Sull'innovazione

INNOVAZIONE, PER UNA PROSPETTIVA DI SVILUPPO

L’innovazione non è emanazione della tecnica, ma un modello di rapporto

Innovazione e Crescita rappresentano un binomio fondamentale per la vitalità dei sistemi aziendali. A questo binomio dagli anni ’50 in poi ha fatto sempre più eco l’elemento Tecnologia, cosicché il riferimento dell’innovazione ha iniziato ad accostarsi quasi simultaneamente a quello della tecnologia. Arrivando ai decenni più recenti, con l’ampliarsi della complessità dei rapporti d’affari e dei modelli sociali, si è poi decisamente integrato al binomio innovazione-crescita, oltre alla tecnologia, anche l’elemento Organizzazione. Siamo oggi quindi confrontati con un modo di intendere l’innovazione che non si esaurisce più soltanto nella “concretezza” della materia tecnologica, ma richiama fortemente una tensione orientativa organica, per cui crescita e sviluppo divengono dei modi di essere e di funzionare delle aziende, e più in generale dei “sistemi organizzativi”.

Da un lato, dunque, l’innovazione si connota come una visione aziendale ed una scelta organizzativa dell’imprenditore: la proposta schumpeteriana dell’imprenditore innovativo, che insegue, al pari di un comandante di ventura, terre inesplorate per mari agitati, rappresenta storicamente il primo e più significativo tentativo di fondare un’economia basata sull’innovazione, provando a spiegare così i cicli di espansione, recessione, depressione e ripresa, secondo l’ordine di un dinamismo di economie legate al potere di penetrazione e attivazione nei mercati dei prodotti innovativi (finché appunto restano tali), quindi secondo un movimento fasico “ad onde”, ovvero secondo un inizio, un plateau ed una fine “esauriente”. Per Schumpeter, il rilancio continuo ed il ricambio d’innovazione, erano intese fondamentali premesse al mercato ed alla stessa imprenditorialità.

Da un altro lato, le riflessioni sulle innovazioni portano in epoche più recenti Nelson (1993) a sottolineare invece come l’innovazione non sia solamente un fattore legato ai singoli imprenditori, ma anche una condizione di sistema: non può perseguirsi con successo un’impresa di innovazione, se non si opera in un sistema sociale orientato esso stesso all’innovazione, quindi interessato, promuovente e facilitante le novità ed i cambiamenti. Nelle attività innovative si uniscono e si sviluppano conoscenze e processi di apprendimento, competenze per utilizzare tecnologie esistenti e adottarne di nuove, capacità e risorse per introdurre nuovi processi produttivi e realizzare nuovi prodotti capaci di affermarsi sui mercati. In questo percorso si intrecciano competenze individuali, aspetti strutturali e comportamentali di imprese e di organizzazioni pubbliche (Università, Centri di Ricerca, Soggetti Governativi) in forme differenziate a seconda delle tecnologie, dei settori produttivi, dei contesti economici e istituzionali. Tali caratteristiche rendono l’innovazione un fenomeno complesso, con molteplici aspetti – tecnologici, economici, aziendali, organizzativi, legali, sociali, politici. Si tratta per sua natura di un fenomeno dinamico, caratterizzato da cambiamenti di lungo periodo, con effetti profondi sull’evoluzione dell’economia e della società.

Per comprendere la complessità della innovazione c’è bisogno di assumere un solido quadro concettuale. E si è sempre più consapevoli oggi di quanto l’innovazione non sia solo l’“Eureka fortunato” di un qualche Archimede, ma un riferimento culturale che identifica un modo di essere e di finalizzarsi. Ed così per i sistemi sociali, quanto per singole aziende che vi partecipano: “Innovare” va allora inevitabilmente a coincidere con alcuni determinanti culturali, ed in maniera talmente aderente che la sua definizione e le azioni di perseguimento sovente evidenziano uno slittamento dai rimandi del mero profitto e prescindono addirittura il successo.

Innovare è culturalmente inquadrabile come: Stimolo alla conoscenza, apertura, fiducia nella proceduralità orizzontale e razionalità comunicativa (Habermas, 2005), tensione verso la complessità ed il dinamismo, così come verso lo sviluppo, il cambiamento, il miglioramento, seguendo (o inseguendo) però un ordine etico che si rifà ai valori dello scambio, della cooperazione e del “potere a somma diversa da zero”.

