I  majàri

Tratto da: LA LAVORAZIONE DEI METALLI di Evaristo Borsatto

Come abbiamo precedentemente detto, i fabbri generici, in base alle necessità e con l’evolversi delle tecnologie, potevano restringere il loro campo d’azione, per produrre attrezzi molto richiesti soprattutto per il lavoro dei campi, cercando di fabbricarne molti nel minor tempo possibile e al costo più basso (per cui si può già parlare di un lavoro in serie). E questo accade quando, alla forza di duecento e più braccia di fabbri che manovravano cento e più mazze, si sostituì, per fucinare i pezzi di ferro ottenuti dalla “fusione”, grazie alla forza idraulica, il “lavoro ciclopico” di un maglio del peso variabile dai 30 ai 150 chili. Esso cominciò a sferrare i suoi colpi ritmati più o meno velocemente (dai 35 ai 150 al minuto), facendo rimbombare per tutto il giorno l’opificio, e squassando nel contempo la quiete millenaria e obliosa dei paesi delle vallate vicentine pedemontane e poi anche quelle della pianura; quiete prima rotta, di quando in quando, solo dai tuoni dei temporali, dal suono delle campane, dal fragore delle acque dei fiumi durante le devastanti piene autunnali o, purtroppo, come sempre accade, dal “fragor di pugna”, in cui, proprio a cominciare dal Cinquecento, contemporaneamente quindi alla comparsa dei magli, si infittirono i colpi secchi di archibugi e colubrine e cominciò a farsi sentire il rombo cupo di cannoni e bombarde. 

E nel Vicentino, così ricco di torrenti, fiumiciattoli, fiumi, canali (rostuni) e risorgive, da quando il maglio venne inventato (nel XVI secolo fece la sua comparsa in Trentino), trovò subito molti fabbri e batirame pronti ad accogliere l’innovazione, tanto che <<sul principio del XIX secolo, risultano operanti un po’ dovunque nel territorio [ vicentino ] i magli battiferro che ancora il Maccà ricordava esistenti in numero di quarantaquattro, per lo più concentrati lungo la fascia pedemontana, senza contare quelli installati ad oriente del Brenta>>. I magli, però, si diffusero ovunque esistessero delle rogge (anche in pianura quindi) o dei canali di una certa portata, molto spesso associati ai mulini e alle segherie. 

Da questo si può comprendere come mai le cronache ci informino che, nei periodi di magra dei fiumi, da cui l’acqua dei canali veniva prelevata, insorgessero tra contadini, mugnai e majari, dei contenziosi proprio per l’uso dell’acqua. 

Il loro declino fu però inevitabile a cominciare dai primi anni di questo secolo, per divenire inesorabile dopo gli anni Sessanta: negli anni Cinquanta, infatti, ne rimanevano in attività ancora quasi una quarantina. Oggi essi sono stati quasi tutti smantellati, ad eccezione di quello della ditta Tamiello, ormai inattivo anche se ancora funzionante e divenuto museo; inattivo e chiuso da alcuni anni è pure quello di Quinto Vicentino; inattivo e non funzionante, e purtroppo in forte degrado se non ormai fatiscente, anche quello che un tempo fu della ditta Favero di Cartigliano. A dire il vero, come vedremo, il maglio di Favero Bernardo, un fabbro che, nel 1899, da Mussolente si trasferisce a Cartigliano, risultava, con i suoi due magli di 70 e 150 chili, tra i più efficienti del Vicentino, perché la sua fucina non era soggetta (a differenza di quelle lungo il Brenta ) alle estemporanee piene devastanti, che costringevano i proprietari ad una sommaria ristrutturazione. 

