Modernità e memoria

MODERNITÀ E MEMORIA. UNO SGUARDO SULLA POESIA DEL SECONDO NOVECENTO IN ROMAGNAi

1. Modernità e memoria: questi i due poli, le due sigle sotto cui e fra cui si snoda il discorso interpretativo che segue. Né i due termini, almeno nel dominio multiforme, inclusivo, forse contraddittorio in rapporto alla logica ordinaria, del poetico, si escludono a vicenda. Anzi si potrebbe, con un gioco paretimologico, dire che modernità e memoria sono legate e informate da uno stesso modus, da una stessa “misura” che segna, nel contempo, il progredire e l’avanzare, incessanti e solo in parte ponderabili, della prima, e l’istituirsi, il prender corpo, lo stratificarsi, il sedimentarsi, il rivivere, infine, in forme insieme antiche e sempre nuove, della seconda. È lo stesso Habermas del Discorso filosofico della modernitàii – pensatore non certo sospetto né di nostalgie anacronistiche, né tanto meno di

abbandoni alla logica “liquida” e indifferenziata di una postmodernità debole, nichilistica, indiscriminatamente ed indistintamente citazionistica – a ricordare, memore di Baudelaire, che la modernitas più profonda e più autentica si precisa proprio in relazione, per quanto dialettica, con l’antiquitas, poiché ogni modernité, ricorda il poeta francese nel saggio sul Peintre de la vie moderne, lavora a «rendersi degna», a sua volta, «di divenire antichità».

Come hanno insegnato, negli ultimi decenni, in campo figurativo, le ricche e multiformi esperienze del citazionismo, dell’arcaismo, del neo-manierismo, ex nihilo nihil, nulla si crea e nulla si distrugge, le medesime forme tornano e risorgono come in un’immensa spirale di secoli, solo trasfigurate e traslate ad altri sensi, a nuovi intendimenti. «Tout va sous terre et rentre dans le jeu», per citare Valéry; e già Foscolo tentava di fermare, nel suo verso scolpito, fermo come il marmo e insieme attraversato da segrete tensioni e sotterranei moti, le «veci eterne», gli eterni moti che «a sensi altri destinano» ciò che è, o pare, defunto. Per una sorta di discesa agli Inferi ,o forse all’ungarettiano «porto sepolto», all’approdo oscuro e dimenticato da cui poeta «risale alla luce coi suoi canti», la vita sembra trarre alimento dalla morte, l’avvenire dal passato, il futurum dal praeteritum. Si ricorderà che proprio dai defunti, proprio volgendosi alla morte, Enea, reduce al grembo della antiqua mater, e Dante ricevono la profezia, il presagio, di ciò che ancora deve accadere. I poeti, «nani sulle spalle dei giganti» per Bernardo di Chartres, si nutrono, pur con tutti i conflitti e le spinte dialettiche insiti nella anxiety of influence che Harold Bloom ci ha reso familiareiii, di ciò che li ha preceduti.

Nel caso particolare della Romagna contemporanea, l’aspetto letterario del passato e della tradizione si sposa in modo singolare con una componente storica e antropologica, vale a dire con la sopravvivenza, anche per un certo tratto del secondo dopoguerra, di un forte sostrato di economia, cultura e tradizione rurali; sostrato la cui rievocazione poetica viene, senza che ciò nulla tolga all’immediatezza e all’autenticità del sentire e del vivere, mediato e filtrato (come accade anche in una delle massime esperienze della poesia contemporanea a livello mondiale, quella di Seamus Heaney, in cui le tradizioni agresti irlandesi e le radici celtiche si sposano splendidamente con il recupero e la rilettura dell’archetipo virgiliano) da una reminiscenza letteraria di lontana matrice arcadica, bucolica, georgica, ma a tratti anche didascalica (fra Esiodo e Lucrezio) ed epica. L’occasionale adozione di ottiche antropologiche non deve, peraltro, far dimenticare che i testi letterari hanno, come tali, una loro specificità, che necessita (come i cultural studies, oggi diffusi, rischiano a volte di far dimenticare) di essere rispettata e salvaguardata in qualunque operazione di critica o di indagine, anche a livello di storia letteraria.

Proprio questo particolare taglio, questa peculiare angolatura hanno indotto a trascurare l’opera di poeti romagnoli ormai in varia misura noti e consacrati, come Davide Rondoni, Gianfranco Fabbri, Gianfranco Lauretano, o, fra i più giovani, Francesca Serragnoli, Isabella Leardini, Matteo Zattoni: autori legati (è il caso ad esempio di Lauretano e in parte di Rondoni) ad un immaginario e ad un ambiente più urbano che rurale, da eliotiana “terra desolata” o da simbolistica “ville tentaculaire”, o intenti a fermare sulla pagina (è il caso di certo Rondoni come della Serragnoli o della Leardini) vissuti esistenziali o nuclei esperienziali risolti prevalentemente in un’interiorità e un’affettività, per così dire, assolute, immediate, volutamente immuni e sciolte da matrici, ascendenze, radici palpabili e storicizzabili (eccezion fatta, forse, per l’implicito richiamarsi della Serragnoli ad un mosso e variegato panorama di poesia femminile intensamente emotiva e insieme corporale, che spazia dalla Dickinson alla Merini)iv.

2. Gennaro Manna, nel saggio Tramonto della civiltà contadina, osservava come lo sviluppo industriale stesse, forse in modo troppo radicale e affrettato, irreversibilmente cancellando le ultime tracce di una secolare cultura, le voci e i moniti di un «sapienzialismo» che era «espressione di valori reali, vissuti, onorati, (…) nutriti dal clima d’una solennità sacrale»v. Pur se in un contesto diverso da quello

, essenzialmente meridionale, a cui faceva riferimento Manna (e che era, nella sostanza, lo stesso di un Vittorini, un Levi, uno Scotellaro, un Silone, cioè il mezzogiorno della sofferenza, dello stento, del sacrificio, del tempo immobile, del fato antico e inesorabile, delle radici ancestrali ed immutabili), anche la poesia del secondo Novecento in Romagna, in lingua e soprattutto in dialettovi, ha fra i suoi

temi fondamentali, e quasi si direbbe obbligati, il confronto con una civiltà contadina che l’imperiosa evoluzione in senso industriale e turistico dispiegatasi in modo eminente a partire dal secondo dopoguerra ha progressivamente eclissato, ma che non per questo ha completamente cessato di far avvertire – ­innanzitutto come retaggio storico e culturale, in secondo luogo come fantasma poetico, suggestione lirica, insieme di immagini e motivi letterari – la risonanza sommessa e profonda della sua lontana voce, flebile ma pura.

È quasi d’obbligo partire da un testo, ormai noto e largamente antologizzato, di Tonino Guerra, che si può dire incarni – malgrado la strumentalizzazione un po’ macchiettistica a cui l’hanno ridotto, recentemente, certi stereotipi mediatici – il simbolo della poesia neodialettale romagnola, fiorita nel secondo Novecento a partire dalla lezione – peraltro in larga parte sconfessata in favore di un più corposo realismo e di una più autentica e amara introspezione – di Aldo Spallicci, che, animatore del cenacolo riunito intorno alla rivista «La Piê», da lui fondata, aveva trasfuso nella poesia in «volgare di Romagna» (le cui origini, attestate in modo particolare dal poema eroicomico Pulon Matt, di controversa attribuzione, rimontavano almeno al sei-settecento) una sensibilità idillica, bucolica, georgica di ascendenza virgiliana, ma filtrata in modo decisivo dal Pascoli di Myricae e dei Canti di Castelvecchio. La poesia che ho in mente è I bu, e dà il titolo all’omonima raccolta del ’72vii, autorevolmente introdotta

da Gianfranco Contini, il quale faceva notare come nei versi del poeta emergesse proprio una realtà paesana e contadina ormai messa ai margini, ridotta a «piccolo mondo scaduto, suburbano, fatto di residui». Dati la sua brevità e il suo valore emblematico, riporto il testo per intero, facendolo seguire dalla traduzione, anch’essa prestigiosa, seppur non sempre fedele, di Roberto Roversi.

Andé a di acsè mi bu ch’i vaga véa,

che quèl chi à fat i à fatt,

che adèss u s’èra préima se tratour.

E’ pianz e’ cór ma tótt, ènca mu mè,

avdai ch’i à lavurè dal mièri d’ann

e adèss i à d’ande véa a tèsta basa

dri ma la córda lònga de’ mazèll.

Ditelo ai miei buoi che l’è finita

che il loro lavoro non ci serve più

che oggi si fa prima col trattore.

E poi commoviamoci pure a pensare

alla fatica che hanno fatto per mille anni

mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa

dietro la corda lunga del macello.

Certo – ed è, questo, un avvertimento che vale per tutta la poesia dialettale – nella traduzione quasi tutto si perde del fascino di questa pagina, il quale risiede, per larga parte, nella perizia e nella grazia con cui l’autore sa infondere, in un tessuto metrico fatto di perfetti endecasillabi tronchi intervallati solo da un settenario tronco e da un endecasillabo piano, la cristallina fluidità, la sonorità morbida e suadente e insieme netta e scandita, la schietta immediatezza espressiva (la «savante ingénuité», direbbe un simbolista francese) di questo dialetto. E aveva ragione Friedrich Schürr, il massimo studioso, sul piano glottologico, del dialetto romagnolo, ad osservare come, in tale parlata, sembrasse sopravvivere qualcosa dell’antico senso latino della quantità vocalicaviii,: in espressioni

pregnanti e sentite come «mièri d’ann» o «córda lònga» (in cui la voce di chi legge, al livello del suono, o la mente dell’interprete, al livello del fonema, sono indotte a sostare e indugiare sulle vocali aperte, con un significativo effetto di sospensione e di enfasi), questa percezione vocalica, questa almeno implicita sopravvivenza, questo fantasma, se si vuole, della quantità, acquistano una intensa, e quasi struggente, sfumatura espressiva. Del resto, la poesia neodialettale nasce come operazione intenzionale, meditata, quasi elitaria, come – avrebbe detto Croce – «letteratura dialettale riflessa», recuperata e restituita attraverso un consapevole progetto culturale. Per questo, essa può far proprio, sottilmente e deliberatamente, il superstite senso dialettale della quantità vocalica, ricavandone un raffinato strumento stilistico. D’altra parte, osserva Schürr, «fenomeni d’origine puramente fisiologica, incosciente», come quelli della metafonia o della conservazione della vocale lunga in corrispondenza della sillaba tonica, già anticamente «furono usati per fini spirituali, al servizio dell’euritmia e musica linguistica»; ciò presuppone «una particolare coscienza fonologica, un vivo sentimento per i valori estetici dell’idioma, sentimento per lo meno mediocosciente»ix. È lecito supporre che Croce, sui

presupposti della cui estetica intuizionista il linguista tedesco fondava il suo ragionamento, non avrebbe del tutto condiviso l’idea della natura cosciente e riflessa, anche a livello popolare, di questi tratti linguistici.

Ad ogni modo, è interessante notare, sul piano tematico, l’efficacia con i pochi versi sopra citati sintetizzano, con lucida amarezza, senza alcun compiaciuto indugio elegiaco, la crisi e il tramonto della civiltà contadina. Guerra richiamava, tra l’altro, un’immagine – quella del bove – di illustre ascendenza letteraria, dal celebre sonetto del Carducci (che, dopo essersi snodato fra molti impacci retorici, si concludeva con una densissima e modernissima sinestesia: «nel divino del pian silenzio verde») a quello omonimo del Pascoli, anch’esso notevole per la chiusa, quasi surreale (l’animale vede, con il suo sguardo straniato, «l’ombre più grandi d’un più grande mondo»). Nell’immaginario georgico di Virgilio, i concordi e compartecipi «hominum boumque labores» (I, 118), lo scintillio del vomere «sulco attritus» (I, 46), il «mugitus boum» associato ai «molles sub arbore somni» (II, 470) contrastano in modo stridente, quasi drammatico con il dolore del «tristis arator» che deve, per la morte del giovenco, lasciare gli aratri «opere in medio defixa» (III, 517-520). La desolata immagine dell’aratro abbandonato ricorre significativamente in Pascoli, «l’ultimo figlio di Virgilio» secondo la definizione data dal D’Annunzio nel Commiato di Alcyone: basti qui ricordare, in Lavandare (testo di Myricae pervaso dalla reminiscenza di un canto popolare marchigiano), l’aratro lasciato malinconicamente «in mezzo alla maggese», e perciò assunto come specchio e simbolo di un vuoto affettivo. E si possono menzionare, allora, anche le «vecchie parole sentite / da presso con palpiti nuovi, tra il sordo rimastico mite / dei bovi», affettuosamente rievocate nella Poesia, componimento proemiale dei Canti di Castelvecchio: ove proprio il respiro tiepido dei buoi avvolge il fascino mitopoietico delle antiche fole.

Queste citazioni e questi riscontri non vogliono essere soltanto una vuota esibizione di materiali e di presunte fonti. Essi vogliono, al contrario, rivelare come, nella poesia del secondo Novecento, la percezione e il sentimento del tramonto del mondo rurale si accompagnino strettamente alla volontà di recuperare un patrimonio di civiltà e di memoria legato eminentemente ad una lingua morta, come nel caso del latino, o avviata all’estinzione, come il dialetto. In questo senso, un tipico “codice forte”, una lingua dotta, aulica, cristallizzata nei secoli, quasi imbalsamata, come il latino, può essere accostato ad un idioma come il vernacolo, per antonomasia mutevole, oscillante, difficilmente grammaticalizzabile, legato alla mobilità e alla fluidità della dimensione orale. L’imolese Antonio Nardozzi, uno degli ultimi esponenti dell’ottocentesca “scuola classica romagnola”, traduttore delle Georgiche apprezzato da Carducci, stando alla tradizione gioiva profondamente quando trovava, o si illudeva di trovare, una segreta corrispondenza, un’arcana e quasi archetipica consonanza fra un sintagma latino e un’espressione del dialetto natiox. Con un brusco, ma forse non del tutto infondato accostamento, si

può osservare come anche all’interno dell’opera del Pascoli – convinto, a quanto si evince dalla commemorazione del poeta latino Diego Vitrioli, che la lingua della poesia costituisca sempre e comunque «una lingua morta» – la componente popolaresca, il fondo rustico, di estrazione eminentemente tosco-romagnola, che affiorano tanto spesso nelle poesie in italiano coesistano con l’esercizio di una poesia latina dotta ed elaborata, ma pervasa dagli stessi chiaroscuri, dagli stessi profondi brividi, dalle stesse sfumate ed ambigue risonanze dei Poemi conviviali o anche, specie per certi motivi naturalistici, di alcuni dei Canti di Castelvecchio. D’altra parte, la celebre «voce» che attraversa la vita del poeta – voce dell’infanzia, della memoria, del nido, del tiepido e tenero ricordo – ripete una parola in dialetto, l’unico lemma di puro dialetto romagnolo, a ben vedere, che compaia in tutta l’opera pascoliana: «Zvanì». E quella voce, si noti, si avverte solo «nel punto che muore», quasi a confermare che solo una lingua morta o morente può cogliere e restituire l’essenza di una memoria o di un vissuto che si stanno estinguendo, e che proprio quello spazio di languore, dissolvenza, eclisse, tramonto rappresenta, in fondo, la condizione essenziale, quasi consustanziale, di ogni discorso poetico.

