Il lavoro del fabbro generico

Tratto da: LA LAVORAZIONE DEI METALLI di Evaristo Borsatto

Il mestiere del fabbro, in ogni località del Vicentino, è sempre stato considerato indispensabile.

Negli anni Cinquanta, quasi in ogni paese operavano uno, due o anche più fabbri “generici ”; e dell’importanza della loro professione erano consapevoli i fabbri stessi, che, a Vicenza avevano costituito una loro corporazione. Nelle “botteghe” oltre al maestro operavano altre due categorie di lavoratori: <<a) i garzoni, ragazzi in regime di apprendistato che iniziavano a pigliare dimestichezza con le tecniche e i segreti del mestiere; b)i lavoranti, vale a dire i giovani che avevano oltrepassato il tirocinio dei quattro-cinque anni iniziali e che si apprestavano a divenire – non prima di aver compiuto, in genere, i vent’anni – veri maestri, una volta superata la prova e pagata la tassa d’iscrizione all’arte>>. A Bassano, ad esempio, già alla fine del XII secolo, quando la città contava all’incirca 2500 abitanti, i fabbri erano quattro.

Occorre subito aggiungere che quando noi parliamo di fabbri “generici” ci riferiamo a dei “professionisti “ che, nel vastissimo mercato dei prodotti della lavorazione dei metalli “non nobili”, si erano ritagliati determinati spazi di intervento, legati alla condizione generale socio economica del luogo (paese, contrada o rione) in cui operavano, capaci quindi, se il contesto e le necessità della popolazione lo richiedevano, di dedicarsi non solo alla produzione degli articoli più svariati, ma anche a quella “in serie”, adottando le innovazioni tecnologiche più avanzate o capaci essi stessi di sperimentarne di nuove, riuscendo sempre a consegnare oggetti o strumenti estremamente funzionali e formalmente curati.

E si rimane stupiti, nelle inchieste che si conducono, quando un vero “artigiano”- in questo caso un fabbro, un majàro, un maniscalco, un batirame,- interpellato sul suo mestiere, risponde candidamente che non c’è lavorazione e oggetto conseguente che non si possa fare, basta avere un locale apposito, la materia prima e gli strumenti adatti; e si rimane quasi sbigottiti per certe soluzioni pratiche ad ogni problema inerente il loro lavoro.

I fabbri, dunque, operavano in una fucina (fusìna) di solito collocata, in passato, sotto portici o tettoie, spesso disturbando i vicini, per cui, dovevano avere l’officina chiusa da muri e sistemata in modo da non recar danno agli altri.

Nell’officina, per secoli, per forgiare il ferro (bàtare el fèro), il fabbro (fàvaro) adoperava (e adopera) l’incudine (incùdene), l’attrezzo in ferro massiccio di forma parallelepipedo terminante alla base con quattro zampe(sate, gambe), a cui sono uniti, nella parte superiore, due corni (còrno quàdro e còrno tòndo), per modellare spigoli e ferri ad angoli di diverse inclinazioni e per modellare (voltàr su) pezzi tondeggianti come ad esempio, s-ciòne. L’incudine, poi, veniva posta sopra una base d’appoggio, di solito in legno (sòca-sòco)- una sezione di un tronco di acacia (spinàro, càsia)- che serviva per ammortizzare i colpi di martello, e che doveva risultare alla giusta altezza per il fabbro. Oltre all’incudine, occorrevano all’uopo una serie di tenaglie (tànaje da fògo) per tenere il pezzo di ferro da lavorare se era incandescente o comunque caldo; le quali, poi, a seconda dell’uso, avevano lunghezza e larghezza diverse: tutte, comunque, dovevano risultare con manici lunghi (la loro lunghezza variava dai 30 ai 70 cm) per impedire scottature. Quando lo spessore del fèro da bàtare era consistente, occorreva la mazza (masa), di solito a due facce (dòje), il cui peso poteva variare da alcuni chilogrammi (mediamente 8-10), fino addirittura a 15-18, con un manico (mànego) piuttosto consistente e lungo, che si inseriva nel suo foro (buso) con precisione perché non si levasse tanto facilmente (per questo occorreva inumidirla spesso, con conseguente aumento del volume del legno, conficcarvi nell’estremità dei cunei di legno – péndole – o, meglio ancora , di ferro). Essa, per il peso e il pericolo che comportava in caso di errore di battitura, era azionata a due mani e non poteva quindi venir manovrata da chi teneva sull’incudine anche il pezzo di ferro da lavorare.