L’officina del majàro non poteva collocarsi che accanto ad un canale (rostòn), naturale o artificiale, e, di solito, con portata d’acqua abbondante e perenne. Per questo i màji sorsero quasi tutti lungo la pedemontana, in particolare nella Valle dell’Agno e dell’Astico, interessate dal bacino pluviale più ricco del Vicentino (anche 2000 mm di precipitazioni annui), lungo il Brenta e i suoi canali o lungo i canali della pianura, come ad esempio il Tergola, che in molte zone scorre artificialmente sopraelevato, non solo per irrigare i campi di riso, come avviene oggigiorno, ma anche – se non soprattutto – per far funzionare, un tempo, gli opifici, tra cui appunto c’erano i magli, come quello di Quinto Vicentino, l’ultimo a cessare l’attività. 

Il maglio, come opificio, prevedeva poi, per così dire, due strutture, quella esterna (màjo de fòra) e quella interna (màjo de rènto). Il maglio tipo che si intende descrivere, di cui, come detto, rimangono ancora la vestigia, è il màjo a pala, il quale, esternamente, per quanto riguarda lo sfruttamento dell'acqua, differiva dal mulin a pala solo per il numero delle ròde a pala (dalle due alle quattro). La struttura esterna comprendeva il canale che prima, scorrendo magari in un alveo incassato nel terreno, e quindi più basso rispetto al piano campagna, veniva poi, tramite arginatura artificiale, sollevato in modo che, arrivato all'altezza dell'opificio, raggiungesse alcuni metri di dislivello rispetto sempre al suo alveo normale. 

Sempre all'altezza dell'opificio, il corso d'acqua, prima della caduta a cascata (salto de l'àqua), era sbarrato da una struttura “a scacchiera”, un tempo in legno, che poggiava su un intrico di pali di rovere o acacia piantati sul fondo; il tutto messo in opera in modo da creare una serie di paratoie (pòrte, bòe) che, sollevate con un sistema di leve, facevano si che l'acqua imbottata defluisse nelle canalette (canaète) precipiti, un tempo sempre costruite con una struttura lignea, di recente anche in cemento. 

Quando il maglio e tutte le sue ruote a pala erano inattive, e dunque tutte le paratoie abbassate, e quando la portata d’acqua del canale, per improvvise piene, era eccessiva, con problemi quindi di straripamento e di conseguente pressione, o quando ancora erano necessari dei lavori di rifacimento delle strutture esterne del maglio alterate o usurate, i nostri “vecchi” avevano pensato bene di creare quello che oggi va sotto il nome di by-pass, cioè un canale di scarico (bampaòra, vampaòra, o bòva bampaòra, sboraòra, scàrico) capace di dirottare a valle tutta l’acqua del canale, un tempo abbastanza largo ma solo un po’ più profondo del canale normale, poi, quando si generalizzò l’uso del cemento armato, piuttosto stretto e profondo, e quindi pericoloso per la violenza della corrente. Anche l’entrata dell’acqua in questo canale era regolata da un sistema di paratoie, in passato in legno, recentemente in ferro, manovrabili a mano in loco, tramite, un tempo, mulinéli e caéne, recentemente con ruote girevoli che “ agganciavano “ lunghe viti in ferro saldate nella parte inferiore delle paratoie. 

Se il canale risultava in magra, le paratoie venivano completamente abbassate, e l’acqua quindi era convogliata tutta verso quelle dei canaletti delle ruote del maglio, della mola e dei ventilatori; le paratoie dei ventilatori rimanevano sempre aperte, quelle del maglio e della mola secondo le necessità. Quando tutte le paratoie erano chiuse, come all’ora di pranzo, l’acqua del canale imbottata sarebbe tracimata dalle paratoie dello scarico che si trovavano ad un livello inferiore rispetto a quello dell’opificio del maglio. Dall’imbrunire al mattino del giorno seguente, quando il lavoro veniva sospeso, le paratoie dello scarico venivano sollevate completamente, così la pressione dell’acqua sarebbe diminuita in buona parte anche sulle stesse paratoie del maglio, perché riversata tutta appunto nello “scarico”. Le paratoie venivano poi sollevate (tiràe su) in parte quando l’acqua del canale era abbondante e tendeva a tracimare (la jèra pròpio a marteéto). 

Da questo si capisce che i majàri dovevano sorvegliare continuamente anche il flusso dell’acqua, nonché le griglie predisposte davanti le paratoie del maglio che fermavano tutti gli oggetti voluminosi che potevano provocare danno alle pale delle ruote. 

