ADOTTIAMO UN MONUMENTO
Progetto realizzato dall'Indirizzo TURISMO dell'Istituto Tecnico "C. Cattaneo" di San Miniato
Progetto realizzato dall'Indirizzo TURISMO dell'Istituto Tecnico "C. Cattaneo" di San Miniato
Le versioni audio sono più in basso nella pagina
Il nucleo originario dell’edificio risiede nella piccola cappella di Santo Stefano, ricordata sin dall’anno 746, che dipendeva dall’antica pieve di San Pietro a Mosciano (o Musciano).
La prima cappella doveva avere una disposizione perpendicolare rispetto alla pianta attuale della chiesa, con la facciata rivolta verso l’odierna piazza della pieve, l’altare maggiore prossimo a quello attualmente dedicato a Santa Barbara e in larghezza occupare lo spazio tra il campanile e la piccola porta che oggi costituisce l’entrata laterale.
Nel 1329 la chiesa fu scelta come sede per ospitare i delegati fiorentini e pisani, e di altre terre toscane, che dovevano firmare gli accordi di pace nella regione.
Nel corso del XIV le informazioni sulla storia della chiesa diventano più consistenti. In un documento del 15 giugno 1349 ci si riferisce ad essa come alla pieve di Santo Stefano: la chiesa era dunque stata insignita del fonte battesimale e del titolo di pievania.
Alla fine del XIV secolo il vescovo Niccolò Guinigi sancirà ufficialmente l’unione della Pieve di Mosciano a quella di Montopoli.
Le opere più belle che arricchiscono la chiesa di Montopoli risalgono al XVII secolo, quando Montopoli fu flagellata dalla Peste, tra queste è da ricordare l’elegante fonte battesimale in marmo, La madonna del Rosario di Francesco Corradi e L’immacolata concezione, opera tarda di Jacopo Vignali; mentre completamente perduti risultano gli affreschi che ne decoravano le pareti, opera di Santi di Tito.
L’affresco La Madonna della crocetta fu trasferito dalla loggia della piazza di fianco alla chiesa nella pieve nel 1740.
Sempre al XVII secolo sono da ricondurre la costruzione dell’altare maggiore, la balaustra, le panche e gli stalli del coro.
Interventi massicci risalgono al 1817, quando il pievano Bartolo Maria Bartoli si fece promotore di lavori di consolidamento dell’edificio e di un riordino visivo e funzionale di ciò che nei secoli passati si era stratificato in maniera troppo confusa. Nel corso dei lavori fu rialzato il soffitto, rifatto il pavimento, e quindi l’organo e la cantoria; fu anche ricostruito il Battistero, distruggendo gli affreschi opera di Santi di Tito, nonché l’altare della Santissima Annunziata, una sorta di tempietto di ordine gotico posto all’angolo alla sinistra dell’entrata principale.
Nel corso dei drammatici eventi della Seconda guerra mondiale, i bombardamenti causarono il crollo del soffitto, decorato con storie dei santi Stefano e Giovanni e risalente al XIX secolo.
I lavori di ripristino e restauro del soffitto, terminarono nel 1951 con le decorazioni ad affresco opera di Anton Luigi Gaioni che realizzò le immagini dei santi legati alla storia di Montopoli.
Nel 1952 lo stesso Gaioni affrescò le pareti laterali della cappella del Crocifisso con quattro riquadri ispirati alla parabola “del figliol prodigo”, mentre del 1960 è la tela con San Giuseppe sopra la porta di accesso al campanile.
Altre opere commesse in anni recenti sono i medaglioni dell’altare del Rosario, dipinti nel 1978 dal genovese Riccardo Ferrari, e la tela con San Giovanni Evangelista opera di Stefano Ghezzani del 1987.
A cura della prof.ssa Fiamma Pierozzi, docente di Italiano e Storia.
Antonio Luigi Gajoni è stato un importante pittore italiano formatosi a Milano, dove era nato nel 1889. Tra il 1928 e il 1940 visse a Parigi quando la capitale francese era anche la capitale mondiale dell’arte e dove, per dodici anni, frequentò alcuni dei protagonisti della pittura europea della prima metà del ‘900: solo per citare alcuni fra i cosiddetti “Italiens de Paris”, parliamo di pittori del calibro di Giorgio e Andrea De Chirico, Filippo De Pisis, Gino Severini, Massimo Campigli e Mario Tozzi. Con l’inasprirsi del secondo conflitto mondiale, nel 1940 Gajoni si ritirò a vivere a San Miniato dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1966.
Antonio Luigi Gajoni è, soprattutto, un pittore ampiamente – e ingiustamente - sottovalutato, sia a livello locale sia in ambito internazionale. Pittore assai prolifico, dotato di una solida cultura storico-artistica, perfettamente aggiornato sulle principali tendenze artistiche della prima metà del Novecento, Gajoni aveva pure maturato abilità non comuni nella tecnica dell’affresco, cui si dedicò insieme alla pittura da cavalletto per tutta la sua carriera.
In effetti, la tecnica del “buon fresco” elaborata durante il Medioevo, permetteva di realizzare dipinti su muro che fossero praticamente eterni, basti pensare ai numerosi cicli di affreschi che da centinaia di anni decorano palazzi pubblici e chiese del nostro Paese. Quella tecnica, lenta e laboriosa, era stata progressivamente semplificata nel corso dell’Ottocento e poi quasi dimenticata all’alba del nuovo secolo, forse anche per l’avvento delle avanguardie artistiche, i cui protagonisti furono generalmente poco inclini a cimentarsi in grandi cicli pittorici di soggetto sacro.
