ADOTTIAMO UN MONUMENTO
Progetto realizzato dall'Indirizzo TURISMO dell'Istituto Tecnico "C. Cattaneo" di San Miniato
Progetto realizzato dall'Indirizzo TURISMO dell'Istituto Tecnico "C. Cattaneo" di San Miniato
Le versioni audio sono più in basso nella pagina
Il Crocifisso di Castelvecchio deve il suo nome a una delle tre parti in cui era divisa la città di San Miniato; Castelvecchio, come lascia intendere il toponimo, doveva individuare la parte più antica, ovvero quella della città fortificata.
Il Crocifisso è una scultura lignea, di dimensioni modeste, che rappresenta un Christus patiens, con gli occhi chiusi; il capo piegato, segnato da grossolani rivoli di sangue; numerose ferite, diffuse su tutto il corpo vistosamente irrigidito, per sottolineare l’elemento della sofferenza.
In particolare queste ultime caratteristiche hanno indotto a ricollegare l’oggetto all’arte nordica, in particolare di area germanica, e a identificare il suo anonimo autore in un artigiano tedesco attivo nel Valdarno inferiore nella prima metà del Trecento.
La leggenda relativa al ritrovamento del Crocifisso di Castelvecchio risale a un periodo imprecisato, probabilmente a cavallo tra Sei e Settecento.
Nel 1755, Bernardo Morali, membro dell’Opera del Santissimo Crocifisso, pubblicò delle Memorie indirizzate al vescovo Domenico Poltri che succedeva a Giuseppe Suares de la Concha, vescovo molto devoto al culto del Crocifisso.
Nell’opera di Morali si trova la prima versione scritta della leggenda secondo la quale due viandanti raggiunsero la casa di una vedova e la pregarono di conservare una cassetta chiusa, che sarebbero tornati a riprendere. I due uomini non si presentarono più e la donna, notando che ogni sera, al tramonto, dalle fessure della cassetta fuoriuscivano dei raggi, iniziò a pensare che essa contenesse delle gemme. Tuttavia, sentendo che quella luce riusciva a toccarle il cuore, decise di portare la cassetta ai canonici della pieve, i quali la aprirono e vi trovarono all’interno il Crocifisso.
La leggenda viene riproposta anche nella Storia del Crocifisso del colto canonico Giuseppe Conti, pubblicata nel 1863; in questa sede si specifica che la voce popolare aveva finito per trasformare i due viandanti della leggenda in due angeli, mentre, secondo l’erudito samminiatese, era assai più probabile si trattasse di due parenti dei nobili fiorentini imprigionati da Federico II nella Rocca di San Miniato a seguito della battaglia di Capraia del 1248, data alla quale viene fatto risalire il ritrovamento del Crocifisso.
Il venerabile Crocifisso di Castelvecchio è custodito nel tabernacolo dell’altare maggiore, coperto dalla tavola cinquecentesca che rappresenta Cristo risorto, opera di Francesco d’Agnolo Lanfranchi. Ogni anno si tengono solenni festeggiamenti in onore del Crocifisso che viene scoperto ed esposto nell’ultima settimana di ottobre.
A cura del docente Luca Danti e della classe 5A Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato
Bibliografia di riferimento:
MARCO CAMPIGLI, Crocifisso di Castelvecchio, in Visibile pregare, III, a cura di Roberto Paolo Ciardi
e Andrea De Marchi, Pisa, Pacini, 2013, pp. 61-62.
ISABELLA GAGLIARDI, La leggenda del Santissimo Crocifisso di San Miniato, «Annali dell'Istituto
storico italo-germanico in Trento», XXVI, 2000, pp. 657-677.
STEFANO RENZONI, Crocifisso di Castelvecchio, in La bellezza e la preghiera. La fede e i suoi luoghi
nella Diocesi di San Miniato, Pisa, Pacini, 2020, pp. 80-83.
