L’eroe della mitezza è pronto a effettuare una spietata vendetta contro i Proci, che per vent’anni hanno occupato la sua casa e dilapidato i suoi beni
τοῦ δ' ἀπὸ μὲν ῥῖνάς τε καὶ οὔατα νηλέϊ χαλκῷ / τάμνον μήδεά τ' ἐξέρυσαν, κυσὶν ὠμὰ δάσασθαι, / χεῖράς τ' ἠδὲ πόδας κόπτον κεκοτηότι θυμῷ XXII 475-477
... naso e orecchi troncarono col bronzo spietato, le vergogne strapparono, che sanguinanti le divorassero i cani, piedi e mani tagliarono con cuore infuriato
Il passo si colloca nel XXII libro dell’Odissea, nella terza e ultima parte dedicata al ritorno in patria di Odisseo e alla sua successiva vendetta.
Odisseo, dopo aver brillantemente superato la prova, affiancato dal figlio in armi, dà inizio alla strage dei pretendenti, colpendo per primo Antinoo, il più tracotante e insolente, che uccide colpendolo alla gola. I proci reagiscono insultando e continuando a prendersi gioco di Odisseo, aiutati da Melanzio, uomo della corte del re di Itaca, che tenta di fornire loro armi per difendersi e per attaccare.
Odisseo, affiancato da Telemaco e da Eumeo, dopo una sanguinosa lotta, riesce a uccidere tutti i nemici, ma su consiglio di Telemaco risparmia il cantore Femio e l’araldo Medonte. Successivamente Odisseo manda a chiamare Euriclea e le chiede chi fra le ancelle lo abbia tradito; quindi fa portare quelle infedeli nella sala e ordina loro di ripulirla dal sangue sparso ovunque; ordina poi di giustiziarle uccidendole con la spada, anche se Telemaco decide di impiccarle.
In questo passo collocato nel XXII libro vediamo un altro lato di Odisseo: la sua astuzia e in particolare il suo desiderio di vendetta. E quando si ricorreva alla vendetta nel mondo greco? Ogni qual volta le leggi morali venivano tradite, l’eroe era autorizzato, come se fosse spinto da una vocazione interna, a ricorrere alla violenza e alla brutalità per vendicarsi e punire chi non aveva saputo rispettare le norme della comunità. Si può quindi affermare che per la società greca arcaica l’azione della vendetta fosse in qualche modo giustificata.
I metodi e i comportamenti adottati da Odisseo per ribellarsi ai soprusi compiuti nella sua stessa reggia per molti anni da parte dei Proci rispecchiano il suo essere un eroe polymetis: egli si era precedentemente accordato con suo figlio Telemaco ed Eumeo riguardo alla pianificazione della strage. Infatti aveva ordinato a questi di ritirare le armi della sala centrale della reggia, prevedendo che i Proci avrebbero tentato di difendersi nell’unico modo da loro conosciuto, ovvero la violenza.
Esaminiamo quindi meglio i Proci: essi non violano solo le regole dell’ospitalità. Per limitarci agli aspetti più gravi e più visibili del loro comportamento essi corteggiano Penelope in modo inurbano, sono arroganti con Telemaco, che meditano addirittura di uccidere, si uniscono sessualmente alle ancelle di Ulisse, e costringono Femio, il suo aedo, a cantare per loro.
Sono quindi simbolo di ubris, “tracotanza”: le cause di questa erano l’eccesso di cibo e di vino e lo sperperamento di ricchezze non loro. Essi abusavano in modo egoistico di questi beni, in modo da rappresentare l’esempio tracotante per eccellenza.
Concentrandoci invece sulla figura di Femio, l’aedo della corte di Odisseo, possiamo notare che egli rappresenta un’eccezione: è infatti l’unico membro della reggia di Itaca che viene risparmiato, in quanto al contrario del resto della servitù ha saputo dimostrare la sua totale fedeltà a Odisseo, senza mai approfittare della sua assenza per compiere atti illeciti insieme ai Proci. Egli è quindi una figura stimata da Odisseo, che ricorrendo ancora una volta alla sua intelligenza e alla sua capacità di leggere nell’animo dell’uomo, comprende che il cantore era stato obbligato a dilettare con la sua voce i banchetti dei Proci.
Il trattamento che Odisseo riserva a Femio non è lo stesso che decide di riservare alle ancelle di corte. Infatti una delle vendette più efferate del passo è quella di Odisseo nei confronti delle sue serve, che avevano tradito la fedeltà al padrone, accoppiandosi con i Proci negli anni della sua lontananza. Inizialmente Odisseo le costringe a ripulire il gran salone dal sangue e dai cadaveri dei Proci. Eseguendo questo ordine, le ancelle sperano di aver così espiato la loro colpa, ma si illudono di potersi salvare. Odisseo infatti utilizzando una cima di nave le fa uccidere impiccandole. La morte femminile per impiccagione è un topos ricorrente della Grecia antica: ne abbiamo numerosi esempi, come i casi di Antigone, Epicaste, madre di Edipo, e la stessa Elena, moglie di Menelao.
Nella Grecia antica il passaggio da una classe di età all’altra, simbolo di crescita, doveva essere celebrato con un vero e proprio rito che aveva una struttura precisa ed era praticato fin dagli albori. Infatti, l’ingresso nella classe di età superiore rappresenta simbolicamente la morte dell’individuo precedente che rinasce come persona nuova, ed entra a far parte del gruppo di età superiore. Per l’uomo questo passaggio significa diventare un combattente, per la donna la capacità di riprodursi. L’impiccagione di una vittima predefinita è un rito iniziatico per celebrare questo momento.
Omero, per enfatizzare ciò che ci sta raccontando ricorre all’uso di descrizioni e di immagini cruente, che testimoniano il desiderio di vendetta di Odisseo.
Inoltre l’autore riporta alcuni dialoghi nei quali è possibile ritrovare l’utilizzo di termini forti e crudi che insistono sul cupo concetto di morte: νῦν ὕµιν καὶ πᾶσιν ὀλέθρου πείρατ' ἐφῆπται. Nel mondo greco il regno dei morti era sottomesso al potere di Ade, il destino di morte come si legge anche in questo testo pendeva come un laccio sopra gli uomini. Questi ultimi non potevano sottrarsi alle decisioni della κῆρα
ed erano obbligati ad accettare la loro sorte. Per cercare però di perire di una morte valorosa gli eroi erano disposti a tutto, infatti, come si legge dal testo è lo stesso Ulisse che incita i Proci a combattere a corpo a corpo in modo da essere ricordati in maniera dignitosa. Coloro che morivano lottando fino all’ultimo rimanevano impressi nella memoria e venivano elogiati dalle persone ancora in vita per non aver mollato, anche quando il destino di morte sembrava già scritto. Morire in questo modo significava ricevere un’adeguata sepoltura che garantiva all’anima di non essere dimenticata nella parte più profonda e oscura del regno dei morti, ma di essere collocata nella parte degli uomini che in vita si erano contraddistinti per meriti importanti. Rassegnarsi al destino di morte, invece, poteva significare non ricevere una sepoltura dignitosa e finire per essere dimenticati nei meandri dell'Ade.