Sulla formazione aziendale

RIFLESSIONI SULLA FORMAZIONE AZIENDALE: PERCORSI CRITICI E NODI ESSENZIALI

Il punto di partenza è considerare la differenza tra due paradigmi della formazione:

  • La formazione come processo afinalizzato: ovvero valido anche in assenza di una domanda, ovvero di un problema. Qui la formazione è vista come valore in sé (del tipo “imparare non fa mai male, anzi serve sempre”) e il suo utilizzo è rimandato ad un tempo mitico, dunque simile all’azione dello scoiattolo che durante la buona stagione accumula scorte per i periodi più freddi. In questa accezione può essere letta sia la cosiddetta formazione di base, che specialistica. Questa visione inoltre implica che i contesti di applicazione della formazione siano scontatamente in grado di renderla a frutto, ovvero che siano contesti scontati;
  • La formazione come processo finalizzato: ovvero valido solo in presenza di una domanda. Qui la formazione non è più considerata come una cosa in sé, ma come un processo di intervento direttamente legato al problema a cui risponde. Conditio sine qua non è che l’organizzazione riconosca di essere dentro un evento critico, e che riconosca nelle competenze una risorsa di sviluppo, così come come la formazione quale strumento elettivo per acquisire competenze. In questa visione si considerano i contesti di applicazione della formazione come contesti non scontati, bensì sensibilizzabili, “formabili”… quindi costruibili: per questo le culture di appartenenza diventano, oltre un ambito, un oggetto di intervento esse stesse.

Proprio perché è considerabile decisamente più sensato pensare alla formazione come ad un processo finalizzato, rivolto a contesti costruibili, dobbiamo inevitabilmente confrontarci con alcune questioni critiche, verso cui questa accezione “complessa” ci espone:

  • I modelli culturali del nostro Paese sono sempre meno orientati alle competenze, e sempre più ai gruppi di potere. Per quanto si evochino i valori della meritocrazia, siamo diffusamente attraversati da esperienze contrarie. Del resto l’Italia ha fama per la propensione alle vie traverse, al gioco dei favori reciproci, gli accordi fuori dalle regole del gioco: lo sanno le persone in cerca di lavoro quanto sia difficile trovare occupazione facendo affidamento alle proprie competenze, al proprio curriculum, alle proprie esperienze, e senza avere (come si dice) “le giuste conoscenze”; lo sanno i lavoratori quanto avere competenze in contesti organizzativi sia sorte difficile, perché facilmente possono entrare in conflitto con il potere gerarchico, o facilmente possono da questo essere “sfruttate”, ovvero utilizzate scontatamente, senza un adeguato ritorno; lo sanno le imprese, quanto sia difficile operare stando alle regole, e quanto non stare alle regole implichi costantemente trovare compromessi informali con soggetti ed ambiti di potere;
  • I problemi organizzativi non sempre vengono trattati, spesso vengono ignorati, o negati. Il senso funzionale dell’utilizzo dei problemi, all’interno dell’organizzazione (ma questo vale anche per le singole persone), è nella possibilità di confrontarsi con questioni critiche, nell’intento di perseguire uno sviluppo: i problemi quindi non come elementi oggettivi, ma come funzioni di pensiero e d’azione per un cambiamento migliorativo. Il costo del funzionamento per problemi sta proprio nell’impegno che comporta il cambiamento che questo funzionamento implica: le resistenze al cambiamento si attivano come muraglie a difesa dell’ordine della struttura e delle procedure organizzative (o personali). La rigidità, quindi, come condizione di mantenimento di un riferimento riconoscibile e certo della conformazione identitaria, personale o organizzativa. Rigidità che a volte prende forme paradossali, come l’organizzazione che funzione “eliminando i problemi”, ovvero dandogli una immediata risoluzione, senza approfondirne la comprensione;
  • Le competenze non sempre sono chiaramente riconoscibili. Facciamo riferimento ad un preciso costrutto delle competenze, ovvero (con Quaglino, 1990) “…qualità professionale di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, doti professionali e personali”, e con competenza professionale quel “sapere cosa (contenuto del compito) che è presente assieme ad un sapere come (strategia di fronteggiamento), e che ha la proprietà di essere trasferibile su compiti diversi” (ISFOL-Méta, 1997). Questo punto è fondamentale, perché ogni competenza è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. Oltre al sapere, e al saper fare, si fa dunque riferimento al saper essere, ovvero a sviluppare e sapere interpretare ed assumere un atteggiamento ed una identità appropriata a sostenere un tal compito realizzativo; ma ancora, nessun compito realizzativo può essere portato avanti con successo senza una adeguata capacità a leggere i rapporti organizzativi, integrandosi ed intervenendoci: ecco quello che potremmo definire un saper esser-ci. Per semplificazione sono definite competenze trasversali, ma le proponiamo qui non come competenze “a parte” (tipo comunicazione efficace, o imparare la leadership) ma come corredi impliciti del concetto di competenze, che si innesta internamente anche a quelle che si definiscono competenze tecniche: l’una non può esistere senza l’altra. Inoltre, secondo un principio di reversibilità, ugualmente le organizzazioni non realizzano una appropriata messa in applicazione delle competenze, se non dentro una predisposizione organizzativa orientata alla loro espressione. Il rapporto tra lavoratore<->competenze<->organizzazione è sostanziale nell’intervento di formazione e nel lavoro del progettista e del formatore. Del resto ci permette di considerare come, affinché le competenze trovino possibilità di espressione non basta formare sul sapere, ma è necessario da un lato intervenire sul saper essere e saper esser-ci del lavoratori, quindi calare il processo formativo entro realtà e rapporti di lavoro concreti, dall’altro è fondamentale costruire una domanda di formazione da parte delle aziende che possa in sé costituire l’aspettativa di utilizzo e di applicazione ai processi di lavoro delle competenze in formazione nei lavoratori: serve in altri termini che l’azienda promuova un investimento su tali competenze, e che questo predisponga ad un cambiamento direzionato, in cui le competenze fungano da base per l’azione.