Al contrario, proprio in quei primi anni del Novecento, Antonio Gajoni si dedicò a uno studio meticoloso dell’antica tecnica dell’affresco, riversando poi quelle competenze in una serie sorprendentemente lunga di grandi pitture murali in ambienti sacri, sia in Svizzera che in Italia, tanto da fargli pure ottenere – negli anni ’30 - una cattedra come insegnante di tecnica dell’affresco in una delle più prestigiose accademie di Parigi.
Ma cimentarsi in un ciclo di affreschi all’interno di una chiesa non implica solo una questione di tecnica realizzativa: uomo di una sincera sensibilità religiosa, nelle sue pitture murali di soggetto sacro Gajoni dimostra di conoscere in profondità la storia dell’arte italiana: dalle metafisiche atmosfere bizantine agli slanci spettacolari e magniloquenti dei grandi artisti barocchi, dal realismo trecentesco alle tenui intonazioni cromatiche del neoclassicismo settecentesco. Da questo variegato e ricchissimo bagaglio, di volta in volta il nostro pittore raccoglie spunti formali, accordi cromatici, impaginazioni prospettiche, mantenendo sempre, tuttavia, un principio come unico comune denominatore: il messaggio teologico deve essere compreso da tutti e perciò l’arte religiosa deve esprimersi in modo chiaro e accessibile a tutti i fedeli.
Nella nostra breve ricerca su questo artista, siamo rimasti meravigliati dal numero di chiese del nostro territorio in cui Gajoni ha lasciato la propria firma negli ultimi vent’anni della sua carriera: oltre che nella nostra Pieve di Montopoli, infatti, altri suoi affreschi di soggetto sacro sono presenti a Perignano (1941-‘42), San Pierino (1942 e ‘47), Casciana Terme (1946), Partino di Palaia (1946- ‘49), Fucecchio (1947-‘48), Ponsacco (1949), Cenaia (1951), Riglione (1953), Crespina (1955), Quiesa (1954-55), Chianni e La Rotta.
Questi lavori furono eseguiti sulle ampie superfici di soffitti, volte, cupole e absidi delle chiese paesane, costruite per lo più tra l’Otto- e il Novecento oppure bisognose di nuovi apparati decorativi in seguito alle devastazioni della seconda guerra mondiale.
Antonio Gajoni aveva un carattere piuttosto schivo ma si dimostrò sempre cordiale nei confronti della popolazione locale: le testimonianze di chi lo ha conosciuto ricordano che si serviva degli abitanti del paese per dare un volto a angeli e santi dei suoi affreschi. Così successe anche a Montopoli: secondo la preziosa testimonianza di Don Luciano Niccolai che ci ha fatto da guida alla scoperta dei segreti storico-artistici della Pieve, il volto di Santo Stefano martire del catino dell’abside, sopra all’altare, apparteneva al montopolese Ferruccio Bianchi; alla sinistra del dipinto si riconoscono anche una signora (Vera Bagnoli, che faceva servizio in canonica) che tiene vicino a sé una bambina (quest’ultima è la signora Anna Fossetti); per la figura di San Paolo, il Gajoni prese a modello Enrico Salini. Uno degli aguzzini che lapidano Santo Stefano era invece un ragazzo che faceva il bigliettaio sul bus che fermava ogni giorno a Montopoli.
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale: M. Fagioli e R. Roani, Anton Luigi Gajoni. Artista tra Italia e Francia. Pitture e bozzetti dal 1904 al 1966. Catalogo della mostra di Palazzo Grifoni, Ed. Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
Nel luglio del 1944 anche Montopoli subì lutti e devastazioni causati dal passaggio della guerra.
Analogamente a quanto avvenne nei paesi vicini come, ad esempio, a Palaia e San Miniato,l’esercito nazifascista in ritirata minava palazzi e torri per rallentare l’avanzata degli alleati: questi ultimi, a loro volta, risalendo da sud bombardavano dal cielo e da terra per aprirsi un varco tra le retroguardie nemiche. Nell’impeto distruttivo di quegli scontri, persero la vita molte persone civili.
Tra queste anche il pievano Omero Guidotti, colpito a morte dalla scheggia di un ordigno appena fuori dalla chiesa; questa vicenda è ricordata in una lapide incisa sulla parete esterna della Pieve, sul lato della strada.
L’edificio stesso fu colpito duramente dai bombardamenti, tanto che nel primo dopoguerra fu necessario ricostruirne il tetto. Terminati i lavori, nel 1950 il nuovo pievano Danilo Maltinti pensò di far ridecorare l’ampia superficie interna del soffitto che prima del passaggio della guerra presentava una serie di figure di santi dipinte a monocromo, della quale purtroppo non siamo riusciti a rintracciare neppure un’immagine.
Nella ricerca di un artista del territorio che avesse sufficiente esperienza nella pittura di interni sacri, la scelta non poté che ricadere su Antonio Luigi Gajoni il quale, come abbiamo già ricordato nella biografia che lo riguarda, nei dieci anni precedenti aveva affrescato - con soddisfazione di tutti - una serie cospicua di chiese dei paesi vicini. I lavori del soffitto si protrassero dal luglio al dicembre del 1951, comprendendo anche gli affreschi del catino absidale sopra all’altare, mentre risale all’anno successivo (1952) la decorazione della cappella del Crocifisso con il bellissimo ciclo dedicato alla parabola del Figliol prodigo.
Nella vasta pagina bianca del soffitto, Gajoni dipinse la Gloria dei santi titolari della chiesa, Stefano e Giovanni Evangelista, oltre ai quali aggiunse una schiera di angeli e altre figure di santi: furono scelti quei santi cui erano intitolati oratori sparsi a Montopoli e dintorni e che erano dunque particolarmente cari alle persone del territorio.