Le strutture che si trovavano in movimento sia all’interno che all’esterno del maglio, come si è potuto capire, erano le ruote (ròde) a pala, proprie per l’appunto non solo dei magli, ma anche dei mulini e delle segherie di pianura, ruote di diametro diverso, da circa un metro a oltre tre metri, un tempo in legno, poi sostituite (a cominciare dal secolo scorso) anche da quelle completamente in ferro, o da quelle con solo alcuni elementi in ferro (pale, tiranti o alberi di trasmissione). Queste ruote potevano variare da due (come a Quinto Vicentino) a quattro (come a Cartigliano), e questo determinava la posizione “a scacchiera” delle paratoie stesse. Il loro diametro dipendeva dalle loro funzioni, e così pure la superficie delle pale. Per azionare la mòla, che doveva raggiungere una velocità di rotazione rilevante, occorreva una ruota a pale molto grandi, con l’albero, se in legno (mélo), di diametro molto ridotto rispetto a quello del maglio, e terminante con una specie di ingranaggio conico che variava la trasmissione del movimento e aumentava inoltre i giri (nel maglio di Breganze l’albero termina con uno “scudo” con 48 “denti” in legno di corniolo che s’ innestavano in un rocchetto cilindrico composto da otto denti di ghisa, inserito nell’albero della mòla). 

La ruota a pale che azionava il maglio era invece di diametro piuttosto ridotto (quella di Breganze, 1.90 metri), ma le sue pale larghe e profonde, anche se poco numerose (14 quelle del maglio di Breganze), si inserivano saldamente in un mélo di diametro consistente (quasi un metro), a forma di botte allungata (la sua lunghezza poteva arrivare quasi ai 4 metri), costituito in passato da fasci di legno di rovere perfettamente combacianti e tenuti insieme da cerchi in ferro (vère), che montavano, al centro delle due basi, due perni (aségi), di acciaio, profondamente infissi nel fasciame. Questo albero, che per la sua mole (pesava qualche tonnellata) fungeva da volano, e i cui perni, come detto, poggiavano su due cuscinetti ben lubrificati con grasso, uno all’interno, l’altro all’esterno dello stabile (nel maglio di Breganze, però, il cuscinetto esterno, poiché l’albero ora è in ferro e con un volano in pietra, e quindi di diametro ridotto, è infisso nel muro stesso!), per una buona metà si trovava a girare in una fossa. Inoltre, su di esso, a circa un metro dal suo perno interno, a distanza uguale una dall’altra, sulla stessa linea di circonferenza, erano state ben calettate delle robustissime palmole (pàrmoe – cinque nel maglio di Breganze) a sezione trapezoidale, in acciaio e a spigoli smussati, che dovevano, ruotando, battere sulle estremità della coda (parmoìn, palmolìn, culo) del “manico” del maglio. 

Il maglio, della forma di un grosso martello, per poter alzarsi e abbattersi violento sul pezzo di ferro rovente da forgiare e modellare, capace di eguagliare l’opera di oltre cento fabbri, si presentava con questa struttura – tipo: esso consisteva in un grosso tronco di rovere (prima di essere posto in opera, rimaneva nell’acqua per 15-20 anni), a sezione un po’ ovoidale, lungo circa tre metri, posto – come si è potuto capire - in senso trasversale rispetto al mélo e terminante con una struttura in ferro ad esso ben infissa, l’antipalmola (palmolìn, parmoìn) per l’appunto. Esso poi poteva “oscillare” tramite un pesante cerchio in ferro (bòga, bùsola cò do téte), ben fisso tramite una serie di péndole (cunei) a circa un terzo della lunghezza del manico (mànego); cerchio di ferro nel quale si inseriva un piccolo pezzo di metallo a sezione quadrata (téta), ma terminante da una parte a cono smussato, al quale era affidato la funzione di perno per il movimento alternativo del maglio. Esso si innestava nel lorìn o abraghéto, un grosso pezzo di ferro compresso dalle due travèrse facenti parte del “castello del maglio”, e su cui si concentrava tutto lo sforzo dell’intera struttura; la bòga e il lorìn potevano essere avanzati in base alla necessità. Quando la paratoia veniva alzata in modo da lasciar passare un grande volume d’acqua, il maglio acquistava una notevole forza d’urto, tanto che, dopo aver battuto la sua testa sul tasélo, riceveva un colpo all’indietro (rinculo) e la sua “coda”, dopo aver colpito il suolo, respingeva nuovamente la testa sul tasélo. Questo movimento di battitura continua era il rabato. 

