Si riporta il registro delle attività di educazione tecnica – CLASSE TERZA
Realizzazione assonometria CAVALIERA 45-90 di due solidi circondati da due muri.
Costruzione di un cilindro di diametro 40 e altezza 70 e da un tronco di cono di base inferiore diametro 60, base superiore diametro 20 e altezza 50, circondati da due muri entrambi di larghezza 10.
Il primo muretto è alto 30, mentre il secondo è altro 110 e presenta un foro regolare di diametro 110.
Utilizzare la griglia 45-90.
Costruire i due solidi con la stessa procedura adottata nella tavola precedente. Fare attenzione alle seguenti misure del muro più basso che ha spessore 5 mm e lunghezza 110 mm e del muro forato che ha spessore 10 mm e lunghezza 55 mm. La costruzione del foro deve essere costruita a mano libera individuando gli 8 punti necessari alla loro definizione secondo procedura standardizzata per la costruzione del cerchio in un assonometria cavaliera.
Segui la video lezione che introduce l’argomento (24 min).
Segui la SINTESI video sulla valutazione di vantaggi e svantaggi degli inceneritori (4 min).
Segui la puntata INTEGRALE su RAIPLAY (83 min).
Guarda il video dell’inceneritore danese con annessa pista da sci (2019 – 3 min).
Segui la puntata di report sulle centrali a biomassa (2010 - 13 min).
Segui la puntata di report sulle centrali a biogas (2011 - 16 min).
Segui il video sulla produzione di biocarburante dalle alghe (2011 - 4 min).
Utilizzo della tavola assonometrica 110 x 110 in assonometria CAV 90-45.
Realizzazione assonometria CAVALIERA di due solidi circondati da due muri.
Costruzione di un cilindro di diametro 40 e altezza 70 e da un tronco di cono di base inferiore diametro 60, base superiore diametro 20 e altezza 50, circondati da due muri entrambi di larghezza 10.
Il primo muretto è alto 30, mentre il secondo è altro 110 e presenta un foro regolare di diametro 110.
1. Il foro costruito frontalmente non subisce alcuna deformazione; pertanto viene costruito con il compasso con apertura di 55 mm.
2. il muro basso avrà spessore 1 cm ma lunghezza 50.
3. Il muro grande basso avrà spessore 5 mm ma lunghezza 110.
ATTENZIONE: nella definizione dello spessore del foro (5 mm), spostarsi di 5 mm lungo le rette inclinate di 45°.
La costruzione dei cerchi di cilindro e tronco di cono dovranno essere costruiti a mano libera individuando gli 8 punti necessari alla loro definizione secondo le indicazioni riportate nella lezione del 16 marzo.
1. Segui la video lezione che introduce l’argomento (9 min):
2. L'ipotesi di coprire di deserto del Sahara di pannelli solari - 2019 (8 min).
3. La centrale solare di Noor in Marocco 1 - 2016 (3 min).
4. La centrale solare di Noor in Marocco 2 - 2016 (4 min).
5. L'energia solare su acqua 1 - 2016 (2 min).
6. L'energia solare su acqua 2 - 2016 (4 min).
7. La torre solare in Israele – 2017 (4 min)
8. Il parco solare a Dubai - 2019 (3 min).
9. Problematiche dei pannelli solari - 2019 (3 min).
10. Primo aereo alimentato da energia solare – 2019 (3 min).
Al termine del modulo siete invitati a compilare il test di autovalutazione relativo all'energia solare.
Utilizzo della tavola assonometrica 110 x 110 preparata la settimana scorsa.
Realizzazione assonometria MONOMETRICA di due solidi circondati da due muri.
Costruzione di un cilindro di diametro 40 e altezza 70 e da un tronco di cono di base inferiore diametro 60, base superiore diametro 20 e altezza 50, circondati da due muri entrambi di larghezza 10.
Il primo muretto è alto 30, mentre il secondo è altro 110 e presenta un foro regolare di diametro 110.
Sia nel caso dell’assonometria 30°-60° che in quella 60°-30° suddividere la griglia di base individuando la collocazione dei muri e dei solidi.
