Leopardi in due passi dello Zibaldone:
…il poetico in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago…le parole notte, notturno ecc. le descrizioni della notte ecc. sono poeticissime, poiché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di quanto ella contiene. Così oscurità profondo ecc.» e ancora dopo aver analizzato il suono e i suoi effetti riguardo all’idea di infinito dice: «…udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze…vedi in questo proposito Virgilio, Eneide VII v. 8 e segg. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare o anche a cagionare detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata. (Zibaldone, 1929-30, 16 ottobre 1821)
In un altro passo dello Zibaldone viene ripresa la valenza emotiva del canto udito di notte da lontano; il silenzio notturno emerge per contrasto col canto e proprio il canto che attraversa il silenzio della notte suscita nell’animo del poeta il moto del ricordo che fa affiorare il passato e scatena l’effetto poetico:
Dolor mio nel sentir a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco. (Zibaldone, 50-51)
La sera del dì di festa è il componimento maggiormente collegato a queste riflessioni, e più in generale al fascino che il notturno ha esercitato su Leopardi. L’incipit riprende un passo dell’Iliade (VIII 555-59) che Leopardi conosceva bene :
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
L’incanto della notte non si esaurisce in questi primi versi, ma continua con la presentazione del sonno quieto della donna ignara del dolore inferto al poeta e in generale della apparente tranquillità della natura notturna:
O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dorni: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente
che mi fece all’affanno.
Il notturno dunque è lo scenario dolce e struggente della disperazione del poeta. Tuttavia nei versi successivi già si intravedono riferimenti a un pessimismo più universalizzato, foriero delle meditazioni successive del Leopardi sull’irraggiungibilità della felicità come condizione umana. Si tratta dei riferimenti alla nullità di ogni cosa umana e al trascorrere inesorabile del tempo presentato come tempus edax secondo il topos classico, già passaggio obbligato delle riflessioni notturne del poeta pre-romantico. Il componimento si chiude con una immagine dell’infanzia filtrata dal ricordo, lo scenario notturno, sfondo della disperazione del poeta, è identico: la notte è fonda, il silenzio è segnato da un canto che si perde allontanandosi nel buio:
ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
Descrizioni della sera e della notte si trovano anche nei Promessi Sposi. In un passaggio famoso del capitolo VII Manzoni si sofferma sul momento che preannuncia la quiete (la quiete solenne della notte): predominante è la presenza umana, e soprattutto il sussulto di vita che precede la pausa della notte (il brulichio, il ritrovarsi della gente, i discorsi dagli usci delle case, la partecipazione delle proprie preoccupazioni, i ritocchi misurati e sonori della campana).
C'era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All'aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell'annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Una più forte presenza dell’elemento naturale si avverte alla fine del capitolo VIII: non è stata una notte di quiete, ma una notte degli imbrogli: è sopravvenuta la quiete della natura, ma Renzo, Lucia e Agnese sono costretti a lasciare le proprie case per evitare il pericolo che incombe. Nuovamente il contrasto fra la quiete della natura e la veglia di alcuni: ma non è una quiete assoluta, perché si percepisce il fluire delle onde, e l’immagine della luna, che si specchia nel lago, tremola e ondeggia. Anche il suono è come vellutato, ma non del tutto scomparso, e si distingue il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido dal gorgoglío più lontano dell'acqua rotta tra le pile del ponte: a questi rumori s’aggiunge quello del remo che frange la superficie azzurra del lago. Sembra quasi che non vi sia separazione tra l’elemento naturale e la presenza umana: il rumore dei remi si sovrappone al rumore, o meglio ai rumori del lago: