso qualche misero boccone. Questa la vita dei conventi secondo gli anonimi Carmi Ptocoprodromici. Carmi satirici s' intende, ma la dovizia dei particolari, la rabbia autentica che trapela fra le righe, fanno pensare che siano dovuti a qualcuno che aveva sofferto qualche bruciante esperienza della vita monastica. Anche altre pagine satiriche della antologia prendono di mira i monaci. Esilarante l' invettiva di Psello contro un monaco ubriacone, anche se viene il sospetto che questo testo, più che ispirato direttamente alla realtà sia soprattutto una elegante esercitazione retorica. A parte alcuni tediosi viaggi nell' Ade ricalcati sui Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata, vengono presi di mira dai vari autori dell' antologia, da Cristoforo di Mitilene a Giovanni Catrara, anche i medici incapaci, i pezzenti, i retori, i sedicenti filosofi, gli eunuchi e i monaci trafficanti di reliquie i quali riescono a vendere dello stesso santo le ossa di dieci mani e quindici mascelle. Mi sono dilungato sulla satira della vita nei conventi perché è proprio su queste istituzioni, che svolgevano funzioni non solo religiose ma anche amministrative e militari, che l' Impero bizantino riuscì a mantenere per molti secoli un territorio immenso. I conventi riscuotevano le imposte nelle più lontane province, dentro le loro mura venivano tenuti prigionieri gli imperatori detronizzati, le regine ripudiate, gli eretici, i generali ribelli, i ministri e i cortigiani decaduti. Gli egumeni non solo si abbuffavano con pranzi salomonici, ma partecipavano da lontano alla vita di corte, ordivano congiure e complotti elettorali. Un vero e temuto potere occulto dell' Impero. Leggendo la ricetta dello stufato riportata dal novizio affamato, mi sono ritornati alla memoria i lamenti di Liutprando da Cremona nella sua Relazione di una missione diplomatica a Costantinopoli nella quale si lamenta non solo di essere stato collocato vicino a un diplomatico albanese durante un pranzo a Corte, ma manifesta tutto il suo disgusto per la quantità di aglio di cui erano infarciti i cibi. Gli storici tendono ad attribuire queste lamentele al fallimento della sua missione diplomatica, ma leggendo ora nella ricetta dello stufato l' impiego di dodici teste d' aglio, penso che Liutprando avesse tutte le ragioni per lamentarsi della cucina bizantina.
di LUIGI MALERBA