Violenza nelle relazioni intime
Approcci teorici e prospettive di intervento
Approcci teorici e prospettive di intervento
(Gli amanti, "senza volto": René Magritte, 1928)
PREMESSA DI CONTESTO
Negli ultimi decenni, la violenza nelle relazioni intime è stata sempre più interpretata attraverso una lente ideologica che la inquadra come un fenomeno essenzialmente unidirezionale: violenza esercitata dall’uomo sulla donna. Questo approccio, se ha avuto il merito di evidenziare le asimmetrie di potere e le discriminazioni di genere storicamente consolidate anche nella società liberale ed egualitaria occidentale, ha progressivamente oscurato il riconoscimento della reciprocità della violenza nelle dinamiche di coppia e lo studio approfondito delle sue motivazioni. Trascurare il perché di tali dinamiche, dando per scontate le cause attraverso presupposti ideologici, impedisce un’analisi onesta e autenticamente scientifica del fenomeno.
Inoltre, il concetto di "patriarcato" come struttura dominante nella società occidentale appare oggi pressoché obsoleto e inappropriato a fornire le motivazioni della violenza nelle relazioni intime, anzitutto poiché ignora i profondi mutamenti sociali, economici e giuridici intercorsi negli ultimi decenni, e in particolare negli anni più recenti, ma anche perché esclude al pensiero la violenza della donna esercitata sull’uomo. Il ricorso acritico e l’assoggettamento dei fenomeni violenti al modello patriarcale rischiano di distorcere la comprensione della realtà contemporanea, favorendo letture ideologicamente polarizzate che, in alcuni contesti, possono assumere caratteri dogmatici o persino di pensiero paranoicale.
Considerando brevemente i determinanti culturali del fenomeno della violenza nelle relazioni intime, analizzandone brevemente le implicazioni, potrebbe essere utile riportare il focus specifico della situazione italiana in comparazione con altri contesti anzitutto occidentali.
In Italia, la narrazione femminista sulla violenza di genere ha acquisito una posizione egemonica all'interno del discorso pubblico, influenzando in maniera significativa sia il panorama legislativo che quello mediatico (il 7 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che introduce nel codice penale il reato autonomo di femminicidio). Le istituzioni, i media e le associazioni impegnate nella difesa dei diritti delle donne promuovono un'interpretazione della violenza nelle relazioni intime che ignora o minimizza la possibilità che anche gli uomini possano esserne vittime. Di più, arrivano nei casi più estremi anche a giustificare e addirittura fomentare la violenza delle donne verso gli uomini, alimentando gli schemi di base della violenza nelle relazioni intime.
A livello legislativo, la normativa italiana si è progressivamente orientata verso una tutela unilaterale della donna, come dimostrano le leggi sul femminicidio e i provvedimenti cautelari immediati in caso di denuncia, spesso basati su presunzioni di colpevolezza nei confronti dell’uomo. Questo approccio ha contribuito a una crescente disparità di trattamento nei tribunali, trascinando tutta una serie di massicce implicazioni, arrivando anche ad agire in contraddizione con l’impianto normativo, come accade ad esempio nei casi di separazione e affidamento dei figli dove la figura paterna viene confinata frequentemente in una condizione di ingiustificata penalizzazione. Anche il dibattito accademico italiano risente di una forte influenza ideologica, con una marginalizzazione di studi che mettono in luce la reciprocità della violenza nelle relazioni intime. Gli studiosi che provano a sollevare il tema della violenza femminile sugli uomini vengono spesso ostracizzati o accusati di voler sminuire il fenomeno della violenza sulle donne.
Se proviamo a comparare l'Italia con altri Paesi occidentali possiamo apprezzare che vengono condivise tali tendenze, ma possiamo anche riconoscere caratteristiche peculiari. Nei Paesi anglosassoni (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia), il dibattito sulla violenza di genere è fortemente politicizzato, con una divisione netta tra chi sostiene la narrazione dominante e chi la critica apertamente. Tuttavia, in queste nazioni esistono anche movimenti attivi che promuovono il riconoscimento della violenza bidirezionale nelle relazioni intime, riuscendo a ottenere visibilità e attenzione politica. In Francia e Germania, il dibattito è meno polarizzato rispetto all’Italia, con una maggiore apertura accademica alla discussione sulle diverse forme di violenza domestica. Tuttavia, le politiche pubbliche continuano a riflettere un'impostazione focalizzata prevalentemente sulla protezione delle donne, in continuità con le linee guida dell’UE e della Convenzione di Istanbul. Nei Paesi scandinavi, come Svezia e Norvegia, l'influenza di un femminismo istituzionalizzato ha portato a un modello di politiche di genere fortemente sbilanciato, con una minimizzazione sistematica della violenza maschile subita e una rigidità normativa che penalizza la possibilità di una discussione aperta sulla reciprocità del fenomeno.
La tendenza ideologica che stiamo considerado può essere vista come una deriva del pensiero progressista che, pur nascendo con l'intento di tutelare categorie storicamente svantaggiate, ha finito per distorcere la realtà, creando nuove forme di esclusione e alimentando una crescente polarizzazione. Segna, in altri termini, un’incoerenza interna al progressismo, un allontanamento dai valori fondanti di uguaglianza e diritti universali. Un esempio di questa contraddizione emerge, ad esempio, nel “femminismo intersezionale”, che, pur cercando di affrontare le discriminazioni incrociate e complesse, talvolta giustifica movimenti o ideologie che, nell’intento di rivendicare una lotta per i diritti delle minoranze, promuovono visioni antitetiche rispetto alla difesa dei diritti delle donne. Un caso emblematico è la difesa di gruppi come Hamas, che vengono presentati da alcune correnti come una “minoranza oppressa”, ma che al contempo esprimono ideologie radicalmente patriarcali, in cui la figura femminile è sottomessa e subordinata. In questo contesto, il femminismo intersezionale rischia di perpetuare una contraddizione: mentre difende la donna come vittima in una visione globale, può trascurare o addirittura giustificare la sua oppressione in determinati contesti.
In particolare, l'adozione di politiche e narrazioni che vedono le donne esclusivamente come vittime può comportare l’alienazione di diritti fondamentali per altre categorie di persone, come gli uomini vittime di violenza, o per le coppie in cui i ruoli di vittima e aggressore non si conformano agli stereotipi di genere. Questo approccio ha favorito, inoltre, la polarizzazione del dibattito pubblico, dove chiunque metta in discussione la narrazione dominante rischia di essere etichettato come misogino o avverso a riconoscere diritti alle donne, anziché promotore di un approccio più equo e basato su dati oggettivi. La mancanza di un quadro normativo bilanciato e un orientamento autonomo dei tribunali, stante il predominio di dogmi ideologici nelle istituzioni accademiche e giuridiche hanno contribuito a creare un ambiente in cui il pluralismo delle esperienze viene soffocato e avversato, a favore di una visione semplificata e politicamente convenzionale o conveniente.
IMPLICAZIONI E PROSPETTIVE
Per costruire un approccio più equilibrato alla violenza nelle relazioni intime, è necessario superare l'ideologia monodimensionale e adottare una visione che riconosca la pluralità delle situazioni ed esperienze, recuperare come ambito di riflessione le relazioni intime e sforzarsi per inquadrare e comprendere le dinamiche violente. L'adozione di un approccio più equilibrato e inclusivo alla violenza nelle relazioni intime, come illustrato nei punti successivi, è cruciale per costruire un quadro di intervento più giusto, scientificamente valido e culturalmente sensibile. Solo attraverso un’analisi senza pregiudizi, basata su evidenze concrete e una visione pluralista, sarà possibile affrontare la violenza in tutte le sue sfaccettature e in questo concorrere ad una società più equa e intellettualmente onesta. Questo dovrebbe riuscire ad implicare la trasformazione del perimetro di azione, rendendolo più ampio e articolato:
· Una maggiore attenzione della ricerca scientifica alle dinamiche di reciprocità nella violenza di coppia: Per realizzare un'analisi più completa e accurata delle dinamiche violente nelle relazioni intime, è essenziale che la ricerca scientifica esplori la violenza bidirezionale e la reciprocità delle aggressioni tra i partner. I filoni di studio sono essenzialmente:
o Studi di profondità: questi studi si concentrano sul contesto in cui si verifica la violenza, esaminando le dinamiche psicologiche, sociali e le motivazioni che spingono i partner a commettere atti violenti. Solo comprendendo pienamente questi fattori e le dinamiche alla base dei comportamenti violenti sarà possibile progettare interventi efficaci che affrontano la violenza nelle sue molteplici forme, anziché continuare a rinforzare narrazioni rigidamente stereotipate che ignorano la complessità del fenomeno. Sovrastare ed invadere imperiosamente con l’ideologia discipline di competenza, come in questo caso la psicologia clinica, significa commettere un atto di oscurantismo e di censura epistemica, impedendo di comprendere il fenomeno e, di conseguenza, di proporre interventi appropriati ed efficaci
o Studi trasversali: Questi studi, condotti su ampi campioni rappresentativi della popolazione o specifici gruppi di interesse, utilizzano una varietà di item (domande o misure) per esplorare vari aspetti della violenza, come la frequenza degli episodi violenti, i tipi di violenza (fisica, psicologica, economica, ecc.), le dinamiche di potere tra i partner e altri fattori come sesso, età, classe sociale, ecc. Tali studi sono cruciali per ottenere una "fotografia" realistica delle caratteristiche sociali e dei pattern della violenza nelle relazioni intime, in contrasto con le rappresentazioni semplificate o distorte che sono frequentemente alimentate da narrazioni ideologiche. In un contesto dove i dati sono spesso inaffidabili a causa di pregiudizi ideologici (a volte è evidente il cherry-picking), disporre di dati solidi consente di applicare metodi statistici multivariati per identificare relazioni tra le variabili e scoprire pattern o correlazioni significative. Questo approccio è fondamentale per riportare il dibattito su basi oggettive, prima di agitare le rispettive posizioni ideologico-interpretative.
o Studi comparativi: Questi studi implicano che ci sia un filone da seguire e possono essere sia longitudinali, per tracciare le trasformazioni nel tempo, sia transnazionali, per confrontare le dinamiche e le normative relative alla violenza nelle relazioni intime in contesti socio-culturali diversi. L'analisi di variabili socioculturali e normative tra Paesi e aree differenti può offrire spunti cruciali per comprendere le influenze contestuali sulla violenza di coppia, permettendo di verificare se determinati modelli di comportamento sono universali o se variano a seconda delle specificità culturali e legali di ogni contesto.
· Campagne di sensibilizzazione che non semplifichino eccessivamente la complessità del fenomeno: le campagne di sensibilizzazione dovrebbero finalizzarsi ad evitare di semplificare eccessivamente il fenomeno della violenza nelle relazioni intime, rappresentandolo come unicamente un problema per le donne. Sebbene questa narrazione possa riflettere una realtà significativa, ignorare le numerose sfumature del fenomeno riduce la complessità della violenza negli ambiti affettivi e domestici e ne limita la comprensione. La grossolana brutalità di una schematizzazione così netta arriva a contrapporre le due categorie di genere dell’essere umano, alimentando ridicole contrapposizioni dove invece bisognerebbe impegnarsi per favorire lo sviluppo di legami maturi: già circa un secolo fa Freud teorizzava che il raggiungimento della “fase genitale” coincidesse con il riconoscimento e l'accettazione della differenza come principio strutturante, favorendo una riorganizzazione del mondo oggettuale basata sulla capacità di integrare l’alterità, e in questo segnando un passaggio non solo nella maturazione della sessualità adulta, ma anche lo sviluppo di una dimensione affettiva caratterizzata dalla capacità di stabilire relazioni oggettuali profonde e reciproche. Le campagne dovrebbero abbracciare quindi una visione più aperta e articolata, in cui si facciano emergere le varie versioni della violenza (oltre a quella fisica, ad esempio, psicologica, economica, verbale, ecc.) e le possibilità in cui nei legami si attuino dinamiche violente, combinate in varie espressioni. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sensibilizzare sulla pluralità delle esperienze di violenza e sull'importanza di un intervento che consideri la differenza dei ruoli (andando oltre ai ruoli di genere) e delle motivazioni che sottendono a ogni dinamica.
· Un cambiamento culturale che sfidi gli stereotipi di genere e favorisca un dibattito più inclusivo: per superare la polarizzazione che spesso caratterizza il dibattito sulla violenza di genere, è fondamentale un cambiamento culturale profondo che metta in discussione gli stereotipi di genere radicati nella nostra società. Gli stereotipi che vedono l'uomo come detentore di potere, aggressore e dominatore, quindi anche misogino che fa della donna una sua vittima subordinata: seppur non si nega che tale modello possa esistere in alcuni contesti, questo non rappresenta certo l’universo complesso e variegato di tutte le relazioni intime, specialmente se ci riferiamo alla società italiana. Un dibattito più inclusivo dovrebbe promuovere la consapevolezza che la violenza è un fenomeno che può coinvolgere entrambi i sessi, e che le relazioni non sono mai totalmente conformi a ruoli fissi, perdipiù riferiti ad una dicotomia così banalizzante “uomo vs donna” che intellettualmente risulta a dir poco spiazzante. Solo un cambio di mentalità che sfidi queste convinzioni permetterà di sviluppare un dialogo più aperto e inclusivo, che non penalizzi né gli uomini né le donne, ma che si concentri su esperienze di violenza più ampie e universali.
