free minds
La prima cosa che ci è venuta in mente quando nella riunione è emersa la sezione di scrittura creativa è stato il nostro motto "free minds", menti libere. Per menti libere non si intende liberi dai pensieri, ma liberi di pensare e scrivere ciò che pensiamo e trasformare la nostra immaginazione in qualcosa di concreto, perché la sezione di scrittura creativa è dove le idee vengono coltivate, dove una pagina bianca diventa un spazio da riempire dei nostri pensieri e delle nostre idee, senza limiti di tempo o di spazio.
E, come dice J. K. Rowling: Non occorre la magia per trasformare il mondo. Dentro di noi abbiamo già tutto quello che ci serve: il potere di immaginarlo migliore.
Ambientazione: La stanza è lluminata da un grande lampadario al centro del soffitto, con una luce che riflette sulle pareti. Al centro, un letto matrimoniale con lenzuola stropicciate. Di fronte al letto, un armadio che ricopre l’intera parete, le cui ante sono formate da specchi, che chiudendosi ne formano uno unico. Lo specchio riflette la figura di una ragazza. È seduta sul pavimento, appoggiata al bordo del letto, rannicchiata con le ginocchia al petto. Gli occhi sono bassi, persi, tristi o forse più arrabbiati, quasi indecifrabili, magari meglio dire vuoti, incapaci di alzarsi per affrontare il proprio riflesso, eppure quel riflesso...quel riflesso non è uguale a lei. La ragazza riflessa la guarda con un luccichio negli occhi, una luce che sembra contenere una scintilla di speranza per la vita, e un sorriso, un sorriso quasi nostalgico, ma incoraggiante. Lei non l’ha capito, non lo sa ancora, ma quella figura allo specchio è lei stessa, in una versione più viva, forse più forte, ma sicuramente più coraggiosa.
Luna (rannicchiata, si tappa le orecchie, le mani tremano) “Sshh, zitti, zitti... zitti stupidi pensieri del cazzo! Lasciatemi stare!”
Sole (la guarda, ora con uno sguardo di tristezza) “No, non posso, sono qui per aiutarla, non per ricordare ciò che ho passato. Io ce l’ho fatta, ce la farà anche lei. Ce la deve fare”
Luna (alza lo sguardo, arrabbiata, le mani ancora tremanti, ma la voce priva di fremiti) Che cazzo hai da guardare, eh?!? Cosa vuoi da me?!
Sol (calma, una calma quasi snervante) Sto guardando te. Stai scappando.
Luna Ah si? E questo chi lo dice, tu? Sei venuta a giudicarmi? Vuoi darmi lezioni di vita? Beh non mi servono!
Sole (lei sorride, paziente) Si, io. Io so come ci si sente, ma non sono qui per giudicarti, sono qui per ricordarti chi sei e... E che stai scappando.
Luna (stringe le ginocchia più forte, le sue ultime parole escono come un sussurro, un richiamo alla sua stanchezza, perché lei in realtà le forze per urlare non ce le ha più) Non è vero, n-non parlare, tu non sai niente! Non sai proprio un bel niente!
Sole Io so tutto. So quanto fa male. So com’è quando ti manca il respiro. So cosa vuol dire pensare di non avere via d’uscita, urlare aiuto senza che qualcuno senta. So cosa stai pensando.
Luna (cerca di mostrarsi decisa, provando a reggere di più il suo sguardo, ma il tremolio della sua voce la inganna) I-io non sto scappando, sto...sto solo cercando di sopravvivere.
Sole (corruga le sopracciglia, la voce paziente) Sopravvivere non è vivere. E lo sai.
Luna (una lacrima le riga il viso, una lacrima piena di rabbia) P-perchè fa così male? (quasi un sussurro) Cosa dovrei fare eh? (inizia ad alzare la voce) Affrontare il caos? Le paure? Questi mostri di merda che non mi lasciano in pace! Non le senti queste voci?! Non vedi queste ombre?! Guarda! Dimmi che cazzo devo fare! Tanto tu sai tutto no? Dimmelo, dimmelo, ti prego. TI PREGO! Le sue gambe cedono e cade di nuovo a terra, le lacrime iniziano a rigarle il viso ma il pianto è silenzioso, ed eccola lì, di nuovo rannicchiata che cerca di proteggersi dai suoi mostri.
