I maniscalchi

Tratto da: LA LAVORAZIONE DEI METALLI di Evaristo Borsatto

A questa professione un tempo si dedicavano, di solito per tradizione familiare, in ogni paese del Vicentino, uno o due maniscalchi (feracavài, ciapìn); maniscalchi che, magari proprio in centro del paese e “all’ombra del campanile“ avevano la loro botéga – che disponeva spesso di una còrte spaziosa con annessa mescita ovvero ostarìa, gestita proprio dalla moglie del maniscalco – con el banco da lavoro co a mòrsa, i fèri del mestière (lime, raspe, incastri, martèi, cavaciòdi, ongèli, tenàje da fògo e da ònge, ciòi e soprattutto fèri da cavalo, ciape da e vache, tronchesini), la fusina co a màntesa che supiava l’aria, tramite un bochetòn sul fògo, alimentato da carbonèa poi a carbòn còco, la sua napa o capa col camìn, l’immancabile incùdene a du còrni sopra el sòco e un cavaéto a tre gambe su cui si doveva costringere il quadrupede a posare la gamba piegata.

Il loro lavoro non si svolgeva necessariamente sempre nella “bottega” e in “corte”. Se occorreva, il maniscalco si portava con un’attrezzatura minima anche nelle fattorie o cascine sperdute nella campagna e qui svolgeva la sua opera, come ancora oggi accade per quei pochissimi maniscalchi sopravvissuti all’invasione di camion, trattori e altri mezzi meccanici (che hanno anche nel Vicentino completamente eliminato, a partire dagli anni Settanta, la forza- lavoro degli animali), grazie a qualche contadino nostalgico o ai maneggi che ancora richiedono la loro opera, associata solo qualche volta a quella dei “veterinari”, a cui, come sempre accadeva invece un tempo, non possono più sostituirsi neanche per “salassi”, praticati con i loro particolari “temperini” (cortèi mùi pa salasi) e cucendo poi la ferita con ago (gusèa) e filo di canapa.

I maniscalchi operavano vicino o addirittura in uno stallo pubblico che aveva la stessa funzione delle attuali stazioni dei treni o dei pullman, un vero caravanserraglio, dunque, con viavai di carri, carretti, carrozze e con locanda. [(A Bassano del Grappa, ad esempio, fino agli anni Settanta sopravviveva uno stallo proprio vicino al lato est del Duomo Ossario, denominato “dalla Cornelia”, proprio là ove ora sorge l’edificio delle poste centrali. Vi si accedeva tramite un ampio cancello. Esso si presentava con una vasta corte quadrangolare al cui lato sud-est si trovava la fucina del maniscalco; a nord-ovest, invece, un’osteria e lungo tutto il perimetro si svolgeva un porticato adatto per sistemarvi momentaneamente animali, carri e carretti, nonché calessi e questo fino agli anni Cinquanta. Dagli anni Sessanta in poi cominciò a divenire anche stallo per le biciclette o anche rari motorini.)]

Ed i maniscalchi, si può dire, svolgevano la stessa funzione dei “meccanici” attuali, solo che al posto del motore delle macchine e dei camion, si trovavano a lavorare sugli animali “da tiro” o “da trasporto”: cavalli di varie razze, dai possenti bròchi ai cavài da còrsa; dai muli ai musi, dai (bòi) alle vache. E con le strade, spesso di campagna (cavini), che si dovevano percorrere tra buche, sassi e polvere, dopo qualche mese, per le bestie da tiro o dei corrieri, la ferratura anche più solida doveva essere sostituita per l’inevitabile usura e per “incidenti di percorso”, quali il distacco di qualche “ferro” o qualche danno allo zoccolo o all’òngia dell’animale.

Le modalità e le fasi di questo necessario intervento erano le seguenti: alla bestia venivano tolti tutti i finimenti, ad eccezione di quelli della testa che contemplavano, ad esempio nei cavalli, il morso. Così essa poteva essere legata con un cordino molto corto ad uno degli anelli (s-ciòne) infissi ad una certa altezza o nel muro esterno della bottega o nei pilastri che sostenevano il porticato, quasi sempre presente. Il maniscalco – che dall’alba fino al tramonto non aveva un attimo di respiro se le giornate non erano interessate da forti piogge o neve o ghiaccio – si portava presso l’animale, prendeva atto del lavoro da fare e si metteva subito all’opera. Dapprima doveva levare i ferri (fèri dacavài, da muli, da musi – se per buoi o mucche, ciape) ormai usurati e per questo si serviva dello sgabello a tre piedi per posarvi sopra la gamba dell’animale su cui agire, se non vi fosse stato presente un aiutante per svolgere la stessa funzione. Perché la bestia rimanesse calma, soprattutto durante l’estate, quando i tafani (muscuni) vi si avventavano sopra sitibondi di sangue, occorreva che un garzone li scacciasse con una frasca o con uno scacciamosche formato da una coda di cavallo. Il maniscalco intanto prendeva un particolare attrezzo, il cacciatoio (incasìn, cavaciòdi, ongèla) e sollevava (drisava) la punta dei chiodi vecchi ribattuti (ribatùi), aiutandosi a volte con una piccola incisione; indi, quando tutte le punte dei chiodi risultavano “sollevate”, poteva levare il ferro dallo zoccolo senza lacerare quest’ultimo in qualche parte e si serviva per questo sempre del cacciatoio e di una tenaglia “normale”. Fatta questa operazione, poteva intervenire subito sullo zoccolo per togliere la parte dell’unghia in eccesso e lavorarla (spianarla) per la nuova ferratura e nel contempo poteva anche incidere laddove si era formato magari un focolaio di infezione.