Ma il mezzo di percussione più normale del fabbro era il martello (martèo, martèlo da fabro), il cui peso poteva variare da uno a due chili (e in base al peso variava anche la lunghezza del manico), e che in una estremità presentava una faccia quadra (dòja), dall’altra la penna. Con esso si eseguivano la maggior parte dei lavori, mentre l’abilità del fabbro risiedeva tutta nel saperlo manovrare con estrema destrezza ed eventualmente in alternanza ritmica con il battito della mazza manovrata da un aiutante.

Per riscaldare il ferro a dovere, a seconda del lavoro da eseguire, non poteva mancare la fucina (fusina), che nel tempo subì una inevitabile evoluzione. In passato essa era formata da un piano a ridosso di una parete del laboratorio, sollevato da terra circa 70-80 cm, con una superficie di oltre un metro quadrato (fogolaro), alle cui estremità potevano innalzarsi due pareti che sorreggevano una cappa (napa) - essa poteva essere opportunamente inserita anche nel muro, senza il supporto delle due pareti – con una canna fumaria per convogliare all’esterno i fumi. Nel mezzo del piano si apriva un foro, a cui perveniva un tubo terminante con el bocame (una struttura rotonda in ferro, compatta e ricambiabile), da cui usciva un forte getto d’aria regolabile, prodotto da una “tromba idraulica” o da una ventola mossa da cinghie collegate tramite pulegge ad una “ruota ad acqua”; se la corrente d’aria era ottenuta invece con un mantice (màntesa) in legno e cuoio (di solito erano però due, per assicurare una corrente continua), azionato da un’asta (stanga), munita di un tirante con una maniglia a portata di mano con un garzone addetto alla fucina, allora l’aria usciva da un ugello in ferro posto sopra o accanto al carbone acceso che, per l’apporto di ossigeno, presentava una fiamma viva, atta a portare il ferro quasi alla fusione. A mantenere costante la corrente d’aria poteva essere lo stesso fabbro, che abbassava in continuazione e ritmicamente l’asta con una mano, mentre con l’altra governava il carbone incandescente e posizionava i pezzi di ferro da arroventare con l’aiuto di una tenaglia.

Questa fucina, propria di certi fabbri e dei majàri quasi fino ai nostri giorni, con l’evoluzione della tecnologia è stata sostituita dalla ” forgia “ in legno con il piano formato da una piastra di ferro o completamente in ferro, di dimensioni anche ridotte, simile a un banchetto (e quindi facilmente trasportabile), alla quale veniva agganciato un ventilatore (véntolo, s-ciòso) a forma di chiocciola, mosso un tempo da una manovella (che anche un bambino – bòcia – poteva far girare), poi da un motorino; ventilatore che convogliava l’aria, tramite un tubo che scorreva sotto la piastra di ferro del piano, verso un foro posto proprio al centro della piastra stessa (bochetòn co tre feritòje), e serviva per ravvivare la fiamma prodotta dal carbone minerale, di solito il carbone coke (carbòn còco), perché emanava meno fumo (se necessario, si adoperava anche antracite o litantrace – carbòn vèrgine, carbòn nocéta par fòrgia, Quinto Vicentino; carbone, prima della guerra, inglese; dopo la guerra, tedesco - , al limite anche lignite. Un tempo – e oggi per certi lavori – veniva adoperato sempre il carbone di legna). Per togliere il carbone ormai esausto (marògna) si adoperava una palettina in ferro (paéta), e per accendere il carbone minerale, occorreva sempre prima accendere il fuoco (impisarlo) con della legna normale ben asciutta, fino ad arrivare alla formazione di belle braci (brònse) su cui poi esso veniva posto, oppure con qualche pezzetto di carbone ricoperto di polvere di antracite.

