Corti veneziane

Due lezioni tenute presso il Nuovo Liceo Artistico di Venezia e Mestre, Venezia, sede dei Carmini, 13 novembre 2010, ore 11.15 , Aula Magna e presso la Municipalità di Venezia Murano Burano, Scuola dei Calegheri in Campo S. Tomà, Venezia, 29 novembre 2010, ore 17.30.

Ricerca di Venezia: forme, segni, frammenti di arte e storia nelle corti pubbliche e private.

di Antonio Manno

La corte, assieme ai canali, alle calli e agli edifici è un elemento costitutivo del tessuto edilizio abitativo veneziano. Alcune aree della città, come nei dintorni di San Giovanni Grisostomo, sono costituite da gruppi di corti, più tardi messe in comunicazione mediante sottoporteghi. Il termine cohortem, in origine designava un cortile, un recinto per gli animali, ma anche uno spazio scoperto all’interno di una domus. Nella corte veneziana s’intrecciano elementi e funzioni tipici della villa tardo antica, ma anche della casa urbana, come attestano alcuni elementi costitutivi, tracce di attività e funzioni diverse: l’approdo d’acqua, l’ingresso da terra con cancello notturno, il pozzo, il porticato, i magazzini, le stalle per i cavalli e altri ricoveri per animali come pure, più tardi, scale, patere, rilievi e stemmi. Le testimonianze scritte più antiche su questo spazio risalgono al XII secolo e gli esempi ancora superstiti sono stati identificati nell’impianto distributivo originario di case-fondaco veneto-bizantine come Ca’ da Mosto o Ca’ Loredan, situate sul Canal Grande, in prossimità del mercato realtino. Questi edifici gentilizi, nei quali si univano funzioni commerciali e abitative, presentano, in posizione opposta ai loro approdi acquei e alla fine di un portego passante, un’ampia corte. In questo spazio di servizio sono cresciute le abitazioni per i famigli, per i servi (schiavi orientali e balcanici) e la gente di mano, al servizio della Casa. Qui sorgevano le abitazioni in affitto (domus de sezentibus), attestate fin dal 1164. Realizzate in legno, ai margini di orti e vigne, serializzate, queste abitazioni convivevano con le stalle e le altre stanze di servizio. La crescita dei ceti artigianali e cittadini verificatasi dopo la conquista di Costantinopoli, nel 1204, ha consentito un incremento della rendita immobiliare e avviato una lunga fase di sviluppo edilizio grazie alla costruzione di corti separate dalle abitazioni nobiliari. Nascono così le case seriali in affitto, in muratura, di uno o due piani, prospicienti una calle o raccolte in corte e realizzate da scuole di devozione, corporazioni di mestiere o comunità forestiere. Ne sono un esempio le corti del Tagiapiera, a San Giacomo dell’Orio e Sant’Aponal; del Calderer, a San Giovanni evangelista, oppure le corti Bressana, ai Santi Giovanni e Paolo, e del Tentor, a San Bortolomio. Un caso particolare resta la corte di San Marco, lungo il rio dei Cereri e nelle vicinanze dell’ex chiesa di Santa Maria Maggiore. Si tratta di ventiquattro abitazioni popolari in affitto, realizzate per i “poveri confratelli de la Scola di San Marco, li quali sopra tutto habia fioli”, secondo le volontà espresse nel testamento del finanziatore, Pietro Olivieri (+ 1529). Va inoltre ricordata la corte Bottera, il cui toponimo rinvia a un’attività artigianale, ma il cui impianto faceva parte di Ca’ Contarini della Zogia. Analogamente, anche la corte del Fontego deriva il proprio nome dal fondaco delle farine, istituito nel 1704, ma al suo interno sono ancora visibili i resti più antichi di una casa veneziana in muratura, identificabili nelle arcate di un porticato romanico-bizantino. Un caso analogo è la corte del Teatro, a San Cassiano. La corte della Terrazza, con raffinati rilievi lombardeschi, è quanto rimane della Ca’ Magno, distrutta da un incendio nel 1686. Una corte gentilizia dalle forme irregolari, frutto dell’aggregazione di più palazzi, è la Morosina, a San Giovanni Grisostomo, il cui portale d’accesso è sormontato da un rilievo trecentesco raffigurante uno stemma e un elmo con drappo. Infine, la corte Petriana, a San Silvestro, appartenuta a una famiglia cittadina che, ispirandosi a modelli gentilizi, ostenta i propri stemmi e organizza i propri spazi come quelli di un’antica casa-fondaco.

