Commento all'artico "Object to Field" di Stan Allen
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Piccole decisioni prese per prova ci portano ad altre decisioni e man mano che il tempo passa e che le decisioni si sommano, la nostra libertà nel prendere decisioni è sempre più limitata per colpa dei legami che ci sono sempre tra una decisione e l’altra e così si continua a camminare verso un’atmosfera sempre più rarefatta: l’atmosfera dell’impossibilità. Quando si è ragazzi, tutto è possibile e si prova ogni cosa e poi, passando il tempo, un po' alla volta, sprofondano le possibilità e si aprono i buchi dell’impossibilità. Fino alla completa impossibilità finale.
Ma tutto questo giro è cominciato per prova, quasi mai comincia con un programma, e quindi non c’è nessuna ragione per decidere ad un certo momento che si stanno facendo cose definitive.
“Non c’è ragione di credere che ad un certo momento la testa di un corpo di creta diventi di acciaio. La creta continua ad essere creta”
(Ettore Sostass, Molto difficile da dire, Humor)
Sostanzialmente il problema che permane è il seguente: riuscire a mantenere a galla la possibilità, a prendere pochissime decisioni definitive, o per lo meno non prenderle in maniera definitiva. Essere fanatici per pochissime ragioni e tutte le altre, tutte le altre inezie, prenderle per quello che sono: delle possibilità che si intercambiano, che si spezzano, si separano e si ricompongono all’origine, delle ragioni multiformi.
L’architetto necessita e non può che prescindere dalla possibilità. Non interagisce solo ed unicamente con le forma pura, con la classica Bella forma. Agisce in un contesto, rispetta regole e limiti e allaccia legami con chi, quella Bella forma, la vive. Il futuro della Bella forma, dunque, non è lineare, non presenta un tragitto segnato e inattaccabile, ma essendo legato alle interazioni vitali, si evolve con esse, dipende dalle decisioni della folla, e la folla subisce la possibilità.
È impensabile credere che un progetto non possa subire variazioni nel tempo. Un progetto non giunge mai al termine, si deve adeguare, e adeguandosi cresce all’inverosimile.
Il termine “condizione di campo” interviene nel definire tale concetto, presentandosi come una riaffermazione degli obbiettivi dell’architettura contestuale e una proposta per poter realizzare il suo programma, muovendosi dall’unità alla molteplicità, dai singoli ai collettivi, dagli oggetti ai campi.
“Le condizioni del campo e la logistica del contesto riaffermano il potenziale dell’insieme, non delimitato e completo (gerarchicamente ordinato e chiuso), ma capace di permutare: aperto al tempo e solo provvisoriamente stabile”
(Stan Allen,Object to field)
Pianta della Moschea di Cordoba
Stan Allen cita a sostegno della sua tesi il caso della Moschea di Cordoba, la quale, costruita nell’arco di otto secoli, ha subito un susseguirsi continuo di variazioni e interventi. La forma-tipo della Moschea era stata chiaramente stabilita: un piazzale chiuso si apre sulla torre del minareto, che si apre, a sua volta, su uno spazio coperto per il culto.
Nella prima fase della Moschea è stato rispettato il precedente tipologico, dando vita a una struttura di dieci muri paralleli perpendicolari alla quibla, sostenuti da colonne, che definiscono uno spazio coperto di pari dimensioni rispetto alla corte aperta.
La moschea fu successivamente ampliata in quattro fasi, pur mantenendo intatto il tessuto originale. Questo è stato reso possibile perché gli elementi indipendenti sono stati aggregati e combinati per configurare una totalità indeterminata. Le relazioni tra le parti sono identiche all’originale. La sintassi locale è determinata, ma non esiste una geometria determinante e totalizzante. Le parti non sono frammenti di una totalità, ma semplici parti, la cui variazione, però, non comporta la perdita dell’identità del totale originale.
Moschea di Cordoba, interni
Anche l’uomo citato da Kahn subisce lo spettro delle possibilità e della mutazione, e ne fa tesoro, definendo una serie di nuovi frammenti indipendenti. L’Uomo di cui Kahn scrive è stato per lungo tempo racchiuso da un muro, finché, l’uomo che ci stava dietro, avvertendo un nuovo bisogno di libertà, ha voluto guardar fuori, realizzando un’apertura a forma di arco, attribuendo così nuovo valore al muro. Rendendolo vivo.
La forza del muro venne appresa da Kahn dall’architettura degli antichi, individuando quello che definisce “il miracolo dell’architettura”, ovvero l’attimo in cui i muri si divisero e comparvero le colonne.
