Sulle ali di Iride

Proviamo ad esaminare brevemente un particolare linguaggio narrativo, quello filmico: un pretesto per esplorare il territorio, propriamente psicologico, del linguaggio quale veicolo espressivo-rappresentativo, cogliendo l’occasione del discorso filmico per sottolineare la diversità tra linguaggio e lingua, differenza che narrativamente acquisisce un rilevante valore a livello di analisi e di interpretazione. Nel cinema, come in altri linguaggi espressivo-rappresentativi le rappresentazioni narrative acquistano significato dal gioco di identificazioni e proiezioni dello spettatore: “Il cinema rappresenta, cioè fa presente qualcosa che è assente, sostituisce, raffigura: chiama in causa una funzione vicaria dove x sta per y […] Il tipo di mondo cui il film da consistenza è un mondo <<possibile>>[1], nel quale lo spettatore si identifica scoprendo e riconoscendo le rappresentazioni del suo mondo interno. La nostra mente lavora in modo analogo, ad esempio nella costruzione di un sogno. Il cinema è, per il suo linguaggio di immagini e per la prevalenza dell’azione e del gesto sulla parola, un medium privilegiato per avvicinarsi al mondo istintuale”[2]. Il cinema nasce come particolare deriva fotografica (evolvendo da questa attraverso il montaggio; originariamente il cosiddetto micromontaggio, cioè il montaggio di fotogrammi), ma nel suo esistere attraversa (e al tempo stesso ne è crocevia) un’ampissima quantità di linguaggi, in modo così complesso, da poterlo ritenere, più che un linguaggio definito, un meta-linguaggio definibile. Se il filmico si compone partendo dal segno grafico, esso è allora, e prima di tutto, un discorso dell’immagine. L’immagine è un simbolo, ma un simbolo molto prossimo alla realtà sensibile che lo rappresenta: e facendo un primo confronto tra immagine e parola possiamo osservare che quest’ultima è, per così dire, un simbolo indiretto, elaborato dalla ragione, reso concetto, oltre che oggetto. La fotogenia è la qualità che mediante una trascrizione meccanica (cinematografica o fotografica) produce in un’immagine un effetto superiore, rispetto all’effetto dell’immagine naturale, della materia che diviene “effetti della luce”, quell’identità da fantasma del reale. L’immagine, derivata da una immaginazione, che l’ha scritta, può diventare elemento dell’immaginario, a patto della sua riduzione a segno, della sua trasfigurazione entro un linguaggio, riportarla cioè dentro un codice condiviso[3]: tuttavia ogni immagine cinematica, nell’atto di enunciare una linea narrativa, esprime una deviazione ed eccedenza da quell’ordine informativo, che lavora e si sposta nel profondo, nell’informe e lavico territorio del significato. L’immagine di luce narra (attraverso il linguaggio) allo stesso tempo in cui mostra (nella sua dimensione iconografica). Metz propone una precisazione interessante: il cinema non è una lingua, poiché questa è un insieme di segni destinato alla interlocuzione, mentre il cinema in quanto tale non si cura di chi ha di fronte, dunque è giusto ritenere il cinema una forma d’espressione e non una forma di comunicazione (anche se può comunque diventarla); di più, in ogni opera d’arte il mondo rappresentativo non costituisce mai l’essenziale artistico di ciò che l’autore voleva dire[4]. Si può affermare che in una immagine si ritrovano tanti linguaggi quanti legami significanti-significato vi abitano: l’espressione è quel particolare legame intrinseco tra significante e significato. Allora qui si può anche portare l’idea che in tal senso è impossibile tradurre ogni qual tipo d’espressione, senza ritenere tale traduzione essa stessa espressione, nella sua incisiva funzione riscrittiva. Avviene anche cinematograficamente: il passaggio da un linguaggio all’altro (ad esempio dalla immagine alla musica) non può mai ritenersi una traduzione, semmai un adattamento, un proseguimento non già di un mitologico senso originario, bensì di un’armonia colta e generata dal suo ri-scrittore. Sergio Leone girava dopo che Ennio Morricone aveva composto la musica per quella scena, poiché utilizzava le musiche direttamente in ripresa, scrivendo l’immagine dentro questi “tempi musicali”, ma a sua volta Morricone componeva dopo aver letto i testi di sceneggiatura: chiaramente i due autori non si traducevano, ma si adattavano, si continuavano. Nell’espressione l’uomo è sia portatore che recettore di senso che manifesta nel suo modo d’essere e di relazionarsi al mondo.