Si potrebbero richiamare, in proposito, con tutte le distinzioni del caso, i nomi di poeti del secondo Novecento come Andrea Zanzotto e Fernando Bandini, nella cui opera la coesistenza di dialetto e lingua aulica (nel primo l’infantile petèl della celebre Elegia della Beltà, il «vecio parlar» altotrevigiano di Filò, poemetto composto per il Casanova di Fellini, o il solighese di Mistieròi, in Idioma, affiancati all’impasto iperletterario, di ascendenza stilnovistica e petrarchesca, messo in opera nell’Ipersonetto del Galateo in bosco, nel secondo il veneto, lingua archetipica e magica delle «fate d’acqua», che si affianca al dottissimo, sublime esercizio della poesia in latino) assolve una funzione espressiva e una valenza ideologica affine, cioè quella di fissare sulla pagina (l’uno in modo più contrastato, stridente, sperimentale, il secondo in maniera più raccolta e composta, in una tenue e sommessa misura di elegia) i caratteri, i volti, le voci, i riti di una realtà e di un mondo insidiati dal tempo e sul punto di svanire, destinati a non sopravvivere ormai che nella stilizzazione e nell’assolutezza della parola poetica e dell’esercizio letterario. Si consideri, in questa luce, un testo di uno fra i più significativi autori neodialettali romagnoli degli ultimi anni, cioè Sedisti lassus di Nevio Spadoni, nella raccolta E’ côr int j oc (Il cuore negli occhi): la poesia si apre con il quadro, tipicamente rurale, della sera che scende sull’aia, «cvânt che i faron da un pëz i s’è puné» («quando le faraone da un pezzo si sono appollaiate»), e si chiude con l’eco del latino (non l’eburneo lucore di quello classico, ma il timbro ruvido e cupo di quello medievale del Dies irae: «quaerens me sedisti lassus / tantus labor non sit cassus») e con l’immagine della neve («E fura e’ temp e’ mânda zo dla néva»: «E fuori il tempo manda neve»), che, comune nella poesia neodialettale, da Guerra a Baldini a Baldassari, richiama direttamente un immaginario rurale, a livello sia di saggezza popolare, sia di stilizzazione letteraria (si ricordi almeno Virgilio, Georg. I, 310: «nix alta iacet, glaciem (…) flumina trudunt», ove è tratteggiato uno scenario nivale e glaciale che trova significativo riscontro nel Bandini di Sancti duo decembris mensis, un testo di Santi di dicembre, raccolta garzantiana del ’94 che, non a caso, ospita anche versi in dialetto, esso stesso «lingua de morti»: «Rus tandem tenuit vasta hiemis quies»; «intactam foris nil peragrat nivem»). Ancora di Spadoni – il cui dialetto è quello, nativo, di San Pietro in Vincoli – sarà da citare, nella raccolta A caval dagli ór, la poesia D’ nota, in cui il tempo immobile, ciclico, iterativo, si direbbe rituale, del mondo agreste è incarnato dall’«om di cuciarul», dall’«uomo delle castagne» che termina (si noti lo squisito, e altamente espressivo, anacoluto dialettale) «e’ su zir che i dè j e tot precis» («il suo giro che i giorni sono tutti uguali»: come se non fosse tanto il giro a ripetersi uguale nei giorni, quanto i giorni stessi ad essere presi nel giro di questa temporalità sospesa, ciclica, sottratta al divenire, trasfigurata quasi, per citare il Platone del Timeo, in eikon tou aionos, in «immagine mobile dell’eternità»). Dopo che il giro è finito, non resta, «sotto la luna», che uno scenario deserto, quasi surreale, da pittura metafisica, popolato di fantasmi o di assenze, oggettivazione forse e teatro (ma vi è qui il rischio di andare troppo oltre la lettera del testo) di una vuota eternità, di una trascendenza spopolata di dei: non restano che la voce della notte e del silenzio, la naturale “musica del silenzio”: «e’ sfujazér deì vent, l’acva ch’la sbresa» («lo sfogliare del vento, l’acqua che scivola»). Ancora in Spadoni, questa dimensione estetica eterna e senza tempo è attinta anche attraverso la pratica della traduzione dialettale dei classici: si veda, ad esempio, nella raccolta Par tot i virs, la versione del frammento 58 D di Alcmane, che attua una quasi miracolosa identità, anche a livello metrico e fonico, con l’originale, attraversato, come il testo d’arrivo, da vocali chiuse e cupe e consonanti rotanti e sibilanti, e scandito da ritmemi discendenti, dattilico-trocaici, sospesi e dubitosi, che il poeta dialettale restituisce con l’indugio disteso e pacato di una versificazione prevalentemente endecasillabica, o comunque imparisillaba: «E’ dôrma al vet di mont e al val intórna / al riv e i buron; / e’ dôrma al besi / che al dà fura da la tëra nigra». Il dialetto lingua morta, sottratto, nella sua ormai postuma perennità, agli accidenti del divenire storico, si fa ideale tramite di una “fusione di orizzonti”, di una identificazione sovratemporale fra l’oggi e l’antico.

Per tornare a Guerra, nella sua opera il tema del tramonto della civiltà contadina affiora più volte. Non per nulla, ad un mondo perduto, irrevocabile, allontanato e proiettato in una distanza mitica, rinviano anche i poemi di pietra di cui la sua iniziativa ha punteggiato il paesaggio di Pennabilli, città d’adozione: come nella Masa Tacerii, nella tavola del silenzio di Brancusi, l’immobilità e l’eloquente mutismo della poesia ritraggono, nell’eterno indugio di un’aura senza tempo, i frutti, gli alberi, le figure di un tempo perduto, caduto dai giorni e dalle ore, ma per ciò stesso eternato, eternamente presente alla memoria e all’immaginazione, strumenti della rievocazone e della mitopoesi. In linea generale, è questa – come quella di Raffaello Baldini, anch’egli santarcangiolese – una poesia che tende a vedere la realtà nella prospettiva della fine, dell’apocalisse, dell’inesorabile precipitare verso il nulla. In Gnént, un testo della raccolta L’albero dell’acqua e piùxi, si legge: «La vóita la déura póch / tótt iniquèl e’ cambia

o e’ mor. / (…) Ènca la Tèra la s-ciuparà / e u i sarà al muntagni ch’al vòula pr’aria / e l’aqua ch’la s’aréugla / sòura dal stèli morti» («La vita dura poco / tutto cambia o muore. / (…) Anche la terra scoppierà / e ci saranno le montagne che voleranno in aria / e l’acqua si rotolerà / su delle stelle morte»). Versi, questi, che mostrano come la poesia neodialettale, anche quando assume, in virtù di quello che Leo Spitzer chiamerebbe «artificio della regressione», il punto di vista del popolo, faccia propri e rivisiti motivi e topoi della tradizione letteraria alta (in questo caso il tema del tempus edax e la visione allucinata della conflagrazione universale, la quale ha, dal Leopardi del Cantico del Gallo Silvestre allo Svevo della pagina conclusiva della Coscienza di Zeno, una vasta fortuna otto-novecentesca). Analoghi i pensieri e l’atmosfera della poesia La féin de’ mond, ancora nella citata raccolta I bu: «Al ródi mi carétt / a ‘l se farmè» («Le ruote dei carri / si sono fermate»), le pipe di cotto si sono spente «a fè la vègia tra i paier» («durante la veglia nei pagliai»), infine «e’ ciod dla méridièna / l’è caschè» («il chiodo della meridiana è cascato»), a segnare la fine dei tempi e del tempo, il naufragio e l’annullamento della storia nell’eterna quiete del nulla. La disgregazione e la dissoluzione dell’ambiente contadino sembrano prefigurare, quasi allegorizzare per figuram, l’apocalisse universale. Viene in mente il «caso del contadino bernese» riportato da Ernesto De Martino (altro autore che univa, come Manna, all’attenzione antropologica una viva cultura letteraria) nel suo postumo, e purtroppo incompiuto, studio dedicato ai miti e alle ossessioni della fine del mondoxii: il caso, cioè, di

un giovane agricoltore che aveva sviluppato un allucinato delirio apocalittico in seguito ad alcuni eventi traumatici (la caduta di un aereo, lo sradicamento di alcuni arbusti, l’abbattimento di una quercia, la rimozione di un cancello) che avevano minacciato, o erano parsi minacciare, l’immutabilità inviolabile e il chiuso e perfetto equilibrio del microcosmo rurale, del piccolo mondo agreste – dell’angulus terrarum, per citare Orazio. Il mondo rurale dei neodialettali non è forse troppo dissimile da quello del contadino bernese, ossessionato dal terrore dell’Untergang, del «crollo» (si veda l’immagine angosciosa della meridiana caduta), e convinto che il solo «posto giusto» sia «Wo man zu Hause ist», «dove si è a casa».

Il tema della fine del mondo contadino che si traduce in apocalisse universale si rintraccia anche nel poema Il mielexiii, il quale si chiude con un testo costruito sulla falsariga del fortunatissimo topos

classico e medievale dell’ubi sunt: «Duv’èl al rósi e la chitàra, i chèn e i gat, / i sas e al sivi di cunfòin? / (…) Duv’el e’ Temp sa tòtt i dè dla stmèna, / agli òuri e i sgónd chi bat?» («Dove sono le rose e la chitarra, i cani e i gatti, / i sassi e le siepi di confine? / (…) Dov’è il Tempo con tutti i giorni della settimana, / le ore e i secondi che battono?»). Anche qui affiora l’idea del tempo ciclico e ricorsivo della campagna, scandito dal succedersi della semina, della fecondazione, della crescita, del raccolto (le virgiliane «leges aeternae», gli incrollabili «foedera» stretti fra uomo e natura, di Georg. I, 60), ma insidiato dall’ombra della fine, dall’eterno nulla dell’apocalisse, dall’abisso della notte infinita. È interessante notare che il ricordato motivo dell’ubi sunt si incontra (stavolta con un dichiarato richiamo a Villon, con tutta probabilità quello amaro ed assorto della Ballade des dames du temps jadis, con il celebre refrain «Mais où sont les neiges d’antan?») anche nella poesia Ingn’è piò (Non ci sono più) di Tolmino Baldassari, nella raccolta Al progni sérbi (Le prugne acerbe), del ‘75xiv: «E tot chi vec ch’i fuméva

la pepa / a l’ôra dla capâna de’ curtìl, / duv’ëi andé ch’a ni vegh piò?» («E tutti quei vecchi che fumavano la pipa / all’ombra della capanna del cortile, / dove sono andati che non li vedo più?»). Ed è proprio Baldassari, nella raccolta I vìdarxv, ad offrire quella che è forse la più potente sintesi poetica

del rapporto che esiste fra la percezione del dialetto come lingua morta e il senso, storico e tragico insieme, della fine di un mondo: in un indefinito futuro post mortem, dice il poeta, «int l’êria rôsa d’setèmbar / in do che ló j è sté / e nun a ni saren piò» («nell’aria rosa di settembre / dove loro sono stati / e noi non saremo più»), si potrebbe chiedere agli Etruschi, a quel popolo avvolto dal mistero di una lingua indecifrata e indecifrabile, imprigionata nel silenzio dei secoli: «iv vest al tëri d’grân / ch’agli à la cvérta d’lozli? / iv durmì sota j ùjum / int e’ zet grând dla nöta?» («avete visto le terre di grano che hanno la coperta di lucciole? / avete dormito sotto gli olmi nel silenzio grande della notte?»). Qui i virgiliani «silentia lunae» avvolgono il tramonto di una civiltà e, nel contempo, la riflessione su di una lingua morta o morente. E la meditazione sul tempo e sulla storia si associa a quella sul linguaggio: «al sévi d’spen» sono «dialet fat ad tëra», le «siepi di spine» sono «dialetto fatto di terra». Il tema sigetico, cioè del silenzio, riaffiora anche in Un cuchêl (Un gabbiano), uno splendido testo di Ombra d’luna, raccolta edita da Campanotto di Udine nel 1993: il gabbiano, forse erede, in chiave metapoetica, del baudelairiano albatro, e dunque simbolo della fragile nobiltà e dell’alata purezza del poetico, «l’éra la vósa dl’êria / l’amor de’ zet da pu d’mel èn / ch’e’ slarghéva agli éli biânchi / in un insogni d’ campanëli / biânchi e celëst int e’ zarden dla lus» («era la voce dell’aria / il rumore del silenzio da mille anni / che allargava le ali bianche / in un sogno di campanule / bianche e celesti nel giardino della luce»). Sulle orme di Mallarmé e di Ungaretti, la parola poetica avvolta, difesa, in certo modo, paradossalmente, definita e resa possibile dal bianco e dal vuoto della pagina, si libra, con le sue diafane ali, sulla soglia stessa del silenzio, si proietta nella lontananza dei tempi – nel vuoto, o nella pienezza, dei «dieci secoli muti» di cui parlava Carlyle lettore di Dante. E quel «giardino della luce» fa pensare all’Eliot dei Four quartets, all’inaccessibile «giardino delle rose» che lascia solo intravedere la sua radiosa pace, il riposto «heart of light» che in esso palpita.

Ma, tornando al testo di Guerra, si deve segnalare anche la presenza dell’immagine della «siepe», simbolo già presente nel mondo virgiliano (la «saepes» della prima ecloga delle Bucoliche, che «levi somnum suadebit inire susurro») e pascoliano (la siepe, «verde muraglia», dell’omonimo poemetto, simbolo della piccola proprietà contadina, del «nido», dell’angulus, che nel celebre «discorso della siepe» dannunziano passerà ad assumere coloriture e implicazioni nazionalistiche), e già entrato nella poesia dialettale romagnola del Novecento attraverso il caposcuola Spallicci (emblematica, per quanto ideologicamente caratterizzata in senso un po’ retrivo, e di lampante ascendenza pascoliana, la poesia E’ mi campett, nella raccolta Fior d’radecc, edita nel ‘30xvi: «La mi tëra l’è mezza turnadura / e e’ mi casett

l’è a l’ora d’una piòpa, / a i j ò mess una seva par zintura / e par badêr a ca a j ò la s-ciopa»: «La mia terra è mezza tornatura / e la mia casetta è all’ombra d’un pioppo, / ci ho messo una siepe per cintura / e per badare alla casa ho lo schioppo»). Sennonché, proprio il raffronto fra il valore che l’archetipo della siepe assume in Spallicci e quello che ha invece in Guerra mette in evidenza come la poesia novecentesca in volgare di Romagna sia passata da un gusto idillico e bozzettistico un po’ manierato ad una più sofferta percezione del traumatico tramonto di un mondo antico e dei suoi valori millenari.