· Un ripensamento delle istituzioni accademiche e delle agenzie che agiscono sulle politiche sociali affinché garantiscano un'analisi più oggettiva e meno influenzata da dogmi ideologici: è fondamentale che le università e gli enti di ricerca, nonché le agenzie che indirizzano e realizzano le politiche sociali adottino un approccio intellettualmente onesto, scientifico e oggettivo nella ricerca, nell’analisi e nella valutazione delle dinamiche di violenza nelle relazioni intime, libero da pregiudizi ideologici. Le teorie che escludono o ignorano certe dimensioni del fenomeno rischiano di produrre un quadro distorto che non favorisce una comprensione autentica dei fattori che alimentano la violenza. Le politiche sociali dovrebbero essere basate su evidenze empiriche, piuttosto che su presupposti ideologici, permettendo una pluralità di visioni per arrivare a soluzioni che non solo prevengano i rischi o proteggano le vittime, ma che abbiano un impatto positivo e a lungo termine sulla società. Questi soggetti dovrebbero presidiare autonomia e imparzialità, creando spazi di ricerca indipendente, che incoraggino un confronto aperto e pluralista, senza vincoli ideologici o politicamente corretti, per garantire che le politiche siano concretamente situate, efficaci e sostenibili.
· Una revisione delle politiche pubbliche che includa anche gli uomini vittime di violenza: in ultimo, come conseguenza dell’influenza dei punti sopra, le politiche pubbliche potrebbero (dovrebbero) essere riformulate in modo da includere anche gli uomini vittime di violenza e garantire che tutti gli individui, indipendentemente dal loro genere, abbiano accesso a supporto, protezione e giustizia. Le attuali politiche spesso trascurano o minimizzano la violenza subita dagli uomini, non solo in termini di assistenza psicologica e legale, ma anche nell'ambito della tutela fisica. La ratio è di creare particolari sistemi di disincentivazione dei reati commessi verso categorie ritenute più fragili perché discriminati e oggetto di pregiudizio: e per questo è molto importante analizzare il dato di realtà utilizzando dati e categorie appropriate, non ideologiche. Creare politiche più inclusive, inoltre, significa rimuovere gli ostacoli culturali e legali che impediscono a uomini e coppie, non conformi agli stereotipi di genere, l’accesso a risorse che possono essere letteralmente vitali. In questo contesto, è cruciale l'introduzione di centri di supporto clinico, servizi di ascolto, iniziative di sostegno e protocolli legali dedicati specificamente a tutti gli esseri umani vittime di violenza, facendo leva su tutti i livelli della prevenzione, ma anche sull'educazione e sull’inclusività. Significa, in ultimo, considerare chi è vittima di violenza come il soggetto da tutelare, senza renderlo oggetto di discriminazione.
La violenza nelle relazioni intime va riportata ad essere considerata un fenomeno complesso che non può essere ridotto a una contrapposizione rigida tra uomini aggressori e donne vittime, maschile-distruttivo vs femminile-vitalistico, che diventa per estensione l’insistenza sulla spaccatura inconciliabile tra l’uomo e la donna, una mitologia che esalta la scissione e la parzialità. Riconoscere la reciprocità e la varietà delle dinamiche di abuso e di violenza è essenziale per riconoscere il potenziale di ogni essere umano e sviluppare strategie di intervento più efficaci ed effettivamente eque. Solo alimentando un dibattito aperto e basato su dati reali e su teorie relazionali sarà possibile superare le attuali distorsioni ideologiche/valoriali e affrontare il problema nella sua effettiva conformazione e portata.
PROPOSTA DI INTERVENTO CLINICO
Premessa
Nell’ambito del punto sopra “Una maggiore attenzione della ricerca scientifica alle dinamiche di reciprocità nella violenza di coppia” attraverso “Studi di profondità” l’ambito della psicologia clinica, e in particolare della clinica psicodinamica, può fornire un’importante risorsa per la comprensione del fenomeno della violenza nelle relazioni intime, in particolare attraverso modelli relazionali sul costrutto delle dinamiche inconsce collusive. L’integrazione degli “Studi di profondità” con gli “Studi trasversali” è indispensabile per integrare conoscenza e dare completezza alla comprensione del fenomeno. La differenza sostanziale tra questi due approcci risiede nella loro impostazione metodologica: gli studi trasversali, di tipo osservazionale, possono essere condotti anche senza un impianto teorico affinato, potendosi basare semplicemente su una tesi o un quesito di indagine e spesso assumendo una presunta corrispondenza tra la variabile misurata e il fenomeno, sicché va attentamente presidiata la validità costruttiva delle misure, facendone oggetto di rigorosa valutazione critica. Negli Studi di profondità, invece, la teoria assume anche la funzione di riferimento metodologico, e diventa la prospettiva essenziale che orienta la conoscenza. E’ opportuno sottolineare che il greco theoréo significa vedere. Proprio perché guidato dalla teoria, questo approccio richiede una posizione epistemologica ispirata alla complessità, nella quale il soggetto conoscente e l'oggetto della conoscenza non sono entità separate, ma interagiscono nel processo stesso di produzione del sapere.
Un filone di ricerca sulla violenza nelle relazioni intime deve pertanto integrare entrambi gli approcci per cogliere le molteplici dimensioni del fenomeno. Gli studi trasversali, attraverso un approccio osservazionale e quantitativo, consentono infatti di rilevare dati su larga scala, individuando tendenze, fattori di rischio e correlazioni significative tra variabili. Grazie alla loro natura estensiva, forniscono informazioni fondamentali per comprendere la diffusione del fenomeno e per orientare interventi di prevenzione e politiche sociali basati su evidenze empiriche. A patto però che si faccia uno scrupoloso lavoro di selezione sulle variabili su cui si concentra la misurazione.
Arrivare a definire il fenomeno della violenza nelle relazioni intime solo da dati quantitativi, senza un approfondimento nella teoria, può condurre a grossolani fraintendimenti. E’ infatti sulla teoria che infine bisognerebbe confrontarsi. La violenza nelle relazioni intime coinvolge dinamiche psicologiche profonde, connaturate nell’affettività dell’essere umano, processi relazionali complessi e significati soggettivi che sfuggono a un'analisi meramente descrittiva che non sia ancorata ad una valida teoria. È qui che gli studi di profondità si rivelano essenziali: attraverso un approccio clinico e psicodinamico, permettono di esplorare le dinamiche inconsce, le collusioni relazionali dei vissuti emotivi e degli scenari ideativi che alimentano il ciclo della violenza. Questo tipo di indagine consente di cogliere i significati nascosti dietro i comportamenti, comprendendo come si strutturano e si mantenendo le relazioni violente nel tempo. Consentono di attribuire teorie e di relativizzare lo studio e la propria posizione di studiosi.
L'integrazione di questi due approcci consente invece di ottenere una visione complessiva e articolata del fenomeno: da un lato, i dati quantitativi forniscono un quadro generale della diffusione e delle caratteristiche della violenza, mentre, dall'altro, l'indagine qualitativa e psicodinamica rivela le motivazioni più profonde ei meccanismi psicologici che alimentano le dinamiche relazionali violente. Grazie a questa duplice prospettiva, infatti, è possibile sviluppare strategie di intervento realmente efficaci, in grado di agire non solo sui fattori di rischio emersi negli studi trasversali, ma anche sulle dinamiche psicologiche e relazionali che mantengono e rinforzano la violenza all'interno delle coppie e dei legami affettivi.
Prospettiva
Un vertice di analisi e approfondimento sul tema della violenza può essere dato da teorie che danno profondità alle dinamiche intersoggettive nelle relazioni intime. Si tratta di strumenti che danno lettura e comprensione di come le dinamiche relazionali tra i partner vengono influenzate da un campo psichico comune, compartecipato e condiviso: l’entità del campo implica per la coppia una dimensione mentale terza, che è distinta dagli individui ma che ne contiene la relazione, e ci porta a considerare come l’incontro tra un soggetto e un altro evolva in un campo dinamico che è generato dalle reciproche influenze psichiche dei due soggetti, fino a sviluppare una propria mentalità. Si presume che gli individui siano dotati di “valenze”, ossia capacità spontanea e automatica di istituire legami emozionali tra di loro per condividere un “assunto di base” e agire in base ad esso. Nel contesto delle relazioni intime, questo modello relazionale si adatta perfettamente, poiché le dinamiche di legame e le emozioni condivise dal partner formano un campo psicologico molto denso che è sempre in flusso. Soprattutto consente di emancipare il ragionamento dallo stereotipo individualistico, che tende a focalizzarsi sulle dinamiche interne e inconsce del singolo: la teoria del campo prende in considerazione le interazioni reciproche e le influenze vicendevoli tra i partner come sostanza di un intero campo psichico, autonomo, con il quale i partner sono in relazione, e che determina fantasie inconsce proprie del campo, ossia di coppia, che agiscono intensamente sui singoli provandoli in un continuo processo di interazione emotiva, quindi caratterizzato da vissuti e fantasie. Nel campo si generano elementi (proto)emotivi potentissimi che arrivano ai partecipanti: si tratta di pulviscoli non immediatamente pensabili, stati mentali elementari e sperimentazioni affettive che esistono e avvolgono i partecipanti prima che le emozioni possano essere simbolizzate o integrate in modo più strutturato: i partecipanti sono richiamati a elaborare questo pulviscolo, quindi a mettersi alla prova. Stiamo quindi sostenendo che dentro una coppia il costrutto delle identificazioni proiettive, nella più ampia accezione bioniana, debba considerarsi riportato anzitutto alla dimensione del campo intersoggettivo. E quindi dobbiamo prevedere che non solo dei partecipanti ma del campo stesso la funzione elaborativa: il campo si presenta infatti come un sistema deputato alla trasformazione delle esperienze sensoriali ed emotive in pensieri e significati. Il campo ospita, alimenta e trasforma molti luoghi del vissuto, molte dimensioni emotive, che affiorano e che si ritirano sullo sfondo in un dinamismo proprio derivato da ciò che vi entra e dalle funzioni trasformative attive, nella forma tipica dell’esperienza mentale, che quindi comprende anche l’esperienza mentale dei partecipanti. Nell’essere individui-in-coppia il campo funge da medium, che contiene e trasforma.
Così inquadrata, si può comprendere come per gli individui in coppia il campo della coppia possa svolgere una funzione vitalistica, trasformativa, in grado di dare nutrimento emotivo e rendere l’esperienza pensabile, in una amplificazione e maturazione delle funzioni anche individuali; ma si può comprendere anche come il campo possa rappresentare un inferno mortifero ed indigeribile, che non consente di elaborare le angosce introducendo l’individuo in scenari degradati, inquietanti, senza via d’uscita, costretto a fronteggiare profonde esperienze di angoscia irrisolvibili.
La violenza nelle relazioni intime, letta attraverso la prospettiva del campo psichico condiviso, non può essere ridotta a una sequenza di atti individuali decontestualizzati, ma deve essere compresa all'interno di una dinamica intersoggettiva che genera e modella stati mentali, fantasie e affetti in un continuo processo di trasformazione. Seguendo questa prospettiva, possiamo leggere la violenza non come un fenomeno meramente riconducibile alla volontà dell’individuo, ma come una configurazione emergente del campo stesso, che in certe condizioni può saturarsi di angosce non elaborate, diventando un luogo di sofferenza psichica e di coazione a ripetere dinamiche traumatiche. Quando il campo si satura di elementi proto-emotivi non pensati e non trasformati, può diventare un sistema chiuso e claustrofobico, dove l'angoscia non trova vie di elaborazione e si tramuta in azione. La violenza in questo senso non è solo l’atto di un individuo contro un altro, ma una condizione del campo, quindi una risposta situata nel campo rispetto ad una condizione di blocco elaborativo. Il campo diventa allora un luogo di non-pensabilità, dove gli elementi emotivi sentiti e sofferti si accumulano senza poter essere metabolizzati e restituiti sotto forma di significati e pensieri elaborativi condivisibili. La violenza, in questa prospettiva, emerge come fenomeno relazionale, come tentativo primitivo e distruttivo di "scaricare" (agire…) affetti insopportabili che il campo non riesce più a contenere, o che stanziano in un campo atrofizzato e indurito che blocca e degrada le funzioni trasformative consentendo solo deflagrazioni distruttive al posto dei movimenti vitalistici.
Se la coppia è un campo vivo e dinamico, capace di trasformare gli elementi (proto)emotivi e l’angoscia che ne deriva, il legame si struttura in modo generativo: le tensioni sono affrontabili, le divergenze diventano occasione di crescita, le angosce vengono simbolizzate e il legame è vitale e caratterizzato da amore. Ma quando il campo fallisce nel suo compito elaborativo, assume il funzionamento di un sistema rigido e mortifero, che imprigiona i partner in schemi relazionali sempre più stereotipati con una angoscia stagnante, non elaborabile, e il legame si caratterizza dall’odio e dal possesso. L’esperienza della violenza può essere letta in questo senso come la manifestazione estrema di un campo che non trasforma più, che invece di metabolizzare gli affetti li agisce, diventando una sorta di "circuito chiuso dell'angoscia", dove (nel caso ci fossero) anche ogni tentativo del partecipante di pensare l’esperienza fallisce e si traduce in un’escalation di tensioni irrisolvibili.
Seguendo l’impianto bioniano, possiamo allora pensare alla violenza come un’espressione di identificazioni proiettive estreme, che si autoalimentano nel campo della coppia. Quando l’uno deposita nell’altro aspetti insopportabili di sé senza possibilità di rielaborazione, il campo diventa un deposito di elementi tossici, rotti, ingestibili, uno spazio di tensione crescente, dove entrambi i partner rimangono intrappolati in ruoli rigidi e predefiniti. Questo cortocircuito psichico può manifestarsi sotto forma di dinamiche ossessive, di controllo, fino alla manifestazione estrema della violenza fisica o psicologica.
Una doverosa precisazione
Il concetto di violenza ha assunto e continua ad assumere un significato mutevole e mutevole attribuzione valoriale, in base ai contesti e situazioni. Proponiamo una definizione di violenza per circoscrivere uno spazio concettuale:
un atto o una serie di atti che hanno l’effetto o l’intento di infliggere danno, sofferenza o controllo, fisicamente e/o psicologicamente, in una situazione quantomeno interpersonale, ma potenzialmente inscritta anche in contesti sociali, culturali e/o istituzionali, contribuendo anche a riprodurre o rafforzare disuguaglianze di potere.