Inizialmente il Crocifisso era stato collocato all’interno di una cappella della pieve di Santa Maria Assunta e di San Genesio (l’attuale cattedrale di San Miniato); successivamente, nel 1378, la pieve venne adibita a deposito militare e così, tra il 1378 e il 1399, il Crocifisso fu collocato nella chiesa dei Santi Giusto e Clemente sempre nel terziere di Castelvecchio, chiesa oggi non più esistente, e la cura dell’oggetto venne affidata alla Compagnia della pieve.
Nel 1399 il Crocifisso venne condotto in processione a Siena, Colle Val d’Elsa, San Gimignano, Volterra, Firenze, Prato, Pistoia, Pescia, Lucca e Pisa, e durante il suo passaggio si sarebbero verificati numerosi eventi eccezionali e guarigioni miracolose.
Dopo il rientro del Crocifisso a San Miniato, proprio per i fatti prodigiosi che erano accaduti, si decise di trasferirlo all’interno del palazzo dei Priori, oggi sede del Comune di San Miniato. Il Crocifisso fu trasportato all’interno di un oratorio - quello che è conosciuto come “Oratorio del Loretino” - già presente nel palazzo, ma che probabilmente venne risistemato per l’occasione.
Nel 1400 si costituì una congregazione laica, detta Opera del Santissimo Crocifisso, che condivise la funzione della Compagnia della pieve, occupandosi di far celebrare le funzioni religiose nell’oratorio, delle esposizioni del Crocifisso, delle processioni.
Il momento di svolta nelle vicende del Crocifisso è costituito dal XVII secolo, quando si verificarono due eventi molto importanti: nel 1622 San Miniato divenne sede vescovile grazie al consenso di papa Gregorio XV e nel 1630, durante la pestilenza, San Miniato venne toccata solo marginalmente dal contagio. I cittadini pensarono che questo miracolo fosse stato dovuto alla protezione del Crocifisso, a cui l’Opera decise fosse opportuno dedicare un edificio di culto esclusivo e per questo motivo, nel 1692, stanziò cento scudi.
Ciononostante i lavori venivano continuamente rimandati, perché l’Opera, pur disponendo di grandi ricchezze, che servivano soprattutto per attività assistenziali ed educative, non era intenzionata a impiegarle totalmente per la costruzione della nuova chiesa, perciò il progetto venne rinviato fino al 1704.
Fu il nuovo vescovo Giovanni Francesco Maria Poggi che si fece carico della costruzione, destinando tutte le elemosine della diocesi al nuovo edificio e sfruttando la propria vicinanza al granduca Cosimo III de’ Medici, dal quale ottenne in un primo momento il permesso di demolire le mura medievali della Rocca per trarne materiale da costruzione e, successivamente, ulteriori finanziamenti.
Il vescovo, per la costruzione della chiesa, incaricò l’architetto di corte Antonio Ferri, il quale propose due distinti progetti: uno a pianta ottagonale, l’altro a croce greca, cioè con la navata ed il transetto dotate della stessa lunghezza, a simboleggiare una perfetta simmetria e la natura divina di Cristo; Poggi scelse il secondo. Per la sua posizione e per la sua funzione di “scrigno” del crocifisso questa chiesa doveva inoltre richiamare la celebre Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, fatta edificare da Costantino nel luogo della passione e della morte di Gesù. L’edificio con pianta a croce greca e con una cupola su tamburo, fu decorato all’esterno in maniera molto sobria, con delle lesene (finti pilastri appena sporgenti dalla parete della facciata), che incorniciano l’ingresso principale e marcano le estremità della chiesa.
La più ricca decorazione interna fu invece affidata al pittore fiorentino Antonio Domenico Bamberini, che realizzò una vera e propria “Bibbia illustrata”, affrescando le pareti della chiesa con numerose scene dalla vita di Cristo.