Accanto alla forgia e alla fucina, non poteva mancare una vasca, di solito scavata in un blocco di pietra (àlbio), con dell’acqua (in tempi più recenti vi era anche un contenitore per l’olio o altri liquidi appositi), che serviva per raffreddare (sorare) gli attrezzi ( le tenaglie soprattutto), divenuti anch’essi incandescenti, o per dare la tempra ai manufatti che sarebbero serviti per tagliare o incidere. Per eseguire certe lavorazioni, necessarie erano delle grosse forbici (fòrbese), adatte per tagliare delle lamiere o delle lamine in ferro di spessore non molto consistente; servivano pure degli scalpelli (scopèi, scarpéi), anche questi adoperati, a volte, per tagliare lamiere spesse, o per inciderle in profondità. Altri strumenti presenti erano ancora qualche trancia più o meno voluminosa, un banchetto con una morsa e l’immancabile mola (mòla de pièra, mòla) che serviva per affilare (gusare, usare) lame taglienti, togliere sbavature, lucidare. Questa mola, nel Vicentino, era di pietra arenaria ricca di quarzo (prìa de saldame o soldame), proveniva dalle cave di Valli del Pasubio o di Lugo o di San Luca di Marostica de, ed era di diametro vario. Essa veniva fissata su un supporto adeguato (cavra) e mossa o ad acqua o con una manovella (mòla a man, mòla a àcoa) – e allora abbisognava di due operatori – o con un pedale (mòla a pedale, mòla da gusare i cortèi), e si presentava, come si può ben capire, analoga a quella dell’arrotino, ma più massiccia e stabile, con una gran ruota che fungeva anche da volano (ora si adoperano invece le mole a smeriglio portatili o fisse, azionate da un motore elettrico). E la mola di pietra arenaria doveva essere continuamente inumidita o bagnata con acqua: per questo o “pescava” in una vasca o veniva posto sopra di essa un contenitore in metallo (busolatéo) pieno d’acqua, con un buco nella sua parte bassa, in cui veniva infilato uno straccio che lasciava gocciolare sulla mola che girava dell’acqua.

Molti altri erano poi gli strumenti e i materiali di cui i fabbri necessitavano: dal metro (in legno o in ferro) al compasso, dai seghetti alle filiere, dalle pinze ai cacciavite, dalle spazzole in ferro ai panni, dai gessetti con cui si disegnavano, di solito con l’ausilio di sagome in ferro già predisposte, i contorni dell’oggetto o dello strumento da mettere in opera ai trapani, dalle lime di varia natura agli acidi e agli antiossidanti (oli, grasso, petrolio, minio, colori ad olio, porporine, colori al nitro ecc.). E con il progresso tecnologico, allo sforzo muscolare sono venuti in aiuto i motori elettrici e le saldatrici elettriche.

La materia prima utilizzata, il ferro, era un tempo sempre “greggio”, non già pronto all’uso come oggi, e con una varietà di leghe che vanno dalla ghisa al ferro più dolce e all’acciaio più resistente.

Nel secolo scorso il ferro adoperato era molto spesso quello raccolto dai “recuperanti” nei teatri di guerra (soprattutto sull’Altipiano dei Sette Comuni, sul Pasubio e sul Grappa), le bombe soprattutto, che poi venivano “ sezionate” in masselli di peso vario, a seconda dell’oggetto da forgiare, con la fiamma prodotta dall’acetilene (ottenuto nei gasometri in cui sul carburo di calcio veniva versata dell’acqua) che bruciava in ossigeno puro, oppure con la fiamma “ossidrica”. Molto usate erano pure le rotaie (sine) del treno e le balestre dei camion e delle auto rottamati.

Era il fabbro che da questo ferro greggio – non certo già fuso e “in lega” sempre in bei masselli o barre, a sezione tonda, quadra o piatta, a T o a L, di spessore e lunghezza vari – o da quello che noi oggi chiamiamo ferrovecchio o da strumenti e oggetti in ferro ormai inservibili, o dagli stessi scarti della lavorazione, o perfino dalle limature, riusciva a creare la “massa” che con il fuoco e a colpi di maglio, di mazza o di martello assumeva un po’ alla volta la forma e la “consistenza” volute. I fabbri riuscivano a produrre la lega occorrente o a riconoscere la qualità del metallo da lavorare per adoperarlo nel modo più appropriato, saggiandone semplicemente la consistenza: a caldo ne assottigliavano a forma di linguina un pezzettino, lo raffreddavano e lo spezzavano con un colpo di martello; dal modo in cui si rompeva valutavano per quale strumento o oggetto fosse più adatto. Non si possono affrontare tutte le lavorazioni in cui i fabbri, nel tempo, si cimentarono, comprese quelle, bisogna dire purtroppo, molto importanti, legate all’arte della guerra – lavorazioni sempre presenti anche nel Vicentino – o quelle di precisione, richieste, ad esempio, da ingegnosissime serrature atte a sconfiggere l’abilità dei ladri più smaliziati, o anche quelle applicate ai congegni più sofisticati atti a misurare il tempo: gli orologi. Esaminiamo perciò solo un settore da sempre curato dai fabbri generici, quello della creazione di cancelli, inferriate, poggioli e ringhiere, manufatti che in certe ville rinascimentali e settecentesche assurgevano a dignità d’arte. Basterebbe ricordare, per limitarci al caso più emblematico del Vicentino, i ferri battuti di Villa Trissino, ora Marzotto a Trissino. Anche per questa ragione Trissino divenne un centro importante per la produzione di oggetti in ferro battuto destinati ad altre residenze nobiliari del Vicentino e d’Italia. Anzi tra Otto e Novecento a Trissino visse e lavorò il maestro Antonio Lora (1835 – 1922), le cui opere (portafiori, lampade, alari, grifi ecc.) furono apprezzate perfino alla corte dello Zar di Russia e ottennero riconoscimenti e premi alle esposizioni internazionali al di qua e al di là dell’Atlantico. Fu alla scuola di questo grande artista che si formò Angelo Perlotto il quale ha dato origine a una tradizione di artigiani-artisti del ferro battuto vicentino di grande rinomanza e tuttora vive grazie alla produzione del figlio Tito e del più giovane nipote Gilberto.