Torniamo all’immagine. Il fotogramma, non inteso come atomo cinematografico, bensì come spazio di un linguaggio che attraversa, semmai, dentro uno spazio meta-linguistico, quello cinematografico, è un’unità attraversata a sua volta da diversi linguaggi (per esempio…): possiamo riconoscere il linguaggio della profondità di campo, col suo rapporto tra figura e sfondo (un oggetto circondando da uno sfondo fortemente sfocato, sarà un oggetto circoscritto da un alone, un’atmosfera, nuvolose presenze di colori informi, emozioni in cerca dell’oggetto, mentre un oggetto con un’alta profondità di campo sarà un “oggetto tra oggetti”, e il rapporto di figura-sfondo sarà legato all’oggetto messo a fuoco, per selezione, dall’osservatore); il linguaggio del colore, per il quale “un rosso non è un generico rosso”, e al limite un rosso pastello potrebbe facilmente risultare più affine, nell’insieme dell’inquadratura, ad un verde pastello che non ad un rosso metallico; il linguaggio dell’obiettivo, per cui un grandangolo, con la sua esplosione deformante dello spazio, è notevolmente diverso dall’appiattimento “elegante” di un teleobiettivo (e non è solo un fatto di diverso angolo di campo…); il linguaggio della luce, per cui la sorgente luminosa taglia e costruisce nel suo incontro con la figura l’essenza poetica e spirituale dell’immagine; il linguaggio del tempo di scatto, capace di rappresentare il movimento (seguendo una ricerca espressiva che dalla pittura, nei secoli, con diversi risultati stilistici – un esempio può essere il dinamismo a fasi del futurismo, ma anche il cubismo picassiano, intendibile come ritorno geometrico del movimento esplorativo dell’artista attorno l’oggetto, senza dimenticare in questi pochi esempi le ricerche più classiche, come le “torsioni plastiche” proposte dal Tintoretto per evocare il movimento, ecc – arriva alla fotografia) dell’oggetto, piuttosto che del fotografo attorno l’oggetto, piuttosto che reciproco; il linguaggio della composizione, ecc. Tuttavia questo assai nutrito insieme di linguaggi si trova dentro l’inquadratura, quindi tutto ciò è, in questo incontro, concluso in sé, in un complesso meta-linguistico di relazioni tra linguaggi; ogni elemento che entra nella inquadratura è caratterizzato semanticamente dal tutto dell’inquadratura e ogni elemento da senso al tutto attraverso la correlazione delle loro differenze: lì, dunque, dentro tale unità la differenza linguistica attribuisce e completa (e non sottrae!) significati, e ogni inquadratura differenzia e significa i suoi elementi costituendoli, costruendo un ordine rappresentativo ed uno specifico significato[5]. Montesarchio nota che “ in un certo senso nelle narrazioni per immagini (fotografia, fumetto, cinema) l’assunzione del <<punto di vista>> coincide, in parte, con la scelta delle caratteristiche utili ad organizzare un discorso che è rappresentata dal taglio e dall’inquadratura”[6]. Ma il cinema ha, sin dai suoi albori, un linguaggio in più rispetto alla fotografia, altamente significativo: il montaggio. Il montaggio da un punto di vista semantico è un’azione fondamentale: si potrebbe analizzare attraverso qualunque linguaggio espressivo e solo per comodità esemplificativa ho qui selezionato quello filmico. Il montaggio concettualmente è quella particolare azione attraverso la quale s’effettua una concatenazione spazio-temporale degli elementi: è il supporto fondamentale col quale si individua una unità, a più e più livelli, anzi si potrebbe sottolineare come nel costruire attraverso i legami una unità, il montaggio costruisca allo stesso tempo una continuità. Oltre al già citato micromontaggio, ossia la messa in sequenza di fotogrammi, ad esempio esiste un montaggio detto inquadratura di montaggio, ossia la scena, i “pezzi” del collage, pezzi detti piano sequenza ai quali questo montaggio dona un’unità semantica, tale da renderli cinefrasi. La cinefrase tecnicamente viene costruita raggruppando determinate inquadrature in base al movimento dei piani e delle angolazioni unificato dai movimenti accentuati dell’azione. Il cineperiodo è a sua volta quell’unità formata dal montaggio di cinefrasi, concepito come una parte conclusa in sé e, come fa notare Ejchenbaum, comprende semanticamente anche spazi e tempi non mostrati, intervalli invisibili che sono costruiti dal “discorso interiore”, cioè dalla possibilità di poter collegare gli elementi: la narrazione filmica, intesa come espressione, sollecita significative associazioni facendo emergere un discorso continuativo, pur essendo questo narrato, attraverso salti temporali, le scene[7]. Questa capacità intuitiva che dà continuità ed unità alle parti si manifesta anche nello spettatore: dunque dal tempo espressivo-narrativo si può passare al “tempo dello spettatore”. Tuttavia il primo spettatore di tale espressività è lo stesso esprimente: anzi sarà lui per primo che necessariamente nell’ascoltare la propria espressione agirà, con un “ritorno espressivo”, una narrazione per costruire una coerenza, facendo ricorso al “buon montaggio” (dove buono sta per efficace: e da qui si potrebbe sottolineare come dall’espressività l’uomo tenda alla comunicazione…) nella ricerca di una unità, servendosi abilmente per questo scopo anche di se stesso come “funzione dell’altro”. L’espressione, intesa come processo in fieri, si nutre incessantemente di elementi contestuali e relazionali, scrivendosi in questi e attraverso questi, inserendo tra questi anche quelli che in termini molto ampi possiamo definire le esperienze del Sé: quella funzione linguistico-espressiva che Schafer chiama persona[8] ,ossia l’unità narrante.