Pertanto, in questa prospettiva:
· La violenza non si limita solo agli atti di aggressione fisica, ma si esprime anche in forme sottili e distruttive, come la violenza psicologica, che colpisce l'integrità psico-emotiva dell'individuo. Queste manifestazioni violente, che comprendono umiliazioni, manipolazioni, minacce, isolamento, svalutazione, e altre forme di abuso verbale ed emotivo, danneggiano la sfera emotiva, la percezione di sé, le relazioni interpersonali e la più ampia dimensione esistenziale.
· La violenza viene intesa come un dispositivo di potere che opera attraverso le relazioni (non solo all’interno di esse), ma che può anche essere incorporata in istituzioni, norme e pratiche culturali. L’interpersonalità rappresenta dunque il punto di partenza, ovvero l’unità fenomenologica della violenza. E partendo dalla dimensione interpersonale sembra opportuno risaltare che questi atti possono derivare da meccanismi inconsci collusivi.
· E chiaramente, la violenza interpersonale non si esprime solo nelle relazioni intime
La violenza nelle relazioni intime rappresenta allora uno dei fenomeni affettivi più complessi allo studio, che non può essere ridotto a una mera somma di episodi isolati di aggressività. Essa nasce e si sviluppa all’interno di dinamiche psichiche più profonde, che coinvolgono sia la sfera intrapsichica dei singoli che le dinamiche intersoggettive, specialmente nella coppia intima. Affrontando un’analisi sulla violenza nelle relazioni intime proponiamo di considerarla come il prodotto di un campo psichico condiviso tra i partner, dove generalmente le angosce e i conflitti non pensabili si manifestano attraverso il comportamento violento. Tuttavia, per completezza, occorre considerare tre livelli distinti di manifestazione della violenza che, pur essendo tra loro interconnessi, appartengono a sfere psichiche e relazionali differenti.
· Violenza come espressione di un campo mentale condiviso nella relazione intima: il primo livello, il più ovvio e qui considerato, riguarda la violenza che nasce e si sviluppa all'interno di una relazione di intimità affettiva ed emotiva tra due persone. In questa dinamica, la violenza non è un atto occasionale o un raptus, ma è un fenomeno che emerge all’interno di un campo mentale condiviso tra gli individui coinvolti nella relazione. La concezione di campo, sviluppata da autori che vanno da Lewin, ai Baranger e più recentemente Ferro, suggerisce che la relazione non è solo un incontro tra due soggetti separati, ma costituisce un sistema psichico dinamico e in continuo flusso che evolve attraverso le reciproche influenze psichiche e affettive, incluse le produzioni ideative, fantasmatiche e narrative che si generano all’interno del campo stesso. In altre parole, la violenza in questo tipo di relazione non è il prodotto esclusivo di un singolo individuo, ma il risultato di una dinamica relazionale co-costruita, che si struttura e si mantiene all’interno di un campo interpsichico patologico, suscettibile di generare comportamenti violenti. Il campo che si genera tra i partner in una relazione intima è intriso di emozioni, conflitti e desideri, come anche di personaggi “emozionati ed emozionanti” e scenari emotivi d’azione. Quando queste emozioni non possono essere pensate, simbolizzate e trasformate in nuovi vettori (simboli, personaggi, situazioni) di significato con nuove caratteristiche emotive e ulteriori potenziali trasformativi, la violenza emerge come una modalità di scarico psichico, di controllo perverso del vissuto o di neutralizzazione devitalizzante. In altri termini, la violenza diventa un tentativo di gestire angosce e conflitti che non trovano spazio nel pensiero e sviluppo nella dimensione narrativa, ma che si esprimono attraverso azioni distruttive dell’altro come partecipante al gioco di campo e in qualche modo portatore anche di elementi del mondo esterno. Il comportamento violento non è quindi una reazione isolata, ma una risposta alla difficoltà del campo psichico di accogliere e trasformare il vissuto che viene connotato dal dolore. Alla base del funzionamento violento ci sarebbero sedimenti di esperienze emotive brutali o comunque non trasformabili, non simbolizzate e non pensabili. In questa visione, la violenza è vista come il prodotto di un fallimento del processo di simbolizzazione all’interno della relazione, dove il campo emotivo condiviso non permette una ristrutturazione, una trasformazione “a nuove possibilità” o una funzione riflessiva, rispetto ai vissuti ivi sperimentati. In altre parole, qui il fallimento è intersoggettivo.
· Violenza come riattivazione di uno schema pregresso: un secondo livello di analisi si riferisce alla violenza derivata dalla riattivazione, quindi non propriamente dalle dinamiche proprie della relazione attuale, ma da una combinazione tra il partner presente e un campo traumatico pregresso. In questo scenario, la violenza non è una risposta a una dinamica di conflitto o a una tensione relazionale specifica, co-costruita e animata nel campo, ma piuttosto il risultato di esperienze passate non elaborate, che vengono e rievocate e rivissute attraverso l’altro. L’individuo reagisce violando l’altro, che inconsapevolmente diventa un “contenitore per le proiezioni traumatiche” irrisolte, portando alla riemersione di angosce passate mai completamente simbolizzate e disciolte in percorsi trasformativi-elaborativi. L’individuo, non essendo in grado di separare il passato dal presente, “riattiva” contenuti traumatici che agiscono come vissuti invasivi, non mentalizzati, né mentalizzabili, che scivolano nel presente sotto forma di agiti violenti. La vittima non è un partner intimo, ma perlopiù una figura transitoria, che riattiva nell’individuo (anche suo malgrado) “tracce di esperienze dolorose e incontrollabili” che evocano un complesso traumatico ben strutturato nella sua mente. La violenza, quindi, non è indirizzata al partner sulla base di una dinamica co-costruita, ma per ciò che simbolicamente rappresenta in relazione a una serie di vissuti traumatici passati, che sono stati solo seppelliti, non trasformati. L’individuo, in questo caso, non è consapevole di proiettare il suo trauma sull’altro, ma agisce la violenza come risposta automatica alla presenza dell’altro che suscita in lui conflitti psichici irrisolti. Potremmo dire che la violenza diventa, quindi, un meccanismo difensivo che si attiva nel momento in cui per qualche motivo il partner “non veramente intimo”, ma piuttosto trascinato in uno spazio intimo personale, assume un ruolo simbolico che riattiva un campo psichico traumatico che ha lasciato nel soggetto strutture e presenze così cariche che, una volta riattivate, offuscano la dimensione “estranea” del partner e lo confondono con oggetti interni passati, attribuendogli un ruolo, dei precedenti affettivi e delle caratteristiche emotive che magari gli possono essere del tutto estraneo. Il soggetto, quindi, vittima a sua volta, si ritrova sottoposto ancora a quel dolore, riattivando automaticamente quelle dinamiche traumatiche e psicologiche del suo passato, catturando il partner (più o meno casuale) per usarlo come meta elettiva sulla quale agire uno schema relazionale rivendicativo. Chiaramente qui possiamo trovare vari livelli di espressioni patologiche, anche psichiatricamente molto gravi, ma si distinguono dalle altre due dimensioni considerate perché utilizzano sempre un altro soggetto (o partner) o un insieme di soggetti che, per alcune sue/loro caratteristiche, viene/vengono ingaggiati come attore/i “sostituto/i rappresentativo/i” di una situazione traumatica pregressa ben sedimentata e organizzata in un suo scenario mentale. Qui il fallimento è intrapsichico e ha una profondità temporale: la violenza non nasce nel presente relazionale, ma dall'incapacità di distinguere tra le qualità del passato e del presente.
· Infine, vi è una dimensione più compromessa e patologica, che riguarda l’individuo che agisce violenza in modo indistinto e disorganizzato, non come risultato di una dinamica relazionale, ma come espressione di disturbi psichiatrici e/o cognitivi gravi. In questo caso, la violenza diventa una scarica impulsiva, una espulsione psichica incontrollata, che non considera affatto l'altro come una persona reale, ma come un oggetto-meta su cui sfogare la tensione psichica interna. Questa violenza è il risultato di una disorganizzazione psichica, in cui l’individuo perde il contatto con la realtà e decade la sua capacità di esame della realtà, sicché le sue azioni non sono più guidate da processi riflessivi o consapevoli di dinamiche relazionali. La psicosi, i disturbi borderline e altre condizioni psicopatologiche possono alterare gravemente la capacità dell’individuo di mentalizzare e di controllare le proprie esperienze emotive, sicché queste si diffondono in una condizione ad altissima angoscia per la disgregazione delle funzioni mentali di differenziazione, sicché il vissuto diventa estremamente pervasivo e destrutturante. In questo caso, la violenza è una risposta automatica a un decadimento delle funzioni mentali che genera un sovraccarico emozionale, che non è più governato dal pensiero, ma da una pulsione incontrollata che viene scaricata senza la possibilità di contenimento. L’individuo, quindi, non agisce la violenza per un motivo relazionale o simbolico, e nemmeno utilizza in qualche modo l’altro per una finalità simbolica: l’altro non gode di alcuna considerazione di soggetto separato e reale. Qui il fallimento è strutturale e perlopiù “psico-organico”: la mente è disorganizzata, priva di una organizzazione di campo, senza storia, senza simboli, e la violenza è scarica pulsionale grezza.
Il discrimine fondamentale che possiamo considerare riguarda il grado di co-costruzione del campo mentale tra i soggetti implicati e, di conseguenza, la posizione che l’altro assume all’interno dell’esperienza soggettiva di chi agisce la violenza.
Nel primo scenario, la violenza nasce all’interno di una relazione d’intimità che, per quanto disfunzionale, mantiene una sua struttura relazionale. È qui che possiamo parlare con maggiore precisione di un campo relazionale co-generato: un luogo psichico condiviso, dove le menti dei due partner si intrecciano fino a creare un ambiente che produce e mantiene una forma autonoma e terza sentire l’esperienza e dargli una dimensione affettiva. In questo campo, l’altro non è un oggetto passivo né solo un contenitore di proiezioni, ma un partecipante emotivo pieno, carico di valenze inconsce e affettive. L’intensità emotiva non simbolizzata (ad esempio, angosce di frammentazione, fantasie di intrusione o abbandono, ecc.) non riesce a trasformarsi in pensiero e si converte in agito violento. Dal punto di vista fenomenologico, il soggetto che agisce la violenza può sentirsi sopraffatto da un’esperienza emotiva in cui il confine tra sé e l’altro si dissolve. Vive l’altro come “potente”, troppo vicino o troppo lontano, pericolosamente fuso o minacciosamente separato, ipereccitante o mortifero. La violenza si impone come risposta disperata per ristabilire un ordine nel campo, per controllare l’emozione che non può essere pensata. La relazione violenta qui diviene un luogo di ambiguità, ambivalenza e collusione: la violenza si percepisce come parte di un copione tragico in cui si è entrambi coinvolti, spesso in modo inconsapevole. In questo senso, l’esperienza è vissuta come paradossalmente condivisa, pur nel dolore e nella distruttività.
Nel secondo caso, invece, il campo non è realmente condiviso, ma colonizzato unilateralmente da una scena traumatica interna che uno dei due soggetti non ha potuto elaborare. Qui l’altro viene catturato coattivamente attraverso un meccanismo di identificazione proiettiva patologica. Non si tratta semplicemente di proiettare sull’altro contenuti disturbanti: l’altro viene costretto a occupare una posizione predeterminata nella scena interna traumatica del soggetto. Diventa una sorta di attore inconsapevole, ingaggiato a rappresentare ruoli carichi di affetti non mentalizzati: la madre sadica, il padre umiliante, il persecutore, il testimone passivo, e via e via dicendo. Fenomenologicamente, chi agisce la violenza sperimenta una sorta di incapsulamento psichico: l’attualità della relazione viene sovradeterminata da un passato che non è mai divenuto oggetto di pensiero, ma che agisce nel presente con forza invasiva. L’esperienza dell’altro è distorta, alterata, costretta in un'identità che non gli appartiene. L’angoscia non è più quella della relazione reale, ma di un passato che irrompe e viene rivissuto come se fosse presente. La violenza diventa una sorta di rituale tragico attraverso cui il soggetto tenta, fallendo, di risolvere un conflitto antico. L’altro vive spesso questa esperienza come spiazzante e alienante, poiché si ritrova a occupare un posto che non riconosce, avvolto da emozioni che non sembrano appartenere alla relazione attuale, ma che lo sommergono comunque, come un destino già scritto.
Nel terzo scenario, infine, non possiamo nemmeno parlare di campo, perché manca la possibilità di costituire un’esperienza relazionale nella dissoluzione dell’intersoggettività. Qui la mente è disorganizzata, e l’altro non è più né un partner, né un contenitore, né un partecipante: è un oggetto muto, una presenza occasionale su cui viene scaricata una tensione psichica intollerabile. In queste condizioni, le funzioni mentali di simbolizzazione, reverie, contenimento sono del tutto collassate. La violenza è una scarica espulsiva, una tempesta psichica che investe chiunque si trovi vicino, senza che vi sia un minimo di articolazione simbolica. L’esperienza soggettiva, in questo caso, è quella di uno straripamento emozionale assoluto, in cui il sé è frammentato, il tempo è disorganizzato e il pensiero è assente. L’altro viene ridotto a un bersaglio anonimo, spesso percepito solo come fonte di minaccia o fastidio, senza riconoscimento della sua soggettività. Chi subisce la violenza si trova di fronte a un soggetto che non è più raggiungibile mentalmente, che non risponde a codici emotivi o razionali, e sperimenta una forma estrema di estraneazione terrorizzante.
Per un modello di intervento sulla coppia
Intervenire sulla coppia su situazioni di violenza nelle relazioni intime significa allora non fermarsi al soggetto che agisce la violenza, ma leggere l’intero campo di coppia (la sostanza inconscia della relazione che si coagula e si articola attraverso tematiche emotive centrali) come un sistema che può generare e sostenere tensioni e funzionamenti patologici di legame. Implica spostare il focus dall’individuo alla coppia come entità psichica, e comprendere come la violenza sia il sintomo di una fallita trasformazione del vissuto emotivo.
In una prospettiva clinica, ciò significa:
Considerare la violenza non come un atto isolato, ma come un’espressione del campo relazionale.