La scelta dell’ubicazione non fu casuale, non tanto perché la nuova chiesa sarebbe sorta sul terrapieno dove si sarebbe trovata la dimora che nella leggenda aveva ospitato i due viandanti portatori del Crocifisso, ma perché la chiesa del SS. Crocifisso sarebbe stata collocata dirimpetto al simbolo del potere civico e in posizione vistosamente sopraelevata. Il Crocifisso veniva sottratto alle cure secolari dell’Opera, che sarebbe stata soppressa per ordine del granduca Pietro Leopoldo nel 1786, ma soprattutto abbandonava il luogo del governo politico della città per collocarsi all’ombra del duomo e del palazzo vescovile.
Furono dei nobili sanminiatesi a finanziare la costruzione del pavimento, della campana e degli altari della nuova chiesa, che fu consacrata il 3 maggio 1729 dal successore di Poggi, Monsignor Cattani.
Nel 1750 la chiesa fu dotata di un organo, mentre l’altare maggiore in marmi pregiati risale al 1824.
Nel 1844 furono collocate nel santuario sei statue in terracotta realizzate dallo scultore Luigi Pampaloni: i quattro evangelisti all’interno della chiesa, nelle nicchie alla base della cupola, e due angeli, sulla scalinata; a questi ultimi si aggiunse, nel 1867, la statua marmorea del Cristo risorto di Francesco Baratta, risalente al primo ʼ700, la quale fu posta dentro alla nicchia centrale della scalinata. Nel 1888 infine furono inaugurate, nella parte bassa della scalinata, le statue degli apostoli Pietro e Paolo.
A partire dal 1988 l'intero santuario fu sottoposto ad accurati lavori di restauro, finanziati dalla Cassa di Risparmio di San Miniato e condotti dalla Soprintendenza di Pisa. L’esterno dell’edificio e la scalinata sono stati oggetto anche di una più recente opera di restauro conclusasi nel 2021.
A cura dei docenti Luca Danti e Gabriel Stohrer e delle classi 5A e 5B Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato
Bibliografia di riferimento:
Isabella Gagliardi, La leggenda del Santissimo Crocifisso di San Miniato, «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento», XXVI, 2000, pp. 657-677.
Antonio Maria Ferri, architetto assai attivo a cavallo fra la fine ʼ600 e l’inizio del ʼ700 presso la corte medicea del granduca Cosimo III ed in altre città toscane, fu il più stretto collaboratore del vescovo Giovanni Francesco Maria Poggi nell’ideazione e realizzazione del santuario del Santissimo Crocifisso. Fu lui a sfruttare molto sapientemente il dislivello del pendio del “ciglione” - luogo scelto per la costruzione della nuova chiesa settecentesca - ideando una grande scalinata che amplificava, in un senso fortemente barocco, le potenzialità spettacolari del santuario.
Questa scalinata può essere letta a più livelli: in chiave formale rappresenta il legame prospettico città/chiesa, in chiave simbolica è chiaramente una via crucis, mentre secondo un’interpretazione evangelica raffigurerebbe la via regia che collega, per dirla con Sant’Agostino, la “Città degli uomini” con la “Città di Dio”.
Lungo questo itinerario ascensionale si allineano in successione le statue degli angeli (che un tempo brandivano delle trombe, richiamando così il tema del giudizio universale), la porta del “tempio”, l’immagine dei quattro evangelisti, il tiburio e la lanterna sulla sua sommità.
Usando un lessico scenografico questa scalinata può anche essere definita “macchina” teatrale, in quanto riprende l’architettura effimera delle cerimonie religiose e degli apparati funebri del tempo. La “scena” dei cerimoniali si eleva così al di sopra del pubblico su una fastosa impalcatura, che si collega alla “platea” degli spettatori attraverso le sfarzose scalinate. In questo contesto spettacolare la facciata della chiesa diventa un proscenio teatrale, mentre l’intero percorso coinvolge sia l’interno che l’esterno della chiesa in un continuo rimando fra spazio reale e spazio illusivo.