La totalità (il muro) è stata frammentata, fatta a pezzi dall’esterno (l’uomo), e si è generato un frammento (l’apertura). Il muro, tuttavia, continua ad essere muro, anzi, è stato potenziato da una variazione, che d’altro canto, pur generato da esso, ne resta indipendente, poiché l’apertura la si attraversa senza dover render conto del muro, ma quando si ha voglia di far caso all’esistenza del muro, questa non stride, appare corretta e imprescindibile, e si è contenti della presenza di quel muro che protegge dall’esterno, così come si è contenti di poterlo attraversare. Allo stesso modo la separazione delle colonne, le quali si plasmano da una originale totalità, ma ora, scivolate fuori da essa, hanno una propria identità.
Il diagramma di luce che Ettore Sotsass interpreta nella madrasa Qala’un, Moschea, tomba e maristan al Cairo esprime al meglio l’ingente correlazione tra una totalità e le sue parti, parti indipendenti che subiscono variazioni dall’esterno (in questo caso particolare dalla luce).
Il percorso all’interno della moschea inizia con la scomparsa della luce bianca del sole della strada nel buio denso e pesante di un corridoio con il pavimento di terra nera, basso, senza finestre e senz’aria.
“In quel corridoio non si può fare altro che abbandonare tutto quello che c’è fuori. Si comincia a vivere un’altra esistenza, perché il buio a quei livelli cancella tutto. Si comincia un viaggio nuovo”
(Ettore Sottsass: di chi sono le case vuote)
Successivamente si prosegue per una grande stanza grigia, vuote e alta, illuminata da piccole finestre altissime e con vetri colorati sotto il soffitto.
“Qui lo spazio comincia a diventare sospeso…qui i passi non contano, qui si comincia a camminare in zone sospese”
(Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote)
Si giunge, in seguito, tra le due pareti nude e altissime di uno stretto corridoio privo di soffitto, si vede il cielo lontano, ma giù, in quello strapiombo, la luce arriva stanca e oscura.
“Forse dopo la prova del buio improvviso si ritorna ad una nuova possibile misura dell’esistenza, forse ad una nuova possibile idea della libertà”
(Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote)
Si prosegue attraverso una sala quadrata pavimentata in marmo, illuminata da gigantesche finestre con grate, e successivamente si entra, finalmente, nell’immenso cortile a cielo aperto che presenta muri altissimi a chiudere un immenso cubo di luce senza direzioni e senza colore.
“E’ un cubo di luce grigia, sbiadita, astratta come il pensiero, una luce da limbo che non fa riflessi né ombre”
(Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote)
Come nella Moschea di Cordoba, dunque, non è presente un unico focus, né uno schema geometrico unificante. Come a Cordoba, la forma complessiva è una elaborazione delle condizioni stabilite a livello locale.
Madrasa Qala'un, Cairo, 1284-1285, Pianta
Madrasa Qala'un, Cairo, 1284-1285
Contrabbando, Lynda Benglis, 1969
Il fenomeno delle “condizioni di campo” si riflette egualmente nel mondo dell’arte nella corrente Post-Minimalista. La scelta dei materiali con cui compiere arte porta l’artista a non esercitare un preciso controllo formale sul materiale, come nel caso del lattice versato utilizzato da Lynda Benglis o della farina soffiata di Le Va. L’artista, al contrario, stabilisce le condizioni in cui il materiale verrà impiegato e poi procede a dirigerne i flussi. I materiali stessi diventano così effimeri da funzionare come una delicata registrazione del processo e del cambiamento.
L’arte dei Post-Minimalisti contrasta fortemente con l’arte dei primitivi. Frazer cita “gli uomini hanno preso per errore l’ordine delle loro idee per l’ordine della natura ed hanno pensato che quanto più avessero saputo esercitare un controllo sulle loro idee tanto più, in misura corrispondente, lo avrebbero potuto esercitare sulle cose”.
La definizione vuol dire appunto che se un primitivo si fabbrica un cucchiaio, non è tanto il peso, la materia, la comodità del manico a preoccuparlo, quanto il fatto che la forma e i segni sul cucchiaio abbiano un significato, siano di aiuto e di commento a quello che il bere, rito più gesto, può significare nell’idea del mondo e della vita. A questo punto uno potrebbe dire che l’arte è sempre una vittoria delle idee sull’ordine naturale, e anche Freud lo dice quando scrive che “L’arte è solo campo dove l’onnipotenza delle idee si è mantenuta fino ad oggi”, ma la differenza tra l’arte e dei popoli primitivi e l’arte d’oggi sta proprio nel fatto che nei primitivi, e quindi anche nel popolo, quando l’espressione avviene direttamente e spontaneamente, le idee non finiscono in se stesse ma vogliono esercitare un controllo sulle cose e sull’ordine naturale.
In altre parole, nei primitivi, disegno e forme sottostanno ad una tecnica che è la tecnica del controllo e del dominio della natura, controllo che sfugge dall’idea di mutazione. I Post-Minimalisti creano un nuovo tipo di arte, un’arte retta dalla “condizione di campo”, che subisce alterazioni ed è governata dal cambiamento, fuori da ogni controllo.