Lavorare sulla possibilità di riattivare le funzioni trasformative del campo, favorendo nuove possibilità di elaborazione emotiva: la violenza, in questa prospettiva, è il sintomo di un campo che non elabora più e che diventa uno spazio chiuso e soffocante, privo di vie di trasformazione emotiva. Riattivare le funzioni trasformative del campo significa allora restituire al legame la sua capacità di accogliere e metabolizzare le esperienze affettive, riaprendo processi di simbolizzazione che possano sostituire la scarica di angoscia agita. Bisogna infatti considerare che la coppia è un campo che contiene, e quindi in cui avvengono, continui scambi di identificazioni proiettive tra i due individui. Se queste identificazioni si strutturano in modo rigido e persecutorio, il campo si satura di emozioni non elaborate e diventa un campo patologico chiuso, o a funzionamento rigido, dove i partner rimangono intrappolati in ruoli fissi (persecutore-vittima, controllore-dipendente, agito-subito). Quando una relazione violenta si cristallizza, il campo assume una funzione limitativa, fissando tematiche inconsce centrali non trasformate dove la violenza diventa l’unico mezzo per gestire angosce non pensabili. In queste coppie, il campo si comporta come una struttura rigida e difensiva, caratterizzata da:
Un’eccessiva accumulazione di sensazioni non mentalizzate, vissuti grezzi, angosce non simbolizzate;
Una scarsa funzione trasformativa dei suoi partecipanti che li rende incapaci di tradurre il disagio in pensiero, costringendo la coppia a ricorrere ad agiti, somatizzazioni o dinamiche violente, come linguaggio che si esprime attraverso il “far sentire” all’altro;
Meccanismi di scissione e proiezione rigida, che impediscono una co-costruzione e un’evoluzione della realtà psichica condivisa.
In questi casi, il campo può diventare una vera e propria trappola, senza via di uscita. Gli individui, invece di partecipare a una funzione di crescita comune, alimentano un circuito chiuso di frammentazione e disorganizzazione, dove ciascuno espelle sull’altro gli elementi angoscianti senza possibilità di simbolizzazione.
L’ipotesi clinica è che se il campo torna a essere un luogo di scambio dinamico, la coppia può uscire dall’impasse della violenza come unica risposta agli affetti disturbanti. L’intervento clinico sulla coppia deve quindi mirare a:
Comprendere la domanda di cambiamento portata analizzandone gli elementi e la fantasmatica collusiva in cui viene coinvolto il clinico;
Sfruttando la partecipazione del clinico al campo di coppia, di fatto introducendo la coppia in un nuovo campo, individuare e destrutturare le reti di identificazioni proiettive rigide che vengono rieditate nell’intenzione di mantenere il campo in una posizione patologica di statica perpetuazione;
Restituire mobilità al campo, permettendo ai soggetti di sperimentare nuove forme di relazione e di significazione, attraverso l’esplorazione di nuovi scenari emotivi e di simbolizzazione affettiva.
Un primo aspetto critico è che non è scontato che entrambi i partecipanti alla coppia abbiano maturato una domanda esplicita o un desiderio di aprirsi ad una possibilità alternativa. Tuttavia, anche se questo desiderio è maturato ed è divenuto esplicito e investito, o ancora di più se uno dei partecipanti si sente obbligato ad intraprendere il percorso, le reti di identificazione proiettiva rigide verranno rieditate in seduta, e tenderanno a risucchiare intensamente il clinico nella dimensione del campo di coppia, unitamente all’attivazione di intense resistenze alla possibilità di trasformazione del campo. Sarà quindi importante:
· Aumentare la capacità di elaborazione dei partecipanti: Attraverso un lavoro sulla consapevolezza emotiva, che aiuti ciascun partner a riconoscere e tollerare i propri stati interni prima di agire proiettivamente, favorendo l’uso del linguaggio narrativo per dare forma alle esperienze emotive caotiche;
· Rallentare l’azione del campo disfunzionale: Se il campo è tossico e troppo attivo potrebbe essere utile favorire una temporanea sospensione delle dinamiche distruttive, per ridurre la loro intensità prima di tentare una trasformazione più profonda. Ad esempio, si potrà aiutare i partecipanti a individuare, riconoscere e depotenziare gli inneschi relazionali più esplosivi, quelli che attivano dimensioni di campo più disfunzionali o più ingabbianti;
· Favorire l’uso di un nuovo spazio psichico: Nei casi in cui la coppia non riesca a generare simbolizzazione, il terapeuta può introdurre un “terzo luogo psichico”, dimensioni contenitive inedite, proponendo una narrazione emozionata nuova che possa progressivamente integrare le dinamiche sclerotizzate e le polarizzazioni emotive della coppia. Questo può essere fatto attraverso il sogno, il racconto di esperienze di vita o l’uso della metafora, per permettere una connessione più dolce con i vissuti sperimentati senza il rischio dell’acting out. Importante sarà far raggiungere l’insight che la violenza si attiva come una difesa primitiva contro un collasso della pensabilità, e che il percorso intrapreso ha come fine quello di lavorare per ripristinare le capacità elaborative.
In questa prospettiva teorica, la violenza nelle relazioni intime non è solo una questione individuale o culturale, ma un fenomeno psichico emerso da un campo intersoggettivo sofferente, che va affrontato non solo con misure punitive, ma anche con strumenti che permettano di recuperare la capacità simbolica e trasformativa del legame.
Inoltre, le coppie, anche quelle in difficoltà e convogliate in dinamiche sclerotizzate di violenza e maltrattamento, non sono sistemi chiusi e destinati all’entropia psichica, ma possono essere influenzate da elementi esterni che innescano processi di crescita spontanei. Fattori come i figli, il lavoro, la famiglia d’origine, l’ambiente sociale, il cambiamento del corpo e nuove esperienze relazionali possono agire come catalizzatori per lo sviluppo di funzioni trasformative, permettendo alla coppia di sviluppare nuovi modi di elaborare gli stati emotivi. Allo stesso tempo, possono intervenire nel campo di coppia eventi e condizioni mentali nuove che possono andare a compromettere e attaccare le funzioni evolutive del campo. Se uno dei due partner attraversa una crisi personale profonda (ad esempio una depressione, un disturbo d’ansia grave o una crisi identitaria), questo stato può essere proiettato nel campo, modificandone il funzionamento. Si può assistere a una sorta di collasso della funzione di contenimento, dove il partner sofferente si ritira nel suo mondo interno e il campo perde la sua capacità di essere uno spazio di trasformazione condivisa. Se l’altro partner non riesce a compensare o a mantenere viva la funzione trasformativa del campo caratterizzando un legame di amore, il sistema può collassare in uno stato di difesa o di chiusura affettiva, caratterizzando un legame parassitario o di possesso. Un altro esempio è quando la membrana del campo di coppia risulta inadeguata a sostenere e trasformare le pressanti influenze di un altro campo che coinvolge uno o entrambi, portando a nuove dinamiche conflittuali: ad esempio, un rapporto molto fusionale con la famiglia d’origine può creare una sorta di campo sovrapposto, in cui il legame di coppia viene costantemente eroso da un'influenza esterna che ne limita l'autonomia, oppure un tradimento o l’introduzione di una terza persona (non necessariamente in senso amoroso, ma anche una figura di riferimento esterna, o anche un figlio talvolta) può modificare gli equilibri psichici del campo, destabilizzandolo. Nelle coppie in cui si verificano episodi di violenza o maltrattamenti, il campo è spesso caratterizzato da una costante oscillazione tra fantasie di fusione e altre di frammentazione, in cui il legame diventa tanto intenso quanto distruttivo, ma tendenzialmente ristretto in una dimensione di possesso-abbandono, mai di scambio.
Qualunque sia il campo, l’intervento clinico è sempre complesso proprio perché il campo stesso è carico di una forte energia emotiva e le sue funzioni sono strutturate in tal modo da rendere spesso difficilmente contenibili o pensabili delle esplorazioni su altri livelli. Per questo motivo, la domanda di intervento da parte di una coppia violenta rappresenta già di per sé un segnale di potenziale trasformazione. Se una coppia violenta chiede aiuto, significa che, nonostante la sofferenza e la disfunzionalità del campo, esiste ancora o è stata sviluppata una funzione riflessiva che può fungere da passaggio per possibilità nuove. Spesso la domanda di intervento (anche quella che esprime la pretesa di ripristino di un vecchio funzionamento oramai sconfermato) viene sollecitata da un evento critico che altera e/o rende inadeguato il funzionamento del campo.
Non sempre le coppie riescono a sostenere un cambiamento evolutivo. A volte, uno dei due partner (o entrambi, proprio dentro la loro dinamica collusiva) può percepire la crescita del campo come minacciosa, innescando dinamiche di sabotaggio. Questo può avvenire, ad esempio, quando uno dei due membri (o anche entrambi), inconsciamente, associa l’evoluzione della coppia a una perdita del controllo, a un senso di insicurezza o altre paure. Allora il campo prenderà a polarizzare su dimensioni disfunzionali alla trasformazione, come quelle seduttive-manipolative, o evacuativo-rigettanti, o svalutanti-distaccate. Tuttavia, se il campo è troppo saturo di elementi non elaborabili, potrebbe essere necessario lavorare separatamente con i partner per evitare un’escalation distruttiva.
E’ importante sottolineare che in un intervento clinico non tutte le coppie potranno riuscire a compiere il passaggio verso l’attivazione-riattivazione delle funzioni trasformative del campo. Se non si riesce a intervenire sulle dinamiche del campo, si potrebbe dover considerare che alcune coppie sono strutturalmente incapaci di generare trasformazione, e l’intervento potrebbe allora orientarsi a facilitare il riconoscimento di questo limite accompagnando una separazione meno traumatica: accettare la separazione come l’unico esito trasformativo possibile, evitando di forzare la permanenza in una relazione costrittiva ormai priva di possibilità di elaborazione.
Per un modello di intervento sull’individuo
Dal versante teorico considerato, abbiamo visto che quando una persona subisce violenza in una relazione intima, il trauma non riguarda solo il singolo individuo, ma è il risultato di un campo relazionale che ha fallito la sua funzione trasformativa e si è strutturato in modo patologico.
Il campo di coppia che funziona in maniera tale da attivare meccanismi che potremmo definire maltrattanti/violenti opera solitamente attraverso specifiche configurazioni fenomenologiche e dinamiche, che influenzano profondamente la psiche degli individui che vi partecipano e i legami stessi attraverso i quali sono in relazione:
· Campo ipnotico-manipolatore: nel gioco relazionale si viene catturati entro un incantesimo, in un campo che esercita un’attrazione ipnotica che induce a rimanere dentro la relazione violenta, nonostante la sofferenza. Si può apprezzare un’incapacità a pensare l’uscita dalla relazione, come se si fosse inglobati in un vortice che impedisce di svincolarsi immaginando un’alternativa esistenziale. Lo schema prevede un soggetto egocentrico, affascinante e problematico al tempo stesso, e un altro coinvolto attraverso una fantasia di redenzione che può assumere diverse ideazioni, del tipo: “se riuscirò ad amarlo/la di più o meglio lui/lei riuscirà a cambiare e a star bene con se stesso/a”, o anche “solo io lo/la capisco, solo lo/la io posso aiutare/amare…”. Il maltrattamento o la violenza viene normalizzata attraverso una ristrutturazione psichica difensiva, che permette al soggetto “soggiogato” di dare senso a una realtà altrimenti insopportabile, mantenendo un senso di “agency” e alimentando la sensazione di avere effettivamente il potere di salvare o distruggere. Tuttavia, il pensiero resta sospeso e dominato da una narrazione preternaturale imposta dal soggetto predominante attraverso un gioco di fascinazione, di trasporto ipnotico appunto, che il partner assorbe passivamente, andando ad alterare la sua funzione di pensiero autonomo e critico, restando progressivamente assoggettato ad un dominio emotivo di tipo sentimentalistico (che agisce sul senso di colpa e riparazione). Il partner predominante proietta sull’altro aspetti di sé intollerabili (sadismo, angoscia di abbandono, ecc., tendenzialmente irrisolti infantili), mentre l’altro interiorizza tali aspetti e li fa propri, assumendo una posizione oblativa, alimentando in sé il bisogno di riparazione, accudendo l’altro, anche se, in realtà, questo bisogno è dettato da un’introiezione forzata del desiderio e della fragilità del partner soggiogante. Il legame si alimenta di un senso magico, una versione di amore tutta particolare, fatta di alternanza tra affettuosità seduttiva e violenza, tenuta dal sentimento di una affinità speciale e segreta, che talvolta funge per entrambi da rifugio dal mondo esterno. Il funzionamento generale del campo è tendenzialmente manipolatore e distorsivo e la violenza ha espressioni perverse e vissuta come parte “intensa e romantica” della relazione e non come un problema con cui fare i conti. La dimensione di coppia è “speciale” perché traduce l’esperienza in un modo tutto proprio e funziona tipicamente secondo l’assunto di base di dipendenza, nella fantasia inconscia che la sopravvivenza, per entrambi, dipenda completamente dal legame con l’altro. Questo campo impedisce di vedere la violenza per quello che è, perché l’uscita dalla relazione equivarrebbe a un'esperienza di perdita ancora più penosa. E’ anche vero, tuttavia, che in un campo caratterizzato dal legame di dipendenza la relazione tra partner può mantenersi soddisfacente e realizzativa, e anche con significativa intensità emotiva e passionale, a patto che contenga le funzioni trasformative sufficienti. La dipendenza infatti porta in sé un doloroso limite:
o la necessità di possedere qualcosa che non sta in noi, di fatto non potendoci mai realmente riuscire, proprio perché non potrà mai essere in noi;
o l’incapacità di poter ricevere qualcosa di nuovo e sorprendente dall’altro, qualcosa che non corrisponde al nostro bisogno interno, che invece ci continua a dominare. Questo è il segno di una relazione che tende a chiudersi su sé stessa, incapace di trasformare vissuti in pensiero.