Gli studi storici, artistici e architettonici sulle corti, fioriti durante la seconda metà del Novecento, non rispondono ad un quesito non meno interessante. Quand’è che la corte diventa oggetto di attenzione e di descrizione pubblica? Le antiche guide della città, salvo rarissime eccezioni, ignorano tali luoghi. La corte, come spazio privato di nobili o cittadini, non è funzionale alla celebrazione o alla descrizione delle meraviglie cittadine. Vedutisti come Marieschi, i Guardi e persino Longhi, così attento alla vita nelle strade, ignorano le corti. A occuparsene è invece Canaletto che, oltre a due vedute di corti gentilizie, ha dipinto –con sguardo scientifico- la corte del Tagiapiera che sorgeva davanti alla chiesa della Carità (ora Gallerie dell’Accademia) e posta nella riva antistante del Canal Grande. Altre testimonianze si reperiscono invece nelle opere del Goldoni. Nelle sue commedie, come L’amor artigiano, La casa nova e Il campiello, messe in scena fra il 1741 e il 1756, la corte diventa il salotto comune del popolo, il teatrino della plebe veneziana. Dopo la caduta della Repubblica e sotto il giogo delle dominazioni straniere, alcuni studiosi si occupano del patrimonio artistico di Venezia. Fra questi, Pietro Selvatico, che riproduce anche le sculture minori e meno note, come i rilievi in corte del Milion o della Terrazza. Gli faranno eco autori di guide e incisori che, sensibili al turismo nascente, non mancano di segnalare la corte Contarini del Bovolo, nota per l’unicità della sua scala a chiocciola. Anche i fotografi locali dell’epoca, come Filippi e Naya, si spingeranno negli angoli più remoti della città, dove giungerà anche qualche pittore, per immortalare quell’umanità che Goldoni aveva descritto con tanto acume e ironia. Infine, i viaggiatori colti, i letterati che, come Ruskin o James, contribuiranno non poco all’immagine di una Venezia romantica e pittoresca.

Il Novecento non sarà da meno e, oltre agli studi storici o tipologici di Trincanato, Muratori, Maretto e Dorigo, fino al’utopico piano regolatore, curato da Salzano, annovera realizzazioni di alto profilo che, prendendo atto dell’esodo della popolazione, guardano alla corte come alla metafora di un’altra Venezia. Carlo Scarpa, nel giardino della Fondazione Querini Stampalia erige l’ultima delle corti, uno spazio ove regna la poetica del frammento e della memoria: una vera da pozzo priva di funzione, una scultura di spoglio, capitelli gotici esposti come in un lapidario e grandi tessere musive sono disseminati in un raffinato deposito della storia. Anche David Chipperfield, nel suo progetto per il cimitero di San Michele, organizza la città dei morti in cubicoli raccolti attorno a piccole corti, creando un’atmosfera sospesa di silenzio e raccoglimento. La corte, per Hugo Pratt, è invece luogo di mistero e di passaggio, o meglio, di evasione da una realtà sgradita. Corto Maltese, nel finale di Favola di Venezia, si reca in fondo a una corte e bussa a una porta chiedendo di “entrare in un’altra storia, in un altro luogo”. Come spiega l’autore, “quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite”, si recano in tre luoghi magici e nascosti, “e aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie.”

Bibliografia

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© Antonio Manno, 2010 - Venezia