E’ così connotante la determinazione culturale che anche i fattori produttivi dell’innovazione per le aziende possono essere essenzialmente riconosciute nel loro carattere immateriale:

- La conoscenza, il fondamento indispensabile di ogni circuito innovativo, che non sia solo volto al cieco cambiamento: la caratteristiche della conoscenza è di avere un basso livello di appropriabiltà ed un elevato grado di trasferibilità (Arrow, 1962). La conoscenza rappresenta un bene in sé, non gratuito, seppur ampiamente disponibile, che difficilmente può essere sistematizzato a livello produttivo, poiché non porta intrinsecamente garanzie di utilizzo, e meno ancora di riuscita, né si possono preventivare i tempi necessari per rendere possibile un suo inserimento produttivo. Per questo motivo, se si considera la conoscenza come un bene produttivo, l’investimento in conoscenza ha in sé dei rischi, anche alti. Tuttavia, la conoscenza e la buona intuizione creatrice restano comunque gli elementi produttivi che, per quanto estremamente instabili ed imprevedibili, mantengono un valore produttivo potenzialmente insuperabile.

- Il capitale umano: l’azienda è anche un modo per organizzare e finalizzare rapporti (l’organizzazione, appunto, secondo l’ottica di Simon). In un’epoca di avvicendevoli cambiamenti, l’investimento sulle conoscenze e l’acquisizione costante di competenze, diventano elementi individuali indispensabili al presupposto stesso dell’appartenenza aziendale e della partecipazione al lavoro di impresa: nella reciprocità dei contributi, ognuno deve essere in grado di offrire il suo apporto in coerenza e sintonia alla ricerca di risposta adattiva ottimale che l’azienda tenta di dare ai cambiamenti del suo ambiente.

- La cultura organizzativa: seguendo la prospettiva di Schein, affinché l’innovazione emerga e sia rappresentata da un prodotto manufatto, bisogna che sia riconoscibile come unità culturale a livello di valori e di assunti di base. Deve cioè esserci un elevato investimento ed accordo nello sfondo dello stare insieme organizzativo, tale per cui si organizza una visione omogenea e profonda, con una buona integrazione interna ed un efficace adattamento con l’esterno. E’ chiaro che tanto più la cultura di innovazione è carattere di un sistema sociale, tanto più è probabile ritrovarla nelle culture organizzative che abitano quello stesso sistema sociale.

- Le regole di sistema: esistono infine, in un intreccio con le istanze culturali più profonde, elementi strutturali che si delineano nei vari ambiti dei regolamenti vigenti all’interno di un territorio, e che corrispondono alle forme dei caratteri politici e delle modalità amministrative espresse da un territorio.

Da questa revisione di premessa emerge alla riflessione che le organizzazioni per perseguire e sostenere innovazione dovrebbero essere sollecitate, con leve poste a vari livelli e mosse su azioni dirette, quando indirette (facilitazioni), a funzionare come sistemi aperti, quindi con ampi scambi orizzontali e in un clima di cooperazione intra e intersistemica, poiché nessuna azienda può innovarsi ed innovare in maniera isolata: nessuna azienda può funzionare in modo “autarchico” e di contro nessuna azienda ha a disposizione tutti i requisiti e le risorse indispensabili per sapere individuare le nuove opportunità e cogliere immediatamente le modalità più appropriate per perfezionare innovazione. Allo stesso tempo il paradigma Fordista di gestione organizzativa, con la sua enfasi cieca sulla produttività, attraverso la ipersuddivisione del lavoro e l’alta standardizzazione, ripetitività e sovradeterminazione delle attività nella catena di montaggio, ha lasciato il posto a soluzioni pressoché opposte: la valorizzazione e la partecipazione delle persone lavoratrici, con il decentramento del potere decisionale e delle responsabilità, e soprattutto puntando sulle competenze e sulla formazione continua del personale come molla di sviluppo. Le nuove proposte organizzative tuttavia, proprio perché cercano di rispondere agli obiettivi imprenditoriali più contemporanei, che seguono l’aumento di complessità dei sistemi sociali, lavorano e sono esposte a gradi assai più ampi di incertezza ed instabilità. In condizioni simili l’impegno all’agire virtuoso e competente è prerogativa indispensabile, così come saper cogliere ed intessere rapporti di business, ma anche di scambio e di costruzione di collaborazioni con i vari stakeholders (e quindi un gruppo ben più ampio, che non solo i clienti e fornitori), ovvero i soggetti senza i quali l’azienda non potrebbe sopravvivere (Freeman, 1984).