Pertanto, se la dipendenza si esaspera e il campo perde ogni funzione trasformativa, si può scivolare in una configurazione in cui non è più possibile alcun cambiamento. Ci si ritrova così ingabbiati reciprocamente in una rete di identificazioni proiettive coatte, dove si perde la capacità di discriminare il proprio sé dall'altro, in un intreccio mutuamente vincolante. Il partener predominante qui è un abilissimo manipolatore affettivo, con una sorprendente capacità di alternare comportamenti “love bombing” a minacce più o meno velate, con continue oscillazioni tra idealizzazione e svalutazione; l’altro si sente quindi in balia di queste oscillazioni, consolidando la dipendenza.
Per provare a rappresentare l’atmosfera del campo con una immagine potremmo pensare ad un labirinto di specchi attraverso il quale rifrangono luci soggioganti, diretti da una voce-guida che ci mette alla prova, confondendoci appositamente, perché ogni riflesso sembra reale, così che la direzione d’uscita rimane inafferrabile.
Ma i comportamenti violenti possono essere espressi da entrambi i ruoli-partner, in un gioco di tensione dove la ribellione, la controdipendenza e la svalutazione costante del manipolatore possono generare, nella “vittima” partner con il ruolo di “salvatore”, reazioni dolorose e violente. Quando la violenza psicologica e la manipolazione diventano insostenibili, il partner-crocerossa può sviluppare una risposta reattiva di difesa, che si esprime in una forma di violenza emozionale o fisica: si trasforma in partner-carrarmato o partner-bomba nel tentativo di riprendersi uno spazio, rivendicare una capacità di controllo relazionale o direttamente sfidare il dominatore offensivo, alimentando in ogni caso ulteriormente un ciclo di conflitto, sofferenza e distruzione reciproca.
· Campo evacuativo-caotico: Le emozioni non vengono pensate, ma agite, proiettate, somatizzate o evacuate attraverso acting-out impulsivi. In questo campo non si riesce a trasformare il proprio dolore in un’esperienza simbolizzabile, e questo produce una confusione mentale e una perdita di coerenza narrativa sulla storia e sui fatti, alimentando una sensazione di vuoto interno, come se l’esperienza della violenza fosse qualcosa che accade senza un significato chiaro. Nel campo possono verificarsi stati di panico improvviso e sono sistematici episodi di disregolazione emotiva, acting-out e manifestazioni autodistruttive (abuso di sostanze, promiscuità sessuale, autolesionismo, ecc.). Il linguaggio si svuota di senso, potendo raccontare la violenza agita o subita in modo robotico o completamente dissociato, perché le esperienze traumatiche vengono vissute senza essere elaborate dalla mente, e quindi (come se il vissuto viaggiasse attraverso un tubo mentale senza attività metabolica: entra e esce, semplicemente) venendo semplicemente “espulse” più o meno tali e quali (nello stesso stato “bruto”), senza possibilità di mentalizzare e dare significato. In questo campo i ruoli di "violento" e "vittima" non possono venire rigidamente distinti, ma oscillano e si alternano in una dinamica di scarica reciproca di angoscia e aggressività. Nella fase violenta, il campo può funzionare come un luogo evacuativo, in cui un partner può scaricare violentemente angosce e aggressività sull’altro, mentre questi, a sua volta, può scaricare il proprio dolore in modi altrettanto disfunzionali. La coppia diventa un sistema in cui le emozioni vengono agite anziché elaborate, impedendo qualsiasi crescita trasformativa. E quando il trauma è continuo e non può essere pensato, chi l’ha subito ha due vie: espellere il dolore attraverso il corpo, con somatizzazioni o aggressioni al proprio corpo; oppure operare scissioni in stati psichici separati, creando una mente suddivisa in più “realtà”, secondo le modalità del funzionamento dissociativo. L’evacuazione dell’angoscia impedisce di prendere coscienza della propria condizione, lasciando la coppia in un loop continuo di passività e ripetizione, immersa in un tempo frenetico e discontinuo, nell’imprevedibilità degli eventi e nell’emergenza.
Per provare a descrivere con una immagine potremmo pensare di ritrovarci sotto ai “botti di Capodanno” essendo sovrastati in un disordine di luci ingestibili e fragori assordanti, e in questa contaminazione emotiva di metterci a ballare in maniera sfrenata perché “dopotutto è una festa!”: la strada per la trasformazione passa dalla possibilità di sospendere l’azione, guardare i fuochi d’artificio comprenderne la tensione evocata e prendere contatto con ciò che ci provocano internamente, che poi significherebbe sperimentare di avere un interno capace di tenere dentro e sentire.
· Campo mortifero-fusionale: qui il campo diventa completamente chiuso, statico, senza via d’uscita, in una parola asfittico. Al contrario del campo evacuativo, qui i vissuti (specie quelli angoscianti) non vengono espulsi con azioni violente, ma vengono alienati, soffocati, congelati e lasciati senza possibilità di trasformazione, generando un senso di annichilimento psichico. La violenza assume una forma silenziosa, pervasiva e ineluttabile e la sofferenza non può essere espressa, né attraverso il pensiero né attraverso l’azione: la sofferenza, in questo campo, non ha un luogo per poter esistere. Non solo ci si ritrova incapaci di pensare ad una uscita dalla relazione, ma si arriva proprio a desiderare l’annullamento, perché la violenza ha una forma devitalizzante, e ha svuotato di ogni risorsa interna. Il tempo è sospeso, la coppia si è intrappolata in un eterno presente senza possibilità di cambiamento. Può alimentarsi una depressione profonda con la perdita di qualsiasi speranza di cambiamento, possono aleggiare fantasie suicidarie o autolesionistiche (talvolta atti estremi per provare a recuperare attraverso il corpo il “sentire”), può verificarsi una sottomissione passiva e totale alla violenza, come se non si avesse più una volontà propria, sperimentando una particolare rigidità nel pensiero e una assenza di vivacità mentale, come se il mondo interno fosse bloccato, morto. Nel campo, come nei suoi partecipanti, tutte le funzioni mentali sono paralizzate: non si pensa, non si sente, si va avanti ma non si immagina un futuro. Quando il trauma diventa insopportabile, si può anche arrivare a sviluppare un funzionamento delirante, costruendo un mondo interno alternativo per fuggire dal dolore, dall’angoscia della perdita di contatto, attivando stati di derealizzazione e allucinazioni, perdendo progressivamente il contatto con la realtà. In questo campo la coppia non funge più da sistema relazionale, ma da meccanismo che distrugge il sentire e il pensiero. La vittima è il soggetto che potremmo dire “influenzato da questa particolare modalità difensiva al vissuto”, che entrando in sintonia con questa modalità viene progressivamente svuotato della sua capacità di pensare autonomamente, perché il partner gli impone implacabilmente una narrazione gelida e annichilente, esercitando così un dominio silenzioso e un controllo: il suo mondo interno si appiattisce sulle esigenze del partner, con una ristrutturazione psichica difensiva che serve a sopportare l’invivibile. La violenza dell’altro partner è data dall’energia con cui influenza, anche se, a sua volta, è questi il primo a essere catturato dal funzionamento coercitivo del campo che lo mantiene in una posizione rigida e persecutoria: incapace di simbolizzare parti massive dei propri vissuti emotivi, invece di viverli ed elaborarli, li iper-contiene agendo un controllo emotivo della vittima attraverso la negazione, il silenzio punitivo, la svalutazione continua, ponendola in uno stato di paralisi, spegnendola rispetto ogni possibilità di reazione. Questo meccanismo rende bloccato il partner che devitalizza, incapace di pensare, di mentalizzare la propria fragilità, perché dominato dalla necessità di controllare e annientare il pensiero dell’altro: l’immagine vitale dell’altro, infatti, rappresenta per lui angosce di entropia, la più grande minaccia perché in essa potrebbe svelarsi la verità, ossia i disagi e debolezze che si porta dentro, ed è per questo che deve confermare il proprio potere assoluto assoggettando il partner, dissolvendolo.
L’avversione al senso di verità rende davvero complicata la possibilità di intervenire per un cambiamento su chi ha sviluppato una modalità di controllo del partner di questo tipo. Ma anche chi subisce una modalità di controllo di questo tipo viene così coinvolto in questa “angoscia della verità” e assume inconsciamente il punto di vista del partner. Questo processo, pertanto, si reifica perché la vittima, svuotata del proprio senso di verità e ormai identificata con il persecutore, può a sua volta perpetuare la dinamica su se stessa o sugli altri, finendo per adottarne le logiche, interiorizzandole fino a renderle parte della propria struttura psichica: per questo il campo risulta fortemente refrattario all’intervento perché funziona come un complesso apparato difensivo contro la verità, rendendo la menzogna condivisa e la negazione delle emozioni il collante della dinamica di coppia e l’essenza del legame. L’identificazione con l’aggressore è la condizione per la sopravvivenza psichica della vittima, e il contrasto alla pulsione epistemofilica è la condizione per la sopravvivenza entro un legame parassitario, in una prigione psichica senza molte possibilità d’uscita. Se nel campo evacuativo la vittima del momento tenta in qualche modo di far evadere il dolore attraverso acting-out, magari autodistruttivi, nel campo mortifero la vittima ha già accettato la propria condizione di annullamento e di assoggettamento ad un funzionamento difensivo devitalizzante.
Per provare a descrivere con una immagine potremmo pensare a due conigli in fuga che si ritrovano intrappolati in un intrico di rovi taglienti, e ad ogni movimento rischiano di ferirsi ancora di più, sicché l'immobilità diventa una necessità disperata, perché ogni tentativo di liberarsi alimenta il dolore e il rischio di ferirsi, e il rumore che provocherebbe potrebbe attirare l'attenzione di predatori esterni. Così, restano lì, immobili, incapaci di uscire dal labirinto di rovi che li tiene prigionieri, intrappolati in una paralisi che li consuma.
Approfondimento teorico e clinico: I tre idealtipi come modalità difensive del campo
I tre “idealtipi” di campo relazionale violento proposti possono essere intesi come modi specifici attraverso cui il campo difende sé stesso dalla disintegrazione, dalla disorganizzazione, o da angosce primarie non mentalizzabili. Essi rappresentano quindi forme di difesa del campo, esiti collusivi che derivano da un fallimento della funzione di reverie condivisa.
In questo, ad ogni idealtipo di campo potremmo associare una drammaturgia difensiva tipizzata, in cui la reverie, intesa come funzione trasformativa che elabora gli elementi beta in pensiero e affetto simbolizzabile, risulta compromessa o distorta. Il campo, anziché metabolizzare, rispettivamente seduce, espelle o congela:
· Campo ipnotico-manipolatore: qui la modalità difensiva è basata sulla fascinazione e l’identificazione adesiva, in cui alle funzioni di reverie vengono preferite narrazioni ipnotiche, estetizzate, che sostituiscono con alone di magia la realtà condivisa. La reverie si trasforma in un contenitore seduttivo che non elabora ma cattura, trasformando il legame in magnetismo disorientante, con scenari ideativi del tipo:
o Solo io posso salvarlo/a, solo io lo/la capisco: il soggetto costruisce una narrazione messianica del proprio ruolo, connotata da onnipotenza affettiva.
o Se lo/la amo abbastanza, cambierà: ossia, una fantasia riparativa narcisistica, che agisce da collante tra seduzione e dipendenza.
o Questa relazione è speciale, noi siamo diversi dagli altri: ci si pone “confortevolmente” nel mito di eccezionalità, spesso costruito a partire da traumi condivisi, che impedisce l’ingresso di terzi (compreso il clinico chiaramente).
L’organizzazione intrapsichica dominante nei partner coinvolti nel campo o la modalità prevalente di funzionamento in questo contesto vede il soggetto predominante esprimere una personalità narcisistica, tendenzialmente di tipo maligno (Kernberg), con tratti borderline organizzati, e fa un uso massiccio di difese come scissione, idealizzazione/svalutazione, identificazioni proiettive seduttive. Il soggetto soggiogato, di convesso, esprime invece tendenzialmente una struttura dipendente o “pseudo-genitale” regressiva con forte idealizzazione dell’oggetto e oscillazioni tra accudimento magico e colpa riparativa cronica. Il soggetto dominante agisce come regista del campo narrativo: impone una storia, una scenografia affettiva che cattura l’altro dentro un copione. Il partner soggiogato funziona di riflesso, come estensione psichica dell’ideale dell’altro, rinunciando a funzioni critiche e simboliche: il soggiogante attrae e disperde il soggiogato in un “incantesimo relazionale”, ma questa campo è molto potente e agisce per attrarre e coinvolgere anche il setting clinico, attivando nel terapeuta risonanze forti e non sempre consapevoli creando una sorta di comune trance relazionale tra i partecipanti.
· Campo evacuativo-caotico: la modalità difensiva è basata sulla scarica pulsionale e acting-out, con assenza di reverie, il campo funziona come un tubo evacuativo in cui l’angoscia non viene pensata ma agita. E dato che la reverie non viene nemmeno tentata, il campo non contiene e ogni esperienza d’affetto viaggia orfana per venire subito espulsa in forma grezza, senza passaggio trasformativo, con scenari ideativi del tipo:
o Non so cosa mi è successo, è stato più forte di me: magari aggiungendo un whow! ad espressione della dissociazione tra emozione e azione, con la degradazione e perdita del nesso simbolico tra affetto provato e comportamento agito.
o Tanto anche lui/lei fa così con me: in una simmetria patologica che opera un po' come uno “specchio riflesso”, negando ogni responsabilità attraverso un’equivalenza evacuativa.
o Non provo più niente, ma impazzisco se se ne va: il campo alterna vuoto e ipercoinvolgimento, in una spirale di scariche emotive.