La costruzione dei 2 solidi risulterà semplificata rispetto al disegno isometrico perché in questo caso la circonferenza non subisce deformazioni e pertanto è sufficiente tracciare le diagonali del quadrato e tracciare un cerchio perfettamente iscritto (perfetto senza alcuna deformazione).
Per la costruzione del muro la procedura cambia a seconda della monometrica prescelta.
Nell’assonometria 30°-60 ripetere esattamente la stessa procedura attuata nel disegno isometrico (metodo approssimato a 4 centri).
Nell’assonometria 30°-60 l’ellisse subisce uno schiacciamento per cui il foro andrà disegnato a mano libera come nel disegno in assonometria cavaliera (con l’individuazione di 8 punti, 4 sul perimetro del quadrato e 4 sulle sue diagonali).
Sul quadrato vanno individuati i 4 punti medi. Sulle diagonali il segmento che dal vertice esterno misura 1/6 della diagonale o 1/3 della semidiagonale.
Per tracciare il cerchio, qualora disponibile, utilizzare un curvilineo.
Per definire lo spessore del foro, tracciare una curva distante 1 cm dalla circonferenza.
Si consiglia vivamente di mandare la foto del disegno a matita prima di effettuare le fasi di ripasso e colore.
PER COLORO CHE NON LO HANNO ANCORA FATTO - test di autovalutazione sull'energia geotermica (facoltativo, non vale come verifica).
1. Segui la video lezione che introduce l’argomento (11 min):
2. Funzionamento di una centrale geotermica (2 min).
3. Funzionamento di un impianto geotermico a bassa temperatura (8 min).
Informazioni estratte da:
1. www.informazioneambiente.it
2. www.uberti.eu
3. www.video.virgilio.it
I geyser sono delle sorgenti di acqua calda (o meglio bollente) che sgorgano direttamente dal terreno provocando delle vere e proprie eruzioni. Si tratta di un fenomeno molto affascinante, che si può ammirare solamente in alcune zone del Pianeta perchè richiede una serie di condizioni concomitanti particolari e molto rare. I geyser più famosi si trovano in Islanda: non a caso il termine deriva proprio da Gesyr che è il più noto geyser islandese.
I geyser sono fenomeni di vulcanismo secondario: che si formano, cioè, quando un vulcano risulta inattivo o quiescente. Affinchè si formino, deve essere presente una struttura a sifone rivestita da rocce impermeabili dirette sia verso il basso che verso l’alto. Intorno, devono esserci delle rocce impermeabili e naturalmente è indispensabile che in prossimità di tale struttura sia presente anche una camera magmatica. Quando l’acqua entra nella struttura a sifone, viene riscaldata ad alte temperature dalla camera magmatica che si trova nelle vicinanze. La profondità impedisce che si trasformi in vapore acqueo e quando risale la struttura fuoriesce in superficie formando dei getti intermittenti. Più grande è il sifone, più tempo passa tra un getto e l’altro.
Questi fenomeni di vulcanismo secondario sono particolarmente diffusi in Islanda, dove esistono le condizioni perfette per la loro formazione. Si possono però trovare anche in altre parti del mondo, seppur siano piuttosto rari. Le zone del Pianeta in cui è possibile rintracciare diversi geyser sono solamente 7 e sono le seguenti:
Islanda
Parco nazionale di Yellowstone negli Stati Uniti;
Penisola di Kamčatka in Russia;
Isola del Nord in Nuova Zelanda;
El Tatio in Cile;
Isola di Umnak in Alaska;
Potosi in Bolivia.
Yellowstone, un parco nazionale negli Stati Uniti! In questo polmone verde sul territorio del Wyoming, c’è anche i geyser più famosi del mondo, l’Old Faithful, che ogni 90 minuti spruzza un altissimo getto d’acqua verso il cielo e lo Steamboat che attualmente è il più attivo preoccupando non poco gli scienziati americani.
Infatti, dopo una totale quiescenza dal 1911 al 1961, il geyser ha ripreso ad eruttare vapor acqueo con una sempre più crescente attività con oltre 40 eruzioni segnalate nel periodo 2018-2019.
Le principali eruzioni di Steamboat, che durano generalmente dai 3 ai 40 minuti secondo un programma imprevedibile, ma che si manifestano con sempre maggiore intensità possono essere segnali premonitori di una prossima eruzione del "supervulcano" che giace sotto la maggior parte della superficie del parco.