Dalle fonti scritte in nostro possesso è possibile ricostruire che lo spazio di tale “platea” era solennizzato da un loggiato continuo che, coperto da stoffe preziose, fungeva da collegamento dell’itinerario processuale fra città e cattedrale. Tali stoffe e drappi di seta servivano anche per creare suggestivi effetti luminosi nonché per precludere al pubblico la vista delle siepi e della vegetazione che stavano intorno, immediatamente al di fuori di questo percorso processionale.
L’apice di questo spettacolo era naturalmente la chiesa, palcoscenico e quinta teatrale della celebrazione sacra. Canti e musica infine contribuivano a potenziare il forte impatto emotivo di questo percorso.
A cura del docente Gabriel Stohrer e della classe 5B Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato.
Fra le opere più importanti del pittore fiorentino Antonio Domenico Bamberini, c’è sicuramente il ciclo di affreschi nel santuario del SS. Crocifisso a San Miniato.
Nonostante una produzione abbondante, Bamberini è un autore poco conosciuto e le principali informazioni su di lui provengono da fonti settecentesche.
Bamberini nacque nel 1666 e, dopo il suo primo apprendistato con Simone Pignoni, compì un importante viaggio formativo a Roma. Tuttavia, il suo vero maestro può essere considerato Antonio Giusti, con il quale collaborò a lungo, ma venne influenzato anche da Cosimo Ulivelli. In definitiva la formazione di Bamberini avvenne nell’ambiente della pittura barocca fiorentina.
La prima opera documentata di Bamberini è un tabernacolo con la “Madonna col Bambino e i santi Pietro e Paolo” in piazza degli Ottaviani a Firenze. Fin da subito le sue opere mostrano che l’artista ha un’apprezzabile abilità nel dipingere le figure che però risultano spesso convenzionali, mentre gli ornamenti e le architetture risultano decisamente più raffinati.
Quando rientrò a Firenze, Bamberini lavorò con Pier Dandini a diverse decorazioni sacre tra il primo e il secondo decennio del XVIII secolo. Il legame con Dandini lo portò a entrare nella cerchia degli artisti che lavoravano per la famiglia Medici. A partire dal 1712 partecipò ad alcuni prestigiosi allestimenti per feste di canonizzazione e cerimonie funebri, consolidando la sua fama tra i decoratori dell’epoca. Nello stesso anno, Bamberini fu uno degli artisti chiamati da Antonio Maria Ferri, l’architetto fiorentino della corte granducale, a decorare San Lorenzo per la canonizzazione di papa Pio V. Grazie alla sua abilità decorativa, Ferri lo raccomandò al vescovo di San Miniato Giovanni Francesco Maria Poggi, che lo coinvolse nei lavori di rinnovamento della cattedrale.
A San Miniato, già nel 1710, Bamberini aveva lavorato alla facciata del Seminario, dopodiché decorò la cappella di San Filippo Benizzi, quella del Suffragio e quella dedicata a San Francesco di Paola, nel duomo. Generalmente, per la realizzazione delle pitture delle cappelle, si può notare che Bamberini dipingesse a tempera su intonaco, dopo aver realizzato rapidi disegni basati su modelli e cartoni preparatori.
Nel 1717 iniziò la decorazione del santuario SS. Crocifisso, dove lavorò per diversi anni. Nella composizione delle scene sono evidenti le influenze di Ferri, il quale, a sua volta, si attenne alle direttive del vescovo Poggi. L’interno della chiesa è scenografico e sfarzoso, ricco di effetti teatrali e illusionistici, e si contrappone alla sostanziale semplicità dell’esterno.
Come decoratore e affreschista Bamberini, nel 1719, lavorò presso la Compagnia di San Giovanni Battista a Fucecchio, presso la pieve di Marti e nella chiesa di San Michele Arcangelo a Pescia. La sua produzione più cospicua è, però, ancora legata a San Miniato, dove lavorò alla decorazione del soffitto del duomo, della Chiesa dei Santi Jacopo e Lucia - meglio nota come “San Domenico” -, alla realizzazione dell’“Incoronazione della Vergine” nell’occhio della cupola della chiesa della SS. Annunziata e alla decorazione del nuovo teatro del Seminario, opera di cui, a causa di lavori successivi, non è rimasta traccia.