Nella pratica quindi si realizza sovente un modo di intendere l’innovazione. In contrapposizione all’ampio livello di complessità e della gestione “in concerto” di numerose variabili (che fin qui abbiamo sottolineato), l’innovazione è più spesso declinata e realizzata secondo una interpretazione “mainstream” ed attraverso interventi parziali, che producono non di rado fallimenti, o perlomeno confusione organizzativa e peggioramenti di gestione dei processi, delle performance e dei risultati. Di conseguenza si avvera una certa diffidenza verso l’innovazione e si sviluppano tutta una serie di “resistenze al cambiamento”, timori ed ambivalenze verso ciò che è nuovo. Il nuovo e l’innovazione, se identificate (come tra l’altro avviene più di frequente!) con singoli elementi, ad esempio una specifica tecnologia, piuttosto che uno specifico modello o postulato manageriale, acquisiscono in sé il valore di potere (verticalmente alto) e non di processo (orizzontalmente da integrare): avviene che la tecnica di gestione e/o l’elemento tecnologico finiscano per dettare le forme organizzative, come soluzioni e stratagemmi calati dall’alto, come se fossero validi in sé, indiscutibilmente. Se si va con la memoria agli anni ‘90, ad esempio, si possono ricordare le esperienze degli interventi “chirurgico-ortopedici” di Business Process Reengineering, tesi a introdurre con irruenza radicale le tecnologie ICT, agendo sulle organizzazioni come se queste potessero reinventarsi e riscrivere il proprio sistema di funzionamento, similmente alle tabulae rasae, con speranze di magico miglioramento, per altro possibile, ma più spesso con esiti di definitivo fallimento. Le ragioni dei fallimenti del BPR sono stati affrontati chiaramente nelle revisioni critiche che si sono succedute, ma l’aspetto che ci interessa riprendere in questa sede, riguarda appunto la distanza che passa tra l’innovazione intesa come fiducia nel potere di tecniche o di tecnologie, e l’innovazione intesa invece come una visione generale, entro modelli sistemici, sociali e di processo, di scambi e di rapporto. Nel secondo caso nessuna tecnica o tecnologia può avere senso in sé, ma solo se opportuna ed integrabile con i processi organizzativi e adeguata al modo d’essere e di funzionare organizzativo in rapporto al sistema in cui è inserito. E’ proprio l’elemento dell’innovatività che propone ed è portatore di una condizione di novità, quindi non conoscibile a priori. La grossolanità dell’accento sulla tecnica/tecnologia, anziché sui processi, sta proprio nel voler bypassare la complessità dell’inevitabile livello esplorativo e di scoperta, passaggio esperienziale di ogni organizzazione che decida di perseguire innovazione: la complessità quindi non può essere intesa nell’introduzione in sé di elementi innovativi, bensì nello sforzo adattivo al cambiamento che l’organizzazione mette in atto come sistema, e che non può essere predefinito a priori. Nella visione che proponiamo, lo sviluppo non può assimilarsi all’adeguamento conformistico ad una tecnica o all’acquisizione di una tecnologia simbolizzati come vincenti, perché comunque forti in sé, quasi fossero investimenti miracolosi, cure correttive e salvifiche, piuttosto che amuleti di sicura fortuna. Al contrario intendiamo con sviluppo la implementazione delle relazioni tra organizzazione e contesto, quindi l’aumento delle capacità produttive, di scambio e di perfezionamento del funzionamento intra e intersistemico azienda/aziende/contesto. Crediamo, altresì, che per intraprendere un passaggio di sviluppo, l’innovazione debba intendersi in definitiva non come un armamentario di strumenti, ma come una condizione. Purtroppo nella pratica, l’innovazione viene proposta sui prodotti (tecniche/tecnologie), presentati come le piante di Panacea e così calati in azienda. Di fatto non esiste nemmeno un modo condiviso di intendere l’innovazione, né modelli esplicativi: questo è un problema di base, per chi propone innovazione e per chi la vuole perseguire (clienti compresi!).