Spesso si parla anche di geyser italiani, ma quelli che vengono definiti con questo nome improprio sono piuttosto dei soffioni boraciferi. A differenza dei geyser, questi sono eruzioni, spesso violente, di gas e mai di acqua. Tali gas vengono sprigionati dalla camera magmatica e risalgono in superficie con una pressione di 20 atmosfere e temperature elevatissime, che spesso raggiungono anche i 230°. Un altro aspetto che caratterizza i soffioni boraciferi è che questi getti sono continui e non intermittenti. In Italia i soffioni boraciferi si possono trovare a Larderello, in Toscana: qui sono state costruite anche delle centrali elettriche che sfruttano l’energia geotermica di questi fenomeni di vulcanismo secondario.
Il geyser Steamboat (2 min).
l’energia geotermica in Islanda (1 min).
Utilizzo della tavola assonometrica 110 x 110 preparata la settimana scorsa.
Realizzazione assonometria ISOMETRICA due solidi circondati da due muri.
Costruzione di un cilindro di diametro 40 e altezza 70 e da un tronco di cono di base inferiore diametro 60, base superiore diametro 20 e altezza 50, circondati da due muri entrambi di larghezza 10.
Il primo muretto è alto 30, mentre il secondo è altro 110 e presenta un foro regolare di diametro 110.
Suddividere la griglia di base individuando la collocazione dei muri e dei solidi.
Costruire il cilindro ed il tronco di cono con il metodo approssimato dei 4 centri (vedasi procedimento in lezione sul sito o su RE in data 16 marzo).
Per la costruzione della parte superiore del tronco di cono è necessario innalzare un parallelepipedo a base quadrata lato 20 e altezza 50.
Per la definizione della larghezza dei solidi è necessario tracciare il diametro orizzontale (ovvero la diagonale orizzontale del rombo).
Una volta completati i solidi, disegnare i muri.
Il muro di sinistra è alto e lungo 110 e di spessore 10.
Il muretto di destra alto 30, lungo 100 e di spessore 10.
Una volta completati i muri, procedere con la realizzazione del foro.
Girare il foglio e procedere normalmente alla realizzazione del cerchio sempre con il metodo approssimato a 4 centri.
Per la definizione dello spessore del foro, spostare i due punti utilizzati per la costruzione delle curve laterali dell’ellisse esattamente di 1 cm (spostamento evidenziato in verde) e puntare il compasso (punto segnato in blu) fino all'intersezione con l’ellisse completa.
Inviare la foto del lavoro a matita. Solo dopo aver ricevuto l’ok, procedere con ripasso e colore (colore solidi a piacere, muri colore grigio distinguendo facciata e spessore).
PER COLORO CHE NON LO HANNO ANCORA FATTO - test di autovalutazione sull'energia eolica (facoltativo, non vale come verifica).
Predisposizione delle griglie assonometriche di misura 110x110 su 4 tavole differenti (1 assonometria ISO, 1 MONO a piacere e 2 CAV, 45-90 e 90-45), seconda la stessa modalità adottata per le tavole precedenti.
Queste tavole saranno necessarie per realizzare i disegni nelle prossime settimane.
Segui la video lezione che introduce l’argomento (9 min):
Segui il video che spiega il funzionamento di una turbina ad asse orizzontale e i possibili incidenti a cui può andare incontro (9 min).
Differenze tra turbina ad asse orizzontale e verticale
Nel settore delle turbine eoliche, ci sono fondamentalmente due tipi di turbine fra cui scegliere: le turbine eoliche ad asse verticale e le turbine eoliche ad asse orizzontale.
Le turbine eoliche ad asse orizzontale dominano la maggior parte del settore eolico. “Asse orizzontale” indica l’asse di rotazione della turbina eolica, che è orizzontale o parallelo al suolo. Nel grande eolico, le turbine sono quasi tutte ad asse orizzontale. Tuttavia, nel piccolo eolico e nelle applicazioni eoliche residenziali, le turbine ad asse verticale hanno un qualche posto.