Il castello, la struttura su cui poggiava il maglio attraverso il meccanismo sopra descritto consisteva in due grossi blocchi rettangolari di pietra, le colòne (nel maglio di Breganze, una colonna nella superficie superiore misura 0,80 per 0,66 mq., l’altra 0,73 per 0,52 mq, e tutte e due sono alte circa due metri ed “escono” dal pavimento per un metro e 10 cm; ; quelle di Cartigliano sono ancora più voluminose), sporgenti dal suolo e distanti tra loro circa un metro, collegati da due travèrse in legno di acacia, inserite, per una maggiore stabilità, in scanalature apposite, non troppo profonde , ricavate in alto sulle due facce opposte dei montanti di pietra, e ben avvinte tra loro con quattro tiranti filettati, radenti le facce di pietra opposte a quelle con le scanalature. Sotto le due traverse, poi, ai lati della bòga, erano sistemati in senso trasversale, lungo quindi le due facce verticali interne dei due massi di pietra, dei parallelepipedi rettangolari di legno di acacia ben compressi da quattro grossi cunei (péndole): struttura che serviva per dare compattezza ed elasticità al castello, che doveva rimanere integro, perché se un masso si fosse spezzato (crepà), per sostituirlo bisognava perdere mesi di lavoro. Inoltre per resistere alle enormi pressioni comprimenti del maglio, la struttura in pietra poggiava su un terreno, sottostante al “pavimento”, o ghiaioso o sabbioso, capace quindi di “ ammortizzare” le inevitabili vibrazioni, che avrebbero alterato la stabilità dell’opificio. 

Il vero e proprio maglio, a forma di massiccio “anello” ovoidale, che, nella parte sottostante, presentava una scanalatura a coda di rondine (bòca, bòcola, bòca pi pìcola), era inserito all’ estremità (tèsta) del manico (mànego), tramite il suo enorme ” foro” (buso). E questa estremità doveva presentarsi nella parte superiore con volume un po’ ridotto rispetto al resto del manico stesso (e da dove partiva la riduzione, il manico, in tutta la sua circonferenza, veniva rinforzato, per non “sfilacciarsi” ai colpi tremendi, da un grosso cerchio in ferro – vèra – che aumentava anche il peso del maglio in caduta) per poter conficcare a colpi di mazza nella vistosa fessura lasciata un cuneo (péndola) di legno di acacia, con eventuali altri cuneetti (sécole) anche in ferro, che doveva impedire al maglio di sfilarsi (saltàr fòra); e appena ci si accorgeva che questo stava accadendo, si interveniva prontamente. Occorre dire poi che mélo, mànego, cunei, parallelepipedi, insomma tutte le parti in legno del maglio per poter mantenere inalterato il loro volume, venivano continuamente inumidite dall’acqua zampillante da un efficiente intrico di tubi e canalette. 