In Giuseppe Valentini, poi, per l’esattezza nella poesia A m’invei con l’aqua de’ dban (Me ne vado con l’acqua del Bevano), inclusa nel volume Canva int e’ zil (Canapa in cielo), edita a Roma nel ’59 con prefazione proprio di Spallicci, la scomparsa del mondo rurale, e insieme il progressivo consumarsi ed esaurirsi di una individuale vicenda esistenziale, erano associati al motivo eracliteo dello scorrere e del fluire: l’acqua del fiume, «ch’la n’va gnanca a e’ mêr», che muore prima di arrivare al mare, è immagine riflessa della vita del poeta e, nel contempo, è «l’aqua de’ cuntaden / ch’la ciapa e’ culor / di bu, dal foi, di spen» («è l’acqua del contadino / che prende il colore / dai buoi, dalle foglie, dagli spini»). Anche il mondo poetico di Valentini è pervaso dal senso del vuoto e del silenzio: nella poesia U n’ vo piovar (Non vuol piovere), inclusa nella raccolta A cà mi (A casa mia)xvii, la luna vorrebbe morire «lasend a

i grell e’ su silênzi antigh», «lasciando ai grilli il suo silenzio antico» (ancora il virgiliano e leopardiano «silenzio della luna»), e «ciamê i murt e la mörta», «chiamare i morti e la morte» (altro tema, questo del ritorno dei morti e ai morti, della prossimità, ora affettuosa ora sinistra, a tratti dolce a tratti minacciosa, tra vivi e trapassati, che da Pascoli passa alla poesia dialettale, e che affonda del resto le proprie radici nelle tradizioni contadine, che, come notava ancora Manna con osservazioni che dalla realtà meridionale potrebbero essere estese senza sforzo a quella romagnola, avvertivano in modo profondo la prossimità, l’osmosi, la «parentela irrecusabile»xviii tra il mondo dei vivi e quello dei

defunti, tra il regno del giorno e quello della notte). Come dice una poesia dell’ultimo Baldassari, Tachë a la tera (Attaccato alla terra), inclusa da Franco Loi in Nuovi poeti italiani, prestigioso florilegio einaudiano del 2004, la consapevolezza che il mondo contadino, fatto di arole, madie, gramole, è fatalmente un «mònd andë», un «mondo andato», non attenua, ma semmai aggrava, la difficoltà e lo smarrimento di vivere «sänza quaiquêl che sepa ad tera / ad erba ad boza d’ëlbar […] / ad campsänt / cun al crosi sora i murt / ad neva ad acqua ad vosi / vosi di murt / vosi di tu babin» («senza qualcosa che sappia di terra / di erba di corteccia e d’albero […] / di camposanto / con le croci sopra i morti / di neve d’acqua di voci / voci dei morti / voci dei tuoi bambini»); dove, con straordinaria densità lirica e archetipica (e con possibile richiamo ad uno struggente sonetto spallicciano, A santa Marì nova, in cui padre e figlio guardano, nel camposanto, «sott al viöl / I occ de’ mi mort tra al zeja apassiunêdi», «sotto le viole / gli occhi dei miei morti tra le ciglia appassionate»), il tema della terra reca con sé quello della prossimità e dell’attaccamento ai morti, la cui voce si confonde, come in certo Pascoli (basti pensare alla Notte dei morti, con l’oltremondana «tremula voce» che si intreccia all’«inno infinito» del fiume), con quella dei bambini, sulla base, forse, della stessa contiguità e compenetrazione di morte e vita, disfacimento e rinascita, putrescenza e germinazione, che scandisce i cicli della natura e dei campi; e dove, lessicalmente, gli «emblemi eterni», per citare Ungaretti, della morte si accampano a fianco di quelli – petrarcheschi, hölderliniani, ermetici – della neve, dell’acqua, della voce. Viene in mente l’analogia oraziana (Ars poetica, 59 sgg.), di cui si ricorderà Dante, fra le parole e le foglie, destinate e «dovute», le une come le altre, alla morte, ad un destino di dissoluzione e, forse, di rinascita, di putrescenza e poi di rifioritura («Verborum vetus interit aetas», ma «multa renascentur quae iam cecidere […] vocabula»): motivi, questi, che sembrano assumere, nella moderna sensibilità, una connotazione cristiana (si pensi a Paolo di Tarso, alla prima lettera ai Corinzi, con l’immagine del seme che «non vivificatur, nisi prius moriatur», in analogia con l’uomo che «seminatur corpus animale, resurgit corpus spiritale», che da «homo terrenus» si muta e si trasfigura in «homo celestis»). La risurrezione e la vivificazione delle “parole perdute” del dialetto, lingua morta o morente, in agonia protratta e forse interminabile, è strumento di questo percorso, di questo sforzo, forse vano e anacronistico, forse già in partenza sconfitto dalla storia, ma non per questo meno significativo e degno, e anzi quasi eroico, di catarsi e palingenesi attraverso la cultura. Risalta, anche qui, la matrice in senso lato cristiana di quell’idea, in certo modo metastorica, di renovatio che sta alla base di ogni umanesimo della parola.

Del resto, il nesso fra l’atto dell’aratura e della seminagione e quello della scrittura, tramiti ed emblemi l’uno e l’altro di una fecondazione, di una vivificazione pertinenti nel primo caso alla sfera della natura, nel secondo a quella dell’anima e del pensiero, appare quasi archetipico, come potrebbe confermare l’indovinello romagnolo – sorprendentemente affine a quell’”indovinello veronese” («Se pareba boves / Albo versorio teneba / Alba pratalia araba / Negro semen seminaba…..») che rappresenta forse una delle testimonianze decisive della sfumata e remota transizione dal latino al volgare – «Tera bianca, smenta negra / Zencv somna, dù arbega» («Terra bianca, semente nera / Cinque seminano, due erpicano»), di cui si ricorderà il Pascoli del Piccolo aratore, delicatissimo rispetto di Myricae, e in cui il Piancastelli, e sulle sue orme Spallicci, scorgevano una «sconosciuta, disadorna reliquia di latinità»xix.

Ma la poesia neodialettale romagnola non conosce soltanto il senso drammatico e lacerato della frattura e della perdita. La Musa vernacolare sa anche riflettere, in modo profondo e sentito, ma non per questo oleografico o compiaciuto, la dolcezza del passato e della memoria – individuali o collettivi, esistenziali o storici – o la sacralità del tempo ciclico, del rituale atavico, della matrice remota ed ancestrale. Si consideri, ad esempio, ancora un testo del citato poemetto di Guerra Il miele, per l’esattezza la Canteda vintéun (Canto ventunesimo), in cui il gioco infantile di contare le foglie dell’albicocco assume quasi un valore sacrale, una sorta di iteratività rituale e simbolica, che la peculiare musicalità del dialetto, ricorsiva e ritornante, ma non monotona, sottolinea e scandisce con i suoi interni giochi d’eco e i suoi effetti di suono: «éun e’ geva méla, méla ona, méla do e méla trè / e cl’élt e cuntinuéva, méla e quàtar, méla zóinch e méla sì. / L’éra una cantiléna ch’la duréva da la matóina a la sàira» («Uno diceva: mille, mille una, mille due e mille tre / e l’altro continuava: mille quattro, mille cinque e mille sei. / Era una cantilena che durava fino a sera»). E, sul versante della memoria individuale, di una quasi proustiana mémoire involontaire, si potrebbe citare ancora uno splendido testo di Tolmino Baldassari, Cla lantérna ch’l’andéva pr’e’ mònd (Quella lanterna che andava per il mondo), apparso in prima stampa nella citata raccolta Al progni sérbi, nel quale riaffiora il valore espressivo delle morae, delle esitazioni e sospensioni vocaliche, valore di cui il poeta ha una ben determinata consapevolezza, come chiarisce la nota posta in appendice alle citate Poesie, la quale precisa che «l’accento circonflesso (…) indica un suono dittongato il cui primo elemento è una vocale chiusa e il cui secondo elemento è evanescente», mentre «le vocali ë ed ö sormontate da dieresi (…) prevedono suono lungo ed estremamente aperto»xx. A volte, destandosi d’improvviso nella notte, il

poeta crede di udire la voce della madre (evidente anche qui la suggestione pascoliana): «E alóra um ven int la ment quânt a sintiva / al rôdi dla barözza in so int la strêda / ch’al s-ciazzéva i giarùl e ch’al faséva / un armór ch’e’ sunéva e ch’uss pardéva / int e’ scur fònd dla nöta ch’l’inguléva / e’ mi ba, la barözza e i cavël» («E allora mi viene in mente quando sentivo / le ruote della biroccia sulla strada / che schiacciavano i sassolini e che facevano / un rumore che suonava e che si perdeva / nel buio fondo della notte che ingoiava / mio babbo, la biroccia e i cavalli»). Versi, questi, in cui i suoni vocalici lunghi, turbati, dilatati, sospesi, sembrano riflettere e assecondare lo snodarsi del filo teso e oscillante della memoria (si notino, in particolare, i suoni brevi e rapidi che accompagnano, in modo quasi fonosimbolico, il rumore del carro e quelli, più aperti e distesi, e insieme turbati e cupi, che avvolgono la visione della notte). E dalla notte della memoria riaffiora anche, nel canto d’apertura del poema La néva, la figura del contadino Sidin, che «passéva in bicicleta / e’ fazzulèt dla trebia intórna a e’ cöl / (…) e’ néva fôrt e’ chesca di grénd blëch / l’òman sambàdgh adëss un pö ziré / al vósi int l’ôrt i gob j è sota tëra / e dmân i farà la traza cun al pêli» («il Sidin passava in bicicletta / il fazzoletto della trebbiatura intorno al collo (…) / nevica forte cadono larghe falde / l’uomo selvatico adesso non può girare / le voci nell’orto i cardi sono sotto terra / e domani faranno la traccia con le pale»). Qui la danza dei significanti, le carole delle vocali e dei dittonghi sono mosse e avvivate dalla musica del ricordo, dal canto fluido e cangiante della memoria che custodisce, come cari fantasmi, i volti e i nomi del mondo contadino. In pari tempo, questo ricordo delle tradizioni, individuale e storico a un tempo, si traduce nelle forme modernissime di un monologo interiore ai limiti del flusso di coscienza, che riduce o sopprime la punteggiatura e allenta i nessi logici e sintattici (si noti almeno la repentina transizione analogica «al vósi int l’ôrt i gob», innescata e veicolata dalla memoria uditiva). Bastano i pochi stralci riportati per capire che siamo di fronte, senza mezzi termini, ad un grande poeta, forse addirittura superiore a un Guerra o a un Baldini, pur più noti e più celebrati a livello di critica ufficiale e di grande editoria.

Si deve infine prendere in esame la poesia neodialettale di Giovanni Nadiani, attivo anche come poeta in italiano e come saggista, traduttore, antologistaxxi. La poesia di Nadiani si può definire, in

senso lato, postmoderna; non già perché essa si arrenda al richiamo di una frammentarietà casuale e disorganica o di un facile, irriflesso minimalismo, ma perché ritrae in modo consapevole, traducendolo in materia e spunto di riflessione storica ed esistenziale, il tipico paesaggio della Romagna post-industriale, dove le distese dei campi sono solcate, e come lacerate e ferite, dalle autostrade e dalle industrie, e dove l’ambiente della riviera (la dantesca «marina là ‘ve ‘l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui») è stato invaso, e in parte deturpato, dall’industria dello svago, dell’effimero, in definitiva del vuotoxxii. Si potrebbe richiamare, per analogia, la situazione esistenziale

che ispira una delle opere più significative di uno fra i maggiori dialettali del secondo Novecento, vale a dire Furistír di Raffaello Baldini, edito nell’’88 da Einaudi: quella cioè di un individuo ormai estraneo anche a se stesso, paradossalmente forestiero, spaesato, straniato, anche nella terra e nel paese in cui è sempre vissuto, ma che sono ormai tanto profondamente mutati da non riuscire quasi più riconoscibili. Si tratta, se vogliamo, di una condizione non troppo diversa da quella dell’uomo di cui parla – memore forse di ciò che scrive Orazio nell’Ars poetica intorno alle parole che cadono e si rinnovano, muoiono e rispuntano come le foglie – il Dante del Convivio, che, tornando al paese natale dopo mille anni (ma la frenetica accelerazione del progresso ha nel frattempo ridotto, per così dire contratto, la proporzione temporale in modo vertiginoso), non comprenderebbe più la sua lingua natia, ormai del tutto trasmutata e alienata: «Se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante» (Conv. I, 5). Simile è, se vogliamo, la condizione di “stranitade”, di estraneità, in cui viene a trovarsi, nel suo stesso paese, il forestiero degli allucinati monologhi di Baldini («e’ furistír / aquè a so mè, a n cnòss bèla piò niséun»: «il forestiero / qui sono io, ormai non conosco più nessuno»): un forestiero che trova la sua pace, il suo ubi consistam solo nel cimitero, fra le lapidi e le gelide immagini degli amici di un tempo, quasi «abbracciando l’urne» come l’Omero foscoliano, o tornando ai «buoni, poveri morti» come il Pascoli dei Canti di Castelvecchio o il Carducci delle Barbare: «aquè, l’è cmè ès in piaza, a i cnòss ma tótt» («qui è come essere in piazza, li conosco tutti»). E questa immedesimazione, questo riconoscimento nella morte coinvolge, in chiave di implicita metapoesia , anche il linguaggio: il dialetto, per antonomasia lingua dei morti, idioma votato ormai alla marginalità e all’oblio, solo in un regno di simulacri ferali, di ombre della memoria, può trovare il suo «paese innocente», la sua pacifica dimora, non più insidiata da forze esterne e turbatricixxiii.