Il vantaggio dell’eolico orizzontale è che risulta in grado di produrre più energia elettrica da una determinata quantità di vento. Quindi, se si sta cercando di produrre il più vento il più possibile in ogni momento, l’asse orizzontale è probabile che sia la scelta giusta per voi. Lo svantaggio dell’asse orizzontale, tuttavia, è che è generalmente più pesante e non produce bene in venti turbolenti.
Con le turbine eoliche ad asse verticale, l’asse di rotazione della turbina è verticale o perpendicolare al terreno. Come accennato in precedenza, le turbine ad asse verticale sono utilizzate principalmente in piccoli progetti eolici e applicazioni residenziali o domestiche.
Questa nicchia di turbine ad asse verticale ha la capacità di produrre bene in condizioni di vento tumultuoso. Infatti, le turbine ad asse verticale sono alimentate dal vento provenienti da tutte le direzioni a 360 gradi, e alcuni turbine sono alimentate anche quando il vento soffia dall’alto in basso.
A causa di questa versatilità, le turbine eoliche ad asse verticale sono pensate per essere l’ideale per le installazioni in cui le condizioni di vento non sono coerenti, oppure dove a causa di ordinanze pubbliche la turbina non può essere collocato abbastanza in alto per beneficiare di un vento costante.
Due esempi di turbine ad asse verticale (1 min).
Segui il video che spiega il funzionamento di un mini eolico. (10 min).
Dividi la tavola da disegno in 3 quadranti abbassando la mediana orizzontale ad una distanza di 5 cm dal bordo inferiore e riporta le 3 assonometrie (isometrica, monometrica e cavaliera) dello stesso solido.
Tracciare i due assi dell’assonometria ISOMETRICA e determinare due segmenti da 40 mm. Tracciare i lati opposti con le due squadre al fine di ottenere il rombo verde.
Puntando in A eseguo con apertura AB (R1) la curva BC .
Puntando in D eseguo con apertura DE (R1) la curva EF .
Unire i vertici A e D con i punti medi dei lati opposti (quattro linee BLU, ovvero i segnenti AB, AC, DE, DF). SI determinano i punti G e H che mi permettono di completare l’ellisse.
Puntando in G eseguo con apertura GF (R2) la curva FB;
Puntando in H eseguo con apertura HC (R2) la curva CE.
Una volta tracciati gli assi per l’assonometria monometrica (a piacere 30-60 o 60-30), si ottiene il quadrato circoscritto alla circonferenza. Poichè il cerchio mantiene la sua proporzione può essere tracciato in dimensione reale partendo direttamente dal centro (intersezioni delle diagonali).
Rispetto al video abbiamo adottato in classe un metodo molto più rapido anche se non così preciso.
Una volta tracciato il parallelogramma, abbiamo detto che il cerchio va fatto, purtroppo, a mano libera descrivendo una curva che attraversa 8 punti ben definiti. 4 sono facilmente identificabili e sono i punti medi di ogni lato (i punti 1, 2, 3, 4) mentre gli altri vengono trovati con una approssimazione: si tracciano le diagonali (in giallo ) e, dopo aver calcolato il segmento AO, si prende un terzo di quella misura partendo dal vertice esterno. Allo stesso modo si può prendere il segmento AB e calcolare un sesto di tale segmento.
Ricongiungendo tutti gli 8 punti a mano libera, devo ottenere un ovale schiacciato che tocca i 4 lati del parallelogramma. >
PER COLORO CHE NON HANNO CONSEGNATO I LAVORI L'11.02: completamento delle due tavole in assonometria cavaliera delle due casette.
PER COLORO CHE HANNO ACQUISITO VALUTAZIONE NEGATIVA IN TAVOLE ASSONOMETRICHE: rifare la/le tavola/e.
N.B. La modalità e la tempistica di consegna verrà resa nota al più presto; tutt'al più verrà richiesto il materiale al rientro a scuola.
Segui la video lezione relativamente alla prima fonte rinnovabile che prenderemo in esame quest'anno.
Video che riprende i concetti espressi nella video lezione.
Scopri la più grande diga del mondo: Itapui (Paraguay) - documentario del National Geographic.
Per la visualizzazione delle immagini cliccare direttamente sui pulsanti sottostanti per collegarsi a vajont.net ed ertoecasso.it
Marco Paolini racconta tutta la storia del Vajont. Il documento andò in onda su Rai2 la sera del 9 ottobre del 1997 in diretta dalla diga (140 min).