Ho cercato di fare accenno al cinema come esempio di espressione complessa di linguaggi. Inoltre ho cercato di far emergere come tale espressività sia condizionata non solo dai linguaggi stessi, ma anche dalla rincorsa di un’unità, leggibile solo in piccola parte (o per meglio dire riscrivibile immediatamente dentro una unità di “lettura attiva”) nel momento stesso in cui è svolta dall’autore: restando nel cinema, Antonioni amava affermare che solo quando aveva finito “di girare” poteva cominciare a comprendere ciò aveva girato. Provando ad abbozzare una conclusione semplice, su un discorso complesso (per di più qui svolto anche in un maniera grossolana): il confine dell’espressione decade, in un modo o nell’altro (o – con un gioco di parole – in un modo e nell’altro!), attraverso la sua continuazione processuale verso il fine (oserei dire inconscio) dell’espressione stessa. Tuttavia si potrebbe affermare anche il contrario, cioè che il fine decade attraverso il confine, poiché è quest’ultimo che spicca e che resta come presenza. Evidentemente stiamo dentro due livelli dell’esperienza espressiva: il confine ed il fine, mutuamente funzionali.

[1] Il racconto non solo raccoglie metafore (meta-ferein = tras-ferire) ma è anche esso stesso metafora, nell’azione di connettere spazi e tempi, in senso costruttivistico: ogni racconto storico è un racconto probabile, non molto dissimile dal racconto inventato, che mantiene comunque una forte presenza di verità, poiché ogni racconto storico per essere valido deve essere verosimile, cioè essere vero rispetto a, capace di assumere una forma rispetto ad un senso. In questo il contesto è… formante!

[2] T. Corsi Piacentini, L. Crevenna, A. Disabituo, B. Morchio, Affetti e rappresentazioni nel cinema, in Setting: quaderni dell’associazione di studi psicoanalitici, n°1, p. 97-101

[3] T. Pomilio, Non si evade dall’iride, in L’illuminista, 10-11

[4] C. Metz (1989), Semiologia del cinema

[5] J. Tinjanov (1927), Le basi del cinema, in I formalisti russi nel cinema, 1971

[6] G. Montesarchio (1998), Colloquio da manuale, p. 122

[7] B. Ejchenbaum (1971), I problemi dello stile cinematografico, in I formalisti russi nel cinema, 1971

[8] R. Schafer (1992), Retelling a life, trad. it. Rinarrare una vita, 1999