Angelo nacque a Casale, piccolo villaggio della parrocchia di San Facondino. Il padre Ventura e la madre Chiara (soprannominata Migalitra), facevano gli agricoltori. Fin da bambino venne mandato al pascolo con le pecore e aiutava anche i genitori nei campi. Cresceva pieno di virtù, ubbidiente, laborioso, generoso e soprattutto devoto e rispettoso dei comandamenti. Angelo di nome e di fatto. Quando si recava al pascolo con gli altri ragazzi, divideva sempre con loro il proprio pranzo e addirittura lo dava tutto ai più poveri.
Spesso si appartava dai suoi compagni e faceva la croce con due legni, si inginocchiava davanti a quell’umile croce e pregava, preferendo la preghiera al gioco con gli altri pastorelli.
Il suo luogo preferito per il pascolo era il monte Serrasanta, dove esisteva un romitorio, che ospitava molte anime che vivevano in contemplazione e in preghiera.
Forse il desiderio che venne poi in lui, della vita solitaria, venne ispirato e sbocciò proprio osservando quegli eremiti.
I primi insegnamenti religiosi gli vennero dai genitori, ma probabilmente la mamma non si rese conto della santità innata di questo fanciullo.
E’ vero anche che quelli erano tempi duri, che non solo non permettevano di sprecare, ma era molto difficile anche avere il necessario.
Un giorno, mentre si preparava il pranzo per andare al pascolo, la mamma vide che Angelo stava preparando molto più pane del dovuto e , siccome glielo aveva visto fare più volte, lo rimproverò severamente dicendo:” Vattene e non tornare mai più!”.
Angelo, vistosi privare, non del suo pane, ma di quello che voleva donare le rispose: “ E che io al ritorno ti trovi morta!”. Se ne andò al pascolo e fece ritorno a tarda ora.
Al ritorno sentì le campane di San Facondino suonare a morto e, incontrando un paesano, gli chiese per chi suonassero. Quando seppe che era morta la sua mamma, si sentì subito colpevole per quello che era successo.
Straziato nell’anima andò a confidarsi e a confessarsi dal parroco per quello che era accaduto alla mattina.
Non riusciva a trovare pace, ma Dio aveva già mutato il suo peccato in mezzo di santificazione.
Da subito pensò che poteva riparare la sua colpa solo con la preghiera e le sofferenze, ma qualsiasi mortificazione gli sembrava poco.
Verso l’età di 12 anni perse anche suo padre e così pensò di fare un pellegrinaggio per espiare la sua colpa.
Ne parlò con il suo parroco, consegnò le sue povere cose ai parenti e, scalzo e munito solo di un bastone, partì alla volta della Galizia, per raggiungere il Santuario di San Giacomo di Compostela.
Aveva solo dodici anni, non aveva conoscenza del mondo, fuori dal suo paesello Casale, senza saper leggere, fidando solo in Dio.
Non possiamo nemmeno immaginare quali pericoli avrà dovuto superare e quali stenti avrà dovuto soffrire.
Tornò dopo due anni e nel frattempo aveva maturato il desiderio di entrare in monastero.
Chiese così all’abate di San Benedetto di essere accolto tra i monaci. Nonostante facesse il garzone del monastero, anche questa vita gli sembrava poco purificatrice, per la sua anima e allora chiese di potersi unire agli eremiti di Capodacqua, dove esisteva un piccolo romitorio e una chiesetta dedicata a San Gervasio e Protasio. Restò con questi eremiti fino all’età di 19 anni, ma sentiva sempre di più di unirsi intimamente a Dio, vivere solo per Dio. Forse era proprio IDDIO che lo chiamava alla perfetta santità.
Si fece costruire in basso, in mezzo ad una fitta boscaglia, una piccola cella e si fece murare la porta dall’esterno. L’unico contatto con il mondo era una piccola finestra, dalla quale attingeva acqua dal rio Romore e dalla quale riceveva, a volte, del cibo che gli veniva offerto e confortava coloro che si rivolgevano a lui. Per 34 anni (1290-1324) trascorse la vita in questo luogo ristretto ( 2,80 metri x 1,50).
Durante questi anni, vari furono i prodigi che emanavano da questo Santo uomo. Noto è il miracolo di un innocente che era stato condannato a morte. Suo fratello andò a chiedere consiglio al Beato Angelo.
Il Beato gli consigliò di andare a dire al podestà che egli desiderava che suo fratello fosse liberato, ma il podestà rispose che l’avrebbe fatto solo se gli portava un cestino di ciliegie (era il mese di gennaio).
L’uomo andò a riferire al Beato quanto gli aveva detto il podestà. Messosi in preghiera il Beato pregò Dio così intensamente, che gli concesse quanto richiesto.
Consegnò il cestino di ciliegie al fratello del prigioniero che lo portò al podestà.
Questi, meravigliato, liberò il prigioniero e insieme a suo fratello andò subito a ringraziare il Beato Angelo.
Il 15 gennaio 1324 Dio volle che Angelo tornasse a Lui.
Nello stesso giorno le campane di San Benedetto iniziarono a suonare a festa, senza che nessuno le tirasse, così molti gualdesi, conoscendo la santità del Beato, si recarono presso la sua cella e videro dalla finestrella il santo eremita inginocchiato, con gli occhi rivolti al cielo. Non credendo che in quella posizione potesse essere morto lo chiamarono molte volte, ma lui non rispose, allora sfondarono la porta e si resero conto che era proprio così: Angelo era morto.
Le spoglie vennero prese per essere portate a San Benedetto. Mentre passava lungo la strada la processione con il feretro, nei campi fioriva il lino e nelle siepi il biancospino, pur essendo in pieno inverno, sembrava che la natura partecipasse alla gioia, perché quella creatura , che tanto aveva voluto soffrire per purificare la sua anima, ora aveva ottenuto il premio tanto desiderato: poter godere della vista del suo Dio tanto pregato e desiderato.
“CI HAI FATTI PER TE E IL NOSTRO CUORE È INQUIETO FINCHE’ NON RIPOSERA’ IN TE” (Sant’Agostino).