Anche qui Gajoni dette prova di una solida conoscenza della storia dell’arte: le figure dei santi e degli angeli si trovano all’interno di uno spazio architettonico dal potente slancio verticale, come a creare un contatto tra noi che osserviamo dal basso, gli stessi angeli e santi e la sfera divina che infatti si trova nel punto più alto del cielo.
Per questa particolare impaginazione della scena, non c’è dubbio che Gajoni abbia tratto ispirazione dai celebri soffitti seicenteschi delle maggiori chiese barocche di Roma. Tuttavia, a differenza che negli esempi del Barocco romano, nell’affresco del nostro soffitto domina un senso di maggiore ordine e compostezza, che coinvolge tanto le forme della finta architettura dipinta quanto la scansione e le posture delle figure sacre rappresentate.
Se a ciò aggiungiamo l’intonazione cromatica dell’intero soffitto, che appare tenue, luminosa e dunque senza forti
contrasti di luci e ombre, risulterà evidente che il nostro pittore abbia mitigato gli effetti della spettacolarità barocca (teatrale e drammatica), con il filtro di un più “quieto” concetto di bellezza e grandezza, naturalmente rintracciato dal Gajoni della successiva età neoclassica.
Partendo dalla zona dell’altare, la prima figura che salta agli occhi è quella di San Giorgio con il suo bel mantello rosso: insieme al suo cavallo, incombono inesorabili sul drago già a terra per ucciderlo.
Poco più in alto riconosciamo San Lorenzo con la sua graticola: per aver difeso i poveri della sua comunità cristiana, fu arso vivo dalle autorità dell’antica Roma. Ancora sopra, San Sebastiano trafitto dalle frecce: stimato ufficiale dell’esercito di Diocleziano, per la sua fede fu condannato a morire per mano degli arcieri imperiali. Accanto a San Lorenzo, a sinistra, c’è Santa Barbara con il calice e l’ostia, mentre le altre figure sono quelle di Santa Marta (all’estrema sinistra dell’affresco) seguita da Sant’Andrea apostolo.
Al centro del grande affresco si possono riconoscere Santo Stefano, e San Giovanni Evangelista con i suoi tipici attributi, l’aquila e il libro. Entrambi sono al cospetto della Trinità divina: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Sull’altro lato (sopra all’ingresso) troviamo al centro le tre Virtù cosiddette “Teologali” (infuse da Dio nell’anima dei fedeli per mezzo dello Spirito Santo) sotto forma di figure femminili: sono la Fede (in abito bianco), la Speranza (in abito verde) e la Carità (in abito rosso). Insieme a loro il pittore ha aggiunto anche una Virtù “Cardinale”: la “Giustizia”. Ai lati delle Virtù ci sono San Rocco (a destra) e Sant’Antonio da Padova. Sullo sfondo, una veduta di Montopoli dominata dalla nostra pieve e dall’antica Rocca, che tuttavia era stata distrutta, come abbiamo detto, durante la seconda guerra mondiale. Evidentemente, quella torre rappresentava ancora, nel 1951, un forte elemento di identità per la comunità di Montopoli.
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale: M. Fagioli e R. Roani, Anton Luigi Gajoni. Artista tra Italia e Francia. Pitture e bozzetti dal 1904 al 1966. Catalogo della mostra di Palazzo Grifoni, Ed. Bandecchi & Vivaldi, Pontedera; R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
Sulla parete curva del catino dell’abside, oltre l’altare, si può ammirare il Martirio di Santo Stefano.
L’episodio è narrato negli Atti degli Apostoli: poco dopo la crocifissione di Cristo, Stefano fu il primo “diacono” nominato in Gerusalemme dagli apostoli come loro assistente, perciò detto anche “Protodiacono”. Visto che il culto cristiano era proibito, Stefano fu condannato a morte per lapidazione dalle autorità locali: la lapidazione era una condanna cui si incorreva per i gravissimi peccati di blasfemia o adulterio.
Prima dell’esecuzione, Stefano fissò il cielo che si aprì, rivelando l’immagine del Cristo alla destra del Padre. Intorno al giovane si affollarono dunque i carnefici che posarono i loro mantelli ai piedi di un giovane e iniziarono a lapidarlo. Quel giovane citato negli Atti degli Apostoli era Saulo, cioè San Paolo che di lì a poco si convertirà al cristianesimo. Nel nostro affresco, il giovane Paolo compare sulla sinistra, con alle spalle i mantelli posati a terra dagli esecutori della lapidazione.
Rispetto alla superficie molto più ampia del soffitto, che ha permesso al pittore un’impaginazione più distesa e ariosa, qui lo spazio è ridotto e l’evento da rappresentare è fortemente drammatico.
Così, Antonio Gajoni ha preferito optare per un recupero delle movimentate atmosfere barocche rintracciabili negli affreschi seicenteschi di chiese e ville fiorentine: luci e ombre si alternano in un ritmo concitato e agitano le movenze degli aguzzini disposti a semicerchio intorno alla figura del santo.
Ciascuno di loro è colto in pose ed espressioni diverse, quasi a denunciare il fanatismo e la ferocia collettiva in cui può sfociare la crudeltà umana; solo le figure ai margini della scena fuggono o restano come impietrite alla vista di tanta violenza. A condurre il nostro sguardo verso il Santo al centro concorre anche il paesaggio di rocce e alberi che appare incombente, invalicabile, così come ineludibile è la sorte del giovane diacono.