Decorazioni e tele di Bamberini sono poi presenti nella chiesa di Santa Cristiana a Santa Croce sull’Arno, nella chiesa della Congregazione delle Ancelle della SS. Trinità a Firenze - la cosiddetta villa “La Quiete” -, nelle chiese di Santa Maria a Monte e di Terricciola.
Bamberini fu attivo fino al momento della morte, che lo colpì nel 1741, mentre lavorava nel borgo di Gramugnana.
A cura del docente Luca Danti e della classe 5A Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato
Bibliografia di riferimento:
Luciano Migliaccio, Franco Paliaga, Anton Domenico Bamberini a San Miniato e altrove, in La Chiesa del SS. Crocifisso a San Miniato. Restauro e storia, a cura di Maria Adriana Giusti e Dario Matteoni, Torino, Allemandi, 1991, pp. 45-51.
Sul piano della decorazione, l’interno della Chiesa del Santissimo Crocifisso ha una serie di caratteristiche che la rendono unica, e non solo a livello locale: è completamente rivestita da una stupefacente quantità di affreschi che ne coprono ogni centimetro delle pareti, cupola compresa; in secondo luogo, quegli stessi affreschi rappresentano vicende religiose diverse, ma furono concepiti in modo unitario dal vescovo che ne organizzò la realizzazione, e sono tutti collegati da un unico filo conduttore: quello dell’esaltazione della redenzione degli uomini operata da Dio attraverso la crocifissione di Gesù.
Infine, tutti quegli affreschi furono dipinti, nel giro di pochi anni, da un unico artista, il cui nome è Anton Domenico Bamberini (Firenze, 1666 – Gramugnana di Lari, 1741).
Dunque, riassumendo: un’enorme quantità di affreschi, all’interno di un unico edificio e che fanno riferimento a un unico tema generale, concepiti da una sola persona e realizzati da un solo pittore. Se vi sembra che le premesse abbiano un che di teatrale, non vi sbagliate: senza dubbio, l’interno di questo edificio fu concepito come un’enorme e sontuosa macchina teatrale legata al sacro. Un apparato di immagini capace di veicolare a tutti - sia alle persone dotte come a quelle comuni, in gran parte analfabete - concetti teologici e liturgici connessi al miracoloso Crocifisso ligneo che l’edificio protegge, essendo stato ideato proprio come un magnifico e gigantesco scrigno.
I lavori per la realizzazione delle sacre immagini ebbero inizio nell’agosto del 1717 e durarono alcuni anni. Il committente dell’intero programma fu l’energico Giovanni Francesco Maria Poggi, vescovo di San Miniato ma di origini fiorentine, e non c’è dubbio che il carattere di spettacolare teatralità dell’interno della chiesa provenga direttamente dalla capitale del Granducato, dove il linguaggio estetico barocco era stato di gran moda nella seconda metà del ‘600.
Infatti, molte chiese di Firenze avevano da poco rinnovato il loro apparato di immagini sacre, anche con l’obiettivo di esaltare la potenza della Chiesa trionfante sulla Terra e nella Storia: gli altari furono abbelliti con scene movimentate di santi in estasi e possenti architetture classiche dipinte sullo sfondo, mentre le superfici ampie e rotonde delle cupole si riempirono di altri santi e angeli svolazzanti nei vertiginosi spazi celesti, come un festoso corteo intorno alle figure del Cristo o della Vergine Maria.
Tornando a San Miniato, gli affreschi della Chiesa del Santissimo Crocifisso si dividono in due grandi nuclei tematici: personaggi e vicende tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Questo ovviamente per richiamare la dimensione universale della presenza divina nella storia degli uomini. I primi sono realizzati a colori, mentre i secondi sono a “monocromo”, a simulare cioè l’effetto del rilievo in marmo di tradizione antica.
