Commento sull'articolo: "The city is not a tree" di Christopher Alexander
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Durante una conferenza, tenuta da un architetto indiano a proposito dell’opera di Le Corbusier, è stato richiesto a Kahn un commento, il quale, di tutta risposta, disegnò al centro della lavagna una gigantesca torre d’acqua. Successivamente segnò acquedotti che, come i raggi di una stella, si irradiavano dalla torre.
“Ciò avrebbe reso possibile la nascita degli alberi, alla terra di diventare fertile e un inizio di vita.”
Così gli edifici che si sarebbero raccolti attorno all’acquedotto avrebbero avuto una chiara collocazione ed un preciso carattere, assecondando l’Ordine, che Kahn identifica nella struttura, anche il più piccolo dei villaggi avrebbe preso forma.
Sembra, dunque, implicito, a seguito di tali considerazioni, ritenere che la struttura ad albero, assimilabile al sistema della torre d’acqua identificato da Kahn, sia la scelta più idonea per porre le basi di una nuova città. Una città governata da ordine e organizzazione, in cui tutto e categorizzato e impilato in gerarchie. Una città semplice, ripulita dalla confusione e dal caos.
Tuttavia, non è forse la zonificazione e la segregazione la morte dei flussi?
E’ estremamente semplice immaginare come la creazione di aree dotate a specifiche mansioni provochi il susseguirsi di svuotamenti e sovraffollamenti in punti diversi della città a seconda delle ore del giorno o di specifiche situazioni. Il cittadino, inoltre, deve essere libero di usufruire di qualsiasi servizio in qualsivoglia momento, non deve esserne isolato: si pensi al ricorrente frazionamento infrastrutturale più volte riproposto da urbanisti e ingegneri, il quale consiste nella separazione tra strada carrabile e pedonale.
E’ evidente come tale sistema sia portato al fallimento. Un tassista necessita di circolare in luoghi ad alto flusso pedonale per ottenere commissioni, così come il pedone necessita di usufruire del servizio del tassista in ogni punto della città. Il sistema infrastrutturale, per funzionare, necessita, dunque, di sovrapposizioni, così come i sistemi restanti: residenziale, commerciale, universitario…,
A. Semi-lattice B. Albero
Le sovrapposizioni sono caratteristiche del sistema a Semi-lattice, che Christopher Alexander definisce come un sistema proprio delle città spontanee, città non progettate, ma che si sviluppano autonomamente.
L’architetto sottolinea come la mente umana sia estremamente limitata nella figurazione di schemi complessi, quali le sovrapposizioni, in quanto per natura tende a semplificare notevolmente i concetti, categorizzandoli, gerarchizzandoli e riducendoli all’osso. E’, quindi, implicito che urbanisti e disegnatori, vittime e fruitori della condizione mentale umana, siano indirizzati nella progettazione di una città Albero.
L’Albero, infatti, non è altro che un Semi-lattice estremamente primitiva e triviale, il quale tende ad incasellare e raggruppare elementi in una categoria mentale per volta.
Il quesito che sorge, dunque, una volta presa coscienza di questo triste, per quanto imprescindibile, limite del nostro raziocinio, è se sia ipoteticamente possibile superare la suddetta barriera, o se l’uomo sia eccessivamente impossibilitato nella progettazione di una Semi-lattice.
La risposta a questo enigma non è semplice, presenta varie sfaccettature.
Occorre, in primis, evidenziare come l’urbanistica non sia una materia fredda e senz’anima, non si occupi unicamente di strade, palazzi, quartieri, piazze e altri luoghi fisici che trasforma in banali disegni tecnici, bensì si tratta di un sistema vivo, che prospera grazie ai flussi.
La disposizione urbana, l’organizzazione della strada, conserva in sé un’importanza fondamentale, tanto che Louis Kahn stesso definisce la strada come uno spazio per la società, analogo ad una stanza, che presenta lo straordinario potere di unire. Essa è uno spazio che esprime un accordo.
A rendere viva la città, dunque, non è solo la sua disposizione urbana, ma anche la gente che la popola, la quale agisce attraverso una serie di sovrapposizioni, assimilabili alle sovrapposizioni citate da Alexander, le quali si manifestano sottoforma di cultura, usi, costumi e interazioni sociali.
Seppur, dunque, l’urbanista sia limitato a disegnare una struttura ad Albero, essa può in certi casi esser ipoteticamente vissuta come una sovrapposizione, se la parte viva del complesso la rende tale attraverso i suoi schemi sociali.
Cito come esempio l’esperienza di Kejara, villaggio di una tribù della foresta amazzonica, i Bororo, studiata e visitata nel 1935 dall’antropologo francese Claude Lèvis Strauss.