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale: M. Fagioli e R. Roani, Anton Luigi Gajoni. Artista tra Italia e Francia. Pitture e bozzetti dal 1904 al 1966. Catalogo della mostra di Palazzo Grifoni, Ed. Bandecchi & Vivaldi, Pontedera.
R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
La resurrezione di Cristo è una delle opere realizzate dal pittore seicentesco Orazio Fidani ed è conservata nella nostra Pieve sulla parete destra del presbiterio in prossimità della Sacrestia, anche se, con molta probabilità, la pala ha subito molti spostamenti nel corso del tempo, in conseguenza delle richieste delle famiglie beneficiarie dei diversi altari della Pieve.
Orazio Fidani è stato un pittore fiorentino, esponente del naturalismo fiorentino seicentesco. La sua pittura è caratterizzata dal modo originale di interpretare sia le scene bibliche che quelle profane. In molti dei suoi dipinti, prevalentemente di grandi dimensioni, si notano indubbie influenze caravaggesche. Operò in varie chiese del fiorentino e del contado toscano; alla fine della sua breve vita si stabilì presso la Certosa del Galluzzo, pochi chilometri a sud di Firenze.
La composizione dell’opera è probabilmente ispirata alla più famosa Resurrezione dipinta per il convento della Ginestra di Montevarchi da Ludovico Cardi, detto “Il Cigoli”, celebre artista di origini locali (era nato a Cigoli, frazione di San Miniato) che fu anche grande amico di Galileo nonché uno fra i massimi esponenti del Barocco romano.
Elemento dominante del dipinto è, ovviamente, il Cristo, che si trova al centro, rappresentato con uno slancio enfatico generato dalle braccia aperte, slancio che sprigiona una “potenza emotiva" la cui eco rimanda anche alle coeve decorazioni dei soffitti di Palazzo Pitti realizzate dall’altro grande protagonista della prima stagione del Barocco: Pietro da Cortona, i cui effetti spettacolari influenzarono molto anche gli artisti fiorentini contemporanei.
In quanto al debito verso Caravaggio, il dipinto mostra un netto contrasto tra i colori della figura in primo piano e quanto invece resta sullo sfondo. Ai toni scuri degli sfondi della scena si contrappongono i vivaci colori del cielo, il rosso del drappo e il blu dello stendardo tenuto dal Cristo. Questa scelta sembra voler sottolineare ulteriormente la potenza e l’eccezionalità dell’evento di resurrezione. Ciò ci viene confermato anche dal soldato con un gran pennacchio sopra l’elmo che in primo piano fugge spaventato, stupito del miracolo cui sta assistendo.
I contorni della scena e le altre figure presenti sono difficilmente distinguibili, anche se si intravedono due angeli alle spalle del Cristo e dei corpi di uomini in basso. Il tutto in un contesto probabilmente urbano, come si può intuire dagli archi presenti dietro a Gesù risorto.
Come risulta consueto per il pittore, la scena è stata realizzata molto velocemente ma, nonostante questo, conserva una sorprendente forza espressiva e una grande capacità di coinvolgimento dell'osservatore, come del resto è appropriato considerata la valenza teologica dell’episodio biblico rappresentato.
"[...] Ella (Maria Maddalena, ndr) si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Gv 20, 1-18 .
A cura della prof.ssa Cristina Mirarchi, docente di Italiano e Storia.
Bibliografia essenziale: B. Bitossi, M. Campigli, D. Parri, Visibile pregare, Arte sacra nella diocesi di San Miniato, Cassa di Risparmio di San Miniato, Pacini Editore, 2000.
Oltre agli affreschi del catino dell’abside e del soffitto della chiesa, Antonio Gajoni realizzò le quattro scene più emblematiche della Parabola del figliol prodigo sulle pareti laterali della Cappella del Crocifisso. La celebre parabola è riportata solo nel Vangelo di Luca.
Gesù racconta dunque la vicenda di un uomo che aveva due figli. Il più giovane pretende dal padre la sua parte di eredità mentre il padre è ancora in vita. Ottenutala, abbandona la casa paterna (prima scena affrescata a sinistra del Crocifisso ligneo) e si reca in un paese lontano dove spreca tutte le sue ricchezze con una vita dissoluta (seconda scena, a fianco della prima).
Ridotto alla fame, per sopravvivere è costretto a pascolare i porci (terza scena, sulla parete di fronte).
Stanco della miseria in cui è caduto e pentito della propria condotta irresponsabile, decide di tornare a casa dove il padre lo accoglie con tutti gli onori, mentre il fratello maggiore ostenta un atteggiamento più diffidente (ultima scena dipinta).
Trovandosi di fronte a una cappella dalle forme proporzionate e armoniose, Gajoni ha avuto la possibilità di impaginare le scene della parabola scandendole in quattro ampie immagini rettangolari, regalando all’ambiente un’unità decorativa che fa eco ai grandi cicli di affreschi rinascimentali.
Come suggestione, il pensiero va immediatamente alla Cappella Brancacci a Firenze, uno dei cicli di affreschi più celebri del primo Rinascimento: come nelle Storie di San Pietro dipinte dal grande Masaccio, nella nostra Parabola del figliol prodigo, il nostro Antonio Gajoni ha optato per un ritmo narrativo disteso (che favorisce un racconto chiaro e semplice da leggere e comprendere), un uso sapiente della prospettiva a simulare l’effetto di profondità (anche questo elemento cardine del primo Rinascimento fiorentino), il tutto coerentemente arricchito da figure molto realistiche che si atteggiano con gesti ed espressioni solenni.