Tornando a Nadiani, lo spazio impalpabile, quasi immateriale, «liquido» direbbe Zygmunt Bauman, della postmodernità, trova, nei suoi versi, perfetta espressione in un idioma romagnolo che si è ormai spinto e dilatato fino ad accogliere senza mediazioni il termine straniero già assunto in italiano per designare una nuova realtà. Leggiamo in In dóv (Dove), un testo della raccolta Tir: «e’ pê che i pont / i s’purta d’là da nó / nench se incion / u n’e’ sa brisa in dóv // d’s-ciota i pasa zet / i tir ad nebia o un fil / d’un’acva vérda e stila / ch’u si véd e’ fond» («Pare che i ponti ci portino oltre noi, ma nessuno sa dove. / Di sotto passano muti i tir di nebbia o un filo d’acqua verde e sottile da vedere il fondo»). Una situazione, questa, che può ricordare, per la simbologia del resto archetipica del ponte, il Kafka delle ultime pagine del Processo o, poniamo, il Montale di L’Arno a Rovezzano (due testi in cui la simbologia del ponte oscilla fra passaggio ed esitazione, mutamento e persistenza, realtà e illusione). E la splendida, inedita metafora dei «tir di nebbia», in cui la concretezza del referente (l’autotreno, immagine tipica della terza rivoluzione industriale, dell’età della grande distribuzione e del consumismo) è avvolta e stemperata in uno scenario e in una situazione (la nebbia) tipici dell’immaginario poetico e cinematografico (si pensi ad una celebre sequenza di Amarcord di Fellini) della Romagna, sintetizza ed esemplifica in modo emblematico la condizione storica ed espressiva di una poesia che si confronta con la contemporaneità avvalendosi di uno strumento comunicativo dalle radici antiche, e dalla sopravvivenza sempre più ardua e diradata. Nella stessa raccolta, con più diretto riferimento al tema principale di questo studio, andrà menzionata la poesia Dmenga (Domenica), ove è còlta, senza nostalgia e senza retorica, la più sintomatica contaminazione, a livello sia di oggetti che di lingua, fra il mondo rurale con i suoi tempi e i suoi cicli e una realtà tecnologica e industriale che quei cicli e quei tempi ha alterato inesorabilmente e senza riguardo: «l’è e temp dl’arcôlt prema de’ sölit / e’ grân brusê senza crèsar i tratur a / fê la fila dnenz a e’ cunsôrzi la / dmenga senza rispir staiazêda da i / brench bucalon d’turesta ins i rifles / dal bike» («È il tempo del raccolto anticipato, il grano arrostito senza crescere, e i trattori in fila al consorzio della domenica senza respiro, frammentata da branchi assordanti di turisti sui riflessi delle loro bike»). Qui alla musica dolce e fluente del ricordo che abbiamo ascoltato in Baldassari si è sostituito, a livello della versificazione, un respiro ansioso, spezzato, ansante, frantumato dalle spezzature e dagli iati.

Il contrasto fra il persistere delle tracce della civiltà contadina e l’irrompere della realtà tecnologica affiora anche nei concisi e netti epigrammi della più recente raccolta Beyond the Romagna skyxxiv (del resto l’epigramma, che in questo libro, per avvertimento dello stesso autore, potrebbe, con

efficace effetto di straniamento formale, essere letto anche invertendo l’ordine dei distici, ha, per evidente eredità classica, una grande importanza nella poesia neodialettale romagnola, ad esempio nel primo Guerra). «E’ grola al raganël / int l’acva trovda // la séra agli erum da muradór / al dôndla dal grù» («Ronfano le rane / nell’acqua torbida. // Di sera gli arnesi da muratore / dondolano dalle gru»). L’eidyllion, la “piccola immagine” naturalistica, in cui è da notare il fonosimbolismo del canto delle rane («e’ grola al raganël»), che può richiamare il pascoliano «breve gre gre di ranelle»xxv, sono, per così

dire, silenziosamente turbati e alterati dai simboli abbandonati e immoti della realtà industriale.

Nadiani, del resto, percepisce con vivo senso storico e insieme stilistico la natura di lingua declinante e morente che è propria del dialetto. Con una significativa, straniante contaminazione di inglese e dialetto, nel testo proemiale di Beyond the Romagna sky, intitolato R(emote) O(nly) M(emory), lo svanire e il perdersi di una lingua sono fissati nel simbolo dei «dischett spaché», dei «dischetti spaccati», la cui «memôria» (semanticamente sospesa tra il senso tecnico che la parola ha nel lessico dell’informatica e quello esistenziale e storico) è forse destinata a perdersi «come cvéla di s-cen / chi j a ‘druvé / drì de’ ziment di tumben», «come quella degli uomini / che li hanno usati, / dietro il cemento dei loculi», o forse consentirà, ricomposta, di conoscere ancora qualcosa «dla lengva di s-cen / chi a finì d’dis cvël / chi n’s’dà piò la vós», qualcosa «della lingua degli uomini / che hanno finito di salutarci / che non ci chiamano più». Viene in mente lo Zanzotto di Idioma, che in Ascoltando dal prato parla di un messaggio che cerca di «riversare» un «indirizzo» o una «dichiarazione di mittente (…) da un nastro registrato / a un altro / non meno mitico instrumento», o quello della Beltà, consapevole di scrivere «in questa / lingua che passerà» (ma, si noti, già il Foscolo delle Grazie manifestava la speranza, minata dal dubbio, che l’«idioma d’Italia», consacrato alle tre dee, potesse correre «puro a’ nepoti»). La cupa associazione tra il dischetto spaccato e il loculo, tra il decomporsi e il disperdersi della lingua e quelli del corpo, riecheggerà cupamente nei versi per la morte del poeta cesenate Walter Galli, intitolati e’ fred di pì (il freddo dei piedi) e inclusi nella raccolta Eternit®xxvi: «incù l’è

e’ dè ch’i sples / ch’e’ poeta bon / e te t’al sê che cun lò / i splirà nench ch’e’ pez d’te / ch’l’è la tu lèngva / che incion l’impararà mai piò / e tra al su ong int la bara / u i sarà nench un livar d’puisei» («oggi è il giorno / che seppelliscono quel poeta grande / e tu lo sai che con lui / seppelliranno anche quel pezzo di te / che è la tua lingua / che nessuno mai più imparerà / e tra le sue unghie nella bara / ci sarà anche un libro di poesie»). Qui la topica del tombeau du poète (si potrebbero richiamare, con qualche cautela, il Mallarmé del Tombeau d’Edgar Poe, con l’immagine apocalittica del «calme bloc ici-bas / chu d’un désastre obscur» e l’idea del poeta che solo l’eternità fa pienamente divenire se stesso, o magari il D’Annunzio della Contemplazione della morte, con le pagine sulla morte di Pascoli e la convinzione, mutuata dallo Swinburne dell’Hommage to Wagner, che con la morte di un poeta il mondo paia «diminuito di valore») si tinge, ma senza compiacimenti elegiaci, dell’amara riflessione intorno alla fine di una lingua e, con essa, di una civiltà e di un mondo. La storicità della lingua, il suo divenire diacronico, assumono la forma cupa di una minaccia di oscuramento e di sparizione. Si potrebbe citare, quasi a mo’ di sintesi, ancora lo Zanzotto di Filò, con l’idea del dialetto come lingua che ha nel suo sapore «un s’cip del lat de la Eva», «un gocciolo del latte di Eva», qualcosa di primigenio, congenito, originario: lingua morta, lingua di defunti e di cimitero, che è però, proprio per questo, lingua per antonomasia della poesia, di una poesia che «no l’è in gnessuna lengua / in gnessun logo»; lingua che restituisce la vita e la voce profonde ed oscure della magna mater, che forse, estintosi il dialetto per sempre, troveranno eco solo nel canto degli uccelli, in cui seguiteranno a risuonare «in cao de xhiése e pra», «inte ‘l sol, inte l’onbría», «in fondo a siepi e prati», «dentro il sole, nell’ombra».

3. Si è appena accennato alle “parole perdute” del dialetto, al progressivo, e con tutta probabilità irreversibile, venir meno e spegnersi del vernacolo. Ma in Romagna, al declino della poesia vernacolare, peraltro contrastato dall’esperienza creativa di autori come i citati Nadiani e Spadoni, a cui si deve aggiungere almeno Giuseppe Bellosi – poeta uno e duplice, diviso fra realtà e simbolo, percezione sensoriale e stato interiore, nonché sutdioso dotto e amorevole della tradizione culturale e letteraria della sua terra –, fa riscontro, specie nell’ultimo scorcio del secolo passato, un vasto movimento di poesia in lingua, che ovviamente non è qui possibile prendere in esame se non per esempi e campioni significativi, e con specifico riferimento alla tematica e al taglio di questo studio.

Ideale cerniera, forse non solo cronologica, fra la produzione dialettale e quella in lingua in ambiente romagnolo è rappresentata dall’esemplare diglossia di Mario Bolognesi, prematuramente scomparso nel 1976, la cui opera può essere ora rivisitata attraverso una preziosa antologiaxxvii. Anche

nel percorso di Bolognesi l’eredità della tradizione, sia storico-geografica che specificamente poetica, coesiste con la viva coscienza delle lacerazioni del moderno. Se da un lato un testo come La febbre può suggerire ed evocare l’evasione fantasmatica in scenari algidi, nivali, iperborei, non immuni, nel timbro, nel tono, nel ritmo stesso, da reminiscenze pascoliane («E dietro uno stormire / debole di sonagliere / ai vetri fulgenti la strada / s’avvolse in foreste di gelo»), dall’altro L’ora d’aria, pressoché coevo, mostra un poeta che, misuratosi con il Montale delle Occasioni e della Bufera, e forse anche con il Luzi di Onore del vero e di Nel magma, accoglie come sofferta allegoria esistenziale e storica il difficile e tormentato ritorno di una primavera che «reca solo se stessa e il suo miracolo», quasi a far stentatamente presagire, per un’umanità post-bellica condannata a «spendersi, come si vive, al fuoco / o ad altro che ci dissolve», una salvezza e una redenzione forse (dati l’immenso vuoto e l’infinito, cosmico silenzio che separano il divino dall’umano) impossibili, e comunque scontate a caro prezzo: «E l’allegria, la frode / della speranza lavorino per lui, / per l’uomo che verrà; il suo passo / lieve per noi da non potersi udire / così alto nell’erba dello zenit». Il che, poi, quasi a segnare la scissione e la dicotomia, e successivamente la ricomposizione dialettica, di due fasi o due stagioni mentali, interiori, non cronologiche, non impedisce che un più tardo testo dialettale si chiuda su di un’iconografia astrale di ascendenza classica e di risonanza tra leopardiana e pascoliana, avvolta dalla luce incerta del crepuscolo, fra notte ed aurora: «Ch’us sgola e gal da quand / che la cumêta de car / la coza int al piantè / insêna ch’l’è dê grand» («Che si sgola il gallo da quando / l’aquilone dell’Orsa / picchia contro le piantate / fino a che è giorno grande»).

Strettamente legata ad un ambiente rurale, e di conseguenza ad una cultura dialettale, è l’esperienza poetica del trentenne Alex Ragazzini. Non a caso, la già organica e matura raccolta Nella speciexxviii è introdotta da una nota di Tolmino Baldassari (il quale fa notare come il libro sia

«consapevolmente – e dunque unitariamente – ancorato a una poetica»), e l’autore sta lavorando ad un poemetto o monologo, per ora inedito, nel dialetto, a tutt’oggi letterariamente vergine, del suo paese, Godo, nel ravennate. Il libro, che in epigrafe evoca, citando Lucrezio, le «specie delle conchiglie» che «con simile diversità (…) screziano il grembo della terra», è tutto percorso da un ambiente e da una sensibilità rurali, a cui è sotteso il modello offerto dall’Esiodo degli Erga kai emerai. Per gli uomini della città giusta, diceva l’Ascreo, «la terra produce (…) vitto copioso e sui monti la quercia / in cima porta le ghiande e sul tronco le api» (232-233), e un grande beneficio è insito «nella malva e nell’asfodelo» (41), nei frutti semplici e puri della Grande Madre. Questi temi e questi motivi, connessi all’idea persistente che il fecondo grembo della terra offra, con la sua varietà molteplice e insieme coerente, nutrimento e vita, sono modernamente rivisitati in questa poesia. «L’argilla nera, forata / dalla salsedine: pegno del lavoro / se è la creta delle nostre case / a richiamare la specie in sé». «Sapienza in sapienza, risoluta. / Un dominio interno / il carico della pianura / per un anno almeno senza miseria. / (…) Forse accoglierà le radici / sedimentate del giorno / come le messi rigovernate». Una parola poetica, questa, nutrita, come le messi, dal grembo vasto e fecondo della magna mater, e pervasa da una sapienza remota, atavica, di sapore biblico, essa stessa antica e profonda come la terra. Potrebbe valere anche per Ragazzini la felice definizione di «poeta ctonio» che Contini dava di Zanzotto. Il Vischio, con i suoi «rami asciutti», «ripercuote col proprio sentore / il trasporto o il trapasso…./ La ragione porta la nostra vita / simile al profilo dell’ombra, / forse per consueta abitudine / dispersa in un deposito terreno, / complice delle nostre opere». Qui il vischio dei pascoliani Primi poemetti, che si impossessa della pianta, che insinua il proprio germe nel fluido vitale di quella e lo converte in «glutine di morte», si fa emblema dell’«ombra», del «trapasso», della mobile vicenda di morti e di nascite che scandisce l’esistenza.

Legato ad un ambiente rurale è anche l’imolese di nascita, e tossignanese d’adozione, Franco Brusa, poeta solitario e dimenticato, che sembra incarnare in sé e rinnovare quell’archetipo di poeta-contadino che trova più di un riscontro nella poesia contemporanea, da Robert Frost (espressamente evocato da Brusa) al nostro Bellintani a Seamus Heaney. Alla raccolta giovanile, ma già compiuta, matura, sicura nella misura espressiva essenziale, limpida, necessaria, Fior di calanco, edita da Galeati di Imola nel 1964, ha fatto seguito un lungo silenzio, spezzato, a distanza di anni, da Alessandra e le altre, silloge pubblicata, unitamente alla riproposizione di una parte della prima plaquette e ad una scelta di altri versi giovanili, in un pressoché introvabile volume (Elegie di fine millennio, Circolo Luigi Einaudi, Imola 2004).

preziose patate

e rossi radicchi

per la nostra cena

il miracolo del pane –

la salute del vino

nei bicchieri

la polenta ha il colore

della fame

viviamo per una felicità quieta

lontano un aereo

ne sfiora il silenzio

Il testo appena riportato per esteso da Fior di calanco sintetizza ed illumina in modo eloquente lo spazio poetico in cui si muove e respira la parola dell’autore: i bianchi e i silenzi ungarettiani o eluardiani (proprio di Éluard Brusa evoca altrove, proiettandola su una sofferta identificazione di poesia e vita, la distesa e fluente poésie ininterrompue: «vivere una vita / che non fosse una vita / una poesia che non / finisse né oggi né ieri / né sempre»), sapientemente dosati, inseriti, come si vede negli ultimi tre versi, addirittura fra parola e parola, oltre che fra verso e verso e fra strofa e strofa, avvolgono e definiscono una sorta di oraziano terrarum angulus modernamente rivisitato, di epicurea autàrkeia tradotta nella scelta, esistenziale e insieme letteraria, di un tibulliano «contentus vivere parvo»: una dimensione spaziale e insieme interiore, questa, che l’aereo, simbolo ed emblema della tecnologia e, nel contempo, della velocità e dell’annullamento delle distanze, icona, in una parola, del moderno, sfiora da lontano, lambendo e forse insidiando la “felicità quieta” del quotidiano, la pace della casa e degli affetti.