Sole (senza perdere la sua calma) Si, affrontali. Perché questi mostri non arrivano da soli, sei tu a nutrirli, giorno dopo giorno, dandogli la possibilità di mangiare ogni tua piccola speranza. Queste voci di cui parli, sono le tue e queste ombre sono il riflesso delle tue paure. Nulla di tutto ciò è reale.
Luna (la guarda, gli occhi sono rossi, si direbbe che lo siano dal pianto, in realtà rappresentano la sua rabbia. Stringe i pugni) Non è vero! (scandisce ogni parola). Non sono io! Non è colpa mia! Sono loro che m’inseguono! Perchè non mi capisci? Perché neanche tu capisci?!
Sole (un po’ più decisa, ma senza alzare la voce) No piccolina, non t’inseguono. Sono lì perché tu li lasci entrare: ogni volta che chiudi gli occhi, ogni volta che giri lo sguardo rifiutandoti di affrontare la realtà, ogni volta che scappi, loro sono lì. Loro vincono. E sei tu a dargliela vinta.
Luna (inizia a tremare, la sua voce è quasi un soffio, un sussurro spezzato) E cosa dovrei fare? Come si fa a stare meno male? E se cado?
Sole (si piega verso di lei con un sorriso carico di speranza ) Guardale, e vedrai che sono solo la tua immaginazione. Guardale in faccia, e capirai che sono piccole, più piccole di quanto pensi. Non possono divorarti, perché non sono reali, sei tu che le hai rese così grandi, quando in realtà sei più forte di loro. E se cadi? Beh, sei caduta. Poi, ti puoi rialzare.
Luna (si stringe le braccia) E-e se non riesco?
Sole (sorride) Luna si avvicina allo specchio con passi incerti, lo guarda e la figura le sorride con tenerezza. Fa un altro passo, fino ad arrivare di fronte al riflesso. Si tocca il viso, cerca di forzare un sorriso che però non le esce. Ma a quella tentazione, al riflesso viene da sorridere più ampiamente, con più speranza e occhi vivi.
Luna (gli occhi sono stanchi, la voce è un sussurro) E la montagna? È alta?
Sole (sorride leggermente) Non è così alta e nemmeno così ripida, però è tua e puoi scalarla. Pian piano.
Luna (con un filo di voce, ma una nuova luce nello sguardo nonostante la stanchezza) Pensi che ce la farò?
Sole (sorridendo, con una sicurezza) Non lo penso. Lo so. E tu non sarai sola, ci sono io con te. “Sarò sempre la tua luce nell’oscurità.” (“Yo siempre serè tu luz en la oscuridad”) La ragazza tocca lo specchio con la punta delle dita e ci appoggia la fronte chiudendo gli occhi. Un bagliore caldo avvolge la stanza e ciò che prima sembrava privo di vita, ora brilla di speranza.
Citazione tratta dal film: Culpa Tuya
Adattamento cinematografico dei libri di Mercedes Ron
Tabasum Tanzina
“Signore mi sente?”
Certo che la sentivo. Ma sentivo anche un fortissimo mal di testa e la voglia di parlare invece mi mancava proprio, ma poi signore mica avessi trent’anni, ne avevo solo…
“Quanti anni ho?”
“25 freschi freschi, non ricorda?” La domanda era così stupida che mi fece venire voglia di aprire gli occhi. Mi ritrovai un’infermiera dai capelli blu, che mi sorrise, il cartellino diceva che si chiamava “Kate”, nome insolito per un’italiana. Ma forse non ero in Italia, anche se l’infermiera mi parlava in italiano.
“Cosa ricorda?” Gran bella domanda. Cosa ricordavo?
“ Ehm, mi chiamo con un nome strano, tipo Ranieri e… Come sono finito in ospedale?”
“È caduto da cavallo, per fortuna nulla di grave; Beh, tranne il coma. Le faremo dei controlli ma nel giro di tre giorni potrà uscire, ora si riposi che è notte”. Avrei voluto porle diverse domande, ma uscì di corsa dalla stanza.