Come ulteriori suggestioni, proprio la nobile semplicità espressa da alcuni personaggi dipinti, come ad esempio la figura della madre seduta che piange portando le proprie mani al volto nella seconda scena, appaiono quasi replicare certe donne dolenti del grande pittore neoclassico
Jacques Louis David e della grande pittura di storia di epoca neoclassica Per tutto quanto detto finora, speriamo sia ora più comprensibile il motivo per cui abbiamo definito Antonio Luigi Gajoni come un artista sottovalutato: la sua profonda cultura storico-artistica unita alle sue durature frequentazioni degli ambienti più innovativi della pittura della prima metà del Novecento, gli hanno garantito di muoversi con disinvoltura attraverso iconografie
e stili i più disparati, attingendo di volta in volta da quanto gli poteva essere più congeniale in rapporto alla forma e al contesto delle superfici che si apprestava a decorare.
La maggior parte dei suoi dipinti su tela, del resto, sono invece sparsi in varie collezioni private e quindi difficilmente visitabili. Per fortuna, una mostra dedicata al pittore dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato (Palazzo Grifoni, 2002) ha finalmente permesso di realizzare un ritratto dettagliato di Antonio Gajoni (e a noi di poter realizzare i relativi brani per il nostro progetto).
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale: M. Fagioli e R. Roani, Anton Luigi Gajoni. Artista tra Italia e Francia. Pitture e bozzetti dal 1904 al 1966. Catalogo della mostra di Palazzo Grifoni, Ed. Bandecchi; Vivaldi, Pontedera. R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
A circa metà della navata della chiesa (sulla parete destra) si apre la Cappella del Crocifisso, sulla cui parete di fondo è incorniciato un bellissimo crocifisso intagliato nel legno. L’opera risale agli inizi del ‘300 ed è stata realizzata da un maestro intagliatore indicato dagli storici dell’arte come “Scultore della Toscana occidentale”.
Di quel “maestro” non ci è pervenuto il nome e purtroppo questo nella storia dell’arte è più frequente di quanto si possa immaginare. Fino al Rinascimento e anche oltre, l’artista era considerato al pari di un artigiano e l’aggiunta del proprio nome sull’opera era un privilegio riservato ai più importanti maestri di bottega.
Inoltre, a differenza che nella pittura, dove in fondo non è così infrequente leggere il nome dell’autore in un qualche punto a margine del dipinto, trovare la firma dell’artista su una scultura sacra medievale è praticamente impossibile: si tratta di oggetti pensati per la venerazione della popolazione locale. Il loro scopo era quello di fornire ai fedeli una rappresentazione credibile di Gesù o delle altre figure sacre, attenta fino ai minimi dettagli religiosamente significativi, con lo scopo di suscitare una forte empatia. Tutto ciò rendeva ovviamente impensabile per i loro autori anche solo l’idea di “sporcarle” con la propria firma.
Chi ha intagliato il nostro Crocifisso ha comunque lasciato alcune tracce stilistiche che gli storici dell’arte hanno potuto leggere anche attraverso una serie di confronti con crocifissi simili conservati nelle chiese del territorio e che ci permettono di restringere l’ambito geografico e le influenze stilistiche di cui si è mosso il nostro autore.
Quando fu intagliato il nostro crocifisso, cioè verso il 1315, l’immagine del Cristo sofferente o morente sulla croce (il cosiddetto Christus Patiens), con la testa che si appoggia su una spalla e le braccia che si tendono verso l’alto per il peso del corpo che si abbandona alla forza di gravità, è un tipo di rappresentazione ormai dominante negli ambienti religiosi.
Eppure, fino a circa cent’anni prima e per tutti i secoli precedenti, l’immagine di Gesù sulla croce era stata quella del Cristo trionfante sulla croce (cosiddetto Christus Triumphans): a testa alta, con lo sguardo imperturbabile e insensibile al dolore, un Cristo cioè che non soffre le pene della crocifissione perché sa di aver sconfitto la morte ed è già proiettato verso la propria resurrezione.
Con l’avvento degli ordini mendicanti (e in particolare di quello francescano) comparsi sulla scena agli inizi del XIII secolo, si diffonde un nuovo modello di Cristo, molto più umano di quello precedente; un Cristo che soffre e si abbandona lentamente alla terribile agonia prima della morte.
Così appare anche il nostro Cristo crocifisso, per il quale lo sconosciuto autore non si è risparmiato nel rendere pietosi alcuni dettagli della sofferenza di Gesù: dalla carne lacera intorno alla ferita del costato sgorga un copioso rivolo di sangue; altre gocce di sangue sono sulla fronte e sui capelli, causate dalla corona di spine e dai chiodi della croce; oppure ancora le ossa sporgenti dei fianchi e del costato e infine quel volto che appare quasi trascurato per le guance scavate, le rughe della fronte, le due ciocche di capelli a fargli ombra e quella barba cresciuta in modo un po’ disordinato.
Non c’è dubbio, secondo gli storici dell’arte, che l’autore del nostro struggente crocifisso avesse visto e apprezzato le sculture di quello che è probabilmente il più importante scultore italiano a lui contemporaneo: quel Giovanni Pisano che nel 1311, quattro anni prima di morire, aveva realizzato a Pisa il suo ultimo grande capolavoro di scultura: il pulpito della Cattedrale di Pisa
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale:
Mariagiulia Burresi (a cura di), Sacre Passioni. Scultura lignea a Pisa dal XII a XV secolo
(Catalogo della mostra omonima svoltasi a Pisa nel 2000-2001 presso il Museo Nazionale
di San Matteo), 2000, Federico Motta Editore.