Per orientarsi, bisogna iniziare dall’alto, nei “pennacchi” della cupola, dove vediamo i quattro profeti maggiori con i loro attributi tipici: Isaia, Ezechiele, Geremia e Daniele. Invece, nelle “lunette” semicircolari che inquadrano le finestre di ciascun braccio della chiesa, compaiono a coppie altri 8 profeti, cosiddetti “minori”. Tutti i profeti hanno una robusta fisicità e posture ricercate. Evidentemente, l’eco dei profeti che Michelangelo aveva affrescato sulla volta della Cappella Sistina suscitava ancora, dopo duecento anni, un fascino irrinunciabile.
Sui quattro archi che incorniciano le lunette sono invece dipinti, a coppie, episodi della Via Crucis (a monocromo) poste ai lati di un “tondo” centrale con personificazione delle Virtù di Cristo: Pazienza, Umiltà, Carità e Obbedienza. Infine, sulle pareti dei quattro bracci della chiesa compaiono sei grandi affreschi a monocromo con episodi della vita di Gesù: L’adorazione dei pastori, La circoncisione, La fuga in Egitto, L’entrata di Gesù a Gerusalemme, La lavanda dei piedi, La comunione degli apostoli.
A queste ultime immagini si legano, ovviamente, l’episodio della morte di Gesù sulla croce rappresentato dal miracoloso Crocifisso ligneo custodito presso l’altare maggiore e il trionfo della sua ascensione al cielo, dopo essere risorto, celebrato nel grande affresco della cupola.
L’apparato decorativo della chiesa è completato dalle due tele poste sopra agli altari laterali: Il Transito di San Giuseppe - santo protettore del Granducato di Toscana - di Giovanni Antonio Pucci (1730 c.) e l’Immacolata concezione di Maria e Santi di Giovambattista Lurchini (XVIII sec.).
A cura del docente Damiano Andreini e delle classi 5A e 5B Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato.
Bibliografia essenziale:
R. P. Ciardi e A. De Marchi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 3), 2001, Fondazione Cassa di
Risparmio di San Miniato, Pacini Editore.
I sei episodi della vita di Gesù dipinti sui bracci della chiesa a “monocromo” (cioè in bianco e nero, a simulare l’effetto di un antico rilievo in marmo) sono inseriti in eleganti cornici dalle forme complesse – definite, per questo, “mistilinee” - e ornate da “festoni” di fiori e frutta pendenti dalla parete, come accadeva davvero in occasione di feste o solennità. Soprattutto, ciascun episodio è collegato a un’iscrizione in latino, a suggerire – in chi avrebbe saputo leggerla - una riflessione più approfondita sul tema teologico proposto dalla scena dipinta.
Abbiamo scelto due di questi episodi, posti ai fianchi dell’altare maggiore. Il primo è la Lavanda dei piedi, descritta in dettaglio nel Vangelo di Giovanni: durante l’ultima cena, Gesù si offre di lavare i piedi ai dodici apostoli a partire da Pietro, inizialmente esitante di fronte al gesto di estrema umiltà del Maestro.
Gesù spiega il significato del rito e comanda agli apostoli di compiere lo stesso gesto una volta che Egli non sarà più con loro. Nel nostro affresco, Bamberini ha collocato Gesù in ginocchio, con intorno gli apostoli visibilmente meravigliati, all’interno di un salone monumentale chiuso in fondo da una possente architettura con arcate e pilastri all’antica, dove due figure anonime sembrano occupate ad apparecchiare la tavola per la cena. Un’ultima misteriosa figura (un autoritratto del pittore Bamberini?) fa capolino dalle spalle dell’apostolo con la brocca dell’acqua (probabilmente San Giovanni) e si rivolge a noi per condividerci, con il gesto della mano alzata, il suo palpabile stupore.
A chiarire il significato teologico e liturgico della scena, l’iscrizione latina recita: “Esempio illustre dell’umiltà di Cristo e della purificazione a noi assegnata”.
