La lavorazione del bronzo: le campane della ditta  Colbacchini – Favaretti  di Bassano del Grappa

Tratto da: LA LAVORAZIONE DEI METALLI di Evaristo Borsatto

Il bronzo è una lega di rame e stagno. In base alla percentuale di stagno e di minime dosi di altri metalli (come lo zinco, il piombo, il ferro, il manganese, l’alluminio) il bronzo può assumere particolari colorazioni e caratteristiche, come appunto la sonorità argentina o pastosa propria di campane e campanelle. Ed è soprattutto di queste ultime che si vuole qui trattare, visto che il Vicentino, in questo campo – si può dire per quasi due secoli – ha tenuto il primato mondiale, soprattutto grazie alla ditta Colbacchini e poi Colbacchini – Favaretti di Bassano del Grappa (primato ora passato alle fonderie di Vittorio Veneto, delle Marche e della Sicilia), che dalla sua fondazione al 1972, anno della definitiva chiusura, ha prodotto oltre 2000 campane superiori ai due quintali – e migliaia di campane e campanelle al di sotto di questo peso (oltre ad una gamma infinita di oggetti in bronzo e, un tempo, anche in rame e ultimamente anche in ghisa) – che fornirono concerti, come appare da un dépliant del secolo scorso, non solo nel Veneto (e in particolare nella provincia di Vicenza, con oltre 400 campane!) e nell’Italia in genere (alta Italia soprattutto), ma anche in tutto il mondo, specie in Brasile. In questo grande stato infatti un generoso figlio della famiglia Colbacchini, padre Pietro, missionario scalabriniano, recatosi per assistere gli emigrati italiani proprio durante la guerra di secessione e morto in odore di santità nel 1901, fondò la città di Nova Bassano.

Ma quali erano le fasi delle “artistiche fusioni” che fecero conquistare ai Colbacchini numerosi riconoscimenti ed attestati a tal punto che <<giornali italiani e stranieri furono concordi nel ritenere la fonderia di Angarano una delle migliori e più efficienti del suo genere>>? Nella fonderia Colbacchini – Favaretti, situata vicino al Ponte Vecchio degli Alpini di Bassano del Grappa, secondo le informazioni del suo ultimo proprietario, l’industriale Paolo Favaretti e di un suo ex dipendente, Angelo Basso Fioravante, ormai ultimi testimoni della lavorazione “classica”, si procedeva in questo modo. Avuta una commissione, per la fusione di una singola campana (o di un “concerto”), si procedeva nello stilare un contratto sul suo peso, la tonalità, i fregi e le scritte da mettere in rilievo (per le potenzialità dei due forni fusori e del castello per il sollevamento degli stampi della ditta Colbacchini – Favaretti, la campana non poteva superare i 40 quintali). Subito dopo venivano stilate le modalità della lavorazione, al fine di preparare la materia prima, lo stampo (sàgoma) e la predisposizione del sito, sempre al “coperto”, ove dovevano essere costruite, in una fossa piuttosto voluminosa, l’ànima, cioè la struttura interna su cui si doveva poi modellare la falsa campana con tutti i fregi e le scritte (da togliere poi per lasciare il vuoto che doveva essere riempito alla fine dal bronzo fuso per ottenere la “vera campana”), falsa campana da avvolgere infine con il mantello (camisa), al cui interno sarebbero rimasti impressi al negativo forma, fregi e scritte della futura campana.

Prima di iniziare la costruzione di questa complessa opera che richiedeva qualche mese di lavoro, occorreva avere già preparato della terra argillosa, la tèra crèa pi grasa e quella manco grasa: quella pi grasa doveva venire mescolà con l’acqua e lasciata depositare per circa un mese per poi essere setacciata (ripasà) perché non contenesse sassolini, pronta così per essere lavorata; quella pi magra si sarebbe adoperata al momento, aggiungendovi semplicemente dell’acqua. A questo punto, con l’ausilio dello “stampo”, una sagoma in legno che riproduceva il mezzo profilo della sezione interna della campana (stampo che girando su un perno piazzato al centro esatto della struttura da costruire – ànima – avrebbe modellato nelle varie fasi l’interno della campana), si procedeva a porre in opera dei mattoni appositamente sagomati (quarèi sagomài), piuttosto porosi perché fatti “a mano”, adoperando come “collante” una strana malta, lo sterco di mulo o di cavallo (che veniva “fornito” dalla caserma degli alpini Monte Grappa) privato solo (operazione che si faceva a mani nude perché i guanti intrigava) dée pajùsche e bachetéi pi gròsi: non avendo gli equini il rumine come le mucche, i “filamenti” del fieno rimanevano intatti, permettendo così ai gas della colata di bronzo – che non riuscivano ad uscire dagli sfiati piazzati nella parte superiore dello stampo - , tramite i loro microscopici canaletti, lo sfogo “laterale”, senza la conseguente formazione di bolle che avrebbero compromesso l’integrità delle scritte, dei fregi e anche della stessa campana.