Va quindi da sé l’importanza che riveste nella realizzazione e nella effettiva riuscita di un intervento formativo, la domanda di formazione in azione nelle aziende e nel personale: da un lato l’azienda deve poter portare un desiderio di cambiamento investito in aspettative su specifici percorsi formativi; dall’altro, il personale in formazione deve poter credere che attraverso la formazione si possano sviluppare competenze effettivamente spendibili in termini lavorativi, arrivando a realizzare in lui maggiori chance realizzative, personali, professionali e/o occupazionali. In sintesi, la formazione, per risultare realmente utile, deve poter essere calata in un contesto d’azione che anzitutto la immagina, la interpreta e la simbolizza come utile: da qui, l’importanza dell’analisi della domanda. Per risultare poi effettivamente utile, la formazione deve esprimersi come intervento appropriato, ovvero adeguatamente rispondente ad elementi problematici e orientato a sostenere obiettivi di sviluppo: da qui l’importanza della rilevazione dei fabbisogni formativi.

Per sostenere questi intenti, anche i percorsi delle azioni formative dovrebbero caratterizzarsi secondo una particolare concezione. L’ispirazione teoretica, che sottende la metodologia formativa in questione, considera la nozione non scindibile dal ruolo e dalla funzione organizzativa di chi la possiede. Se il ruolo rappresenta una serie di attribuzioni attese entro una posizione organizzativa, un aspetto più dinamico e non totalmente predefinibile è giocato dalle funzioni: la funzione ha a che fare con il contributo d’azione/pensiero/visione che all’interno di un contesto organizzativo viene assunto da un lavoratore.

La formazione entra come un evento arricchente sia per aspetti di ruolo, ma anche e soprattutto per quelli del potenziale di funzione. Seguendo questa riflessione, è proprio in questo potenziale, unitamente alla consapevolezza del ruolo, che deve giocarsi un intervento di formazione. In sintesi, integrando il sapere, il saper fare ed il saper essere. E, aggiungiamo, il saper esser-ci. Per questo i metodi più contemporanei si discostano da approcci “oggettivistici” alla formazione, quindi basati su condizioni decontestualizzate, e su verifiche misurabili in maniera assoluta. Approcci costruttivistici hanno il merito di aver restituito un soggettivismo, non già del valutatore, ma del senso e dei processi attivati nel formando e nel contesto organizzativo oggetto implicito di intervento. L’esperienza formativa, quindi, nel rapporto con l’esperienza organizzativa, e nell’arricchimento di competenze, per la realizzazione di una capacità di “movimentazione narrativa” e d’azione operativa; tutto questo è, fenomenologicamente, un complesso processo simbolico relazionale, che è il fondamento dell’essere-organizzativo nei lavoratori: un processo che si costruisce dentro interazioni, miti, racconti dell’esperienza, che diventano storie e modi di realizzare identità e senso, ma che è soggettivo di quel contesto e di quella cultura organizzativa, un processo che è quindi costantemente rigenerato dentro regole narrative, con nodi e scioglimenti, come problemi e realizzazioni (autori in questo approccio generale ai processi formativi, soprattutto di orientamento psicosociale, compongono una nutrita letteratura).

A ciò l’attenzione a predisporre processi formativi in grado di portare in primo piano le persone, organizzando in loro una motivazione "attiva", e di erogare formazione secondo metodologie interattive che valorizzino il più possibile la formazione come "esperienza" costruttrice di senso identitario, di consapevolezza d’azione e di competenze di lavoro. In questo modo, da un punto di vista di metodo di gestione d’aula, si dovrebbe evocare e tenere a costante riferimento il rapporto tra il lavoratore in formazione e la sua realtà organizzativa, provando così a intervenire anche sul rapporto tra lavoratore ed organizzazione, a beneficio di una più alta aspettativa di spendibilità della formazione a livello aziendale.

In sintesi, pensiamo distintivo svolgere un intervento formativo ponendosi i seguenti obiettivi:

  • l’acquisizione nei discenti delle nozioni trasmesse, essendo queste strumenti indispensabili per le esigenze e funzioni aziendali;
  • lo sviluppo di un modo di essere professionale sempre più consapevole e competente da parte dei discenti, e capace di promuovere attivamente sviluppo nel proprio contesto lavorativo di appartenenza; ovvero, capacità di raccontare l’organizzazione e il proprio modo di parteciparvi e contribuire con capacità all’impresa;
  • la capacità nei discenti di interpretare il proprio ruolo e di articolarsi funzionalmente con il gruppo di colleghi con cui collabora quotidianamente al lavoro;
  • la possibilità d’ognuno di contribuire più competentemente alle attività specifiche di propria competenza e all’innalzamento delle performances, da un lato, e ad un miglioramento qualitativo delle performance dall’altro;
  • la possibilità di comprendere ed arricchire in termini creativi, appropriati e fattibili, gli scenari futuribili e le linee di sviluppo della propria organizzazione.