Bisognerebbe di fondo partire dal cercare di recuperare ed innovare il concetto stesso di innovazione, per arrivare a svilupparvi modelli capaci di acquisirvi la portata degli elementi di estraneità inevitabilmente attivati nei processi innovativi, e le ricerche, le domande, le motivazioni sistemiche che predispongono al perseguimento di innovazione (a cui si contrappone la conservazione, che pure ha solidi riferimenti, sociali e culturali) e dei processi di integrazione adattivi-organizzativi all’innovazione. Come sostiene Confindustria “L'innovazione a 360° è un processo di cambiamento culturale profondo, che investe le strategie, la crescita, l'innovazione dei prodotti e dei processi, l'organizzazione e il posizionamento rispetto ai mercati di tutte le imprese, certamente grandi, ma soprattutto piccole e piccolissime, allo scopo di accrescerne la competitività”.

Nel connotare di volta in volta l’innovazione, le unità sistemiche più significative restano sicuramente, alla nostra analisi, le organizzazioni: è difatti nelle organizzazioni che può stabilirsi con grande energia e densità il senso dell’agire relazionale e l’elaborazione costruttivistica dei processi di significazione, secondo un ordine di autonomia molto elevato.

Esistono quindi aziende innovative che si collocano entro uno specifico modo di essere organizzativo, che sistematicamente istituiscono specifiche matrici di simbolizzazione dell’agire, e che a loro volta vengono a legarsi con una specifica tipologia di clienti, i quali sono portatori di altrettanto tipiche e specifiche domande: in sintesi, viene a configurarsi un contesto dell’innovazione, che ha basi culturali e relazionali, e che pertanto conforma topografie che tra loro possono rivelare interessanti profili isomorfici (Mayer e Rowan, 1977). Ma esistono anche aziende che in opposizione potremmo definire conservatrici, e che allo stesso modo rappresentano e sono portatrici di culture e modi di organizzare rapporti e domande di rapporto.