Ma non si deve credere che la poesia di Brusa si risolva e si esaurisca in una sorta di chiuso idillio domestico. Essa conosce anche l’annullamento, di cui parlava il Nietzsche della Nascita della tragedia, del principium individuationis, l’immedesimazione panica (si può pensare al D’Annunzio di Stabat nuda aestas o al Rimbaud di Aube) con l’immenso grembo della natura: «ho fatto all’amore / con l’alba / con tutti gli uccelli / della finestra / col calanco col cielo / […] col fiore amaranto del noce». Nei versi più maturi, peraltro, questo quasi panico ed estatico amore per la natura con i suoi risvegli, le sue fioriture, le sue segrete germinazioni, sembra essere a tratti turbato da una coscienza lucida, amara, disincantata, quasi leopardiana o sbarbariana, che avverte infine «la nullità del vivere», l’«inutilità di notti insonni», il «deserto» dell’«anima». Di conseguenza, lo sguardo del poeta si affisa sul mallarmeano «immacolato silenzio» della pagina vuota, in cui si traduce e si trasfonde, come leggiamo in uno degli ultimi testi (quasi a sancire, in modo ricorsivo, e sotto il segno paradossale dell’afasia, la coerenza e la continuità essenziali di un percorso poetico pur così vario e ricco), la solitudine esistenziale di un uomo che pure ha tanto desiderato e amato: «il giorno si svena / su lame di calanchi / mi si matura una sera / oasi di silenzio / contesa nel mio romitaggio / tra sempre ed ora / odierno ed eterno / […] fisso sul foglio qual portento / l’indicibile bianco». Già, del resto, il poeta di Fior di calanco, memore forse del Montale di Cigola la carrucola del pozzo così come del Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi («scenderemo nel gorgo muti»), associava all’amore la morte, all’abbandono della passione quello dell’estremo viaggio, ed evocava cupamente l’affondare e l’annullarsi nel sonno eterno dell’estrema pace:

ti amo nella nitida

trasparenza

del fondo

quasi sabbioso

che lascia intravvedere

il sogno della morte

Eppure, a questo senso di nulla e di vuoto sembra opporsi, nei versi più tardi, l’ostinato, quasi disperato amore alla parola poetica, ad una materia verbale còlta e plasmata a volte (in un modo che può far pensare a certi percorsi sperimentali degli anni Sessanta e Settanta) nella nudità fonica dei significanti, nella giocosa fascinazione del suono lieve ed aereo, svincolato, fino ad un certo limite, dalle cose e dai pensieri, ma pur fuso intimamente ai nomi e ai corpi delle donne desiderate e godute: «alessandra casca / tella di sillabe / nobile elle / nicità de tuo nome / sotto le fronde di una / elle cordialità com / pariscente di tre….».

Un’«acqua sporca di progresso / minata di civiltà industriale» rischia di fluire ed espandersi fino a lambire e contaminare la purezza dell’angulus. Ma si avverte che, come il suo Frost (per l’esattezza quello dell’Ospite di novembre, qui citato nella versione tenue, riposata, delicatamente padana, di Attilio Bertolucci), Brusa continua ostinatamente e dolorosamente ad amare anche «gli alberi in abbandono, questa terra / desolata e deserta, il cielo greve, / le bellezze dilette al suo cuore».

Il motivo agreste affiora, pur se in modo più episodico, anche nei versi di un’altra esponente romagnola di quella generazione dei «poeti nati negli anni Settanta» che desta grande interesse nella critica attuale, vale a dire Roberta Bertozzi, vicina, come molte rappresentanti della poesia femminile d’oggi (basti qui citare Francesca Serragnoli), ad una complessa e nervosa misura di introspezione e di meditazione esistenziale, che fa pensare ad Emily Dickinson. Si leggono, nella raccolta Il rituale della nevexxix, versi come questi: «il grano mi consola / così incenerito dal sole. / Nel radioso sperpero di

giugno / vivo l’implosione / a capo chino come le rose // Sconto del creato la scomposta bellezza / la troppa vicinanza alle corde / la scaturigine del verde / e l’irresponsabile, già sfiorito, vigore» (viene in mente, per mera suggestione di lettura, lo splendido inno di Gerard Manley Hopkins alla «bellezza cangiante», che qui cito nella traduzione di Montale: «Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate: / […] per le toppe / dei campi arati e dissodati, e tutti / i traffici e gli arnesi»). Anche qui, pur se in un modo piuttosto lontano dalla vena di Ragazzini, il potente fascino della fecondità della natura e la contemplazione della screziata e molteplice varietà del creato trovano riscontro in una tesa meditazione esistenziale e psicologica. Ancora: «I gigli si sfilano nei campi / gli uccelli radono spaziosi i tetti / la magnolia spande i suoi aromi bianchi / ancora gli stessi errori scavano uguali passi / e la risposta è fuori / ai margini / negli strappi» (dove la riflessione su una condizione umana inaridita e «insensata» è associata ad uno scenario agreste essenzializzato negli emblemi evangelici dei «gigli del campo» e degli «uccelli del cielo», stilizzato nelle linee limpide di una pura, inattingibile semplicità).

Si può proseguire con uno dei poeti in lingua italiana più significativi, e certo fra i più culturalmente avveduti e maturi, della Romagna d’oggi, vale a dire Luciano Benini Sforza. A dire il vero, la sua poesia è legata più al cronòtopo, già ricordato, della dantesca “marina”, che non a quello rurale: in un testo splendido ed emblematico della sua più recente e più rilevante raccoltaxxx, intitolato

Il passo breve, gli spostamenti a cui la linea di costa e l’imboccatura del porto (il Porto Corsini della montaliana Dora Markus, pervaso da una bizantina «ansietà d’oriente») sono andate incontro nel corso dei secoli per l’azione dell’uomo e della natura divengono segni e tracce visibili del divenire storico, del passaggio da un’epoca in cui lo spazio, il tempo e i luoghi avevano coordinate ben precise e contorni riconoscibili a un’era in cui, invece, ambienti e situazioni sono stati frammentati, e come smaterializzati, dalla rivoluzione digitale, immersi in una stessa indistinta «modernità liquida», in un “mezzo” ormai incolore, omogeneo, indistinguibile dal messaggio, da ogni indifferente messaggio, e all’interno del quale «da qui a qualsiasi altro punto // il passo è breve, lo svanire / di un’immagine in sogno».

Eppure, già in Canto d’amore per la signorina Amelia, testo di una raccolta precedente, Viaggio senza scompartimentoxxxi, la rievocazione di un’assolata, luminosissima scena agreste («In un luogo vicino al

sogno / era sbucata all’indietro, / di fronte al padre come in passato // l’aveva sentito con la voce / che udiva nella calura / silenziosa della campagna (…) // il viso arrivò subito ai capelli / duri come foglie di granturco / che vedeva alla luce di agosto») dischiude la via alla prospettiva di una rinascita, di una vita post mortem («non si muore una volta sola»). L’immaginario agreste incarna, qui, un passato che può tornare, una radice antica che può − fosse pure solo nella speranza o nel sogno di cui la poesia è frutto, e insieme strumento − rivivere. In un altro testo della stessa raccolta, Viaggio d’ottobre, il repentino e frammentario riaffiorare dal passato di immagini agresti segna la percezione di un vissuto che appare, stavolta, bruciato e irrecuperabile: «sul cuore volano gigli bianchi / si preparano scrosci, silenzi / e immagini che sento irrefrenabili // (…) aspettando le prime giunchiglie / anche tu mi sei passata avanti / su queste terre d’acqua e pianura / che (…) / stagliano il quotidiano / dissipare che è morte». E in alcuni testi della prima parte del citato volume Padri a nord-ovest (Come carte, Se sfiorava l’ombra, Un giorno di febbraio) è rievocata, per brevi tratti, una sorta di epopea rusticale, di romanzo familiare e ciclico sintetizzato e risolto liricamente, che può far pensare alle vicende di Rosa e Rigo nei Nuovi poemetti del Pascoli o, magari, al Bertolucci della Camera da letto, modernamente epico, figlio di Omero e insieme di Proust. In quest’ottica si inserisce l’evocazione, pascoliana anch’essa, dei «buoni, poveri morti», immersi nella memoria senza fine del passato, in un «silenzio puro» di chiesa, in un «tempo che viene senza tempo» (spontaneo il richiamo al «sine tempore vivere» dell’Africa del Petrarca): «le donne / severe di pudore, o madri buone / già a vent’anni, come la pianura / cova da sempre la sua vita in grembo: / questo mio mosaico, questo sgranare / di genti sepolte sotto il cielo / piove sulla mente che le accoglie». Qui si realizza davvero quella che con Luzi potremmo chiamare una «vivente comunione» di vivi e defunti, di tempo e eternità: una coesistenza serena e pacificata, una memoria limpida e luminosa, senza più le venature inquietanti, senza più il fondo di rancore o di minaccia che pare a volte di avvertire in Pascoli. E la grandiosa immagine, ai limiti della personificazione, della pianura madida e feconda torna, come porta di una possibile perpetua palingenesi esistenziale, ora che il poeta ha «varcato la gioventù dei trenta» (si pensi al Villon del Grand Testament, ripreso significativamente da Eliot), in un altro splendido testo del volume, Adesso che ho varcato: «la linfa della pianura verde a marzo, / quando, stesa nelle vesti di rugiada, / è sposa fresca e giovane di fianchi». E si noti, poi, come nell’era postmoderna dei non-luoghi, come li chiama la filosofia di Marc Augé, degli spazi virtuali, impalpabili, smaterializzati, illusori, delle percezioni falsate ed inautentiche, in un’era in cui non solo il pensiero, ma la stessa sensazione e la stessa corporeità paiono sfumare e disperdersi nel dominio dell’immagine fugace, dello schermo labile, dell’inafferrabile simulacro digitale, la parola poetica sappia ritrovare (ma proprio a partire da quella virtualità e da quell’illusorietà) i luoghi vivi e caldi del vissuto e della storia; e, in pari tempo, come nell’età della globalizzazione riemerga, in una scrittura che pure è tutt’altro che priva di consapevolezza storica e sociale, tutt’altro che ferma ad un elegiaco rimpianto del tempus actum, la dimensione del particolare, del locale, dell’idion.

In un non dissimile cronotopo emiliano-romagnolo, disteso «tra il mare e Bologna», si inscrive il discorso poetico di Stefano Maldini, i cui versi, finora sparsi in riviste e antologie (fra cui I cercatori d’oro, curata nel 2000 da Davide Rondoni per Nuova Compagnia Editrice, e Parco poesia, edita da Guaraldi nel 2003), stanno, mentre scrivo (nell’ottobre del 2005), per essere in parte riuniti nella raccolta Luce instancabile¸ presso Raffaelli. Si potrebbe citare, a proposito di questa poesia (in cui tra l’alto vengono evocati luoghi cesenati, dal Ponte Vecchio alla salita che conduce alla Rocca Malatestiana), il Serra del Ringraziamento a una ballata di Paul Fort o delle ultime lettere a De Robertis: un Serra attento ad avvertire e ad ascoltare, nell’imminenza di una fine vagamente presagita, o forse voluta e inseguita, ed entro un paesaggio, sia esterno che interiore, segnato di trasparenze e di fumi, tramato di nebbie e brine, il «senso del silenzio», il segreto significato delle parole che si sarebbero volute, e non si poterono, dire, dei colloqui che, in un rapido incontro o attraverso lo schermo immutabile della pagina scritta, si sarebbero voluti, e forse potuti, scambiare; delle cose, infine, che la nebbia avvolge e scontorna, e che lo sguardo contempla stanco e lucente come se fosse l’ultima volta, come se l’occhio volesse fermare per sempre, eternare come nel cristallo, le figure e i colori che invadono l’iride improvvisi. «È curioso come pesi qualche volta il senso del silenzio e di tutte le cose che si sarebbero volute dire e sono cadute dal tempo»xxxii. Sennonché, in Maldini, pure immerso in un

paesaggio padano spesso velato di nebbie («arrivi così […] / leggera / come la nebbia di dicembre / colora di bianco il mare»), questo “senso del silenzio” («la danza silenziosa delle dita» che scandisce un momento di quiete e di tenerezza, «la luce delle cose piene di silenzio», ferma, sospesa, enigmatica, la splendida, balenante epifania della «pietraluce»), questo corteggio di volti, voci e ricordi “caduti dal tempo” non sono segnati da un crepuscolare senso di malinconia, di rimpianto, di perdita, ma semmai ravvivati e vivificati da una sorta di amor fati, da una limpida e lievemente ilare accettazione della vita con le sue occasioni e i suoi affetti – da una sorta di ungarettiana “allegria” che è, però, come raddolcita, avendo perso quanto di pervicace e quasi rabbioso vi era nell’essere «attaccato alla vita» anche e soprattutto di fronte alla spasmodica manifestazione del dolore e della morte: «all’improvviso si alza un vento / che sa solo di allegria» (chiusa che sembra ricalcare, in una chiave di abbassamento discorsivo e colloquiale, il Valéry del Cimitero marino: «Le vent se lève: il faut tenter de vivre»).

Ma la parola poetica di Maldini non resta ancorata solo alla mera dimensione diaristica, per così dire evenenziale, non rimane impigliata, se così possiamo esprimerci, in una rete di giorni e di eventi gettata nel torbido e disordinato fluire di una temporalità immanente, di quello che gli ermetici chiamavano il «tempo minore»; tale parola sa a volte trascendere il vissuto individuale, proiettare l’io lirico in una dimensione intersoggettiva, in cui esso non di dissolve, ma semmai si riflette per tornare, rafforzato, a se stesso e alle proprie oggettivazioni testuali: «[…] diventi / tutti gli amanti del mondo // nel corpo che vedi la luce / come uno spazio più largo / e dai contornni sembra scomparso / ogni elemento del tempo». Eppure questo dissolversi e svanire di ogni determinazione temporale non sfocia in una pura trascendenza da cui siano esclusi l’umano e il vivente: si tratta, semmai, di una sorta di corpus mysticum piegato, per così dire, alla misura dell’umano, di una sorta di eternità esperienziale, accesa e illuminata dalla vitalità della presenza e dalla realtà di un amore integralmente terreno, ma cionostante non chiuso ai bagliori della grazia.