L’organizzazione intrapsichica dominante nei partner coinvolti nel campo o la modalità prevalente di funzionamento in questo contesto vede entrambi i partner tipicamente con tratti borderline gravi, che alternano in modo disorganizzato angosce abbandoniche e acting out. Non sono rari nemmeno espressioni psicotiche, soprattutto nei momenti più regressivi. In ogni caso si può apprezzare una elevata impulsività, rappresentazioni dell’oggetto scisse e instabili, funzionamento schizo-paranoide (oggetti buoni e cattivi totalmente separati: l’altro è vissuto o unicamente come fonte di salvezza o unicamente di minaccia, nella compromissione di mantenere una rappresentazione coerente dell’altro e di sé nella relazione) con le note difese di questo funzionamento (scissione, negazione, proiezione, identificazione proiettiva, idealizzazione) alle angosce persecutorie. Il dialogo narrativo si presenta povero o frammentato, punteggiato da esplosioni emotive spesso organizzate in maniera rudimentale da strutture espressive ausiliarie che agiscono come una sorta di “macchinari evacuativi” (ad esempio un modo di dire usato ripetutamente come intercalare, o musicare sempre allo stesso modo le proprie espressioni, ecc). Il campo diventa una sorta di water dove riversare le scorie dell’esperienza attraverso acting e controacting: ogni partecipante è considerabile il contenitore fallito dell’altro. In questo campo è alta la disorganizzazione transfert–controtransfert, e quindi è facilissimo che si monti un processo di immediato rilancio emotivo con il rischio acting in–out che coinvolgono facilmente anche il clinico: proprio per questo, il campo terapeutico deve inizialmente fungere da “argine” o da muro di gomma per ammortizzare la violenza degli agiti.
· Campo mortifero-fusionale: la modalità difensiva è basata su una sorta di congelamento, negazione affettiva, dissoluzione del tempo psichico. E’ come se la reverie fosse implosa, soffocata nella negazione del dolore e dell’alterità. Sembra come consumato, esaurito, lo spazio mentale per contenere o trasformare: il campo spegne la vitalità, negando desideri e angosce tramite l’annullamento del pensiero e dell’altro, con scenari ideativi del tipo:
o Non c'è più niente da dire, si va avanti così: in una dimensione a se stante, con un tempo sospeso, composta da un fatalismo depressivo che cronicizza l’impotenza e la rassegnazione passiva.
o Se parlo, faccio solo peggio: in questo processo di censura il pensiero stesso arriva ad essere vissuto come pericolo: parlare, simbolizzare, significherebbe disgregare l’unico equilibrio possibile e l’annullamento di sé l’unica modalità di sopravvivenza.
o Meglio morire insieme che restare soli: nello scenario atrofizzato le uniche fantasie nutritive restano quelle simbiotiche di dissoluzione, dove la distruzione diventa l’unica via di legame possibile.
L’organizzazione intrapsichica dominante nei partner coinvolti nel campo vedono il partner predominante consumato da una organizzazione paranoide-schizoide con tratti ossessivo-controllanti, con un forte ricorso all’uso della negazione, del controllo, dell’iper-razionalizzazione, intento ad affermare le sue difese autartiche alla pervasività dell’esperienza. Il partner assoggettato, di convesso, esprime una struttura depressiva severa o anaclitica (Blatt), spesso con aspetti dissociativi, con un collasso del sé, coesività, vissuti di vuoto, senso di colpa, indegnità. La coppia all’esterno può apparire anche funzionale, ma rimanda sempre ad una percezione di stasi affettiva, mentre ad un approfondimento relazionale ci si può sentire raggelati dalle ampie zone inviolabili protette da silenzio, blocco dei processi esplorativi, ricorso ad un fatalismo rassegnativo: segno che siamo all’interno di un campo che funziona come un organismo che sopravvive anestetizzando le emozioni. Nel lavoro clinico è possibile sperimentare controtransfert depressivo o sentimenti di sterilità, sentire un vuoto interno frammisto a tristezza e vissuto abbandonico. Sono necessarie reverie minime ma continue per riattivare la percezione delle parti vitali del sé.
Provando ora a definire un modello di intervento clinico sull’individuo potremmo pensare di lavorare non solo sulla vittima o sul violento come individui e come individui caratterizzati proprio da questi ruoli, bensì lavorare sulle tracce che il campo disfunzionale ha lasciato nella mente di questi individui e nella loro capacità di pensare e simbolizzare l’esperienza. Si tratta di riconoscere le tracce delle funzioni e degli scenari del campo di coppia violento che ancora abitano nella dimensione soggettiva: queste tracce non sono solo contenuti psichici, ma modi di funzionare, ossia pattern di pensiero e simbolizzazione che si riproducono nella vita del soggetto. Questa prospettiva si basa sull’idea che l’esperienza soggettiva di un individuo non sia mai completamente autonoma, ma derivi dalla dinamica di particolari campi intersoggettivi particolarmente intensi e significativi nel suo funzionamento mentale. L'eredità del campo e la sua persistenza nel soggetto si caratterizza attraverso una memoria implicita, un sistema di reverie bloccate che strutturano l’esperienza. In altre parole, il soggetto non è semplicemente un “contenitore” di vissuti psichici individuali, ma è il risultato di forze relazionali che continuano ad agire dentro di lui anche quando il campo originario è stato “abbandonato”. Allo stesso modo, questo funzionamento di campo interviene come soggetto terzo, come entità organizzatrice invisibile, particolarmente attivo e significativamente riconoscibile all’interno di una relazione, sicché potremmo immaginare la relazione come un campo entro il quale agiscono nuclei complessi di funzionamento di altri campi attivi nelle rispettive dimensioni soggettive, creando un magma dinamico di confluenze emotive e trasformazioni simboliche e fantasie vissute, come quando veniamo coinvolti in un film: difatti il campo configura una dimensione estetico-sensoriale specifica, tendendo a comporre una sua specifica drammaturgia interna, risucchiandovi il soggetto non solo come spettatore ma anche come attore inconsapevole. Stiamo in qualche modo abbracciando l’idea che la dimensione del “mentale” sia rappresentabile come un campo complesso: un magma psichico non lineare, fatto di strati di soggettività, memorie implicite, identificazioni proiettive, organizzazioni fantasmatiche che si fondono e si riorganizzano nel campo attuale. Le tracce di un funzionamento di un campo rigido e disfunzionale nel soggetto, quindi, caratterizzano una sua modalità di funzionamento psichico, sicché la sua persistenza ostacola nuove possibilità trasformative potenzialmente attivabili in un nuovo campo (ad esempio legato ad un percorso clinico). Precisiamo che il ruolo del campo nella strutturazione dell’esperienza soggettiva non si esprime su un livello assoluto ma deriva dalla sintonizzazione dell’esperienza mentale profonda tra il campo che stiamo considerando e il soggetto che in qualche modo vi partecipa.
Alla luce di queste riflessioni, non è solo il ricordo della violenza, ma una modalità di pensare, sentire e relazionarsi al mondo (interno ed esterno), organizzata da energie e funzioni del campo. Per questo che nuclei più o meno intensi ed estesi del campo disfunzionale tenderanno ad essere riproposti in nuovi campi relazionali. Un individuo che porta una domanda di aiuto inerente a una relazione violenta può comunque essere considerato sempre non solo portatore di un fallimento collusivo rispetto al campo della coppia, ma anche portatore del funzionamento collusivo del campo stesso; tuttavia, la relazione con il clinico ha il potenziale di poterlo introdurre in un nuovo campo, rispetto al quale il setting rappresenta una componente essenziale per la sua costituzione, per il suo funzionamento e per la qualità della realtà psichica emergente. L’analisi della domanda è una componente fondamentale per cominciare ad introdurre il paziente in una nuova dimensione data da un campo “analitico” che si caratterizza in divenire, poiché in co-costruzione: con l’analisi della domanda non si pone solo interesse alle motivazioni, ma anche allo scopo, quindi alla direzione in cui viene portata la relazione, e tutto questo aiuta a configurare l’organizzazione della relazione e il setting.
Approfondimento teorico e clinico: Nel momento in cui un paziente o una coppia portano una domanda di intervento all’interno di un centro antiviolenza (che in questa ottica non dovrebbero essere solo femminile, ma ovviamente anche maschile), tale domanda non può essere trattata come richiesta scontata ("ha avuto a che fare con situazioni violente e, in base al ruolo avuto in queste situazioni violente, va protetto-salvato o arrestato-rieducato"), ma deve essere compresa come il risultato di una costruzione di campo che coinvolge inevitabilmente anche la dimensione simbolica della funzione istituzionale (del centro antiviolenza, che oltretutto nella particolare situazione italiana è concepito come unicamente femminile, con tutto l'implicito che questo comporta e che inevitabilmente organizza massicciamente l'esperienza e l'agire di questi servizi) che attrae, accoglie e struttura questa domanda. Il fatto che il luogo e il soggetto dell’intervento sia un Centro Antiviolenza (che oltre ad avere il limite del "solo femminile", presentano anche l’ulteriore criticità di un’impostazione per niente clinica, fortemente giurisdizionale e in troppi casi influenzata da orientamenti ideologici) introduce inevitabilmente una connotata costellazione di significati, aspettative, fantasie collusive, sia da parte del paziente che del personale della struttura (ad esempio, come sopra nella “richiesta scontata”). In linea con il modello dell’analisi della domanda, è fondamentale pensare il mandato clinico come una funzione che ha senso solo se decifrata all’interno della relazione tra richiedente-clinico e dimensione istituzionale che connota e concorre a simbolizzare la relazione stessa. Il rischio è che l’intervento psicologico venga agito come funzione di controllo, normalizzazione o redenzione moralistica, anziché come spazio di elaborazione del legame collusivo che ha strutturato la violenza e del legame collusivo che orienta il lavoro clinico. Il compito clinico è allora duplice: da un lato, intercettare e trasformare il mandato latente (ad esempio, “intervieni sul mio partner problematico”, “salva questa coppia dalle modalità distruttive del mio partner”, “confermami di essere vittima del deviante”, ecc.), dall’altro decostruire con il paziente il campo relazionale implicito nella sua richiesta, favorendo un movimento da “vengo/veniamo qui perché bisogna intervenire su questo aspetto-violento” a “vengo/veniamo qui per capire insieme come e perché siamo dentro questo tipo di campo emotivo, e abbiamo desiderio di pensare a come viviamo, rappresentiamo e portiamo fuori questo funzionamento”.
In questa prospettiva, l’analisi della domanda non si esaurisce nell’esplorazione delle motivazioni dichiarate per cui un individuo o una coppia si rivolgono al servizio. Occorre interrogare la posizione in cui il clinico viene collocato all’interno della richiesta stessa: è infatti in questa fantasmatica oggettuale che si manifesta la struttura del campo collusivo che sostiene la domanda. La relazione clinica prende forma proprio a partire da questa configurazione implicita: il clinico è chiamato ad assumere un ruolo funzionale a logiche affettive, a posizioni che chiedono di essere agite, confermate, o rifiutate. È qui che il lavoro può iniziare: nella possibilità di sospendere la risposta automatica alla richiesta, per ascoltare la struttura oggettuale (o se si preferisce, relazionale) che la sottende. Solo a partire da questo snodo la domanda può essere pensata, decostruita, trasformata. Ed è proprio nella disponibilità del clinico a sostenere questa posizione (senza agire, senza fondersi, senza ritirarsi) che può nascere uno spazio terzo, generativo, in cui il campo può riarticolarsi e ritrovare una funzione trasformativa.
A scopo meramente orientativo è comunque possibile provare a definire possibili nuclei motivazionali che probabilmente spingono gli individui che hanno partecipato ad un particolare tipo di campo di coppia a fare ricorso ad un clinico per portare (elaborare?) un fallimento collusivo, che (come abbiamo affermato sino ad ora) va quindi letto in riferimento al campo di coppia e che a sua volta rappresenta un elemento di base per l’analisi della domanda di intervento:
· Campo ipnotico-manipolatore:
o Soggiogante (manipolatore):
§ Frustrazione narcisistica: non accetta di aver perso il controllo sulla vittima;
§ Rabbia e desiderio di rivalsa: può chiedere aiuto per "riconquistare" il partner o per dimostrare che in realtà è stata lui/lei la vera vittima;
§ Mancanza di senso di colpa autentico: può arrivare in terapia su spinta esterna (es. obbligo legale, pressione sociale, ecc.);
§ Paura dell’abbandono profondo: se ci sono elementi di dipendenza affettiva, la separazione può generare angosce intollerabili.
o Soggiogato
§ Disorientamento identitario: la fine della relazione equivale alla perdita di senso e di direzione nella vita.
§ Astinenza affettiva: fatica a separarsi emotivamente dal partner, come se ne fosse ancora dipendente.
§ Senso di colpa e auto-colpevolizzazione: crede di aver fallito nel "salvare" l’altro e si chiede se poteva fare di più.
§ Bisogno di ristrutturare il pensiero: difficoltà a pensare autonomamente dopo anni di assoggettamento al partner soggiogante.
· Campo evacuativo-caotico:
o Soggetto provocante
§ Impossibilità di contenere la propria aggressività: senza un designato su cui scaricare, può rivolgere l’odio verso sé stesso o verso altri.
§ Rischio di acting-out violenti: solitamente ricerca subito una nuova relazione per ripetere lo schema.
§ Confusione rispetto al significato delle proprie azioni: spesso non riconosce di aver agito violenza, minimizza o nega, o ribalta come “violenza restituita”.
§ Tendenza a vittimizzarsi: potrebbe chiedere aiuto per "dimostrare" di essere lui il traumatizzato da una dinamica violenta subita.
o Soggetto coinvolto
§ Disregolazione emotiva intensa: avendo stanziato in situazioni a forte pressione prive di contenitori mentali ed elaborazioni, può sperimentare perdite angoscianti di controllo, stati intensi di ansia, depressione, attacchi di panico.
§ Acting-out autodistruttivi: abuso di sostanze, condotte impulsive, promiscuità sessuale.
§ Confusione narrativa: non riesce a dare un senso chiaro alla violenza subita, alterna ricordi distorti o lacune mnestiche.
§ Esplosioni emotive o apatia totale: può oscillare tra momenti di estrema sofferenza e momenti di dissociazione dal trauma.