Ma come operava il fabbro, una volta ricevuta la commissione e steso il progetto e disegno (e qualche volta costruita anche la sagoma) dell’oggetto da produrre, fosse cancello, inferriata, ringhiera ecc.? Dapprima reperiva il ferro necessario in base ai suoi calcoli, preparava i pezzi di ferro ordinati per grossezza e lunghezza – essi, un tempo dovevano essere lavorati a furia di fucinature (calde), a colpi di mazza, quando non anche di maglio, e rifiniti a colpi di martello – e quando occorreva venivano prodotti, a caldo, con punteruoli (spine, spinòti) dei buchi per inserire nei traversali i verticali stando attenti al grado di temperatura raggiunto per una lavorazione ottimale (prima che el fasése le steéte, se no el cominsiàva a colare o prima ch’el bojése).

I pezzi pronti venivano poi tagliati alla giusta misura con un seghetto o con scalpelli e giustapposti in modo da ottenere la struttura essenziale del manufatto (el teàro), a cui poi si sarebbero aggiunte le parti accessorie con gli abbellimenti (fòje, fiùri, disegni stilizzati), sempre però funzionali alla sua stabilità e compattezza. Quando tutto era pronto, si procedeva alla saldatura di tutti i singoli pezzi: essa si faceva, per alcuni elementi se non per tutto l’insieme, a caldo, quasi per fusione (non esistevano saldature ossiacetileniche o ossidriche o soprattutto elettriche), per altri tramite buchi – ottenuti con trapani a mano e “a freddo” – in cui venivano infilati degli spinòti incandescenti (el ribatìn), che poi venivano ribattuti a caldo e modellati sulle due facce a forma emisferica. Per le strutture meno “ portanti “ si adoperavano delle fascette anellari (braghéte, faséte) che con tenaglia e martello, sempre a caldo, venivano adattate e ben ribattute perché unissero saldamente i pezzi tra loro (ora molte di queste fascette sono messe in opera “ a freddo” e solo per nascondere le saldature!).

I cancelli presentavano nella parte superiore, per impedirne lo scavalcamento, delle lance o delle punte acuminate; erano dotati inoltre di catenaccio (caenàso), chiavistelli (luchiti) e serratura (seraùra) e facevano perno sulle bandelle (cùbie), che si inserivano negli arpioni (pòesi, pòlesi) cementati in parte nel muro o saldati ad un telaio (casamòrta). Le ringhiere delle scale invece si presentavano costituite da due robuste aste in ferro verticali, di solito a sezione quadrata (piantòn)terminanti, nella parte superiore, con una testa rotonda (pòmolo) e con un prolungamento sottostante (sata) che terminava a sua volta in una squadretta (aléta), da inserire in una scannellatura del marmo della scala (un tempo fissata con piombo fuso – piombà -, recentemente invece cimentata), da un telaio (teàro) formato da due aste in ferro parallele (saldate ai piantuni), unite poi tra di loro a distanze uguali da barre verticali, nei cui interspazi potevano essere inseriti abbellimenti sempre in ferro con motivi geometrici o floreali. E sull’asta superiore, tramite viti, poteva essere agganciato un corrimano (corimàn) in legno. Questi manufatti, una volta assemblati, venivano puliti con spazzole di ferro, venivano loro tolte eventuali protuberanze o sbavature pericolose con lime o carta vetrata; il ferro con cui questi oggetti erano costruiti risultava piuttosto acciaioso perché non arrugginissero facilmente: alla ruggine un tempo si cercava di ovviare con olio cotto, successivamente con porporine e antiruggine (minio) e colori ad olio, attualmente con particolari vernici che imitano i riflessi appunto dell’acciaio.

Tratto da: LA LAVORAZIONE DEI METALLI di Evaristo Borsatto