Tutte queste operazioni venivano eseguite con una tenaglia particolare –che presentava ganasce taglienti come scalpelli per legno, e inclinate, e manici molto lunghi per aumentare la forza di pressione occorrente per togliere la parte in eccesso dell’unghia coriacea – e con un attrezzo particolare, l’incastro.

Una volta sistemate le unghie e prese le misure dei ferri occorrenti, se non li avesse avuti quasi pronti (sgresài) ed in misura un po’ inferiore o superiore (di solito il muro della bottega era tappezzato di ferri di ogni misura) si metteva subito all’opera per forgiarli con calde e a colpi di martello sull’incudine come un vero fabbro. Prendeva infatti un pezzo di ferro dolce grezzo a barre, e ottenuto di solito da ferro di recupero: con colpi sicuri (e con solo qualche calda) stampava, in due tempi, il ferro da cavallo ricurvo di circa un centimetro di spessore che, molto spesso, soprattutto per i cavalli da tiro, presentava nelle due parti terminali una curvatura più lunga di un centimetro: erano i rampuni. Nel mezzo poi dell’arco del ferro, sul bordo esterno, potevano venire prodotte una o più linguelle triangolari, le cosiddette barbéte, che sarebbero poi state appiattite sullo zoccolo per aumentare l’aderenza del ferro.

Mentre si lavorava a caldo il ferro, si dovevano produrre i fori per il passaggio dei chiodi che lo avrebbero assicurato allo zoccolo: si ottenevano con la stampa (un attrezzo a punta quadrata con cui si produceva non solo il foro che assicurava la presa, ma che faceva anche in modo che la testa del chiodo, quadrato o piuttosto consistente, trovasse la sua nicchia dentro lo spessore del ferro stesso; per questo talvolta i ferri da cavallo presentavano un avvallamento a sezione trapezoidale che correva a semicerchio nel mezzo del ferro e in esso trovavano spazio i fori!). Questi fori erano sette per ogni ferro di cavallo, quattro all’esterno e tre all’interno; per quelli invece dei muli e degli asini, che hanno lo zoccolo più piccolo, tre all’esterno e due all’interno. Non bisogna poi dimenticare che la conformazione dello zoccolo destro non è la stessa di quello sinistro, e che quindi anche i ferri risultano diversi.

I quattro ferri pronti ora dovevano venire fissati. Quando l’unghia era preparata con le modalità sopra descritte, si procedeva in questo modo: i quattro ferri venivano riscaldati quel tanto che bastava per poterli posare ciascuno sopra la propria “unghia” e lasciare che ne bruciassero un po’ la parte superiore, con conseguente sviluppo di fumo e di quell’acre, caratteristico odore di ònge brusàe. Quest’operazione (piasare i fèri) era necessaria perché così, una volta inchiodati, non si muovessero (no i balase). I ferri, poi, venivano raffreddati e temprati con la stessa tecnica messa in atto dai fabbri, perché non corressero il rischio di rompersi (saltare); quindi, con i tipici chiodi (ciòi) di ferro dolce, con la testa a sezione quasi esaedrica (che i maniscalchi spesso si costruivano con un apposito stampo), con abili martellate venivano fissati sugli zoccoli dell’animale (ferare icavài, i muli o i musi – o, se sull’unghia del bovide – inciapare i bòi, le vache). In questo lavoro occorreva però anche essere oltremodo esperti, anzitutto per non lesionare la parte viva dello zoccolo (o dell’unghia), con una conseguente reazione violenta della bestia, che non poteva non avvertire un dolore lancinante e di conseguenza scalciare (trare) forsennata, con grave pericolo per il maniscalco e i suoi aiutanti; poi i chiodi, per impedire al ferro di staccarsi alle frequenti sollecitazioni, dovevano essere piantati in modo tale che, data la conformazione dello zoccolo, la loro punta uscisse nella parte alta dello zoccolo stesso, per poi essere ribattuta (ribatùa) in modo perfetto al fine di non danneggiare nell’andatura, in caso di contatto, l’altro arto. La stessa attenzione si doveva porre per i “ferri” stessi, che non dovevano presentare alcuno spigolo vivo (e per questo venivano rifiniti non solo con la lima, prima di essere fissati allo zoccolo o all’unghia, ma anche con una raspa, perché la parte cornea e il ferro risultassero perfettamente combacianti); la stessa barbéta, poi, per il ferro da cavallo, se contemplata, doveva essere ben ribattuta nella parte anteriore dello zoccolo.

Quando apparvero i copertoni, qualcuno pensò bene di applicarne una striscia di quelli usurati anche ai ferri dei cavalli che dovevano percorrere strade asfaltate o, d’inverno, strade ghiacciate, fissandoli con dei rabattini nella parte posteriore del ferro o a ridosso dei ramponi. In questo modo gli animali non scivolavano e si evitavano così conseguenze irreparabili: se si spezzava un loro arto, spesso dovevano essere abbattuti per divenire poi carne da macello, come del resto toccava a tutti i quadrupedi a cui l’uomo, un tempo per necessità, doveva ferrare unghie o zoccoli, con l’ausilio appunto del maniscalco.