Guardando verso l’altare, proprio sopra alla porta di ingresso che si trova all’incirca a metà della parete sinistra della chiesa, sono esposte due tavole dipinte: una di forma rettangolare e l’altra, invece, semicircolare, per questo definita “lunetta”.
L’identità dell’autore è rimasta un mistero fino al 1998, quando lo storico dell’arte statunitense Louis Waldman, in un suo saggio ricco anche di curiosità storiche, ha finalmente svelato il nome dell’artista: Giovanni di Lorenzo da Larciano, pittore fiorentino nato nel 1484 e morto, insieme a gran parte della sua famiglia, nell’ondata di peste che colpì duramente Firenze nel 1527.
Giovanni da Larciano visse dunque a Firenze nel periodo d’oro del Rinascimento: aveva vent’anni quando Michelangelo terminò di scolpire il David e fu chiamato a competere con Leonardo da Vinci (che intanto aveva già iniziato il suo ritratto della Monna Lisa) sulle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio; chissà che non abbia pure conosciuto il giovane Raffaello, giunto a Firenze in quello stesso anno 1504.
Oltre ai tre nomi più celebri del Rinascimento italiano gravitava a Firenze una schiera di artisti eccellenti che certamente il nostro Giovanni da Larciano poté frequentare e dai quali trasse ispirazione per le sue opere, sia pure sviluppando un linguaggio artistico piuttosto eccentrico rispetto al filone aulico e colto dominante nella pittura fiorentina di inizio Cinquecento.
Le due tavole dipinte per la nostra Pieve furono realizzate nel 1526, solo un anno prima della morte e furono chiaramente concepite per “funzionare” insieme. Tuttavia, già a un primo sguardo appare evidente che quella attuale non è la loro collocazione originaria. Le due opere dovevano infatti decorare la parete di fondo di una piccola cappella dedicata alla Santissima Annunziata e che si trovava sulla sinistra appena entrati in chiesa, sulla parete della controfacciata.
Secondo una relazione della fine del ‘700 questa cappella doveva essere antica e molto bella: comprendeva un tabernacolo, forse in marmo, di età gotica e le due tavole dipinte dal Larciano sulla parete si trovavano probabilmente sopra e sotto a una scultura (forse raffigurante una Annunciazione, forse un Crocifisso). Difficile dirlo perché l’intera cappella, evidentemente considerata demodé per il suo stile gotico, fu distrutta agli inizi dell’’800 senza ulteriori testimonianze scritte. Per nostra fortuna, fu deciso di salvare almeno le due tavole dipinte.
La tavola rettangolare presenta tre episodi sacri: a sinistra vediamo la cosiddetta “Visitazione”, cioè la visita che Maria Vergine fece alla cugina Elisabetta quando quest’ultima stava per diventare madre di Giovanni Battista. L’incontro tra le due donne viene rappresentato, secondo uno schema ricorrente nella pittura coeva, attraverso un tenero abbraccio che mette in risalto l’affetto reciproco.
Nel riquadro al centro va in scena l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria. In modo analogo a quanto elaborato qualche decennio prima da Leonardo da Vinci nella sua celebre Annunciazione degli Uffizi, anche qui Maria accoglie l’angelo di fronte alla propria abitazione che il nostro pittore ha trasformato in un elegante palazzo porticato. Sorpresa dall’arrivo dell’Angelo, Maria ha interrotto la lettura del libro di preghiere: quasi a garantire una pur minima separazione tra le due figure, resta a terra l’altare marmoreo sul quale è montato il leggio in legno. Sullo sfondo si staglia un paesaggio descritto in modo minuzioso, in cui compare una città con palazzi, torri e cupole che assomiglia vagamente a una veduta di Firenze da Piazzale Michelangelo.
Nell’ultima porzione di destra della tavola è invece presente la figura di San Giuseppe in piedi: il santo ci osserva mostrandoci un lungo bastone fiorito sulla punta. Secondo la tradizione, la fioritura del bastone è la prova miracolosa della predilezione di Dio per quell’umile falegname. Alla sommità del bastone di San Giuseppe sbocciano i fiori di “nardo”, pianta da cui si ricava un olio molto profumato, citato spesso anche nelle sacre scritture.
Nella lunetta superiore, di forma semicircolare, domina la figura di Dio Padre circondato da angeli cherubini e affiancato da due serafini che mostrano alcuni strumenti della passione di Cristo (come, ad esempio, i chiodi nella mano dell’angelo a destra). Dio Padre appare come seduto su una nuvola e si piega in avanti per benedire con la mano destra la scena sottostante, mentre nella sinistra tiene aperto un libro che ci mostra l’“Alfa” e l’“Omega”, cioè la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, come a riassumere simbolicamente la frase pronunciata da Gesù Cristo nell’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine”.
A cura del prof. Damiano Andreini, docente di Arte e Territorio.
Bibliografia essenziale:
R. P. Ciardi e A. De Marchi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di
Risparmio di San Miniato, Pacini Editore.
Louis Alexander Waldman, Un nome per il Maestro dei Paesaggi: Giovanni Larciani e la
pala d'altare di Fucecchio, Erba d'Arno, LXXIV (1998), pp. 22-47
Situata nella navata sinistra, l’opera è stata realizzata da Jacopo Vignali: pittore fiorentino particolarmente attivo durante l’epidemia di peste del 1630.
L’Immacolata Concezione fu dipinta venti anni dopo il termine del contagio; tuttavia, il messaggio salvifico dell’opera è da ricollegare alla fine dell’epidemia e al potere della Vergine Maria, in grado di trionfare sul male che affligge l’uomo.