e la presenza umana viene sottolineata da quel s’udiva, che, pur nella sua espressione impersonale, sposta l’attenzione del lettore dal paesaggio ai protagonisti umani, in quanto implica che vi sia qualcuno che ode i rumori lievi, ma ingigantiti dal profondo silenzio. E il farsi presente dei protagonisti umani avviene gradualmente: l’inizio affermava l’assoluta immobilità del paesaggio; poi si era notato che questa immobilità è soltanto apparente (sarebbe parso immobile, se non...); poi si avvertiva anche il rumore del lago, e ancora dopo si avverte che oltre a questo rumore ce n’è un altro, quello dell’acqua che si frange sulle pile del ponte (S’udiva, non S’udivano: dunque prima uno, e solo una più attenta percezione ne fa avvertire un altro più lontano): infine il rumore ritmato dei remi. Come i rumori presumono la presenza di chi li percepisce (S’udiva), così anche il paesaggio si rivela e si delinea in modo sempre più nitido man mano che gli occhi dei tre personaggi mettono a fuoco gli elementi che lo compongono: prima i monti, poi il paese rischiarato dalla luna, e infine si distinguevano le case, fino al palazzotto di don Rodrigo. Se nel mondo classico abbiamo trovato descrizioni di notturni che erano per così dire obiettive, perché rappresentavano la voce del poeta, qua abbiamo una scena notturna vista con gli occhi dei passeggeri silenziosi che si stanno allontanando dalle loro case, strappati da una violenza e vittime di una separazione che solo dopo anni e dopo traversie dolorose potrà ricomporsi.
Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglío più lontano dell'acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto.
Una diversa immagine della luna ci offre il sonetto A Virgilio di Carducci (scritto nel 1862 e compreso nelle Rime nuove):
Le modalità con cui il Carducci svolge il tema della notte sono lontane da quelle che abbiamo visto in precedenza. Il componimento si svolge in un unico ampio periodo, e il termine di paragone della lunga similitudine occupa il solo verso finale e appare sintatticamente sbilanciato, in quanto sullo stesso piano del soggetto il tuo verso viene collocato non un sostantivo, bensì una serie di proposizioni temporali variamente coordinate tra di loro (come quando ... e ... e ... Tale il tuo verso). Più che notare la mancanza di segni di vita, il poeta mira a cogliere e isolare le manifestazioni di vita presenti nella luminosa notte estiva, alla cui serenità e armonia viene paragonata, quasi fosse un punto di riferimento spontaneo, la poesia virgiliana. Se nelle precedenti descrizioni la parola chiave era dormono oppure tacciono, qui la parola chiave è ridono (v. 12 Ridono in tanto i monti e il mar lontano). È stato detto che Carducci sembra ricercare i temi romantici nella poesia virgiliana (la luna, l’usignolo, la scena sepolcrale, i monti, il mare). Certo è rifluito nel sonetto molto materiale di provenienza classica, e in particolare virgiliana, a partire dalla movenza iniziale per cui, con innovazione sorprendente e gradevole, è trasferita sulla luna l’attributo di pia, l’aggettivo che definisce nel modo più autentico possibile il mondo di valori proprio di Virgilio, fino al verso finale, che rappresenta la traduzione di un verso virgiliano (Ecl. 5, 45)(4).
Proponendo, ancora da Pascoli, una rilettura del tema, nella lirica Notte dolorosa, compresa in Myricae, che ci porta più vicini all'archetipo di Alcmane:
Si muove il cielo, tacito e lontano:
la terra dorme, e non la vuol destare;
dormono l’acque, i monti, le brughiere.
Ma no, ché sente sospirare il mare,
gemere sente le capanne nere:
v'è dentro un bimbo che non può dormire:
piange; e le stelle passano pian piano.
Il tema del notturno, affermato secondo i canoni tradizionali nei vv. 2-3, è risolto in modo nuovo nella parte finale della composizione: la quiete e il silenzio della notte sono rotti dal pianto di un bimbo che non può dormire: la natura assiste quasi partecipe. Il tema del contrasto, affermato in maniera vigorosa al v. 4 (Ma no, ché) viene così rinnovato con una proposta originale, e coerente con la sensibilità e il mondo poetico pascoliano.
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