È ancora Benini Sforza, preso in considerazione poco sopra come poeta, ad introdurre Alessandro speaks, raccolta poetica di Carolina Carlone, giovane poetessa ravennate, pubblicata (quasi ad ulteriore conferma del dialogo fra tradizione e modernità, o post-modernità, di cui si è detto) esclusivamente in formato digitalexxxiii. Come sottolinea Sforza, nell’universalismo ellenistico che Alessandro precorse e

preparò vi è qualcosa che può ricordare l’età postmoderna, accomunata fino a un certo segno alla grecità postclassica dalla tendenza alla contaminazione e alla commistione di usi, culture e credenze diversi, ma avvolti ed uniti da una stessa matrice, da una stessa koiné che peraltro rischia, in questa sua incarnazione nuova ed attuale, di sfumare nell’indeterminatezza, nel vago, nel neutro, se non addirittura nell’omogeneità grigia e spersonalizzante di uno sguardo e una logica totalitari.

Conviene soffermarsi su Dicono le donne al tempio, un testo di grande densità e ricchezza di implicazioni tematiche e concettuali, che, per la sua interna coesione e, per così dire, per la sua intima necessità e aderenza ideative ed espressive, non può essere citato se non integralmente.

Il tuo tremore

Sarà il suo assenso

Cospargiti di incertezza

o non troverai la porta sacra

in questo temenos

giovane gladiatore

che riduci a una

tutte le lingue

O Alexandros,

Che combatti con destra e sinistra

E getti la rete sulle parole

Non chiederci di condurti

al dio che ci frantuma

Reggiamo torce

dai bagliori accecanti

e ci aggiriamo alla pozza delle voci

come animali che temono un veleno

Come noi

colei che cerchi è murena indicibile

che dal fondale morsica

e trapassa

E tu arriverai a chi chiami

solo per sentieri

dove le sarisse cadono

dalle mani

Qui, alla logica perentoria ed unificante del potere le donne del tempio, dedite forse al culto orfico o dionisiaco, contrappongono lo sparagmós, la disiectio, la dispersione dell’invasamento mistico; e davanti alle parole squadrate, ai dettami drastici e severi del potere si erge, umile e insieme potente, il raccoglimento dell’euphemía tanto spesso richiamata dai tragici greci, il “sacro silenzio” che avvolge e protegge il thémenos, il recinto del tempio, inaccesso ed inviolabile alla storia e alle ideologie, e sulla cui soglia devono cedere e cadere anche le sarisse, le lance macedoni, simbolo di un’altra violenza e di un’altra lacerazione, diverse da quelle sacrificali perché razionali, sistematiche, calcolate, cioè quelle della conquista militare. Le donne del tempio si aggirano «alla pozza delle voci / come animali che temono un veleno» – si ricordi l’esortazione del coro euripideo (Bacchides 69-70): «l’estraneo si faccia da parte, / non contamini la bocca raccolta in sacro silenzio (euphemon stoma)». Ma si potrebbe, per via indiretta, richiamare anche la pàrodo dell’Edipo a Colono (vv. 125 sgg.), per il cronòtopo sacrale dell’astibes alsos, del «bosco inviolato delle vergini invincibili», accanto a cui si deve passare senza sguardi e senza parole, senza emettere altro che «la silenziosa voce della mente (to tas euphamou stoma phrontidos)». Modernamente, si potrà ricordare che anche l’Alessandro pascoliano dei Poemi conviviali approda infine alla visione indecifrabile del mistero, dell’Oceano, del Niente, sfumanti nella «cava ombra infinita» del sogno di Olimpiade, avvolto da una sorta di sonoro silenzio, di «rumore bianco» in cui si frammischiano indistintamente il «favellìo d’un fonte» e il «bisbiglio» delle querce.

La stessa disposizione, la stessa partitura e tessitura del testo, così frammentate, così profondamente venate di spezzature, bianchi, pause, iati, scandite da quella che il Celan del Meridiano chiamava «la svolta del respiro», sembrano restituire sulla pagina, nei suoi suoni e nel suo ritmo, l’emergere di quell’arcano silenzio. Nell’atmosfera di questa sacralità sospesa e metatemporale, e per ciò stesso perennemente attualizzabile, si cala e si armonizza anche la possibile allusione cristologica (si accosti quel “Colei che cerchi” all’evangelico “quem quaeritis”).

Con un moderno transfert dalla lontananza quasi archetipale del passato storico-mitico alla contemporaneità, si potrebbe leggere nel testo della Carlone una sorta di richiamo ad una salutare e consapevole umiltà di intelletto e di parola, in un’epoca che sembra dominata dal flusso caotico ed incessante della comunicazione e dalla vaghezza mistificante e insidiosa di ideologie, o post-ideologie, ormai stancamente sopravviventi a se stesse; un’età in cui, se vogliamo rifarci all’Heidegger di Sein und Zeit, la voce autentica dell’Essere, di cui proprio la poesia è massimamente depositaria, viene troppo spesso soffocata dal cicaleccio indifferenziato e volgare della «chiacchiera».

Un’altra densa e torbida simbologia sacrificale si può rintracciare in alcuni testi di Gian Ruggero Manzoni, che fra le altre cose colgono, attraverso la spregiudicata e straniante versione di Edoardo Sanguineti, diverse e decisive suggestioni proprio dalle Baccanti. Ad esempio, a conclusione della poesia Mi chelandari, raccolta dapprima nella plaquette Filokalia, edita nel 1983, e successivamente confluita nel libro Seth, pubblicato tre anni dopo presso Walberti di Lugo, si legge:

quand’è per l’ovest

fine del trapassar le carte…

rimator sepolto

(verga d’uccisioni

per chi dalla parola è nato

poi frugar delle parti il corpo

poi ricucirle (per la giusta sorte

“capire”

poi la penetrazione (io ho accettato)

nel darsi reciproca parola:

“mi chiamano gli altri,

io non mi chiamo”.

Qui, in un dettato ricco e complesso quant’altri mai, sintatticamente franto e segmentato, e che, rileggendo in modo oculato e consapevole certe prassi sperimentali e avanguardistiche, fonde arcaismi, aulicismi e reminiscenze classiche con tessere orali e prosastiche, è rivisitato, con voluta ambiguità, il grande tema cristiano (ma, in una diversa ottica, anche nietzscheano e dannunziano) del corpo-parola, del verbo che si fa carne e, viceversa, della carne, del corpo che, in modo vitale e totalizzante, si fanno, attraverso la trasfigurazione e la transustanziazione del gesto poetico, segno, parola, scrittura. Il «rimator sepolto», percorrendo e sondando le profondità ctonie di un implicito post-avanguardistico cimitero verbale, di una stratificazione storica e linguistica all’apparenza latente ed inerte, e in realtà carica di potenzialità e di forze nascoste (che potrebbe rappresentare, un po’ come la «tenue Ellie» di Laborintus di Sanguineti, il dominio simbolico del subconscio o dell’inconscio collettivo, remota e tenebrosa dimora degli archetipi o delle Madri), si spinge, come l’Ulisse dantesco, fino all’estremo ovest, fino ai limiti invalicabili del pensabile, del dicibile e dello scrivibile, fino alla soglia oltre la quale la scrittura, dopo aver«trapassato le carte», affonda nell’insensatezza o nell’afasia. E si possono vedere, a riscontro, come esempio estremo, le nude parole latine del Rito dell’oro, ancora in Seth, immerse e incorporate in una scrittura volutamente eterogenea e accidentata, e tese, si direbbe, ad evocare arcanamente un potere sacrale e mitopoietico che giace, velato e sepolto, nel mistero della carne e delle membra: «e sacrum tego aequo animo / quell’uomo sacro / pettìneo! Lo stare è scena, / zìgite! Dove inganna il muscolo fermo. / Ma tenue rumore – la nebbia sul campo». Il rimator sepolto, raggiunti i margini del possibile, del dicibile, e dunque dell’esistente e del vivente, non può che parlare la lingua dei morti, toccando e penetrando, paradossalmente, la sfera del preconscio, del preculturale, quasi si direbbe dell’impersonale e dell’inorganico, proprio attraverso la lingua e la tradizione per eccellenza elevate, dotte, nobili, e come tali riconosciute, trasmesse, codificate, della cultura occidentale.

L’affiorare, nel discorso poetico, di un pensiero simbolico e mitico accompagnato, e in certo modo contrastato, dalla coscienza viva del moderno e del contemporaneo, si ravvisa anche nell’opera di Rosita Copioli; un’opera all’interno della quale la scrittura saggistica, peraltro praticata, e direi vissuta, essa stessa come forma di creazione, secondo la lezione dello Yeats di A vision e del Crepuscolo celtico, condivide lo stesso terreno e la stessa atmosfera di quella poetica. I giardini dei popoli sotto le onde, saggio edito da Guanda nel ’91 – un libro in cui una solida tradizione di pensiero mitologico e antropologico, dal Vico del De antiquissima Italorum sapientia e dal Cuoco del Platone in Italia fino ai grandi maestri novecenteschi, da Frazer a Bachofen a Kerényi, si trasfonde nelle forme versicolori e suadenti della prosa poetica, meditativa, memoriale –, si apre con la rosata epifania della Mater Matuta, vista, con sguardo archetipico e sincretico, come «una Maria stella del mare, un’Iside dal manto stellato», come «un’immagine dove il tempo è fluito fino a cristallizzarsi in uno spettacolo luminoso infinito». Ebbene, alla Mater Matuta è dedicato anche un testo di Furore delle rose, raccolta poetica edita, sempre da Guanda, due anni innanzi. Anche in quei versi, la dea è avvolta dallo stesso alone di luce orlata di tenebre, dallo stesso nascente fulgore intriso di buio e di invisibile, sospesa sull’esile filo luminoso che separa la notte dal giorno, l’azzardo dal sapere: «Avevi dita di mandorle e carminio» (si noti l’echeggiare di formule omeriche); «i piedi ti fremono / sul mare stellato» (e, nondimeno, in questa contemplazione, per così dire intemporale, dell’alba miticamente personificata irrompe uno dei simboli più netti, da Carducci a Pascoli a Montale, della velocità, della dinamicità, del meccanismo, in una parola della modernità, cioè il treno, per l’esattezza un «treno / precoce / che corre sul mare, prima del risveglio / del sole»). «Madre mattutina, madre del focolare, / nutrice delle acque stigie, / coraggiosa, / anche in te era la Nemesi / che volava sulle acque altissime». Ma Mater Matuta è anche «Madre della morte»: essa è ipòstasi di un mistero primevo e originario in cui si confondono le ragioni e i semi della vita e quelli della morte, le radici della nascita come dell’annientamento.

Si potrebbe citare Anassimandro (fr. 1-3 D. –K.): «Da dove […] gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità». Mater Matuta sembra incarnare proprio questo chreon, questo inflessibile ordine che lega ghenesis e phthora¸ nascita e distruzione, e che tende e fa pendere l’esistenza di ogni essere tra l’uno e l’altro dei due estremi. E il chreon si traduce, a sua volta, essenzialmente, in dictamen, in dire poetico, in legge arcana tradotta in sillaba, accento, verso. Si potrebbero richiamare anche certi luoghi particolarmente controversi dell’ontologia poetica parmenidea, in cui la parola spicca il suo volo conoscitivo verso «le porte dei sentieri della Notte e del Giorno» (fr. 1, v. 11), che sembrano entrambe, in definitiva, manifestazioni di una stessa physis e, dunque, oggetto di una stessa sophia, giacché «tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura», di nyx e phaos (fr. 9, v. 3), ambedue compartecipi e rivelatori dell’Essere che è e non può non essere.

Ma questa sorta di goethiana “discesa alle Madri” che viene ad essere anche descensus ad Inferos riconduce ancora una volta alla tradizione culturale e alle radici storiche della Romagna, alle quali l’autrice ha dedicato anche saggi di argomento locale (ricordo qui Villa des vergers, Guaraldi, Rimini 1994, e Gli Agolanti e i Malatesti, e la tomba Bianca di Riccione, «Studi Romagnoli», XLII, 1991), in cui la cura amorevole della ricerca erudita si sposa alla finezza e al garbo, elitari, e per così dire nobiliari, della scrittura. I “visionari di Carna”, dediti ad un rito simile allo sparagmos dionisiaco, «combattono per combattere, gli uni sugli altri, con l’occhio obnubilato e inquieto, saturnio, feroce, torvo, molle, e alla fine mite, come quello di Pascoli. […] Anche questo è Romagna». E, ancora una volta, lo scavo linguistico e mitologico teso alle radici profonde e remote dell’identità romagnola, sorretto da uno slancio e un ordito associativi di natura fonica, quasi istintuali e prelogici, oltre e prima che meditati e documentati, si risolve e si immerge infine nel candore estremo della neve e del silenzio: «Rivedere le anvaere grigiobianche e il mare gonfiarsi salendo, sinché esplodesse un cielo bianchissimo di neve scatenata e continua, […] perché tutto diventasse mare, le sabbie bianche sino alle colline, i passi d’ovatta su quel deserto, e il silenzio, sino all’Appennino. Nivaira, bufera di neve, nevèra». Qui viene in mente l’Oriani, insolitamente meditativo, raccolto, doloroso, di Ombre d’occaso, specie nelle pagine dettate e intonate dal «bianco silenzio» delle colline casolane coperte dalla neve - come pure, per analogia, il Valéry sommesso e glaciale di Les pas: «Tes pas, enfants de mon silence, / Saintement, lentement placés, / […] Procèdent muets et glacés».

Non a caso, anche la Copioli ritrova il dialetto; un dialetto dai tratti fonetici limpidamente riminesi o riccionesi, un po’ discosto dalle più rapide e nette parlate ravennati. Si legga la squisita Cantatina per una pescatrice innamorata (in Parco poesia, Guaraldi, Rimini 2003): «Uiè una luna cèra sora è mèr, / la preima volta sta stména d’aghest, / ch’a poss véda isì bèn te fènd / dla quasi de mèr. / […] Guèrda! E lùs tòtt. L’aqua la lùs, / la va só / Guérda! E brùsa e mèr» («C’è una luna chiara sopra il mare / la pria volta questa settimana d’agosto, / che posso vedere così bene fino in fondo / quasi di là dal mare. / […] Guarda! Tutto riluce. L’acqua riluce, / va su / Guarda! Brucia il mare»). Qui la vocalità aperta e dilatata del vernacolo fa trasparire e sfavillare, come trasfigurato, il classico scintillio, fonico e semantico, della luce: gal, glaukos, aglaos, fulgor, fulgidus cèra, lùs, brùsa. Luce e silenzio: dimensione una e duplice del mistero incarnato nella natura. Sorge spontaneo il richiamo alla «bianca luna» di Saffo, alla kala selanna (fr. 4 D.) il cui phaennon eidos, la cui «immagine splendente» brilla fra gli astri, «su tutta la terra»; un’immagine che, attraverso la mediazione del sublime settecentesco (dal Verri delle Avventure di Saffo al Cesarotti al Monti della Bassvilliana), giungerà fino al Leopardi dell’Ultimo canto di Saffo, che si apre con la sovrapposizione, trasparente e traslucida, della «placida notte» e del «verecondo raggio / della cadente luna» alla tenue epifania di Lucifero, «nunzio del giorno». Ma riemerge, ancora una volta, l’amato Yeats: basti citare The tower, ove la «brightness of the moon», la luce spiritualizzatrice e sublimante di Selene, si associa alla «glory», cioè etimologicamente allo «splendore», della poesia, del canto che «trae fuori di senno»; splendore che, confondendosi con quello simile ed opposto del sole, accende le «immagni racchiuse nella Grande Memoria», nel grembo profondo ed insondabile dell’anima universale.