La Vergine Maria, generata senza peccato originale, in accordo alla dottrina cattolica, è rappresentata in piedi sulla Luna. La posizione della Luna, rivolta verso l’alto, suggerisce il trionfo di Cristo sul Male e sulla morte, mentre la corona di dodici stelle simboleggia i dodici apostoli.
Il dodicesimo capitolo del libro dell’Apocalisse menziona l’apparizione della Vergine: ”Un grande segno apparve nel cielo: una donna avvolta nel sole, con la Luna sotto i suoi piedi e una corona di dodici stelle sul capo. Essa era incinta e gridava per il travaglio e per il dolore del parto.”
Sotto la Vergine sono rappresentati Adamo ed Eva, legati dal peccato al tronco di un albero, richiamo evidente all’albero della conoscenza del bene e del male della Genesi. Il serpente che con le sue spire avvolge l’albero simboleggia Satana e quindi ancora il peccato originale di cui i progenitori sono colpevoli.
Ai loro piedi è presente un teschio da ricollegare al tema della morte spirituale, dovuta al peccato originale e al tradimento della fiducia divina.
Alle spalle di Maria è rappresentato Dio Padre che accoglie con un gesto benevolente la Vergine Maria.
A cura della prof.ssa Fiamma Pierozzi, docente di Italiano e Storia.
Non sappiamo con certezza chi sia l’autore del dipinto, collocato nella parete sinistra del presbiterio. L’opera, secondo le fonti, potrebbe essere stata realizzata da Alessandro Allori, pittore fiorentino della seconda metà del XVI secolo, oppure dall’artista pisano Orazio Gentileschi, padre della celebre pittrice Artemisia Gentileschi.
Il dipinto, a causa delle attuali condizioni, risulta difficilmente leggibile. La parte inferiore e lo sfondo risultano anneriti da un pesante strato di sporco: nell’angolo in basso a sinistra si intuiscono le figure degli apostoli che dormono, mentre in lontananza è visibile una città, forse un fiume e dei soldati.
La parte destra del dipinto è occupata da un anfratto di vegetazione incolta e selvaggia.
Considerando i personaggi del dipinto, è probabile che l’episodio rappresentato sia la cattura di Cristo nell’orto degli Ulivi.
Dal Vangelo secondo Luca. (22, 39-46) “Gesù se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”
Il tema rappresentato, che esalta la vita contemplativa e il dialogo silenzioso con Dio, potrebbe essere il frutto di una scelta autonoma del pittore Alessandro Allori. Lo farebbe pensare la frequenza con la quale ricorrono nella sua produzione pittorica temi di solitudine, di distacco dal mondo e di meditazione.
Ecco allora la scelta di un tema che permette di rappresentare un momento doloroso e umanissimo della vita di Cristo, il dialogo con Dio che precede la cattura, il processo e la condanna a morte.
A cura della prof.ssa Fiamma Pierozzi, docente di Italiano e Storia.
La tela si trova attualmente sull’altare dedicato a Santa Barbara: il primo a destra, guardando verso il presbiterio.
Francesco Curradi è stato uno tra i più importanti esponenti della pittura devozionale fiorentina della prima metà del XVII sec. All’interno del contesto barocco, le opere di Curradi sono caratterizzate da uno stile riconoscibile per l'immediata efficacia delle composizioni, il disegno accurato e la morbidezza del chiaroscuro.
La storia di quest’opera è strettamente legata a un fatto storico: la peste del 1630, raccontata anche da Manzoni nei Promessi Sposi.
In quello stesso anno, per tre giorni consecutivi fu portata solennemente a Montopoli la venerata immagine della Madonna di San Romano, in onore della quale si recitava il rosario quale ultima consolazione per un’umanità impotente, che riteneva il morbo un castigo per le proprie colpe.
In quei giorni terribili, anche a Montopoli la Vergine venne continuamente supplicata: un’eco evidente del bisogno della sua protezione che si avverte anche in questo dipinto: Madonna del rosario con i santi Stefano, Domenico, Carlo Borromeo e Francesco, realizzato circa dieci anni dopo la fine dell’epidemia ma ancora memore - considerata proprio la presenza di San Carlo - della tragedia sociale che da essa era scaturita.
Da sinistra, troviamo dunque Santo Stefano con la palma (simbolo del martirio) e il libro in mano, che trasmette tenerezza con il suo sguardo malinconico e quasi distratto; poi San Domenico che riceve il sacro dono del rosario con fare partecipe e devoto. A destra, invece, San Francesco con aria contemplativa e più in basso San Carlo Borromeo, di profilo e in ginocchio in gesto di preghiera. Quest’ultimo assume un certo rilievo nel dipinto, sia per il risalto cromatico del suo ampio abito di uno squillante rosso porpora, sia per il ruolo esercitato durante le ondate di pestilenza nel territorio lombardo. Infatti, ricordiamo il cardinale come colui che si prodigò senza timori nell’assistenza degli appestati milanesi tra il 1576 e il 1577. La sua presenza nel nostro dipinto può caricarsi quindi di una funzione di conforto e devozione, una sorta di ringraziamento per la ripresa demografica che si registrò a Montopoli negli anni successivi alla peste del 1630.
Al centro, la tenera immagine della Vergine con il Bambino, avvolti in una luce che li cinge e li rischiara. I due hanno i tratti di una madre serena con il suo piccolo giocoso e un po’ arruffato, la cui natura speciale è rivelata dalla delicata rosa che tiene in mano e che è simbolo proprio della preghiera a Maria, dolce e profumata proprio come lo è una rosa.
Intorno a loro, in alto, una schiera di angeli in movimento a sorreggere i quindici medaglioni circolari raffiguranti i Misteri (cosiddetti gaudiosi, dolorosi e gloriosi, tratti da episodi significativi della vita di Maria e di Gesù); due di loro, inoltre, si accingono a incoronare Maria.