Nella scanalatura del maglio (bòca) veniva inserita una grossa lama d’acciaio (tasèlo, tasèo), diversa – cioè più o meno larga – a seconda dei lavori da eseguire, anche questa fermata oltre che dall’ “incastro” anche da cunei, in ferro però perché se di legno non avrebbero tenuto e poi con il calore sprigionato dai pezzi di ferro rovente che il tasèlo doveva “forgiare”, sarebbero subito bruciati. Questa grossa lama in acciaio, a sezione di coda di rondine nella parte che doveva essere inserita nella scanalatura del maglio, doveva essere tolta e rettificata (limà, molà) quando la sua “base” si alterava (la se macava), perché avrebbe lasciato dei segni evidenti sul pezzo che stava forgiando. Il pezzo di ferro rovente doveva poi essere poggiato su un parallelepipedo (masa, bòca o bòcola pi gròsa) trapezoidale, la cui base superiore – taso – era un po’ più larga e lunga della superficie battente del tasèlo, con cui, al momento dell’impatto, doveva essere perfettamente parallela. La base inferiore di questo parallelepipedo era molto più larga ed infissa in un blocco cubico di granito completamente immerso nel pavimento dell’opificio, che abbiamo detto costituito da sabbia o ghiaia, e poggiava (almeno in alcuni magli, quale quello di Breganze) su una sottostante struttura che consisteva in un fasciame di lunghi listelli di acacia a forma di botte piena strettamente affastellati, “elastici” quindi, che avrebbero impedito a questo “plinto” – su cui, lo ripetiamo, poggiava ed in cui era inserita la masa – di sprofondare sotto i terribili colpi del maglio. 

Quando si dovevano azionare il maglio e gli altri strumenti come i mantici (in seguito sostituiti dalle ventole) e la mola, occorreva alzare le paratoie per mettere in funzione le ruote a pala. L’ingegno umano ha saputo costruire per questa operazione uno strumento semplicissimo, basato sul principio della leva di primo tipo: bastava azionare un palo (stanga) che scendeva dall’alto, agganciato tramite un anello ad un altro lungo palo che usciva, in alto, da una feritoia del muro prospiciente il canale. Questo palo era forato, e nel foro passava un tondino di ferro fissato orizzontalmente proprio al muro: in tal modo, questo palo poteva oscillare in alto e in basso. All’esterno, poi, esso terminava proprio sopra la paratoia che si doveva alzare o abbassare: per questo esso presentava agganciata alla sua estremità una véra in ferro, con un occhiello su cui era a sua volta inserito l’occhiello di un tondino di ferro saldamente conficcato nella parte superiore della paratoia. Bastava così che, dall’interno del maglio, anche un ragazzino sollevasse o abbassasse (tirase su e sò) la stanga pendente dall’alto, per aprire e chiudere il flusso dell’acqua. Il majàro, con cenni del capo, informava l’addetto alla stanga della quantità d’acqua necessaria ad ottenere battute del maglio più o meno veloci. 

Gli operatori del maglio (e non solo), oltre all’abilità e alla forza muscolare, dimostravano una capacità di sopportazione quasi unica. Dovevano stare attenti che le “faville del maglio” (s-cése) e qualche bolla di ferro incandescente non arrivassero ai loro occhi o in testa (le scottature alle mani e alle braccia, se scoperte, erano all’ordine del giorno per tutti, perché nessun operatore adoperava, un tempo, i guanti, che davano intrigo e fastìdio), e per questo portavano un cappello di solito di feltro in testa e occhiali, logicamente non “affumicati”, perché il laboratorio – tutto nero di fuliggine – aveva sempre mantenuto le caratteristiche dell’antro di Vulcano descritto con tanta dovizia di particolari dai poeti classici latini e greci, rischiarato quindi solo dai fuochi delle fucine e dai ferri incandescenti. Insopportabile però risultava, soprattutto per certi majàri spilungoni, la posizione, perché dovevano lavorare molto spesso per quasi tutto il giorno accovacciati o seduti su una sedia molto bassa (careghéta) o su uno scranno (scagnéo), curvi quindi, ingobbiti. 