Kejara ha una forma circolare ed è situata in una radura lungo la riva del fiume Vermelho. Al centro del villaggio sorge una grande capanna denominata “casa degli uomini” con due ingressi sui lati opposti. Un diametro del villaggio circolare, parallelo al corso del fiume, divide gli abitanti in due gruppi chiamati Cera e Tugarè, i quali occupano le due metà del villaggio.
La struttura del villaggio è primitiva e semplice, si basa, infatti, su un albero a tre rami, costituti dal semicerchio dei Cera, dei Tugarè e dalla grande capanna centrale.
Tuttavia, ciò che rende Kejara contemporaneamente un albero e un semi-lattice è la continua sovrapposizione dei rami, i quali risultano in perenne comunicazione tra loro per mezzo della parte viva del complesso, ovvero gli indigeni.
Un individuo appartiene sempre alla stessa metà di sua madre; in secondo luogo, egli può sposare soltanto una persona dell’altra metà. Mentre le donne vivono per tutta la vita nella capanna dove sono nate, gli uomini, al momento del matrimonio, attraversano la radura, superano il diametro che separa le due metà, e si stabiliscono dall’altra parte. La “casa degli uomini”, collocata al centro, attenua questo distacco perché essa si estende sul territorio delle due metà.
Il principio delle metà non regola soltanto il matrimonio, ma anche altri aspetti della vita sociale. Così, per esempio, i funerali di un Cera sono a carico dei Tugarè e viceversa.
Schema del villaggio di Kejara
Le due metà del villaggio sono, dunque, implicate l’una nella vita dell’altra secondo un preciso rituale; tutti gli atti sociali e religiosi di una parte richiedono l’assistenza e la collaborazione dell’altra. L’identità di un Bororo, dunque, deriva dalla sua posizione nello spazio del villaggio. Le azioni che egli reputa giuste o sbagliate, i suoi doveri, i suoi rapporti con gli altri membri della tribù, la sua stessa concezione del mondo, sono plasmate sulla forma e sull’orientamento del villaggio, e senza di queste, perdono significato. La nascita del villaggio di Kejara, in Amazzonia, determina la creazione di uno spazio. Uno spazio definito e costruito a forma dell’istituzione che lo governa: la disposizione circolare che evoca equità tra le due tribù, la casa degli uomini posta in posizione centrale, simbolo unificatore.
Kejara appare strutturata simile al sistema di acquedotti proposto da Kahn precedentemente: L’acquedotto diventa la capanna principale del villaggio, “la casa degli uomini” , più grande delle altre, e attorno ad essa si situano le abitazioni minori. Di conseguenza, così come gli edifici che si sarebbero raccolti attorno all’acquedotto avrebbero avuto una chiara collocazione ed un preciso carattere, così le capanne del villaggio avrebbero acquisito un’identità precisa (l’appartenenza ai Cerà o ai Tugarè).
Questa triviale struttura urbana, quindi, si presenta come un albero, ma lavora come un semi-lattice, solo ed esclusivamente per merito dei patti sociali tra gli uomini. Tali patti risultano di importanza maggiore rispetto alla disposizione urbana, se si pensa che i missionari salesiani della regione del Rio das Garcas hanno compreso subito che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro, in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli. Trasferire i Bororo in un villaggio simile, significava privarli del punto di riferimento essenziale per svolgere una vita sociale e religiosa conforme alla tradizione delle due metà, significava provocare un “disorientamento” della comunità, agire sul sistema di valori, credenze e tradizioni della comunità che lo abita.
A Kejara la struttura più intima che governava lo spazio non solo venne scheggiata, ma sostituita da un’idea strutturale diversa, antitetica all’originale, spezzando così lo spazio, ignorando le istituzioni del luogo e gettando nel caos quel patto tra gli uomini che aveva reso possibile la prosperità dell’insediamento.
A governare, dunque, una struttura urbana non è unicamente la disposizione del centro commerciale, dell’area residenziale, del sistema delle infrastrutture..., ma quelle interazioni sociali che generano un flusso, uno scambio continuo tra gli uomini, e allontano il pericolo di una città fantasma.
L’esempio citato, tuttavia, mostra un esito positivo probabilmente perché si tratta di un complesso di dimensioni contenute, niente a che vedere con la grande città; tuttavia, sfruttando gli usi sociali e tradizionali del popolo, dal particolare al generale, si potrebbe convertire l’uso di una struttura ad albero in semi-lattice.
Ciò che, infatti, impedisce essenzialmente ad uno schema di piccola scala di allargarsi alla grande scala (e in via teorica anche all’infinito) è la gerarchia, caratteristica propria della città ad albero.
Se il Semi-Lattice, infatti, non è dotato di una gerarchia univoca, ne presenta una molto più flessibile e, soprattutto, non definita a priori dal progettista e dall’urbanista ma unicamente dai rapporti che si vengono a creare nello sviluppo e nell’uso della città. A questo punto, il suddetto schema diventa potenzialmente uno schema ripetibile dalla strada al quartiere alla città e dalla città alla megalopoli.