Informazione tratte dal siti vajont.net ed ertocasso.it
INTRODUZIONE
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno (Italia).
La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione.
La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime.
Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.
Fu aperta un'inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la prevedibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi.
Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti.
La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere.
La catastrofe del Vajont è avvenuta nella notte del 9 ottobre del 1963 in una zona a cavallo fra le regioni del Friuli e del Veneto. Dal monte Tóc, situato nel comune di Erto e Casso in provincia di Pordenone, si staccò un’enorme frana che, precipitando nel lago artificiale sottostante, provocò una gigantesca ondata che si abbatté sugli abitati limitrofi e sulla cittadina di Longarone, radendola al suolo.
Il bacino del lago artificiale era stato creato con la costruzione di una grande diga a doppio arco posta a sbarramento del corso del torrente Vajont. Il torrente scorreva nell’omonima valle in Friuli, dove si trovano Erto e Casso, e immettendosi nel Piave giungeva in Veneto, a toccare il luogo dove sorgeva Longarone, oggi ricostruita.
Negli anni ‘40 la Società Adriatica per l’Energia Elettrica, impresa privata veneziana fondata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata agli inizi del 1900, ebbe l’idea di creare un bacino idroelettrico in quella zona. Il progetto era quello di sfruttare la forza dell’acqua con la realizzazione di quella che all’epoca, con i suoi 265 metri di altezza, fu definitiva “la diga più alta del mondo”. Il progetto della diga del Vajont venne a far parte del cosiddetto “Grande Vajont”, un complesso che riuniva e collegava diversi bacini idroelettrici nelle valli circostanti. Fu ideato e realizzato dalla SADE, che ottenne praticamente il monopolio per l’utilizzazione delle acque dell’intera zona per la produzione di energia elettrica.
La SADE sarebbe in seguito divenuta proprietà dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche nel 1962, trasferendo la gestione e il controllo della diga del Vajont sotto la giurisdizione dell’impresa pubblica.
Giochi di potere e i timori di un popolo.
La costruzione della diga iniziò nel 1957, sotto la supervisione dell’ingegner Carlo Semenza, capo progettista,e del geologo Giorgio Dal Piaz. I due sminuirono fin dall’inizio le paure relative a rischi geologici ed eventi franosi che potevano essere provocati da un intervento di quelle proporzioni sul versante sinistro della montagna. I rilevamenti condotti sul monte Tóc infatti non avevano dato esiti incoraggianti ma, nonostante i forti dubbi circa la sicurezza della zona, si scelse di andare ugualmente avanti.
La diga del Vajont fu terminata in circa tre anni e l’invaso iniziò ad essere colmato, senza neppure aspettare di ottenere il permesso dal governo, né per avviare la costruzione né per il riempimento del bacino. La SADE del resto era un’azienda molto influente e nemmeno la Commissione di collaudo, istituita dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1958 con il compito di controllare il buon funzionamento della diga, rilevò mai aspetti negativi nell’operato dei responsabili.
Nel frattempo gli abitanti della vallata del Vajont dovettero affrontare questa nuova realtà che, se da una parte prometteva di portare lavoro e benessere in un luogo fino ad allora legato all’economia povera della montagna contadina, dall’altro invadeva case, terreni e possedimenti, dei quali comunque avrebbero dovuto continuare a vivere, attraverso una serie di compravendite ed espropri effettuati spesso con arroganza e indifferenza.
Quasi nessuno ascoltò le rimostranze degli ertani e nemmeno diede importanza ai timori che iniziavano a nascere dopo aver sentito forti boati e scosse sismiche che causavano anche fratture del terreno nella valle. Una delle poche persone che volle dare veramente voce alle proteste dei paesani fu la giornalista bellunese Tina Merlin. Corrispondente dalla provincia di Belluno per il giornale L’Unità, la Merlin scrisse diversi articoli, nei quali raccolse e raccontò testimonianze e paure degli abitanti, preoccupati e oppressi, per descrivere l’atmosfera che si respirava intorno alla diga e fu sempre lei a lanciare l’allarme per l’altissimo rischio che si stava correndo.
Una minaccia annunciata.