Terminata la costruzione dell’ànima – ben legata con filo di ferro e canapa – che si innalzava a volte oltre i tre metri e che veniva modellata e lisciata con un velo di terra argillosa, tramite svariati passaggi della sagoma nel suo giro completo, si lasciava che la costruzione si asciugasse perfettamente, e si stendeva poi sopra l’intera ànima un velo di cenere liquida, che doveva fungere da “cuscinetto” per agevolare il distacco dalla falsacampana, che si sarebbe subito realizzata sovrapponendo a strati successivi della terra argillosa legata insieme sempre da canapa: il suo spessore veniva raggiunto in modo perfetto tramite una nuova sagoma che veniva fatta girare a 360 gradi permettendo così di togliere o aggiungere il materiale necessario ove sovrabbondava o mancava. Infine, quando lo spessore della falsa campana si era consolidato, la sua superficie veniva perfettamente lisciata e lasciata nuovamente essiccare per stendervi infine con un pennello, delicatamente, una pellicola di sego (séo, ottenuto tramite ebollizioni di grasso puro di animale): sarebbe servito per staccare la falsa campana dalla successiva copertura, il mantello (camisa).

A questo punto, proprio sulla superficie della falsa campana, dovevano essere applicati tutti gli “ornati”: festoni, decorazioni, madòne (le immagini di santi, della Madonna, di Cristo, della Santissima Trinità richiesti) e tutte le scritte (frasi celebrative, nomi di benefattori, dei parrocchiani, delle autorità religiose e politiche ecc.). Questi “ornati” venivano ottenuti inserendo della cera d’api o “paraffina”, riscaldata in acqua calda, in stampini di legno appositi, già preparati da abili artigiani o, per tutte le scritte, componendo delle lettere già pronte: vi si passava sopra con un rullo a forma di mattarello e quando la cera era raffreddata, esse venivano tolte dagli stampini, ritoccate alla perfezione e, rispettando lo schema della “composizione” concordato con il committente, collocate con precisione e pazienza sulla falsa campana. Quando tutti gli ornati avevano preso la loro giusta collocazione, tenuti avvinti sempre alla falsa campana tramite il sego, prima di iniziare il mantello occorreva stendere sopra il tutto con un pennello di crine di cavallo il luto, cioè un liquido ottenuto mescolando con l’acqua polvere impalpabile di mattone (immersa nell’acqua da lungo tempo e lasciata depositare) con tèra fina e grasa: questa operazione doveva essere messa in atto senza la presenza di una fonte di calore, perché occorreva che questo velo di liquido asciugasse perfettamente senza alterarsi (lasàr crèpe) e fosse steso in modo uniforme.

A questo punto si doveva modellare anche l’attacco (drèsa) della campana a forma di corona regale con sei o otto “trecce” (drèse) unite ad un sottostante corpo centrale. Un tempo esso veniva ottenuto con la cera e immesso successivamente in uno stampo di gesso: bastava, una volta che il gesso si fosse rappreso, fondere la cera e lo stampo era bello e pronto da sistemare sopra la falsa campana al suo posto esatto. Il sistema normalmente adottato dalla ditta Colbacchini – Favaretti era però simile a quello testé descritto per creare la falsa campana: la drèsa veniva modellata con la pece (pégola), si ponevano scritte e fregi, e il tutto veniva alla fine avvolto con lo stesso materiale (terra, sterco, filo di ferro e canapa) con cui si sarebbe costruito successivamente il mantello. Quando la struttura risultava dissecata, si fondeva con una fiamma molto debole tutta la pece, della quale nello stampo non doveva rimanere traccia e alla fine esso trovava posto sopra la falsa campana, non prima di aver riempito di terra, tramite il buco lasciato dal “perno girevole delle sagome”, il vuoto all’interno dell’anima e posto infine l’attacco (àsola) del battaglio, che poteva essere in ferro o in ghisa (se era in ferro, veniva forgiato con calde a forza di martellate sull’incudine, se in ghisa, ottenuto tramite fusione).

