PING POLLUTION TREE
Nuove pratiche per una cittadinanza consapevole
UnL[1]
Nuove pratiche per una cittadinanza consapevole
UnL[1]
Il ciclo di ricerche "UnLost Territories" avviato nel 2016 dalla cattedra del professor Antonino Saggio, affronta il tema della rigenerazione delle periferie romane, in particolare nei municipi VII e VIII lungo la via Prenestina. L'area, costellata da spazi abbandonati e residuali, viene reinterpretata come un territorio "non perduto" ma da riattivare attraverso processi culturali, sociali e architettonici. Punto di riferimento simbolico e operativo è il MAAM - Museo dell'Altro e dell'Altrove - che dimostra come arte e comunità possano generare forme concrete di riscatto urbano.
Intorno a questo polo si innesta la UnLost Line, un anello ecologico e infrastrutturale pensato per connettere i grandi parchi dell'Aniene, della Mistica e di Centocelle, integrando la rete di trasporto e mettendo in relazione le diverse parti della città, dalla via Tiburtina alla via Casilina. I suoi 17 segmenti diventano occasione di sperimentazione progettuale, ciascuno con interventi mirati che incidono localmente ma contribuiscono a una strategia di scala più ampia.
All'interno di questo quadro si inserisce il progetto Ping Pollution Tree, che interpreta tali principi e li traduce in nuove forme di intervento sul territorio.
Nelle città contemporanee l'inquinamento non è soltanto una questione ambientale, ma anche sociale e culturale: riguarda la salute dei cittadini, la percezione degli spazi pubblici e la qualità della vita urbana. Con questo progetto gli autori hanno provato a dare una risposta innovativa, immaginando dispositivi urbani interattivi capaci di monitorare, informare e stimolare comportamenti virtuosi.
I PPTree si presentano come alberi tecnologici: assorbono polveri sottili, raccolgono dati ambientali, offrono wi-fi e ricarica, producono energia pulita e perfino suggeriscono percorsi urbani più salubri grazie a una rete di sensori. Il tutto è collegato a un'app che trasforma la lotta all'inquinamento in un gioco collettivo, premiando gli utenti più virtuosi. Attorno a loro, i Cloud - grandi bolle interattive - comunicano attraverso trame e colori lo stato dell'ambiente, diventando luoghi di esperienza immersiva e simbolica.
Il progetto Ping Pollution Tree dimostra un progetto possa essere molto più di un esercizio accademico: può diventare un laboratorio di idee in cui sperimentare nuovi modi di vivere lo spazio urbano e stimolare la nascita di una cittadinanza più consapevole. Attraverso dispositivi che uniscono natura e tecnologia, gioco e responsabilità, gli autori ci ricordano che l'architettura non si limita a costruire luoghi, ma può generare relazioni e comportamenti. Un messaggio potente, soprattutto oggi che le città hanno bisogno di infrastrutture intelligenti e di comunità pertecipi.
Se il futuro sarà fatto di spazi capaci di dialogare con chi li abita, progetti come questo ci mostrano che immaginare questo futuro è possibile.
Abbiamo intervistato Alessandra Antonini, una delle autrici del progetto, per approfondire come è nato questo progetto, quali sfide ha comportato e in che modo l’esperienza della tesi ha influenzato il percorso professionale.
Perché la UnLost Line è diventata lo scenario ideale per sperimentare i tuoi dispositivi?
A.A. La UNLost Line attraversa aree periferiche di Roma, densamente popolate e segnate da traffico, smog e inquinamento. È un’infrastruttura pensata per trasformare e rigenerare questi contesti, riconnettendo grandi parchi urbani in parte abbandonati e creando nuovi corridoi ecologici e spazi innovativi. La sua natura di rete, dove interventi interattivi dialogano tra loro, ha permesso ai PPTree di inserirsi come nodo attivo, parte di un sistema che non guarda solo al dato ma anche all’esperienza urbana.
I PPTree richiamano la forma degli alberi: quanto era importante per te questo riferimento naturale?
A.A. Era fondamentale. Da attivista per i diritti animali e ambientali volevo un richiamo immediato e visivo agli alberi, i nostri “polmoni verdi”, spesso brutalmente abbattuti o trattati con superficialità. Dare ai dispositivi l’aspetto di alberi serviva a sottolinearne l’importanza vitale e a renderli anche un simbolo educativo: un modo per ricordare alle persone la funzione rigenerativa della natura.
Oltre a raccogliere dati ambientali, i dispositivi offrono servizi tecnologici (wi-fi, ricarica USB, energia solare, Segway sharing). Come hai pensato di integrare funzioni così diverse in un unico oggetto architettonico?
A.A. L’architettura contemporanea riflette il multitasking della nostra epoca: oggi un oggetto non ha più una sola funzione, ma ne combina molte. I PPTree sono pensati come un hub urbano ibrido, capace di unire servizi tecnologici e sostenibilità, in modo che ogni funzione potenzi le altre e contribuisca a rendere lo spazio pubblico più fruibile, connesso e vivibile. Nei PPTree ogni funzione è parte di un sistema: l’energia solare alimenta i servizi, i servizi attirano le persone e le persone entrano in contatto con i dati ambientali. Tutto è connesso.