E’ necessario a questo punto aggiungere che per quanto riguarda l’attrezzatura del maglio, erano presenti gli stessi strumenti e la fucina descritti nel paragrafo dedicato al lavoro del fabbro generico. Uniche eccezioni erano la mola, di cui abbiamo già parlato, voluminosa – mossa da una ruota a pale di notevole diametro – atta a usare o molare gli oggetti o attrezzi fabbricati (di solito mola in pietra arenaria, se unica, di grana fina; ce ne potevano essere anche due , una di grana gròsa, l’altra di uno grana fina) per una perfetta rifinitura (alla fine però occorreva, per impedire l’ossidazione, stendere con straccio sulla superficie un velo de òjo còto o de petròlio); i mantici (fòli) – due per ogni fusina, azionati sempre da una ruota a pale e non dai garzoni – e l’interno dello stabile interessato da un sistema di trasmissioni con ruote, ingranaggi e cinghie in cuoio, che mettevano in azione ventole, seghetti e trapani (la ruota che muoveva questi attrezzi non necessariamente era sempre a pale; poteva risultare anche a “cassettoni” – ròda co i busi – come nel maglio di Cartigliano). 


Ma come avveniva praticamente la lavorazione del ferro con il maglio? Il majàro, avuta la commissione di produrre, ad esempio, un certo numero di badili (baìli) in serie, acquistava le barre di ferro occorrenti della lega appropriata, in questo caso barre d’acciaio. Sappiamo anche che un tempo egli doveva partire magari dalla pirite – il bisolfuro di ferro – e dopo la fusione e tante fucinature, a colpi di maglio arrivava al massello di acciaio necessario. Poteva adoperare anche del ferro vecchio e, recentemente, come abbiamo già ricordato, pezzi di rotaie di treni (sine), della lunghezza di circa un metro, che venivano con scalpelli (scarpèi, scopéi) e seghetti (seghiti – quest’ultimi mossi sempre dalla forza idraulica) sezionati in tre parti: la parte a contatto con le ruote del treno (la parte sòra), el nèrvo e el piàto, cioè la parte che poggiava sulle traversine e vi era tenuta con bulloni. Ottime risultavano inoltre anche le balestre (baèstre) di camion o di automobili, pezzi di bombe o bombe private di spoletta ed esplosivo e poi sezionate. Preparava i masselli di acciaio del peso necessario (ogni pezzo doveva risultare di 1 o 1,2 chili), accendeva il fuoco della fucina, vi metteva sopra il carbone (un tempo, carbonèa; recentemente carbone coke). Quando, dopo un certo lasso di tempo, il pezzo di ferro posto a riscaldare risultava incandescente a tal punto da cominciare a sprigionare faville, veniva portato, stretto nelle ganasce di una tenaglia apposita, al majàro che già si era sistemato vicino al maglio. Egli, avuto il “pezzo”, cominciava a lavorarlo (sgusarlo e spianarlo), ricavando prima il manico (tirarghe fòra el mànego), poi la “lama”. E infine, dopo una prima fucinatura (calda) e abili ma non troppo numerose battiture, otteneva una superficie che andava vieppiù prendendo la forma del badile. 