A questo punto si poteva procedere con il mantello, costruito con la tecnica del “cemento armato” e cioè, come abbiamo già detto, unendo a strati successivi sterco di mulo, terra, filo di ferro e canapa, fino a costruire uno spessore consistente: esso doveva sopportare l’enorme pressione del bronzo fuso. A differenza dell’ ànima, il mantello doveva poggiare su una robusta piattaforma di legno e veniva alla fine, una volta essiccato, sollevato delicatamente, compresa la drèsa, con l’ausilio di staffe e corde di ferro, tramite argani e il castello soprastante, costruito con travatura massiccia. Alla base, il mantello presentava una specie di gradinata: essa era necessaria per contrastare l’enorme pressione del bronzo fuso al momento della colata. La falsa campana che rimaneva attaccata all’ ànima veniva tolta, come venivano tolte tutte le tracce di cera che non si erano fuse quando, prima del sollevamento del mantello, l’intero stampo era stato riscaldato con del carbone di legna perché il tutto si disseccasse nel modo più perfetto, e cera e grasso appunto colassero sul “fondo”. Alla fine, tra l’ ànima e il mantello fatto ritornare esattamente nella posizione in cui si trovava, rimaneva il vuoto perfettamente corrispondente alla falsa campana con tutti i suoi “ornati”. Ora tutto era pronto per la fusione del bronzo e la conseguente colata nello stampo, che veniva ricoperto di terra normale, pressata con un cilindro di legno a cui erano state applicate due aste, strumento identico a quello che si adoperava per compattare i selciati. Dopo questo intervento rimanevano visibili solo il foro di entrata ad imbuto del bronzo fuso e i due sfiati collocati sopra la drèsa. Lo stesso procedimento veniva posto in atto, se invece di una campana, come quasi sempre accadeva, si doveva produrre un intero concerto di tre, quattro, cinque campane, il cui peso complessivo, però, non poteva superare i 35 quintali per le limitate potenzialità dei due forni fusori a riverbero (uno della capacità di 20, l’altro di 25 quintali circa) della ditta, forni che ora bisognava mettere in azione. Collocati vicino alla fossa dove erano interrati gli stampi, essi si presentavano con una struttura unica, in mattoni refrattari, divisa in tre scomparti posti nella seguente successione. Il forno discontinuo, ove avveniva la combustione alimentata da legna stagionata: questa produceva una fiamma intensa (la legna migliore era quella di abete, péso) perché un tempo veniva alimentata dall’aria insufflata dai mantici – oggi da ventole a motore elettrico – e il flusso dell’aria era regolato con portelline a mezza altezza. Il vero forno fusorio a bacino concavo (a coppella), con la volta schiacciata “a mezzaluna” e con una bocca munita di portella attraverso cui si immetteva nel bacino il bronzo occorrente perché fondesse (pani di bronzo o pezzi di campana o pani di rame e stagno nella dovuta proporzione: se si voleva un suono pastoso occorreva che la percentuale di stagno fosse al di sotto del 20%, ma non sotto il 15%, per un suono argentino appunto il 20%). Infine, dalla parte opposta del forno, il camino. La fiamma intensissima faceva salire a circa 1300 gradi la temperatura del forno fusorio e nell’arco di circa due giorni fondeva tutto il metallo che il bacino poteva contenere.

A questo punto si poteva togliere il tappo (tampòn) in acciaio o argilla che fungeva da paratia, manovrabile con una lunga asta, per un flusso più o meno intenso; il tappo ostruiva il condotto che partiva dal fondo del forno fusorio stesso: tramite poi canalette, ottenute sulla terra ben compattata, si faceva scorrere (per caduta) il bronzo fuso nel vuoto dello stampo, quello lasciato dalla falsa campana. Con l’esperienza maturata negli anni l’operatore sapeva come farlo fluire, e quando esso avesse riempito lo stampo e se gli sfiati avessero svolto il loro compito alla perfezione. Si doveva solo attendere che il metallo si raffreddasse: quando ciò era avvenuto, si levava la terra attorno al mantello (che veniva poi rotto) e la campana, tramite gli argani, agganciati alla sua drèsa, veniva sollevata e collocata su un castello apposito per essere intonata, tramite l’orecchio fine di un intenditore che si serviva del diapason.