Ne risulta una scena che emana una serenità che poco concede alla tragedia della peste e che, anzi, sembra volerne allontanare le inquietudini. Per quanto riguarda lo stile sono da sottolineare la morbidezza dei toni e i delicati effetti cangianti che addolciscono i tessuti, contribuendo a favorire la partecipazione e il coinvolgimento emotivo del fedele.
Qualcuno ha definito questo dipinto come “un porto di dolcezza contrapposto agli orrori del contagio”. Un’interpretazione che trova un’ulteriore giustificazione nella committenza del dipinto: come abbiamo appreso da don Luciano Niccolai, c'è un‘iscrizione dipinta sul margine inferiore (che però non è visibile perché coperta dalla cornice): secondo quella iscrizione, la tela fu offerta da una levatrice montopolese, di nome Diamante, per esprimere riconoscenza per la ripresa delle nascite nel territorio di Montopoli, dopo la tragedia dell’epidemia del 1630 che aveva causato la morte di ben 800 persone.
A cura della prof.ssa Cristina Mirarchi, docente di Italiano e Storia.
Bibliografia essenziale:
• B. Bitossi, M. Campigli, D. Parri, Visibile pregare, Arte sacra nella diocesi di San Miniato, Cassa di Risparmio di San Miniato, Pacini Editore, 2000;
www.wikipedia.org
Il Battesimo di Cristo è collocato sulla parete di fondo della Cappella del Battesimo: dall’ingresso, la prima sul lato destro della navata.
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Silvio Bicchi nasce a Livorno nel 1874 e compie i suoi primi studi a Firenze, dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti, ma più ancora lo studio di Giovanni Fattori, caposcuola dei Macchiaioli e uno dei maggiori esponenti del realismo del secondo ‘800 italiano. Questo apprendistato presso il maestro livornese caratterizzò i suoi esordi al di fuori del mondo accademico, vissuti all’insegna di una piena indipendenza intellettuale.
Nel 1906 soggiornò a Parigi e successivamente a Londra, tappe fondamentali per la sua formazione, dato che erano città che accoglievano le principali tendenze e novità artistiche.
Parigi fu per lui una delusione e ne raccontò le ragioni in un appassionato articolo, in cui si sottolinea il contrasto tra la “sua natura priva di retorica e di finzioni” e il clima decadente che si continuava a percepire nella Ville Lumiere. L’arte, per Bicchi, si poteva rinvenire “solo entro sé stessi e nell’amore per le cose reali”.
Il soggiorno londinese, invece, sembra esser stato più fruttuoso grazie allo studio dei pittori inglesi del tardo ‘700 e del primo ‘800, che lo portarono a scoprire la sua passione per il ritratto, genere che gli avrebbe procurato una notevole fortuna, soprattutto finanziaria.
Durante il suo soggiorno di quattro anni (1910-1914) negli Stati Uniti, decise di stabilirsi a New York, dove eseguì ritratti di note personalità dell’aristocrazia, dell’industria e della cultura, permettendogli inoltre di affrontare con maggiore tranquillità economica la propria professione.
Il Battesimo di Cristo per la chiesa di Montopoli fu una delle prime opere eseguite dopo il rientro dagli Stati Uniti. Bicchi, infatti, soggiornò spesso a Montopoli con il padre e negli anni Venti vi si stabilì definitivamente.
Al centro del dipinto osserviamo Gesù e Giovanni Battista, rappresentati nell’atto del Battesimo e, fedelmente a quanto riportato nelle scritture, si vede planare una colomba sopra la testa di Cristo con un fascio di luce che rimanda allo Spirito Santo.
"[...] Allora Giovanni lo battezzò; appena uscito dall'acqua, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed una voce dal cielo disse: “Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. (Mt 3, 13-17).
Le due figure del Cristo e del Battista, in primo piano, sono isolate rispetto allo sfondo da una linea di contorno netta e incisiva, che fa ipotizzare una possibile influenza dell’arte giapponese (divulgata in Europa grazie alle riviste e alle periodiche Esposizioni Universali) e del pittore e scultore Alfons Mucha, uno degli astri dell’Art Nouveau. Una certa somiglianza, infatti, si nota nella linea sinuosa e fluida, nella bidimensionalità delle figure e nelle tinte dalla netta vivacità. Tutti tratti stilistici tipici dell'Art Nouveau e della sua declinazione italiana, il Liberty.
Bicchi, infatti, tende a evidenziare le silhouettes dei personaggi quasi a ritagliarle dall’atmosfera circostante, utilizzando colori puri, accostati tra loro in modo da creare netti contrasti.
È evidente dunque che il pittore si presenta ormai come un artista dal bagaglio culturale di respiro internazionale, capace di rielaborare in maniera personale diversi spunti colti anche durante i viaggi all’estero.
Inoltre, in riferimento al dipinto presente nella pieve di Montopoli, si può dire che questa opera rappresenti un unicum, sia per il soggetto rappresentato che per la raffinata eleganza formale che l’artista livornese è riuscito a trasfondervi.
A cura della prof.ssa Cristina Mirarchi, docente di Italiano e Storia.
Bibliografia essenziale: B. Bitossi, M. Campigli, D. Parri, Visibile pregare, Arte sacra nella diocesi di San Miniato, Cassa di Risparmio di San Miniato, Pacini Editore, 2000
Versioni audio
(La musica di sottofondo - Chopin, Preludio op.28 n. 17 - è suonata al pianoforte da Pierpaolo Buggiani, studente della classe 5B Turismo)