Già nel 1960, infatti, si verificò una prima frana del monte Tóc, la quale faceva seguito a un altro incidente avvenuto nel bacino artificiale di Pontesei, anch’esso costruito dalla SADE nella Val Zoldana, valle del bellunese: nel 1959 una grossa frana precipitò nel lago di Pontesei e causò un’ondata che travolse e uccise Arcangelo Tiziani, il quale lavorava alla diga come custode.
Il primo franamento del Tóc, il 4 novembre 1960, fece cadere nell’acqua del bacino del Vajont circa 700.000 metri cubi di materiale e l’ondata che ne seguì fortunatamente non provocò vittime, ma solo tanta paura. Quello fu un segnale chiaro della precarietà della montagna e della minaccia che poteva derivarne. L’esperto austriaco Leopold Müller, interpellato dalla SADE, aveva intuito da alcuni suoi studi che esisteva la possibilità di pericoli effettivi data l’instabilità della roccia anche se inizialmente non si era reso conto della gravità della situazione della montagna: sotto di essa scorreva infatti una vasta paleo-frana che verrà scoperta da Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, al quale fu dato il compito di redigere una relazione geologica sul Vajont sempre per conto della SADE, nel 1959.
Giorgio Dal Piaz e Pietro Caloi, geofisico che fu chiamato anch’esso dalla SADE a studiare la roccia del monte Tóc, non diedero però peso a questa nuova, allarmante rivelazione, credendo a versioni più rassicuranti circa lo strato della montagna. Ma dopo la frana del 4 novembre, sul monte Tóc si aprì la lunga spaccatura a forma di “M” dalla quale si muoverà il tremendo crollo del 1963. Essa fu individuata da Leopold Müller il quale in un ulteriore studio stabilì che la frana in movimento non poteva essere fermata. Negli anni successivi al 1960 si effettuarono quindi studi e prove sui livelli dell’invaso nel tentativo di conoscere gli effetti della caduta del materiale roccioso, dal momento che ormai era evidente che esso sarebbe scivolato inevitabilmente nel lago artificiale. I lavori si sarebbero dovuti fermare ma questo, per interessi economici, politici e personali, non avvenne e i responsabili e i tecnici della SADE continuarono a nascondere agli organi di controllo i dati preoccupanti che stavano raccogliendo. Lo studio di Müller aveva dichiarato che non era possibile frenare la grande frana del Vajont e si poteva ormai soltanto tentare di gestire e contenere la sua caduta. L’idea fu quella di far scivolare il materiale roccioso nell’acqua in modo lento e controllato riempiendo e svuotando il lago, in modo da evitare più danni possibili. Fu anche costruito un by-pass, una galleria di sorpasso scavata nella parte destra della vallata, che in caso di franamento avrebbe garantito il controllo del fluire dell’acqua e protetto il meccanismo e le funzioni dell’impianto idroelettrico. La SADE decise di compiere alcuni esperimenti in scala per scoprire come si sarebbe comportata la frana cadendo nell’acqua a diverse altezze degli invasi.
Nel 1961 la SADE affidò questi studi ad Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, il quale fece costruire un modello della diga in scala 1:200 a Nove, vicino a Vittorio Veneto, dove le varie prove, basate su elementi procurati dalla SADE stessa e utilizzando materiale ghiaioso molto diverso da quello effettivo del Tóc, diedero risultati imprecisi.
La gente ormai aveva capito che qualcosa di gravissimo sarebbe successo ma le paure e gli allarmi per i continui rimbombi e le scosse di terremoto che si sentivano sempre più spesso non vennero accolti. Soltanto due giorni prima del disastro l’ENEL ordinerà di evacuare alcuni stabili che si trovavano vicino alle pendici del Tóc, senza preoccuparsi di far sgomberare l’intero paese o di mettere in allerta anche gli abitati del fondo valle
La catastrofe del Vajont.