· Campo mortifero:
o Devitalizzante:
§ Angoscia senza nome e disperazione profonda: se il campo mortifero ha generato una simbiosi distruttiva, la separazione può far emergere dolorose angosce di dissoluzione esistenziale.
§ Oscillazione tra violenza e autodistruttività: può reagire con esplosioni di rabbia alternate a fasi di profonda depressione.
§ Ricerca di un partner sostitutivo: per ripristinare il funzionamento del campo e non affrontare il vuoto interno.
§ Possibile rischio di stalking o vendetta: l'aggressore può non accettare la fine della relazione e cercare di riprendere il controllo con modalità persecutorie.
o Devitalizzato:
§ Depressione grave, ritiro dalla vita e vuoto esistenziale: sente che la separazione ha svelato un vuoto incolmabile perché nella relazione si sono disciolti i legami con gli oggetti vitali interni.
§ Senso di annichilimento psichico: perdita del senso si sé e percezione di non esistere più come individuo.
§ Dall’incuria di sé e ideazione suicidaria o comportamenti autodistruttivi: la separazione può essere vissuta come una condanna definitiva.
§ Ritiro sociale e chiusura affettiva: può non riuscire a instaurare nuove relazioni non solo per paura di rivivere lo stesso inferno, ma perché non più in grado di orientarsi affettivamente in un rapporto o più in generale di sopportare la complessità emotiva legata al contatto con l’estraneità.
In questa cornice il lavoro clinico non deve semplicemente interpretare, svelando il funzionamento, ma deve operare come un oggetto-campo trasformativo, un contenitore che permette al paziente di sperimentare una relazione in cui il dolore può essere pensato e simbolizzato. Per questo approccio bisogna assumere che il soggetto non possiede un’identità cristallina, ma è la risultante di forze psichiche che lo attraversano e di funzioni attivate internamente dalle esperienze affettive pregresse. Così, funzionamenti e contenuti del campo passato continuano a vivere nel presente del soggetto: anche se la relazione violenta è finita, il soggetto continua a pensare, sentire e percepire il mondo attraverso quelle coordinate. E allora il cambiamento non avviene “riparando” il soggetto o gli oggetti, ma trasformando il campo interno che ancora lo abita, per attivare una nuova prospettiva: terapeutica va intesa l’esperienza di co-costruzione di un nuovo campo, in cui il soggetto possa sperimentare una modalità diversa di essere e di sentire. L’obiettivo non è “curare” la vittima o “rieducare” il violento come se fossero entità separate, ma intervenire sulle strutture psichiche e relazionali che continuano a mantenerli intrappolati in una logica traumatica. A livello di relazioni oggettuali, alla base di una relazione violenta c’è sempre la fantasia di possesso che diventa alternativa a quella di scambio, secondo due logiche antitetiche:
· La logica dello scambio implica il riconoscimento dell’altro come soggetto separato, dotato di desideri e bisogni propri, con cui si può entrare in relazione in un processo di reciproca trasformazione. Lo scambio richiama quella dimensione matura di sviluppo mentale che già Freud aveva chiamato “genitale”, dove appunto si concepisce la parzialità della soggettività e la necessità dell’altro-diverso per completare ed arricchire la propria soggettività.
· La logica del possesso implica invece la negazione della soggettività dell’altro, trasformandolo in un oggetto da controllare, dominare o assimilare per mantenere un senso di stabilità e sicurezza interna. Da un punto di vista bioniano, la fantasia onnipotente di possesso può essere vista come un modo per difendersi dall’angoscia della separazione e della perdita dell’oggetto: un modo per renderlo non-separabile da sé. In questo senso, il campo della coppia violenta si configura come una barriera contro il pensiero, perché il violento non tollera l’alterità, in quanto questa gli mostrerebbe la propria insufficienza o frammentazione interna, mentre la vittima, d’altro canto, può inconsciamente accettare questa dinamica perché teme che fuori dalla relazione non esista più un sé pensabile. Questa incapacità di accettare il carattere trasformativo dello scambio porta la coppia a chiudersi in un loop relazionale dove la violenza è il collante che garantisce la persistenza del legame.
Un aspetto centrale del lavoro clinico è rendere visibile la fantasia di possesso e il suo effetto paralizzante sulla funzione di pensiero. Il cambio di vertice dell’osservazione, il decentramento rispetto all’impianto fantasmatico che struttura il campo disfunzionale, la variazione del codice narrativo e del genere espressivo sono tutti strumenti che permettono di destabilizzare l’inerzia del campo e creare una discontinuità trasformativa. Se il campo resta chiuso su se stesso, la fantasia di possesso continua ad agire come un vincolo strutturante, impedendo l’emergere di nuove rappresentazioni psichiche. Il “re nudo” non smetterebbe di pavoneggiarsi delle sue vesti inesistenti, mentre il campo collusivo che sostiene l’illusione rimarrebbe intatto, consolidando la dinamica di mistificazione e dipendenza; solo il cambio di vertice consente l’irruzione di un elemento dissonante che rompe la circolarità autoreferenziale: il bambino della fiaba, nella sua natura ingenua e autentica, e nella sua posizione eccentrica rispetto alla struttura e funzionamento del campo, non resta assoggettato alla fascinazione e alla sottomissione implicita nel patto collusivo re-popolo, e per questo può nominare, con innocente leggerezza, la verità. In tal modo, il bambino non solo smaschera l’illusione collettiva, ma rende possibile il passaggio dalla cieca adesione al campo alla consapevolezza e smascheramento della finzione, ponendo immediatamente tutto sotto un’altra luce e prospettiva. È solo in questa incrinatura che si può permettere al re di vedere se stesso nella sua nudità e, in un movimento che rompe la coazione al dominio (possesso), di provare vergogna.
Ciò premesso, il lavoro clinico, nella composizione di un nuovo campo trasformativo a partire dall’analisi della domanda di intervento, dovrebbe potersi orientare sui seguenti passaggi:
· Lavorare sul fantasma del campo aiutando il paziente a riconoscere come il campo relazionale violento non sia solo un’esperienza del passato, ma un'organizzazione psichica ancora attiva che struttura il modo in cui egli si rappresenta le relazioni e se stesso.
· Decentrare la soggettiva facilitando i passaggi di vertice narrativo, in modo che il paziente possa progressivamente riconoscere e de-costruire la collusione inconscia con la logica del campo violento.
· Costruire nuove configurazioni rappresentazionali attivando funzioni elaborative in grado di generare elementi simbolico-affettivi (immaginativi, narrativi, metaforici), così da permettere al paziente di muoversi nel campo e agire alla trasformazione del campo svincolandosi dalla ripetizione, favorendo la emersione di nuovi significati e nuove possibilità relazionali.
Per un modello di intervento sul gruppo
In un percorso clinico l’utilizzo del gruppo permette di rendere visibili e trasformare le configurazioni di campo che abitano la soggettività, facendo emergere il carattere “trans-soggettivo” di alcuni vissuti e il modello collusivo in cui agiscono. Stiamo sempre considerando che l’esperienza del campo violento non è riducibile ad una dinamica tra due persone, ma attinge ad un complesso sistema evocativo, nel quale il soggetto è mentalmente immerso e che ha sedimentato nel suo apparato psichico: il gruppo può contribuire a “far fallire” e in questo a decostruire. A patto che il gruppo riesca ad evocare quella estraneità sostenibile, nonché la curiosità e la sicurezza di poter fare movimenti trasformativi sulla scia degli scenari e delle evocazioni del gruppo. Se la relazione violenta si fonda sulla predominanza della fantasia di possesso rispetto alla fantasia di scambio, il gruppo diventa un laboratorio in cui i partecipanti possono sperimentare nuove forme di partecipazione, accettando la parzialità del proprio spazio e potenzialmente aprirsi allo scambio simbolico, svincolandosi dalle logiche di dominio e controllo. Tuttavia, il gruppo è al contempo un organismo che ha una sua vita psichica autonoma e può attivare difese primitive o funzioni trasformative. La capacità del conduttore di riconoscere le dinamiche di base del gruppo è fondamentale per evitare la riproduzione di un campo violento all’interno del setting. Il campo violento è sostenuto da alleanze inconsce che vincolano il soggetto a una certa modalità relazionale. Nel gruppo, queste alleanze possono emergere e essere rielaborate attraverso la dinamica trans-soggettiva.
Sottolineando che il setting di gruppo non è il campo, bisogna pensare al setting come un dispositivo in grado di:
· Garantire un contenimento psichico alla frammentazione e angosce caotiche che la pregnanza del campo violento ha generato. Il gruppo deve poter offrire un contenitore trasformativo, dove chiaramente le emozioni possano essere pensate e non agite, ma anche le fantasie e gli scenari emotivi che le accompagnano, nello sviluppo narrativo delle produzioni del gruppo, acquisiscano la capacità di trovare elaborazioni trasformative in grado di restituire senso all’esperienza emotiva e di renderla mentalmente pensabile, sottraendola alla ripetizione agita e alla chiusura traumatica.
· Evitare la riproduzione di dinamiche violente: è banale, ma fondamentale. Il rischio di acting-out, di collusioni inconsapevoli o di ripetizione di ruoli è alto. Il conduttore deve saper riconoscere queste dinamiche e proporre interventi che favoriscano il decentramento. E’ fondamentale che il dolore, la sofferenza, il desiderio di risolvere con il possesso o l’annientamento dell’oggetto angosciante riescano a diventare i passaggi all’esplorazione degli scenari nella possibilità di muoversi per trovare nuove prospettive, nuovi generi narrativi, nuovi passaggi per giungere non solo a un cambiamento di posizione, ma anche ad un cambiamento delle funzioni di simbolizzazione affettiva dell’esperienza dolorosa.
· Favorire non solo la pluralità delle prospettive, che pure consentono di ampliare la dimensione del campo, ma anche la generazione spontanea di sensibilità e fantasie in grado di “addomesticare” in particolare quei vissuti dolorosi che si sperimentano nel gruppo. L’incontro con altre soggettività permette di disconfermare la rigidità dei significati imposti da uno specifico campo violento, a patto che gli elementi violenti non coagulino tra loro andando a formare delle rigidità funzionalmente orientate alla risoluzione rapida e radicale del vissuto sperimentato. Il gruppo deve quindi lavorare sulla molteplicità narrativa e sulla possibilità di coesistenza di differenti letture dell’esperienza. Il campo agisce infatti come un generatore di condizioni in cui funzioni quali empatia, attenzione, sintonia, ricezione, interpretazione, ecc. interagiscono positivamente, oppure all’inverso che restino bloccate, inibite o sovvertite: la finalità inconscia, magari collusivamente condivisa, potrebbe quindi essere quella di “far sentire” invece di evocare al pensiero, smontare e rimodellare simbolicamente il vissuto. Il campo corrisponde a stati mentali che possono essere sperimentati, contemporaneamente o alternativamente, come interni alla mente o come appartenenti all’ambiente-gruppo e per analogia all’ambiente-mondo. L’incontro con l’altro nel gruppo permette al soggetto di riconoscere parti di sé che, a livello individuale, potrebbero risultare inaccessibili. Il gruppo agisce come uno specchio dinamico, consentendo di elaborare vissuti e di ripensare le proprie esperienze in una nuova chiave. Nel campo si alimentano storie, miti e fantasie condivise, personaggi e avventure: il conduttore deve facilitare la trasformazione di questi racconti, aiutando il gruppo a passare da una narrazione chiusa e rigida a una più fluida e aperta al cambiamento, che significa appunto portare le persone a riconoscere il proprio contributo sulla generazione di questo prodotto mentale comune. In questo il gruppo è una risorsa perché in molte situazioni di sofferenza psichica, la capacità di pensare e di dare significato alle esperienze risulta compromessa, e allora è proprio lì che il gruppo comincia a sollecitare e attivare delle funzioni trasformative di supporto, permettendo ai membri di riprendere possesso della propria storia e di costruire nuove rappresentazioni di sé e dell’altro.
Il gruppo funge da matrice trans-soggettiva e attraverso il lavoro sul campo trans-soggettivo, sulle alleanze inconsce e sulle risonanze affettive, il gruppo diventa un luogo in cui è possibile ricostruire il sé e sperimentare, anche nel concreto, nuove forme di relazione. Restando nel concreto, il gruppo dovrebbe poter consentire di:
· Rivedere il proprio funzionamento psichico attraverso le interazioni con gli altri membri.
· Sperimentare nuove modalità relazionali rispetto a quelle apprese nei contesti disfunzionali (ad es. relazioni violente).
· Simbolizzare e narrare il trauma in uno spazio narrativo collettivo che ne facilita la rielaborazione.
· Riconoscere e trasformare le alleanze inconsce che possono perpetuare il disagio o favorire la crescita.
A livello di setting, il gruppo dovrebbe allora essere organizzato come uno spazio che faciliti l'elaborazione dell’esperienza emotiva e l’emergere dei processi inconsci, potendo assumere una struttura adeguatamente orientata:
· Numero di partecipanti, abbastanza eterogeneo e non eccessivamente numeroso. Ideale tra 6 e 10 persone, per mantenere una dinamica gestibile e garantire la possibilità di interazione.
· Sedute regolari, settimanali (eventualmente anche bisettimanali), per garantire la continuità e regolarità dello spazio analitico assurgendo a presenza affidabile.
· Alcune regole di base dovrebbero essere anteposte, quali il non-giudizio, l’assenza di censura, e come già detto il divieto di azioni violente o minacciose.
· Presenza di un clinico conduttore, eventualmente supportato da un osservatore. Il clinico non agisce come un esterno, ma entra a far parte del campo transferale del gruppo. La sua funzione è quella di stimolare la dinamica emotiva e simbolica attraverso una partecipazione attiva, rendendo possibile un’interazione che favorisca la trasformazione del vissuto. Il suo ruolo lo pone naturalmente in una posizione terza (non è uno dei pazienti), e proprio per questo deve essere in grado di muoversi all’interno dei nuclei complessi di dolore e sofferenza, sperimentandoli in prima persona per poterne riconoscere le dinamiche emergenti nel campo. È a partire da questa posizione che può offrire spunti interpretativi in grado di sollecitare i membri del gruppo a riflettere e rielaborare simbolicamente le proprie esperienze. In questo senso, diventa prezioso l’invito di Ferro a non limitarsi a decifrare il transfert del gruppo, ma a interagire dentro il transfert stesso, permettendo così che il processo evolutivo si sviluppi nella co-costruzione di nuovi significati e narrazioni condivise. Il terapeuta deve incoraggiare un processo che favorisca la tolleranza e la trasformazione dei vissuti emotivi e psichici, aiutando i partecipanti a rimanere dentro l’esperienza senza esserne sopraffatti, per poi costruire insieme nuove forme di relazione.