Per innovare non bastano le invenzioni, e non bastano gli individui

C’è un certo rischio nell’applicazione di paradigmi individualistici alle riflessioni sull’innovazione. Precisamente: la tendenza a far coincidere tout court l’innovazione con il genio, o con la trovata geniale. Affinchè i geni inventivi di Leonardo da Vinci potessero trovare una effettiva applicazione pratica si è dovuto aspettare, ed in alcuni casi addirittura secoli. L’idea da sola non basta per determinare innovazione, e questo vale per Leonardo da Vinci, come per qualunque altro inventore. Malgrado sembra importante una buona inventiva ed una buona invenzione, l’innovazione non deve essere quindi inteso come un sinonimo di invenzione: inventare significa concepire per la prima volta un nuovo prodotto o processo; innovare è invece il tentativo di mettere, per la prima volta, in pratica una nuova idea. A volte invenzione ed innovazione sono così legate da rendere difficile una distinzione, come nel biotech. In altri casi, tra le due passa un incredibile intervallo di tempo: questo tempo evidenzia come per mettere in pratica una idea non basta solo l’idea, ma servono condizioni ed intenzioni. Così, anche per il successo di una innovazione, servono condizioni, condizioni articolate nel tempo, in cui non solo si deve avverare la possibilità di diffondere il risultato, ma anche di promuovere una domanda. Inoltre non bisogna scordarsi che invenzioni ed innovazioni sono relativizzate entro incessanti e più o meno rapidi processi di costante mutamento, in cui si avverano innovazioni complementari o alternative. Come sottolineano Kline e Rosenberg (1986) “è un grave errore quello di trattare l’innovazione come una cosa ben definita, che entra nell’economia in un giorno preciso, o che diventa disponibile da un certo momento in poi […]. Le innovazioni più importanti, durante il corso della loro vita attraversano drastici cambiamenti, che a volte possono trasformare totalmente il loro significato economico. I miglioramenti cui viene sottoposta un’invenzione possono avere un valore economico molto più rilevante dell’invenzione stessa nella sua forma originale”. Ciò che si considera una unica innovazione è più spesso il risultato di un lungo processo di innovazioni combinate, non solo come fatto tecnico/tecnologico, ma anche, e soprattutto, culturale: per questo ha più senso un approccio sistemico ai processi innovativi, che non considerare una singola innovazione come un evento analizzabile in modo isolato. Per una distinzione, è utile ricordare la differenza tra innovazione di prodotto e di processo, poiché determina differenza dal punto di vista dell’impatto sociale, soprattutto a livello macroeconomico: la prima ha impatti positivi rispetto ai redditi ed alla produzione, mentre la seconda può avere effetti ambigui a causa della riduzione dei costi che implica (Edquist, Hommen, McKelvey, 2001). Altra distinzione è da farsi tra le innovazioni di processo: le innovazioni tecnologiche di processo, che sono relative alla introduzione di nuovi macchinari; le innovazioni organizzative di processo, che sono nuovi modi di organizzare il lavoro, che possono riguardare i modi interni di un impresa, o i modi di gestire rapporti tra imprese e di settore, nonché tra settori. Si pensi ad esempio che in America, sviluppo importante socioeconomico l’hanno dato modi innovativi di fare distribuzione, con conseguenze radicali su interi gruppi di settori. La natura ed il funzionamento di un settore è molto determinante per le dinamiche e i coefficienti innovativi: questo è stato dimostrato da Nelson e Winter con il loro lavoro “An Evolutionary Theory of Economic Change” (1982), in cui partendo dai principi di Schumpeter ed adottando il concetto di Simon di razionalità limitata, hanno sviluppato il modello delle routine delle pratiche che si stabiliscono entro una memoria organizzativa, e per cui alcune aziende tenderebbero verso atteggiamenti innovativi, mentre altre più imitativi, o ancora conservativi. Ciò che sostengono gli autori è in costrutto una visione della fenomenologia di comportamento non riducibile ai singoli individui, piuttosto inquadrando un meccanismo di funzionamento “simmetrizzante”, per cui moltitudini di individui si troverebbero a funzionare come l’organizzazione a cui appartengono, e le organizzazioni alle loro reti, e così via dicendo. E’ attraverso i rapporti di scambio e di appartenenza che dunque avverrebbe tra gli individui una sorta di assurzione a livelli di funzionamento mentale e comportamentale di ordine superiore, unitario, perseguendo la strada di un accordo/similarità funzionale tra soggetti. L’innovazione è in questo senso un modo di funzionare, che necessita di condivisione tra soggetti. Come scrive Van de Ven (1999): “Malgrado ciò che se ne dica, il viaggio verso l’innovazione è un’impresa collettiva che richiede lo sforzo di molti imprenditori, sia nel pubblico, che nel privato”. Dove impresa collettiva sta per sistema sociale volto allo sviluppo dell’innovazione. Il riferimento ai processi collettivi, sistemico-sociali, è oggi largamente condivisa. Autori come Nelson, Lundvall o Braczyk hanno proposto di adottare, proprio per lo studio dei processi e delle dinamiche dell’innovazione, approcci basati sui sistemi geopolitici, in quanto specifici complessi altamente caratterizzatori dei destini e nature dei fenomeni innovativi. L’enfasi su questa visione sistemica è data dal riconoscimento del ruolo di rilievo che assumono in senso di facilitazione o meno le condizioni normative, culturali e di rapporti di rete tra soggetti imprenditivi, al fine di avverare un’innovazione. In altri termini confini di appartenenza entro cui cooperano persone entro obiettivi, condizioni e regole comuni. E’ importante quindi la struttura di un sistema, ovvero quell’insieme di condizioni che determinano legami: tali condizioni possono permettere al sistema movimenti, o determinarne rigidità, impassibilità. Per l’innovazione il sistema deve avere capacità (autopoieutica!) di movimento, ma anche capacità a cambiare senza disgregarsi nel movimento. Più un sistema è aperto a stimoli esterni, minore è la possibilità che rimanga tagliato fuori da nuove strade per lo sviluppo che si trovano all’esterno. E’ importante quindi che i manager dei sistemi, come di coloro che gestiscono le politiche, tengano sott’occhio gli spazi di apertura di un sistema, per evitare che le attività d’innovazione rimangano intrappolate in condizioni di non espressione. Inoltre, tutto deve combinarsi entro una coerenza di orientamenti, tra nuove tecnologie, fenomenologie sociali e norme, vincoli e opportunità istituzionali. Come afferma pungentemente Morozov, se Steve Jobs non avesse costruito negli Stati Uniti il suo brand, il suo prodotto ed il suo messaggio, probabilmente la portata del suo genio avrebbe di certo potuto assumere volumi meno ampi e guruistici, quindi probabilmente meno “vendibili”; il mito costruito attorno alla tecnologia “buona, bianca, pulita e affascinante” delle Apple, in cui avrebbero modo di realizzarsi e liberarsi, quasi con trascendenza, gli elementi espressivi più prodigiosi dei potenziali di ognuno, è una proposta (e una promessa) estremamente individuo-centrica, che diviene formula vincente se diretta e dedicata ad una mentalità-target di tipo self-made: il successo quindi è dato dal fatto che tale mentalità individualistica è, in realtà, tutt’altro che individuale! In altri termini, è fondamentale una idea o una invenzione, ma per coltivare e confidare in una buona messe, serve un terreno sociale fertile, e serve infine un tempo ed una stagione favorevole magari da gestire con sapienti politiche ed azioni. Prendendo in prestito le parole di Ezio Andreta, Presidente APRE (Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea): “La creatività è una caratteristica importante che permette ai singoli d’immaginare soluzioni nuove ma non è da sola sufficiente a produrre innovazione. E’ la molla, lo stimolo necessario per iniziare un processo complesso che coinvolgendo attori diversi e seguendo percorsi non lineari, permette all’idea di divenire innovazione pero’ solo dove esistono le condizioni propizie alla sua realizzazione. E’ proprio come un fiume carsico che emerge e scorre in superficie solo dove le condizioni morfologiche del terreno lo permettono. Almeno tre sembrano essere oggi, secondo uno studio americano pubblicato da Booz & Company (Beyond borders: The global innovation 1000), le condizioni che permettono al processo innovativo di realizzarsi compiutamente: capacità di produrre eccellente ricerca di frontiera a costi competitivi, abbondanza di talenti e opportunità di mercati in crescita”.