L’altro episodio, di rimpetto al primo, rappresenta la Comunione degli apostoli, una variante meno usuale, all’interno di una chiesa, della ben più consueta Ultima cena. Gesù è in piedi, intento a distribuire il pane spezzato ai suoi discepoli. Questi ultimi hanno ormai accantonato ogni esitazione e si dispongono devotamente intorno al Signore. Tutti, abbiamo detto, tranne uno: all’estrema sinistra del dipinto, Giuda se ne va, volgendo le spalle a Gesù e ci guarda dubbioso lasciandoci intravedere il sacchetto contenente i trenta denari, miserabile bottino del suo tradimento.
A precisare il contesto storico in cui si svolse quella fondamentale vicenda dell’esperienza terrena di Cristo compaiono di nuovo, sullo sfondo, maestose architetture voltate a botte, arricchite da cassettoni, pilastri, cornici, archi, secondo il consolidato repertorio di elementi tratti dall’architettura romana antica.
Questa volta, l’iscrizione sotto l’affresco recita: “Opera della carità del Salvatore e della sua straordinaria misericordia verso gli uomini”.
La scelta di sostituire una più comune Ultima cena con il racconto specifico dell’istituzione, da parte di Gesù, del rito dell’eucaristia ha il significato ulteriore di evidenziare il ruolo primario del sacerdote nel perpetuare il gesto compiuto dal Signore, secondo quanto egli aveva espressamente richiesto agli apostoli.
Risulta dunque piuttosto evidente che con questo episodio il vescovo Poggi, ideatore dell’intero apparato di immagini della nostra chiesa, volle anche ribadire la centralità del proprio ruolo nella tutela della liturgia cristiana, in quanto erede del primo vescovo della chiesa cattolica: proprio quel Pietro che infatti è protagonista anche dell’altra scena con la Lavanda dei piedi.
A cura del docente Damiano Andreini e delle classi 5A e 5B Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato.
Bibliografia essenziale: R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
In questa breve rassegna degli affreschi settecenteschi realizzati da Bamberini, un ultimo sguardo lo merita la grande cupola: un vortice prospettico di santi e angeli (uno dei quali dispiega il cartiglio: “Ritornato da dove era venuto”) accompagna il nostro sguardo fino al vertice, dove si manifesta Cristo salito al Cielo dopo la resurrezione. Ha gli occhi rivolti al Padre, le braccia alzate e con quel gesto ampio e solenne schiarisce il cielo, illuminando i personaggi con il riverbero della propria gloria.
Bamberini è ricordato dai contemporanei come un artista raffinato negli ornati e negli impianti architettonici, mentre nella pittura di figura fu apprezzato soprattutto per la rapidità con cui riusciva a decorare ampie superfici che portava a termine con sorprendente sveltezza, talvolta a costo una certa ripetitività negli schemi compositivi che finiva per riutilizzare frequentemente, sia pure con piccole modifiche.
Nel complesso, tuttavia, dalla nostra breve ricerca emerge la figura di un artista aggiornato sulle tendenze artistiche fiorentine del tardo Seicento, orientate a un’arte che doveva stimolare, nel fedele, un approccio al sacro intriso di forte partecipazione emotiva, instillando stupore e meraviglia e perciò tendente a un effetto complessivo di spettacolare teatralità.
Tutto ciò si riscontra chiaramente anche nella nostra chiesa, a partire dalle intenzioni del vescovo Poggi e dal conseguente apparato di immagini affidato a Bamberini, che evidentemente fu scelto dall’energico prelato sanminiatese perché, in fondo, quest’ultimo aveva ben chiaro il proprio obiettivo: realizzare, attraverso il monumentale ciclo di affreschi, una rappresentazione teatrale “stabile” di quei temi sacri, con un tono didascalico e vivacemente popolare.
A cura del docente Damiano Andreini e delle classi 5A e 5B Turismo dell'IT Cattaneo di San Miniato.
Bibliografia essenziale: R. P. Ciardi (a cura di), Il Visibile Pregare (Vol. 1), 2001, Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
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