Anche in Henry Miller la Copioli percepisce, in veste di lettrice e interprete appassionata e partecipe, una stessa «radiosità cristallina», una analoga «atmosfera bagnata dalla luce», una «luce indecifrabile», «mattutina» o forse «meridiana», in cui gli scritti sono «immersi», e in cui l’«ascesi bianca» dei mistici può confondersi con l’«ascesi nera» della rimbaudiana saison aux enfersxxxiv. La poesia

della Copioli sorge, per l’appunto, avvolta da uno stesso lucore graduato e diveniente, da uno stesso ambiguo bagliore che può essere notturno o mattinale, che può effondersi così «dal candido volto delle stelle», come dice un madrigale tassiano, come dal tremolare del sole nascente. Questa parola poetica prende forma, per citare ancóra il Leopardi dell’Ultimo canto, precisamente sull’«aprico margo», sul luminoso confine, sulla linea chiara e rilucente, ma esile, che divide il giorno dalla notte, le chiare dimore della vita e del canto dal buio amplesso della «tenaria Diva», dalla «silente riva» dell’Averno.

Una esponente di assoluto rilievo della grande fioritura di "poesia femminile" (ammesso che simili classificazioni abbiano un senso e un valore) cui si è assistito in Romagna negli ultimi anni (basti pensare alla citata Rosita Copioli, o a Fiorangela Arfelli) è certo Narda Fattori, il cui libro più maturo, equilibrato e compiuto (quasi sintesi e vertice del suo ricco e sfaccettato percorso creativo) è forse Verso Occidente, edito nella minuta e preziosa collana Terremerse dell'editore Fara (Santarcagelo 2004); una categoria, questa della poesia femminile, che - per inciso - andrà intesa, oggi, al di fuori dii qualsiasi unilaterale colorazione ideologica e polemica, e indicherà più che altro un'intima, raccolta e intensamente vissuta dimensione esistenziale, culturale, espressiva - uno sguardo, gettato sul linguaggio e sul mondo, obliquo, defilato, lievemente straniante, "altro" rispetto al logocentrismo, al razionalismo ostinato e severo in cui rischia di chiudersi, proiettato sui campi del pensiero, il "principio maschile".

Ma se la poesia femminile tende, in alcune sue espressioni - basti pensare a Jolanda Insana - a ripiegarsi su di una carnalità e una corporeità esasperate, accentuate in modo quasi espressionistico, rivendicate in maniera quasi irosa come prerogativa, emblema, dominio, quella di autrici come Carolina Carlone, la già citata Copioli, Maria Luisa Vezzali o, appunto, Narda Fattori è incline, invece, a muoversi nella sfera più serena e tersa di un equilibrio fra modernità e classicità, fra i richiami che salgono dagli abissi indistinti del preconscio, dalle profondità dell'origine e la lucidità della coscienza critica, della consapevolezza e della ricerca linguistiche ed espressive.

Come nel discorso filosofico di Maria Zambrano o di Simone Weil, così anche nella poesia di queste autrici la parola si sottrae alla "violenza della verità", ai dettami di un logos autoritario, totalitario, rigidamente razionalistico - ma non per questo si abbandona ad un cieco irrazionalismo, anzi persegue una propria "logica poetica", un proprio coerente e coeso discorso culturale, pur sottratto ai condizionamenti e ai gioghi del gergo ideologico, dell'opacità quotidiana e della chiacchiera mediatica.

Anche nelle sue più consapevoli espressioni poetiche, come in quelle filosofiche, la coscienza femminile (non necessariamente femminista) conferma di poter offrire uno sguardo conoscitivo ed esistenziale “altro”, innovativo, spesso imprevedibile, sempre aperto all'ascolto e alla ricezione del nuovo, del desueto, dl segreto.

"Uccidi il padre e la madre / e che il sacrificio si compia senz'ara / alla fiamma che arde fatua / di sordo rancore immemore". Così la Fattori evoca, in versi di grande, direi archetipica potenza, i fantasmi dell'immaginario tragico, il tabù freudiano e nietzscheano dell'uccisione del padre, della recisione dei legami, dell'allontanamento traumatico, eppure così strenuamente desiderato e perpetrato, dalle radici e dalle origini. "Cassandra grida / l'ingorda ferocia / che corre sui binari di morte / con la memoria abrasa". La parola-profezia del discorso poetico, pur essenziale e rivelatrice, si vota ad un silenzio criptico ed iroso; la memoria è "abrasa", sembra dissolversi in oblio e cancellazione, nel momento stesso in cui anela ad essere per sempre fermata nel monumentum della parola scritta.

E la figura di Cassandra pare rinviare al mondo delle Troiane di Euripide - alla eremia, all'"orrido deserto" che discende sulle rovine riarse, sugli altari desolati, sui templi rasi al suolo, alla notte ardente in cui danzano insieme Imeneo ed Ecate, l'amore e la morte, lo splendore e le tenebre, il piacere e la maledizione, gli spettri del desiderio furente e della gioia amara.

E una bellezza antica e sempre nuova, confortata dalla voce dei classici, è il solo balsamo, il solo lenimento che possa arginare e ricomporre le ferite e gli strappi della perdita (in particolare quella, assoluta ed emblematica, della Madre, la cui figura ieratica, ma insieme umanissima, è rievocata nel fine e struggente Canto a Maria, che chiude Verso Occidente).

Il male si attenua e si stempera, forse illusoriamente, in omerici ed eschilei "tremiti leggeri / come l'onde del ceruleo mare". Sulle memorie perdute discende, quasi come nell'Ade virgiliano, "una nivea fiorita"; la "terra materia" che richiama inesorabilmente a sé tutti gli esseri pretendendo l'ultimo pegno dell'esistere è sovrastata e rischiarata dalle saffiche e virgiliane "silenti stelle", da un leopardiano "silenzio immenso".

Ma, infine, baciare "dentro il palmo" vecchie mani amate, consumate dagli anni, è - sulla scia di Orazio e di Foscolo - "come morire dentro un'urna". La parola poetica si muove e vibra, ancora, sul limite ombroso e chiaroscurale di vita e morte, memoria ed oblio, identità e cancellazione.

In un contesto in certo modo affine si può inserire l’esperienza poetica, pur così diversa, e anzi assolutamente particolare, impossibile da ricondurre a matrici o a correnti ben definite, del forlivese Michele Fabbri, da Trobar clus (Fermenti, Roma 1999) ad Arcadia. Carmi bucolici per la Romagna toscana (Il Ponte Vecchio, Cesena 2001) ad Apocalisse 23 (ivi 2003). In questa poesia, però, e in particolare nell’ultima raccolta, che in qualche modo proietta la sua satanica «luce nera», il suo opprimente cono di tenebre e di annientamento, anche sulle due precedenti, la discesa alle Madri, il ritorno alle radici e agli archetipi (in questo caso davvero remotissimi, non solo classici, ma addirittura etruschi e celtici) paiono tradursi e risolversi non tanto in un recupero di passato, di identità, di appartenenza, quanto, per così dire, in un itinerarium mentis in nihil, in un naufragio e una dissoluzione della mente e della razionalità nelle paludi del più nichilistico “pensiero debole”, nell’abisso del nulla e dell’insensatezza. «Il nulla si è dissolto nel mio nulla», dice un verso di Apocalisse: alla ratio ratiocinans, al “pensiero che pensa se stesso” di una secolare tradizione di razionalismo occidentale si sono ormai sostituiti un vuoto, un assurdo e una mancanza di senso che reiterano e certificano, ossessivamente, senza via di scampo, se stessi, e nient’altro. «M’illumino di male in luce nera» (folgorante rovesciamento nichilistico dell’ungarettiano «M’illumino / d’immenso»); «il nulla che ho vissuto mi è bastato»; «Tutto diventa scialbo e indefinito, / si confonde ogni cosa su se stessa». Unità versali, queste – endecasillabi solidissimi e scolpiti, insistiti, per così dire coatti, spesso ulteriormente rinserrati nella forma chiusa, e ormai desueta, eccezion fatta per ardue ricerche sperimentali come quelle dello Zanzotto del Galateo in bosco, del sonetto –, che sembrano quasi tradurre, nella stessa dispositio verborum e nello stesso cadere e ripetersi di suoni ed accenti, l’irredimibile angoscia di una situazione esistenziale, ma anche storica, epocale, priva di luce e respiro.

Questo viaggio, questa immersione nel grembo o nella notte del nulla e della dissoluzione, si trovavano anche in uno splendido testo di Arcadia, La festa dei morti, in cui il motivo del ritorno dei morti o del ritorno ai morti, familiare ai lettori della poesia moderna e contemporanea, da Baudelaire a Pascoli a Montale, era ricondotto ad una remota e cupa ascendenza celtica: «Poi quella notte vennero i morti, / muti, guidati dalla dea Litana, / in quella notte a chiedere conforti. […] // Lontano una campana / conduce le anime verso i porti / dei vivi, in mezzo alla nebbia padana. / Si consuma, / quella notte, la morte tra la bruma». Qui la rievocazione del mito celtico, che sta probabilmente alla base di una radicata tradizione romagnola di culto dei defunti, si coniuga con l’evidente ripresa di stilemi della pascoliana Tovaglia («Bada che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti!»). Il ritorno dei defunti trascina dietro sé la riesumazione delle spente figure del mito e il recupero del codice, altrettanto logoro, di un idioma poetico codificato e pietrificato.

E anche in questo autore la rievocazione del mondo defunto e sepolto confligge drammaticamente con l’implacabile urgere della contemporaneità scientistica e tecnicizzata. La «medianica intuizione / della vita nel passato», propria della coscienza, o dell’illuminazione, possibili nella dimensione ermeneutica della storicità, sembrano essere annientate dall’era della Tecnica, dalla frenetica e frammentaria parcellizzazione delle conoscenze indotta dal proliferare dei saperi tecnici e specialistici. Il lettore di Trobar clus non può che «afferrare brandelli / di umanesimo»; gli esiti della ricerca scientifica sono «cristalli rotti non più ricomposti». Già l’Eliot dei Chorus from the Rock si chiedeva dove fosse «la scienza persa nel sapere», e il sapere «perso in miriadi di conoscenze». L’alternativa, o meglio l’aporia, pare suggerire il poeta, sembrano porsi, infine, fra due possibilità ugualmente angoscianti: da un lato la frammentazione disorientante dello specialismo (la «barbarie dello specialismo», come la chiamava già l’Ortega y Gasset della Ribellione delle masse), dall’altro la suprema e perenne unità, annientante ma infine, forse, pacificatrice, del nihil aeternum. Non è casuale che Arcadia rechi in esergo con una preziosa citazione dai Canti orfici di Dino Campana, poeta profondamente, quasi visceralmente legato alla matrice tosco-romagnola, e maestro nel proiettare su di un «paesaggio italiano» miticamente trasfigurato dall’immaginazone visionaria il proprio allucinato e torturato vissuto. I frammenti dei taccuini e degli abozzi che costellano e documentano la tormentata gestazione degli Orfici sembano suggerire proprio un naufragio della mente, dell’io lirico, nel nulla e nel buio del finale e supremo obnubilamento: «Se tale a le tue mura la proclina / Anima al nulla nel suo andar fatale» (Sulle montagne); «volontà e rappresentazione che del mondo fa la base di un cono luminoso i cui raggi si concentrano in un punto dell’infinito, del Nulla, in Dio» (come a suggerire che, infine, in Dio o, indifferentemente, nel Nulla, o forse in un dio che è nulla, in un nulla che è dio, l’anima dispersa nelle cose del mondo, sparsa nella casualità mutevole ed illusoria delle sensazioni, degli eventi, degli incontri, possa trovare la sola possibile e definitiva pacificazione, la sola ricomposizione in quiete e in unità).

Da ultimo, non certo a concludere il discorso, ma piuttosto a suggerire o a far intravedere un’altra delle molteplici, forse infinite e inesauribili, vie lungo le quali esso potrebbe crescere e dilatarsi indefinitamente, giunge fra le mie mani l’opera prima di Valerio Fabbri, Luoghi preziosi, appena edita da Raffaelli di Rimini. Non bisogna farsi fuorviare dall’indicazione di sabiana “poesia onesta” data, forse per influsso della sua stessa poetica improntata a un’istanza di “prosa”, di concretezza, discorsività, narratività, da Maurizio Cucchi nella prefazione. Pur se, e anzi forse proprio perché, collocata «ben dentro la realtà dell’esistere», anche l’esperienza poetica di Valerio Fabbri, come molte di quelle precedentemente toccate, affonda le proprie radici nel profondo di una memoria, e per così dire di una matrice, a un tempo esistenziali e culturali, tali da investire tanto il vissuto individuale quanto i luoghi – intesi come grumi e concrezioni di passato e presente, di persistenze e mutamenti, natura e storia, testimonianza e modernità, di reperto e creazione ex novo – in cui esse si situano e a cui sono legate.

Oscura eredità, dono lungamente e misteriosamente covato ed occulto è la «moneta d’argento» che riemerge, in un ricordo d’infanzia, dalla «terra morbida». Il «pane della storia» sembra frangersi e sbriciolarsi sotto la lama del tempo che, orazianamente scandito da una «antica meridiana», «scivola in fumo», pare dissolversi e perdersi. Anche qui, come nei dialettali, l’antico silenzio della neve, il silenzio che «striscia la sua unghia / sulla spina dorsale del tempo», mentre i saggi pescatori «mettono appena un dito sull’orlo del futuro» (come non pensare all’oraziano «quam minime credula postero»?), fascia gli attimi e le voci ormai svaniti, e preannuncia «irrimediabilmente morte» (si pensa ancora ai «fugaces anni», all’«inremediabile tempus», alla «nox perpetua una dormienda», di Catullo e di Orazio).