Culture in azione: le ORGANIZZAZIONI INNOVATIVE e le ORGANIZZAZIONI CONSERVATRICI, tra NUOVO e NOTO

In parte abbiamo già dato un profilo ideale delle organizzazioni innovative. Possiamo ora provare ad articolare meglio questo profilo, attraverso il confronto con un altro idealtipo, l’organizzazione conservatrice. Proponiamo per l’appunto una riflessione esplicativa.

Immaginando un’organizzazione innovativa, viene pressoché automatico associarla ad una novità tecnologica che la accompagna, ed è quasi inevitabile associare questa novità tecnologica ad una prestazione straordinariamente più elevata rispetto a quanto in precedenza disponibile. Ebbene, se ci si fermasse a tale primo livello questi prodotti tecnologici attiverebbero e veicolerebbero intense fantasie di potere, nella misura in cui superano in performance il limite fin li attestato. I sentimenti rispetto all’evocazione di questo potere possono definire due posizionamenti polari di rapporto:

- ottimistico-innovativo, con una incondizionata fede adottiva, ed elevate aspettative e speranze di possibilità migliorative, desideri di riscatto e di svincolo dai limiti e dalle limitazioni (come recitava un noto spot pubblicitario “è tutto intorno a te!”);

- negativo-conservatore, accendendo diffidenza, sospetto, ansia e preoccupazione, desiderio di stabilità e difesa dello status quo ante.