Una parte innovativa è la gamification: la app premia gli utenti che adottano comportamenti virtuosi. Perché hai scelto di introdurre il gioco come strumento di cittadinanza attiva?
A.A. Il gioco coinvolge, incuriosisce e rende naturali le azioni virtuose: non vengono percepite come un obbligo. Gli smartphone sono ovunque e tutti li utilizzano, continuamente. Questo stesso meccanismo di coinvolgimento spontaneo può spingere le persone a compiere azioni positive, trasformandole in un gioco condiviso e gratificante.
Quali tecnologie reali hai studiato come riferimento per immaginare i PPTree e i Cloud?
A.A. Il progetto si basa sull’integrazione di soluzioni già esistenti, combinando tecnologie, materiali ed elementi naturali in un sistema architettonico e urbano integrato, ma fondato su riferimenti reali e concreti.
Tecnologie e materiali:
- Pannelli fotovoltaici e fotoreattivi (come quelli a microalghe sviluppati in bio-architettura, capaci di cambiare colore in base alle radiazioni UV)
- Sistemi di fitodepurazione delle acque (per l’uso simbolico di bacini vegetali e la depurazione naturale)
- Materiali innovativi (policarbonato con pellicole fotovoltaiche, membrane in ETFE leggere, riciclabili, resistenti e trasparenti)
- Sistemi di sensoristica ambientale e GPS (già diffusi nei dispositivi smart city, per monitoraggio in tempo reale e geolocalizzazione)
- Proiettori a 360° e dispositivi di realtà immersiva (già usati in ambito museale e installativo, per creare i Cloud come spazi partecipativi e narrativi)
Elementi naturali a supporto
- Specie vegetali selezionate dal CNR (ginco, bagolaro, tiglio, orniello, per la loro capacità di assorbire il particolato atmosferico e migliorare la qualità dell’aria)
Guardando al progetto oggi, quale parte ritieni più visionaria e quale invece più facilmente realizzabile con le tecnologie attuali?
A.A. Oggi credo che sarebbe completamente realizzabile: tutte le tecnologie e i materiali necessari esistono già. Il vero limite non è tecnico ma culturale: manca la volontà di sperimentare, di cambiare e di rischiare. Più che una questione tecnica, è un problema culturale: serve un cambio di paradigma da parte di chi ha il potere di attuare trasformazioni concrete. Solo allora anche la cittadinanza potrebbe iniziare a comportarsi e a imparare di conseguenza.
Pensi che Ping Pollution Tree possa essere visto come un prototipo reale per le smart cities di domani?
A.A. Si, assolutamente. Potrebbe diventare un prototipo concreto, scalabile e replicabile. Sarebbe interessante anche pensare a nuovi sviluppi, contaminazioni con altri ambiti, e ulteriori funzioni legate all’ambiente e alla qualità della vita urbana.
Quanto ti ha aiutato a maturare una consapevolezza sul rapporto tra architettura, tecnologia e sostenibilità?
A.A. Mi ha fatto capire quanto architettura, tecnologia e sostenibilità devono procedere insieme, ma anche che progettare oggi significa assumersi una responsabilità verso un pianeta già ferito. Non possiamo più permetterci di innovare senza chiederci che impatto avremo sul futuro.
Usi ancora logiche di interattività e sostenibilità nei progetti a cui lavori oggi?
A.A. Sì, oggi penso siano alla base di qualsiasi progetto, che sia architettonico o artistico. Come attivista, cerco sempre di far dialogare tecnologia e contenuto: ad esempio l’uso della realtà virtuale e dei visori VR permette di “immergersi” in mondi e situazioni spesso nascoste, come gli allevamenti intensivi o i mattatoi, mostrando cose che normalmente restano invisibili. Credo molto nel potere trasformativo dell’architettura e delle tecnologie come strumenti per generare consapevolezza e cambiamento.
Qual è, secondo te, la sfida più grande per un architetto che vuole progettare infrastrutture intelligenti e “città sensibili”?
A.A. La sfida più grande non è tecnica ma culturale: riuscire a trasmettere e sensibilizzare la cittadinanza. Troppo spesso la tecnologia viene inserita nello spazio urbano come semplice aggiunta, senza un progetto che la integri nel luogo e nella vita delle persone: resta così un elemento estraneo, destinato a essere ignorato. L’obiettivo non può essere “aggiungere dispositivi”, ma creare spazi che le persone sentano propri: accoglienti, fruibili, capaci di coinvolgerle attivamente e di generare senso di appartenenza. Solo in questo modo — e non con interventi isolati — possono nascere comportamenti virtuosi e duraturi.
AUTRICE DEL PROGETTO
Laureata alla facoltà di Architettura La Sapienza. Attualmente insegna materie grafiche e fotografia presso una scuola superiore di secondo grado. Parallelamente è attiva come fotografa, illustratrice, grafica pubblicitaria e fumettista, ed è impegnata come attivista nella difesa dei diritti degli animali.
Autrici dell'articolo: Ilaria Capezzali, Melinda Pierini