Ma stabilimenti e alloggi industriali sorgono dove un tempo non c’erano che i segni di una natura informe e selvaggia e, parimenti, quelli solitari e imperituri di una civiltà remota: «Qui c’era soltanto acqua e pantano / quasi duemila anni fa, / eppure spiccavano già delle basiliche imperiali». Nello «spazio» postmoderno, nel post-industriale non-luogo, grigio e indifferenziato, «nessuno ha in mano un destino diverso». Ma la poesia e la storia, che continuano nonostante tutto, pertinaci e ignorate, a contrassegnare quello spazio, a prenderne coscienza, a nominarlo, a dargli una connotazione, una profondità, una temporalità, vogliono, nella memoria e sulla pagina, sopravvivere e perdurare.

4. In una lirica della raccolta E’ stardàcc, del ’39, intitolata La bona, la santa puesì (La buona, la santa poesia), Spallicci diceva di udire, «sora i cúdal chi lostra par e’ fër, / sota e’ vent che marena al spìgh in fior» («Sopra le zolle che brillano nel taglio del vomere, / sotto il vento che marezza le spighe in fiore»), «la parola ch’la gverna tot e’ mond, / e batar coma un cor in divuzion / l’anma dal cös intond» («la parola che governa il mondo, / e battere come un cuore in preghiera / l’anima delle cose intorno»). Qui la visione florida e panica della campagna rigogliosa si associava all’enunciazione di una poetica dalle matrici ancora decisamente ottocentesche, tra Hugo, secondo cui «le mot (…) est un être vivant», «le mot, c’est le Verbe, et le Verbe, c’est Dieu» (Contemplations, I, 8), e il Carducci di Presso una certosa («A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia / Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!»).

Ben più lucida e più amara la consapevolezza del ruolo del poeta nella realtà contemporanea che affiora, a distanza di un quarantennio, in L’amstìr (Il mestiere), componimento proemiale dell’omonima raccolta di Tolmino Baldassari: «Adëss a faz e’ poeta / dal séri un’òmbra l’am s’avsena / una foja ch’l’éra int la córta / la néva int e’ bicìr / mo pu la zenta / la cunfusion pr’e’mònd / la röba ch’lass scarboja / bsogna zarchê d’capì» («Adesso faccio il poeta / delle sere un’ombra mi s’avvicina / una foglia che era nella corte / la neve nel bicchiere / ma poi la gente / la confusione per il mondo / le cose che si sparpagliano / bisogna cercare di capire»). Permane la tentazione dell’angulus, la lusinga della «corte», dello spazio chiuso, in certo modo rassicurante, per quanto in sé rigato di malinconie e di ombre. Ma si impone, dall’altra parte, la «sfida al labirinto», come la chiamava Calvino, la complessità di un mondo contemporaneo sempre più frammentato e caotico, che è compito del poeta «cercare di capire» e di esprimere attraverso la forza della parola. Credo che proprio in questa vitale dicotomia, e nella lucida consapevolezza di essa, risiedano, per larga parte, la pregnanza letteraria e il rilievo storico della poesia del secondo Novecento in Romagna. Se ne mostra consapevole ancora Baldassari, che nell’intervento Esperienze di poesiaxxxv ripone la difesa della «comunità», dei suoi

«caratteri peculiari», dagli assalti del “villaggio globale” in una poesia che «filtri», «attraverso lo studio, la cultura in senso lato, e particolarmente la cultura letteraria», l’immediatezza esistenziale del «porsi nel mondo».

Una poesia, questa, che persegue, e nei suoi esiti più felici riesce a conseguire, la sintesi e l’equilibrio fra un’adesione alle radici storiche e culturali che non si risolva in sterile rimpianto o in elegiaca idealizzazione e la consapevolezza delle tensioni dialettiche che agitano il presente. Questi percorsi e queste esperienze, che appaiono fra i più emozionanti della poesia italiana contemporanea, sembrano in complesso ribadire, con Eliot, con Pound, con Curtius, che la tradizione letteraria occidentale, “da Omero a Goethe” e oltre, innervata e scandita da topoi, echi, riprese, tramata di conferme e dissonanze, consacrazioni e rovesciamenti, si configura come una sorta di vasto, e virtualmente inesauribile, continuum tendente all’acronia e alla perenne e totale sincronia, e immersi nel quale è possibile, secondo l’Eliot di What is a classic?, ricordarsi dell’antico leggendo il nuovo, e, viceversa, scorgere i germi e le scintille del nuovo nelle profondità e nei fantasmi dell’antico. In questo chiasmo profondo, tellurico, direi vitale (quale potrebbe essere, nei cicli della natura come nei ritmi del verso, quello che lega il grembo dell’”antica madre”, della madre defunta, alla terra che lo cela e lo confonde), risiedono forse il germe e la scaturigine più veri di ogni dire poetico. La parola del poeta, a dispetto di ogni antiaccademismo di maniera, di ogni facile spontaneismo, di ogni generico richiamo ad una non meglio precisata auroralità od originarietà d’esperienza e di espressione, sorge autentica, limpida e pura proprio nella misura in cui è passata attraverso il lavacro dei padri, la salutare immersione, diceva Dante, nella lezione dei regulares poetae – attraverso le vigilie e i battesimi del confronto con il passato, con ciò che è o sembra ormai, dice Serra, «caduto dal tempo», ma che può ad ogni momento, còlto ed avvolto dalla fiamma duplice e concorde dell’ingenium e dell’ars, della physis e della techne, dell’illuminazione poetica e della sua (etimologicamente) riflessione e speculazione meditata e critica (seconda e ulteriore ontologicamente e concettualmente, ma non di necessità temporalmente), riaccendersi e risorgere a nuove sorti e a nuove significazioni.

Matteo Veronesi

iQueste pagine riprendono ed integrano il mio saggio sulla poesia secondonovecentesca in Romagna apparso sul "Lettore di Provincia" (a. XXXVIII, fasc. 128, gennaio/giugno 2007, pp. 61-88). Un saggio, quest'ultimo, che del resto non può né vuole in nessun caso porsi come un panorama completo ed onnicomprensivo di uno scenario così vasto e sfaccettato, ma solo offrire uno spaccato ed una visione particolari, intonati alla ricerca di un equilibrio e di una vitale dialettica fra il richiamo agli archetipi storici e culturali e la coscienza vigile e problematica del moderno (o del postmoderno).

iiJ. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1997.

iiiH. BLOOM, The anxiety of influence (1973), Oxford University Press, Oxford 1997.

ivFra le opere degli autori appena citati, si dovranno ricordare almeno, di Rondoni, lo splendido Nel tempo delle cose cieche, introduzione di M. LUZI (Nuova Compagnia Editrice, Forlì 1993), Il bar del tempo (Guanda, Parma 1999), Avrebbe amato chiunque (ivi 2003); di Lauretano, Preghiera del corpo (Nuova Compagnia Editrice, Forlì 1997) e il limpido e intenso Occorreva che nascessi (Marietti, Genova 2004); di Gianfranco Fabbri, Davanzale di travertino (1993) e Album italiano (2002), entrambi editi a Udine da Campanotto; di Zattoni, Il nemico, prefazione di A. BRIGLIADORI (Il Ponte Vecchio, Cesena 2003) e Il peso degli spazi (Lietocolle, Firenze 2005); della Serragnoli, Il fianco dove appoggiare un figlio (Re Enzo, Bologna 2003), oltre ai versi pubblicati nell’antologia I cercatori d’oro, a cura di Rondoni (Nuova Compagnia Editrice, Forlì 2000), in cui figurano anche testi della Leardini, e a quelli apparsi nel disomogeneo e discusso volume Nuovissimi poeti italiani, a cura di M. CUCCHI (Mondadori, Milano 2005).

vG. MANNA, Tramonto della civiltà contadina, Massimo Editore, Milano 1979, p. 8.

viPer un quadro d’insieme di quest’ultima, si possono vedere Poesia dialettale del Novecento, a cura di P. P. Pasolini e M. Dell’Arco, Guanda, Parma 1952; Lingua, dialetto, poesia. Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, prefazione di Tullio De Mauro, Edizioni del Girasole, Ravenna 1973; Cento anni di poesia dialettale romagnola, a cura di G. Quondamatteo e G. Bellosi, Imola, Galeati 1976; Le parole di legno. Poesia in dialetto del Novecento italiano, a cura di M. Chiesa e G. Tesio, Mondadori, Milano 1984; La maschera del dialetto. Tolmino Baldassari e la poesia dialettale contemporanea, Longo, Ravenna 1988; Poeti dialettali del Novecento, a cura di F. Brevini, Einaudi, Torino 1990; A. MODENA, La poesia dialettale romagnola del Novecento. Appunti sul convegno di Santarcangelo, «Autografo», VII, 20 (giugno 1990), pp. 53 sgg.; F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Einaudi, Torino 1990; G. DE SANTI, La poesia dialettale romagnola tra memoria e moderno, «Pelagos», 1, luglio 1991; La poesia dialettale romagnola del Novecento, a cura di Id., Maggioli, Rimini 1994; P. CIVITAREALE, Cinque poeti in romagnolo [Spadoni, Bellosi, Pedrelli, Baldassari, Nadiani], «Il lettore di provincia», XXV, 90, agosto 1994, pp. 47-55; Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo Novecento in Romagna, a cura di L. Benini Sforza e N. Spadoni, Mobydick, Faenza 1996 (strumento preziosissimo); Poeti italiani 1945-1995, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Mondadori, Milano 1996, pp. 641 sgg.; G. M. ANSELMI – A. BERTONI, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, prefazione di E. RAIMONDI, Clueb, Bologna 1997; La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, tomo III, a cura di F. Brevini, Mondadori, Milano 1999; Morte e rinascita del dialetto. Da Zanzotto ai novissimi, «Autografo», 43, luglio-dicembre 2001 (il numero, in cui si segnalano i saggi di V. BAGNOLI e L. BENIN SFORZA, è altresì impreziosito da un inedito di Zanzotto); Antologia della poesia italiana, a cura di C. SEGRE e C. OSSOLA, t. II, Einaudi, Torino 2003; P. CIVITAREALE, Poeti in romagnolo del secondo Novecento, La Mandragora, Imola 2005; L. WEBER, Rifiuti e gran rifiuti: di una costante crepuscolare nella poesia romagnola del Novecento, www.griseldaonline.it/percorsi/6weber.htm; L. BATTAGLIA, Poeti in lingua romagnola: Guerra, Baldini, Baldassarri, La Mandragora, Imola, 2005; né si hanno pretese di completezza.

vii T. GUERRA, I bu, Rizzoli, ivi 1972.

viii Ho in mente, ora, non solo il severo e rigoroso lavoro filologico, ancor oggi importante, La voce della Romagna. Profilo linguistico-letterario, Edizioni del Girasole, Ravenna 1974, ma anche l’affettuoso ricordo Aldo Spallicci e gli studi dialettali romagnoli, «La Piê», XLIV (1975), 6, pp. 246-248.

ixF. SCHÜRR, La voce della Romagna, cit., p. 258.

xLa testimonianza, dovuta all’editore e letterato Paolo Galeati, si trova nell’opuscolo In memoriam. Antonio Nardozzi, Galeati, Imola 1897; l’articolo, altamente elogiativo, del Carducci, apparso dapprima nella Domenica del Fracassa del 27 settembre 1885, confluì poi nella terza serie di Ceneri e faville (vol. XXVIII dell’Edizione Nazionale, Zanichelli, Bologna 1938, pp. 4-6).

xiA cura di L. Cesari, Scheiwiller, Milano 1992 (nuova edizione accresciuta ivi 1995).

xiiE. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, pp. 194 sgg.

xiiiMaggioli, Rimini 1982.

xivOra in T. BALDASSARI, Poesie (1974-1981), prefazione di F. Brevini, Forum/Quinta generazione, Forlì 1982, p. 46. Sull’autore, cfr. La maschera del dialetto: Tolmino Baldassari e la poesia dialettale contemporanea, cit. (soprattutto le pagine di G. BELLOSI).

xvPrefazione di P. Civitareale, Mobydick, Faenza 1995.

xvi Ora in A. SPALLICCI, Tutte le poesie in volgare di Romagna, Garzanti, Milano 1975.

xvii Introduzione di I. Missiroli, Il Girasole, Ravenna 1976.

xviii Cfr. G. MANNA, Tramonto, cit., p. 43.

xix C. PIANCASTELLI, Commento a un indovinello romagnolo, Tipografia Montanari, Faenza 1903; A. SPALLICCI, Relitti di latinità nel vernacolo romagnolo, in ID., Identità culturale della Romagna, a cura di D. PIERI e M. A. BIONDI, Maggioli, Rimini 1989, pp. 333-335.

xx T. BALDASSARI , Poesie, cit., p. 104.

xxi Si può vedere, per un panorama generale della sua produzione, in cui spiccano le raccolte e’ sech e TIR, entrambe edite presso Mobydick di Faenza, l’antologia personale Feriae (Marsilio, Venezia 1999).

xxii Circa gli aspetti e i valori culturali e simbolici del paesaggio nella letteratura contemporanea, si può vedere V. BAGNOLI, Lo spazio del testo. Paesaggio e conoscenza nella modernità letteraria, Pendragon, Bologna 2003.

xxiii Intorno alla poesia di Baldini, si vedano ora Lei capisce il dialetto? Raffaello Baldini fra poesia e teatro, a cura di G. BELLOSI e M. RICCI, Longo, Ravenna 2003, e C. MARTIGNONI, Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Campanotto, Udine 2004.

xxiv Prefazione di F. Zinelli, Mobydick, Faenza 2000.

xxv L’accostamento a Pascoli è già suggerito da Fabio Zinelli nella prefazione appena citata (intitolata La resistenza delle cose), p. 5.

xxvi Edizioni Cofine, Roma 2004, pp. 30-32.

xxvii M. BOLOGNESI, Didascalie per un’istantanea. A ócc avìrt, a cura di G. BELLOSI, introduzione di L. BENINI SFORZA, Longo Editore, Ravenna 2005.

xxviii Note di T. Baldassari e L. Benini Sforza, Book editore, Castelmaggiore 2000.

xxix Prefazione di C. Ricciotti, Raffaelli, Rimini 2003.

xxx L. BENINI SFORZA, Padri a nord-ovest, con un saggio di M. Veronesi, Pazzini, Verucchio 2004.

xxxi Prefazione di P. Civitareale, Mobydick, Faenza 1998.

xxxii R. SERRA, Epistolario, Le Monnier, Firenze 1934, p. 545.

xxxiii Il testo si può leggere, insieme ad altri cospicui materiali sia creativi che critici, nel sito ufficiale dell’autrice, www.carolinacarlone.it.

xxxiv La luce di Henry Miller, «L’altro versante», n. 1, pp. 73 sgg.

xxxv «Il parlar franco», IV, 2004, n. 4.