E’ proprio nel potere attribuito all’elemento tecnologico che si gioca il corredo dei sentimenti intensi che animano questo primo livello. Precedentemente abbiamo richiamato alla memoria l’esaltazione vissuta riguardo al BPR. Più quotidiana e facilmente riscontrabile è la verifica della corsa dei consumatori finali all’acquisizione di prodotti altamente tecnologici, non tanto per l’utilizzazione delle loro sempre più nutrite e complesse qualità funzionali, quanto per la possibilità di acquisire lo status di chi possiede l’“ultimo modello”: questo fine settembre, ad esempio, all’uscita commerciale dell’IPhone5 centinaia di consumatori hanno atteso con lunghe file l’apertura dei negozi, in taluni casi dal giorno prima, attrezzandosi con avventurose sistemazioni in strada, nei sacchi a pelo. E’ a questo livello che si configura un quadro, per cui la tecnologia nuova e il prodotto innovativo si connotano attraverso caratteristiche mitiche e di potere. E’ a questo livello tuttavia che l’innovazione viene identificata come un abbaglio illusionistico predestinato a deludere, e su cui i detrattori dell’innovazione possono giocare le critiche più agevoli. Poi ci sono gli atteggiamenti organizzativi conservatori e tradizionalisti: in questo caso il potere viene collocato nella “durabilità”, secondo l’istituzione di una equivalenza tra sicurezza ed imperituro, e la stabilità dei riferimenti sta proprio nel fatto di renderli “famigliari”, ovvero noti, immediatamente riconoscibili in quanto immutati e ripetibili. Queste organizzazioni “conservative” si connotano essenzialmente attraverso l’assunzione di ricerche convenzionalistiche e conformistiche, proprio a reificarsi in una realtà riconosciuta come nota e in quanto tale sicura. Su questa riflessione si può affermare quindi che, rispetto all’attribuzione della qualifica di organizzazione innovativa, molto importante è riuscire ad individuare se l’atteggiamento organizzativo è interessato al nuovo piuttosto che al noto: mentre nel noto la direzione delle scelte è preordinata e facilmente legittimabile (cosicché il nuovo rappresenta una minaccia all’equilibrio funzionale), aprendo l’interesse al nuovo (qui inteso come categoria di grande estensione di senso) si amplia il livello di complessità, soprattutto perché non sono conosciuti a priori (in quanto anch’esse nuovi) scenari, percorsi e mete: il percorso va definito, quindi, a partire dall’individuazione di risorse e dall’assunzione di scelte, ed il senso stesso di direzione cambia intrinsecamente, cosicché assumerla, sceglierla, verificarla, cambiarla, diventano passi addirittura più importanti che non arrivare alla meta; allora il compito più significativo ed impegnativo diviene la capacità di acquisire una competenza a direzionare il processo. Come notano Carli e Paniccia (1999), in un interessante ricerca-intervento sulle NT (nuove tecnologie) e organizzazioni innovative: “non solo l’utilizzazione competente, ma la stessa adozione di NT dipende dai sistemi di comunicazione delle differenti organizzazioni. Quando l’organizzazione fonda il proprio funzionamento sulla comunicazione interattiva, allora l’uso delle NT è adottato e integrato con l’organizzazione, della quale promuove lo sviluppo; è in questo caso che si ha la maggior competenza d’uso sulle NT. Quando l’organizzazione è fondata sulla gerarchia e sul controllo degli adempimenti; quando l’organizzazione funziona con la comunicazione ad una via, dall’alto al basso, di informazioni aventi il valore di normative da seguire; quando l’obiettivo organizzativo è il presidio degli adempimenti dell’utenza, allora le NT vengono vissute come inutili o, peggio, come una minaccia alla stabilità dello status quo organizzativo. In questo caso si ha la minor competenza all’uso delle NT. […] Più in generale, l’orientamento al cliente funziona da orientamento trainante nell’adozione competente di NT: il cliente [ovvero colui che porta domande specifiche e non conoscibili a priori], più del mercato, il mercato più dell’utente [ossia colui che può servirsi di un servizio preordinato in modo standard e che esisterebbe comunque, al di là di una sua domanda o necessità, poiché domande e necessità sono presupposte in modo scontato dall’erogatore di quel servizio], è il riferimento che si integra con l’adozione di strumenti di comunicazione interattiva, volta al perseguimento del successo organizzativo”.

Possiamo, a questo punto della nostra riflessione, disporre di alcune riferimenti modellistici e concettuali. Abbiamo, in sintesi: provato a criticizzare l’identificazione tout court dell’innovazione con le tecniche/tecnologie; provato a segnare alcune caratteristiche salienti delle culture e atteggiamenti delle organizzazioni innovative, tentando di evolvere i riferimenti delle organizzazioni innovative; provato a identificare nella capacità di costruire orientamenti, quindi nella competenza a trattare con il “nuovo”, il carattere di base dell’impresa innovativa, ed abbiamo colto quanto l’orientamento al cliente possa essere considerato un importante indicatore di questa competenza, poiché per cogliere e sostenere le domande dei clienti (che in quanto tali sono specifiche e non conoscibili a priori) bisogna inevitabilmente essere disposti ad una plasticità organizzativa, continua adattabilità autopoieutica all’ambiente e ai cambiamenti, competenza a sviluppare servizi di volta in volta utili secondo utilizzabilità diverse.

Le imprese innovative, allora, sono vigili, presenti, sanno cogliere i segnali esterni e sanno tradurli in orientamenti organizzativi interni, i loro processi decisionali sono decentrati ed è alta la loro sensibilità ed influenzabilità a tutti i livelli organizzativi, ed è in questo che l’organizzazione è allo stesso tempo plastica e funzionalmente integrata.

Con Bateson (1984): “Il rigore da solo è morte per paralisi, l'immaginazione da sola è pazzia”.