Nel marzo del 1963, sotto la direzione degli ingegneri Mario Pancini e Alberico Biadene, che era diventato direttore del servizio costruzioni idrauliche dopo la morte di Carlo Semenza, il lago venne riempito fino all’altezza di 715 metri, quota che superava la misura di sicurezza fissata durante gli esperimenti di Nove. Poi fu ordinato di svuotare nuovamente il lago per controllare l’accelerazione della frana, la quale però ormai, sottoposta alle continue tensioni degli invasi e degli svasi, divenne incontenibile e precipitò rapidamente e compatta nel lago del Vajont ancora ricolmo d’acqua.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 l’immane frana di più di due chilometri fece crollare nel lago del Vajont una massa di circa 300 milioni di metri cubi di roccia e terra che sollevò una colossale ondata di 48 milioni di metri cubi d’acqua. L’onda si alzò edesplose in tre flussi: uno lambì e risparmiò Casso, un altro andò a colpire alcune località di Erto che si trovavano sulla sponda del lago –Pinéda (Ruáva), Prada, Marzana, Lirón, San Martino, Le Spesse, Fraséign, Il Cristo – spazzandole via. Il terzo piombò su Longarone con forza devastante, distruggendola completamente.
L’acqua, colpendo Erto, Longarone e le loro frazioni, ma anche i comuni adiacenti(Codissago e Castellavazzo), trascinò con sé famiglie, uomini, donne, bambini, case, terreni, boschi, animali, vite intere cancellate nel tempo di soli quattro minuti.
Fu una strage: il bilancio delle vittime fu di quasi 2000 morti, annientati assieme a un territorio, una storia e una cultura che non hanno mai più riacquistato le loro fattezze originarie.
I superstiti furono sfollati in diversi luoghi della pianura friulana e bellunese, dove vennero anche costruiti due nuovi abitati per accogliere i superstiti, Vajont vicino a Maniago in provincia di Pordenone, e Nuova Erto a Ponte nelle Alpi in provincia di Belluno. I sopravvissuti dovettero convivere con il dolore e la rabbia per quanto era accaduto, cercando di recuperare una parvenza di normalità, in posti lontani da quella che fino a poco tempo prima era stata la loro terra, da quello che era stato tutto il loro mondo. Solo diversi anni dopo Longarone fu riedificata e poté accogliere nuovamente i suoi abitanti e cominciare poco a poco a tentare di vivere. Gli ertani invece ripresero possesso del Comune portando avanti una dura protesta nel dopo Vajont: a tutti era stato proibito di accedere in paese dal momento che esso era stato dichiarato, a sciagura ormai avvenuta, troppo rischioso per viverci, un’attenzione inutile e tardiva.
Vajont: dopo la tragedia.
I responsabili di quella terribile tragedia annunciata non furono nemmeno condannati tutti. La causa penale ebbe inizio nel 1968 con il processo di primo grado che si svolse in Abruzzo, a L’Aquila, lontano dalla sede del Tribunale di Belluno dove avrebbe dovuto svolgersi per evitare, come avevano richiesto gli avvocati difensori della SADE-ENEL, di turbare l’ordine pubblico e l’andamento regolare del processo. Nulla vietò però a molti sopravvissuti di recarsi all’Aquila per assistere con i loro occhi al processo presieduto dal giudice istruttore Mario Fabbri. In quella iniziale occasione furono rinviati a giudizio undici responsabili delle vicende del Vajont: Biadene, Ghetti, i membri della Commissione di collaudo Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Francesco Penta e Luigi Greco (anche se Penta e Greco erano nel frattempo deceduti), Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore per i Lavori Pubblici, Almo Violin, ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, Dino Tonini, capo dell’ufficio studi della SADE, Roberto Marin, direttore generale della SADE-ENEL, e Pancini, il quale si tolse la vita prima dell’inizio del processo. La causa penale però si trascinò per più di otto anni e si concluse con una pena, per altro assai leggera, per due soli imputati: Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, il quale oltre ad aver fatto parte della Commissione di collaudo fu anche capo del servizio dighe al Ministero dei Lavori Pubblici.
La diga del Vajont è stata l’unica costruzione a non subire danni dopo essere stata colpita dall’impeto violento dell’acqua: essa fu appena scalfita sulla sommità del coronamento. Ancora oggi i numerosi visitatori che giungono nella zona del disastro la possono vedere, radicata e inamovibile, nello stesso preciso punto nel quale fu innalzata, che taglia in due con la sua mole il profilo tra Veneto e Friuli, un luogo che non sarà mai più lo stesso dopo la notte del 9 ottobre 1963.