Il suono e le tonalità erano legate al peso della campana e al suo diametro, non allo spessore delle pareti (per questo, prima di iniziare la lavorazione occorreva fare dei calcoli esatti e uniformarli possibilmente alle numerose sagome già all’uopo predisposte). Se vi erano delle discordanze, era necessario innanzitutto togliere le imperfezioni (soffiature, bolle e sbavature – bave) con scalpellini di acciaio o lime, che dovevano essere però usurate (fruàe) per non incidere troppo, poi bisognava lucidarla con spazzole di ferro e limature (scòrie) di ferro molto minute (quelle cioè che si staccavano quando il ferro veniva battuto sotto il maglio), attaccate a stracci (stràse): più si sfregava e più lucente diveniva il bronzo (ultimamente si adoperavano all’uopo una lucidatrice elettrica con panni particolari e smeriglio). Solo allora si poteva procedere alle “incisioni” che avrebbero fatto raggiungere alla campana la giusta tonalità, lo spessore delle incisioni era di 1 o 2 cm. Questa “sottrazione” veniva prodotta con un scalpellino: per innalzare la tonalità si agiva sul fondo della campana che veniva poi ben rifinito; per diminuire la tonalità si agiva all’interno della campana, un po’ sopra la linea ideale, là dove colpiva il battaglio perché in quel punto il suo spessore si presentava più consistente.

La campana a questo punto era pronta per ricevere il battaglio (batòcio) il cui peso e lunghezza erano proporzionali all’altezza e al peso della campana stessa. Esso era costituito da una barra cilindrica in ferro che terminava, nell’estremità da collegare all’ àsola della campana, con un anello “schiacciato” atto a ricevere, analogamente all’ àsola, una striscia di cuoio (curame) più o meno consistente – a seconda del peso del battaglio da sostenere – che veniva avvolta con due o più giri e i cui capi venivano infine fissati con bulloncini; nell’altra estremità, un po’ prima, presentava un rigonfiamento (“boccia”) a sfera. Così il battaglio, all’oscillare della campana, non avrebbe emesso cigolii di sorta perché avvinto con il cuoio (che usurato poteva essere sostituito con estrema facilità e che inoltre non avrebbe creato vibrazioni discordanti rispetto a quelle della campana in quanto il cuoio funzionava da ammortizzatore), e avrebbe colpito con la “boccia” la parte più spessa della campana e diffuso i suoi primi squilli argentini.

Infine non rimaneva che trasportarla, un tempo, con un carro, tra mille precauzioni (oggi con camion dotato di gru) sotto il campanile o la torre civica a cui era destinata. Sulla cella campanaria sarebbe stato montato un castello, un tempo in legno, poi in ferro, pronto per essere collegato al ceppo sempre in legno (una specie di giogo), fatto oscillare su due perni (inseriti nei cuscinetti collocati sul castello stesso), tramite una ruota in ferro collegata ad una corda che scendeva fino al pianterreno del campanile; corda a cui si sarebbe poi attaccato il campanaro per assolvere al suo incarico. Con paranchi, argani o rulli demoltiplicatori, tramite un sistema analogo a quello delle teleferiche o funivie (se la campana era poco pesante bastavano una corda e una carrucola), la campana sarebbe stata issata sul campanile o sulla torre campanaria, (una delle campane più pesanti issate dalla ditta Colbacchini-Favaretti è la campana a martello di Asiago, alta ben due metri e mezzo), agganciata poi saldamente al ceppo oscillante tramite la treccia (un tempo le campane ne erano sprovviste e quindi per attaccarle al ceppo si ricorreva ad una serie di staffe agganciate a delle asole emergenti nella parte superiore della campana), pronta a inviare con i suoi lenti o veloci rintocchi, tristi o lieti annunzi, interpreti dell’anno liturgico e pronta altresì ad avvertire dell’imminente arrivo di un temporale (e a fugarlo, se possibile) o a chiamare a raccolta i volonterosi per spegnere qualche incendio.

Oltre alle campane superiori al quintale di peso, venivano prodotte campanelle e campanellini (bronzini). Le tecniche di modellazione e fusione erano uguali a quelle già descritte, solamente che le opere determinate dalle spinte metallo- statiche (in una campana di oltre un metro di altezza la pressione del bronzo fuso è enorme), quali l’escavazione della fossa, la necessità di impalcature, il sollevamento tramite argani ecc., erano oltremodo ridotte se non annullate, perché il lavoro si svolgeva “in orizzontale”, sempre con sagome in legno per produrre lo “stampo” (si adoperava la solita canapa, la terra, lo sterco di mulo e il filo di ferro) che poi veniva posto in verticale, e a cui veniva tolta ovviamente la falsa campana. Veniva quindi ricomposto sull’ànima il mantello per ricevere il bronzo sfuso e ottenere la campanella che doveva essere rifinita con la stessa tecnica messa in atto per una campana di peso superiore. Con un sistema analogo venivano prodotti anche gli stampi per i bronzetti in genere: candelabri, secchielli normali per cibi o liquidi e ornamentali con o senza gambe (sate quando erano sagomate come le zampe del leone, gambe quando erano lisce).