Molte volte però non bastava un’unica fucinatura. Ora toccava agli operai ormai provetti nel mestiere concludere l’opera. Con abili colpi di martello, con il pezzo caldo appoggiato sull’incudine, dapprima dovevano ottenere un incavo (còsta) tra il bocciolo e la lama, poi, con l’ausilio del corno rotondo dell’incudine e di un servo incudine a squadra, cilindrico, ottenevano il bocciolo (òcio) le cui due “ali” (ale), di cui era composto, dovevano venire saldate tra loro “a caldo” (per questo bisognava riscaldare il pezzo nella parte dovuta quasi fino alla fusione e stare attenti che il ferro non venisse a contatto con un qualche altro metallo come il rame perché non si sarebbe più saldato). Occorreva poi che la sua lama venisse costruita in modo simmetrico: con un modello in ferro (sàgoma) che era già pronto, venivano segnati i contorni con un gessetto (gèso) e sempre con il pezzo caldo ma non “bollente”, si agiva con una grossa trancia seguendo il segno bianco, ottenendo così la forma voluta. Il badile a questo punto era pronto per essere, sempre riscaldandolo adeguatamente, rifinito nei minimi particolari. Terminato questo lavoro, se fosse stato necessario, come nel caso di tutti gli attrezzi da taglio (manare, manarini, picuni ecc.), occorreva, dopo aver riscaldato il pezzo a dovere (e solo i majàri più competenti conoscevano la giusta temperatura), immergere la parte interessata alla tempra per qualche centimetro o più nell’acqua fredda (più recentemente nell’olio) contenuta in una grande vasca (àlbio) che si trovava accanto alla fucina, con questo accorgimento: per ottenere una tempra ottimale, occorreva che il pezzo immerso nell’acqua divenisse prima un po’ bianco, poi quando cominciava a prendere una colorazione azzurrina, lo si immergeva completamente perché si raffreddasse tutto. Se si fosse atteso che l’azzurro virasse verso il viola, la tempra non avrebbe avuto esito e sarebbe stato necessario perciò ricominciare l’operazione. Il lavoro però non era ancora del tutto concluso: ora si passava alla mola. L’operatore steso prono (in pansa) su un alto “trespolo”, sopra la voluminosa mola di arenaria (che girava velocemente ed era continuamente inumidita dall’acqua che “ pescava ”in una vasca sottostante ove risultava in parte immersa) doveva togliere ogni sbavatura di metallo, rifinire i contorni, che a volte dovevano risultare taglienti, lucidare la superficie dell’attrezzo o dell’oggetto dove era possibile. Alla fine il pezzo veniva immerso per una completa pulizia in una vasca in pietra in cui l’acqua, tramite una canaletta, era continuamente rinnovata (in estate luogo ideale per mettere in frèsca le angurie prima di mangiarle). Infine sul pezzo asciugato veniva steso un velo d’olio o di petrolio con uno straccio. Con quest’ultima operazione si concludeva l’avventura della creazione di un badile, pronto per essere consegnato al committente! 

Oltre ai badili un fabbro poteva produrre con analogo procedimento innumerevoli altri “articoli”, perché egli non era altro che un abile fabbro dotato di un mezzo “meccanico” di elevata potenza: il maglio. Infatti, nei periodi di stasi o di forzate interruzioni del lavoro del maglio per rotture di una certa entità, egli doveva ingegnarsi nei lavori più sofisticati o arrabattarsi anche in quelli più elementari come ribattere e riaguzzare (salare) gli attrezzi logori di qualche contadino indigente. 