Riflessione clinica1: Gli assunti di base di Bion descrivono le dinamiche inconsce di gruppo che emergono come risposte difensive primitive all’angoscia, e non sono direttamente sovrapponibili alle relazioni di coppia o alle strutture individuali. Tuttavia, in un'ottica post-bioniana e teoricamente aperta, è del tutto coerente pensare alla mentalità di coppia e a quella gruppale come un campo. Gli assunti di base possono essere intesi come espressioni primitive del campo violento stesso, che agisce per proteggere sé stesso dall’elaborazione del trauma, della perdita, della separazione. Nel lavoro clinico, riconoscere l’assunto di base dominante può aiutare a:
· Anzitutto decentrarsi dalla lettura duale vittima/aggressore;
· Sintonizzarsi, comprendere e intervenire sul campo fantasmatico condiviso;
· Comprendere perché certe dinamiche resistano alla trasformazione.
Proponiamo anche la possibilità di tracciare una associazione tra l’idealtipo del campo relazionale violento e l’assunto di base tipicamente prevalente:
· Ipnotico–manipolatore: l’assunto di base attivo è di accoppiamento caratterizzando i processi di fascinazione, idealizzazione, collusione narcisistica, e i legami vengono vissuti come unici e salvifici, investendo i partecipanti ad esempio dell’illusione che il gruppo salverà tutto. Il gruppo si potrebbe organizzare intorno a una “diade ideale” (es. coppia salvifica, o gruppo-conduttore), vissuta come spazio magico, puro, in grado di mondare il dolore, o addirittura i mali del mondo. Si può respirare un clima seduttivo, estetizzato, euforico. E in questo clima, il clinico rischia di essere sedotto dalle appaganti fantasie di idealizzazione del conduttore o di alcuni membri, smarrendo però al contempo la capacità di pensare in gruppo.
· Evacuativo–caotico: l’assunto di base attivo è di attacco–fuga, con proiezioni persecutorie, acting-out, impulsività sparsa. Il campo risulta così instabile e frammentato e il setting sotto continui attacchi. I membri si alternano nel ruolo di persecutore e vittima, cercando di fuggire o distruggere l’altro (e se stessi) per contenere l’angoscia. Il gruppo diventa un sistema di scarica emotiva, che può esprimersi con attacchi verbali, schieramenti e scissioni violente tra fazioni, confusione identitaria, arrivando anche a smarrire l’organizzazione terapeutica del gruppo. Il dolore non viene pensato ma agito e la ricerca del nemico configura alleanze persecutorie e un clima di tensione e diffidenza che rende impossibile non solo l’elaborazione ma proprio il contatto con i vissuti. In questo clima può essere alto il rischio di controtransfert violenti nel conduttore.
· Mortifero–fusionale: l’assunto di base attivo è di dipendenza caratterizzata da movimenti regressivi, congelamento, negazione/diniego, scissione anaclitica. Partecipare al campo comporta vissuti claustrofobici e lo spazio mentale viene sperimentato come paralizzato in una dimensione di chiusura all’esperienza “altra”: ogni pensiero autonomo può essere vissuto come un implicito tradimento. Il gruppo si chiude in un silenzio denso, rassegnato, in cui il dolore è paralizzato, e ogni elemento trasformativo è vissuto come minaccia alla stabilità. Coagula silenziosa una mistica sinistra, sintonizzata sulla apatia, rigidità e collusione depressiva. Il conduttore è vissuto come “salvatore impotente” o un “persecutore emotivo” che punzecchia il gruppo pretendendo che diventi diverso, volendolo esporre alla complessità e alla turbolenza, quando questi vorrebbe semplicemente una pace silenziosa, il vuoto.
Riflessione clinica2: assumendo la teoria del campo come dimensione psichica condivisa e dinamica, è necessario interrogarsi su un punto essenziale: quale margine di agency conserva il soggetto quando è immerso in un campo dominante o patologico? E, ancora, come si articola la responsabilità psichica dell’individuo rispetto agli esiti collusivi del campo stesso?
La soggettività non è da intendersi come una sostanza autonoma, ma come una configurazione transitoria e plastica, che si struttura nella relazione, attraverso continui scambi di elementi del profondo, da quelli proto-emotivi, al gioco delle identificazioni proiettive (e transidentificazioni proiettive), reverie condivise, trasformazioni in O, stati ipnotici, “preoccupazioni materne primarie” sino ad arrivare a considerare anche le percezioni extra-sensoriali: questi elementi alimentano una sostanza di vissuto e spingono a attivare funzioni di simbolizzazioni su specifiche direzioni di senso, costituendo quella che Grotstein (2009) definisce “lingua franca”: elementi comunicativi universali, arcaici e decisamente preverbali e presimbolici, che permettono alla mentalità inconscia (di due soggetti in relazione) di comunicare al di là delle parole e codici espressivi culturalmente convenzionali; questa lingua universale si costituisce originariamente nello spazio intrauterino e nella fase precoce della relazione tra lattanti e madri e può essere sperimentabile successivamente ad esempio negli stati di reverie.
Pur considerando questa ampissima plasticità, esistono gradi diversi di funzione riflessiva, ossia di capacità simbolizzante che il soggetto può mantenere o recuperare rispetto al campo. La funzione di reverie non viene quindi considerata prerogativa esclusiva del campo, ma può essere temporaneamente e a turno “delegata” o “coincidere” massicciamente con la funzione mentale di uno dei partecipanti, o del terapeuta in un setting analitico. È in questa oscillazione che possiamo collocare la possibilità per il soggetto di pensare il campo, o almeno di riconoscerne l’effetto: qui si colloca l’embrione di una “agency trasformativa”. Seguendo Bion (in particolare in “Apprendere dall’esperienza”, 1962), si potrebbe dire che la funzione alfa del campo si intreccia con quella del soggetto, e che la patologia emerge quando nessun elemento della diade (o del gruppo) è in grado di elaborare gli elementi beta, creando accatastamenti di materiale intrattabile e contrapposto al contatto con l’esperienza: in questi casi, la responsabilità psichica non consiste nell’aver voluto la violenza o il collasso, ma nel grado in cui si è (ancora!) capaci di tollerare l’esperienza emotiva e di rimettere in moto un processo di simbolizzazione. Pertanto, consideriamo l’agency psichica all’interno di un campo patologico non data dalla capacità di “fuori uscire” dal campo, di “liberarsi” (in quanto a questo punto comunque il campo sarebbe nel soggetto quanto il soggetto sarebbe nel campo), ma dalla possibilità di introdurre in esso uno scarto simbolico, anche minimo, che possa interrompere un processo circolare e chiuso fondato sulla coazione alla ripetizione. Tale agency è quindi graduale, situata, e spesso agita in forma implicita: può esprimersi in una reverie, in un “sogno ad occhi aperti”, in un atto terapeutico di parola, o persino in una resistenza.
Questa breve riflessione ci consente di pensare la soggettività non come entità separata e separabile dal campo, magari barricabile dentro il confine “individuo” (confine tanto caro al sistema intellettuale e istituzionale che gestisce le questioni e gli interventi legati alla violenza nelle relazioni intime), ma come funzione emergente, sottoposta magari a deformazioni ma mai annullabile, e che in alcune condizioni può attivare e riattivare processi trasformativi.
In ultima analisi, in questa impostazione si tratta di adottare la visione di una funzione etica del pensiero, che non si esercita nel controllo della realtà, ma nella sua metabolizzazione condivisa. E in questo si segna una netta separazione epistemologica e clinica dall’approccio cognitivista classico.
CONSIDERAZIONI ETICHE
Ogni intervento clinico che si misura con le dinamiche violente nelle relazioni intime implica, ancor prima di focalizzarsi sull’efficacia della sua azione terapeutica, una precisa presa di posizione etica. E quindi è doveroso esprimerla. Il riferimento etico non è qui riferibile ad una griglia normativa esterna che regola ciò che è permesso e ciò che è vietato, ciò che è reato e ciò che è diritto, bensì si prova ad assumere una postura epistemica che attribuisce il gesto clinico, sin dalle sue premesse, alla comprensione della funzione relazionale dell’espressione violenta. Dobbiamo quindi rifarci incondizionatamente ad un’etica della complessità, della responsabilità e della consapevolezza del non sapere (la cosiddetta “capacità negativa”), che riconosce la singolarità dei soggetti e l’opacità e l’ambivalenza costitutiva dei legami affettivi.
Nel paradigma che informa questa proposta di intervento, ispirato ad una posizione post-moderna della psicoanalisi e alla prospettiva intersoggettiva, il fenomeno della violenza non è trattato come un dato evidente, come un combinato di azioni fisiche, immediatamente classificabili, né come una patologia circoscrivibile tout court ad uno dei due membri della relazione. Si vuole comprendere la violenza come un’espressione di una modalità relazionale che alimenta una sofferenza psichica che stanzia non trasformata, un prodotto complesso e pericoloso del fallimento della funzione elaborativa del campo mentale condiviso co-generato.
Assumendo questa prospettiva, l’etica dell’intervento non può essere fondata sulla dicotomia vittima/persecutore come principio assoluto e immutabile, ma si fonda sul rispetto radicale dell’esperienza soggettiva<->intersoggettiva e sulla responsabilità di accogliere senza pregiudizio i vissuti sperimentati e narrati dai partecipanti alla relazione. Non si tratta di negare l’asimmetria che in molti casi caratterizza la violenza agita (fisica, psicologica, e tutte le possibili sfumature e collocazioni) né tantomeno di rimuovere il dovere sociale di protezione verso soggetti soccombenti agli attacchi di un partner. Piuttosto, si tratta di rifiutare l’automatismo giudicante che tende a cristallizzare i ruoli (tanto più se questi vengono automaticamente attribuiti attraverso il genere), impedendo l’accesso alla complessità trasformativa del legame e delle sue derive.
L’operatore clinico, in questa prospettiva, non si pone come terzo neutrale che osserva da una distanza immunizzante, ma come partecipante consapevole di essere coinvolto in un campo (e che anzi lo considera proprio come un terzo partecipe) e che assume su di sé la responsabilità di accogliere le proiezioni, le angosce, le scissioni che emergono nella scena terapeutica, per trasformarle in possibilità di pensiero condiviso nuovo. La sua etica è quindi un'etica del contenimento, della simbolizzazione trasformativa, dell'apertura a ciò che non si lascia ridurre. Non è guidata da un codice prescrittivo, ma da una tensione (o, se si preferisce, pulsione) alla verità relazionale; una verità che non è oggettiva, ma generativa, che si costruisce nella coesistenza degli affetti vissuti e delle narrazioni emozionate che ne derivano.
Proprio per questo, l’etica di questo modello esige una vigilanza costante rispetto alla seduzione delle semplificazioni: il rischio di scivolare nella logica binaria del colpevole e dell’innocente, dell’aggressore e della vittima, è sempre in agguato, soprattutto in territori mentali così intrinsecamente intrisi di dolore, colpa e vergogna. L’etica dell’intervento, dunque, anzitutto consiste nel resistere a questa semplificazione, pur mantenendo ferma la necessità di porre limiti al comportamento distruttivo. È un’etica che richiama la capacità di distinguere senza scindere, di riconoscere la sofferenza senza cancellare la responsabilità, di proteggere senza infantilizzare. Tuttavia, proprio in virtù della sua complessità, questo approccio potrebbe essere frainteso, da una prospettiva più normativa o comportamentale, come una forma di relativismo etico o di neutralizzazione della responsabilità soggettiva. È allora essenziale chiarire che l’etica della complessità non implica la sospensione dell’intervento, ma piuttosto una sua sospensione temporanea nella fase del pensiero, affinché l’azione sia orientata non dalla reazione, bensì da una comprensione trasformativa. In tale prospettiva, il compito etico del clinico non è evitare il giudizio, ma renderlo pensabile, stratificato, collocato nel tempo e restituire una temporalità del campo. In questa direzione, è utile richiamare il concetto bioniano di attacco al legame: vi sono campi relazionali che si organizzano attorno alla distruzione sistematica delle funzioni mentali trasformative (simbolizzazione, rappresentazione, continuità temporale) in una vera e propria guerra al pensiero. In tali situazioni, la responsabilità dell’intervento clinico si configura anche come un atto di rottura dell’assetto difensivo del campo, come gesto che interrompe la coazione ripetitiva e riattiva, fosse anche traumaticamente, le funzioni mentali degradate. Questo atto è esso stesso un gesto etico: non giuridico, ma clinicamente necessario, poiché solo un’azione che nasce dalla comprensione profonda del campo può restituire un accesso alla trasformazione.
Ma soprattutto, questa proposta si fonda su un’etica della cura che si oppone alla medicalizzazione difensiva o alla gestione emergenziale del disagio o alla collusione della psicologia con la logica giuridico-normativa: le pratiche di valutazione del danno o del rischio non devono confondersi con la cura. Ci si radica piuttosto nella fiducia che anche nei campi relazionali più saturi, più disidratati e ossificati, più refrattari alla trasformazione, possa esistere un varco (per quanto angusto e complicato) verso una narrazione nuova, verso un senso che non era stato ancora evocato, verso un vertice narrativo che non era stato ancora scoperto e sviluppato. E consideriamo che stia proprio in quella soglia impercettibile tra ciò che si ripete senza futuro e ciò che può mutare per disciogliere il futuro che il lavoro clinico trova la sua verità più profonda e il suo mandato più alto.