Di concreto che cosa egli sapeva forgiare? Intanto, tutti gli attrezzi di cui abbisognava, a cominciare da tutte le componenti in ferro o in acciaio delle ruote a pala, del mélo e del maglio (màjo) stesso, poi i martelli (martèi) di dimensioni varie, le mazze (mase), le tenaglie (tanàje de tute le rase), le pinze (pinse), le molle (mojéche), che servivano per raccogliere il carbone ardente o per accudire al fuoco (fògo) della fucina (fusina, fogolaro), le palette (paéte), gli scalpelli (scarpèi) di tutte le misure, gli stampi (sàgome) di svariati attrezzi o oggetti da produrre, i tasselli del maglio (tasèi), chiodi (ciòi, ciòdi) di ogni tipo, della lunghezza anche di oltre 50 cm, a sezione quadrata e rotonda, la trancia (tajadòre, tajaòre), i tràpani a man e poi le forbici, le lime ecc. Gli attrezzi più comuni che venivano prodotti per committenti erano in genere badili normali che dovevano essere in acciaio (baìli, baìe quàdro vicentino; baìe padovano ch’el ga el nervéto da a parte ch’èl sé curvo; palòto nel Basso Vicentino) e badili particolari (baìli muli co e rècie, baìli batajìni, più lunghi dei normali e con una “nervatura” a sezione piramidale, propri del Bresciano); vanghe (vanghe, vanghiti); zanchette (sanchéte) per appoggiare il piede sulla vanga onde affondarla maggiormente nel terreno; zappe (sape, sapéte) di vario tipo e forgiate con il ferro perché se in acciaio potevano “saltare”; pale (baìle, baìe) per sterrare, da sabbia, da malta, da segatura ecc.; picconi (pichi) la cui tempra doveva riguardare la punta, da una parte a tàjo e dall’altra a pònta; forche e forconi da fieno, da paglia, da letame e da vangare; trivelle (trivèle da vigna, da tèra) per fare i buchi in cui inserire i pali per le viti; tiradài (picconi con la punta ad accetta per tagliare le radici quando si levavano le piante); alette per solcatori (solchéte, aléte); vomeri (gomiéri, vomiéri, gumièri) la cui tempra doveva interessare solo la parte che doveva iniziare a incidere il terreno (oltre al vomere negli aratri più recenti era sempre in ferro con la punta temprata anche la còltra, che serviva per incidere il terreno, el varsòro, la parte superiore dell’aratro che si trovava posteriormente e el vasorèto, la parte superiore che si trovava anteriormente); la lama dell’assolcatore (muso da màs-cio); gli arpioni per i pagliai (cavapàja); l’attrezzo per tagliare gli asparagi (cavaspàrase, cavaspàrasi); attrezzi per battere le falci (piàntole); leve di vario tipo (lève, levarini); zappini per muovere i tronchi (sapini, ciapine); scortecciatoi (scorsaròli); anelli per proteggere l’estremità della mazza di legno (vère da màja, vère da masa); cunei (péndole, péndoe); sgorbie (sbube, sgube); anelli (s-ciòne); chiavarde (cavejàre); nasiere (nasiére) per accompagnare tori e buoi e per domarli; roncole per potare e tagliare rami piuttosto leggeri (cortèli, ronchéti, cortèi da scarsèa); potatoi a lama ricurva per tagliare rami grossi (corteòn a Cartigliano; cortelasi a Breganze; ròncoe a Quinto Vicentino) e a forma di mezzaluna rigonfia (corteàso a Cartigliano; stegagno nella Riviera Berica); scuri varie (menare, manare); accette (menaròti; manarini) per tagliare la legna in casa; l’accetta con il manico storto per falegnami (valdòra); coltelli a petto per lavorare, ad esempio, i manici di legno (fèri a do màneghi); coltelli larghi per macellai (masanghi, marsanghe); falci messorie (sésole); falcetti (sesolòti); coltelli di vario tipo (cortèi); coltelli da norcino da punta e taglio (cortèi da mas-ciàro o da masolìn o da santisaro); raschiatoi per levare il pelo ai maiali (rasaròle); uncini per levare le unghie ai maiali uccisi (cavaònge); graticole per arrostire polenta e carne (gradèle, graèle); palette per braci (paléte par brònse); alari per focolari (cavedòni, caveduni, caveluni); treppiedi per focolari (trapìe, trepìe); ganci per arcucci (reciare par bigòli); arpioni per recuperare i secchi che rimanevano nel fondo dei pozzi (sgranfiòni); particolari ganci a ganasce per agganciare e portare le botti (sate par cagne); chiodi (ciòdi, ciòi) soprattutto molto lunghi per unire travature (da raparo); catenacci (caenasi); cerniere per porte e cancelli (cùbie); chiavistelli per porte (ciavesèi); saliscendi per chiudere finestre e porte (saltarèi); congegni per tenere uniti i tronchi di legno durante il trasporto (can); attrezzi per battere i cerchi delle botti (sprasèi); uncini (ansini); tirabraci da forni (reàbi, rabi); assi per carro (asi); battagli per campane (batòci); picche (pal de fèro, lève).

 

Da questo lungo elenco di oggetti e attrezzi che i majàri potevano produrre (anche se poi, come i Favero di Cartigliano, erano specializzati nella forgiatura solo di alcuni di essi), si possono comprendere le potenzialità presenti in questo mestiere. Occorre inoltre aggiungere che, spesso, arrivavano delle grosse commissioni con conseguenti spedizioni di rilevanti partite di attrezzi che dovevano essere ben impacchettati e ben oliati. Il recapito della merce avveniva tramite corrieri fidati, un tempo possibilmente dei parenti che facevano la professione anche di carrettieri. Tutte le formalità burocratiche venivano di solito espletate dalle mogli dei majàri che risultavano sempre anche abili massaie (paròne de casa).