Cercai di dormire, ma era difficile riposare dopo essere stato in coma una settimana. Proprio quando pensavo di starci riuscendo, una scarica mi percosse le braccia e le mani. Dovevo dipingere, sentivo questo peso gravarmi, questa sensazione mi era familiare, forse la prima sensazione familiare da quando mi ero risvegliato. Cercai per tutta la stanza dei colori. Sicuramente quando sono caduto devo aver avuti con me; un artista non gira mai senza i propri colori, eppure non li trovavo e più aspettavo più la sensazione di disagio aumentava. Decisi che dovevo uscire da quella stanza… O meglio, da quell’ospedale, perché sennò rischiavo di essere spostato in psichiatria. Cercai i miei averi, ma trovai solo dei vestiti e un portafoglio. Qualche furbone mentre ero svenuto doveva avermi rubato il telefono! Corsi fuori dalla stanza e, con le mani ormai frementi, schiacciai l’ascensore ed entrai.
Mentre le porte si chiudevano mi venne in mente che era stato tutto facile: non doveva suonare qualcosa? Nessuno a fare la ronda? Mi guardai il braccio e vidi che la farfallina non c’era ed era rimasto solo un segno rosso. Quando me l’ero tolta? L’avevo fatto senza notarlo? Probabilmente il coma aveva compromesso il mio cervello e avrei dovuto fare degli accertamenti, ma l’arte viene prima. Uscito dall’ascensore corsi fuori dall’ospedale e pure lì mi sembrò di non vedere nessuno: in che cavolo di ospedale ero finito?
Non riconobbi la città in cui mi trovavo, ma dopotutto non ricordavo niente, quindi non mi sorpresi più di tanto.
Ovviamente questo rendeva più difficile trovare un colorificio, quindi decisi di fare la cosa più stupida che potessi pensare: avrei chiuso gli occhi e camminato a vuoto e seguito il mio istinto da artista.
Altrettanto ovviamente questa trovata poetica durò al massimo dieci secondi, li riaprii al suono di un clacson e di urla in una lingua a me sconosciuta. Decisi di mettere alla prova il mio inglese (non che avessi alternative e in più non ricordavo di averlo studiato. E anche fosse, avevo comunque la sensazione di non essere ferratissimo nella lingua)
“Ehm ehy yo bro ehm, I need you know the things to paint like paintings ehm, bro”
“Your English is horrible. BTW, it’s 2 in the morning, all the shops are closed”. Non sapevo esattamente cosa significasse “horrible” ma mi piaceva come suonava, quindi sarà stato probabilmente un complimento.
“Thanks! Your English is horrible too! Now, there must is- no, must are- no, must be somewhere to buy them”
“ If I take you there you promise to never ever ever speak to me again?”.
“Of course bro!” Salii subito in macchina, alla fine era stato facile e non me l’ero neanche cavata male. Avrei voluto conversare, ma mise la musica a volume massimo, rendendolo impossibile.
Le strade diventavano sempre meno illuminate e quando scesi dalla macchina non feci in tempo a ringraziarlo che se ne andò via. In realtà, poco mi importava, finalmente potevo comprare i miei colori, al solo pensiero già stavo meglio, e già che c’ero potevo comprare anche uno zaino per tenere tutto (e magari anche del cibo, visto che il posto mi sembrava una specie di supermercato).
Uscito dal posto carico di tutto il necessario, mi girai a vedere il nome del negozio che mi aveva svoltato la serata, della scritta originale erano rimaste illuminate solo sei lettere che formavano il termine “spleen”. Questa parola mi rimase impressa nella mente; anche quando poco dopo mi misi su una panchina a dipingere al chiaro di luna, la mia mente continuava a pensare a cosa potesse significare. Mi risvegliai sulla panchina al sorgere del sole, il mio dipinto si era asciugato, avevo rappresentato una porta socchiusa, come se fosse quella dei miei ricordi che cercavo di riaprire, intorno alla porte era pieno di fiori vinaccia, volevo che fossero malefici, dei fiori del male, ma non sapevo perché.
C’era qualcosa di duro sotto la mia schiena, così lo afferrai, pronto a scagliarlo, finché non mi accorsi di cosa fosse: un telefono. Una sensazione mi pervase tutto il corpo, mi sembrava di essere osservato,come se qualcuno stesse lasciando degli aiuti sul mio percorso. Con mani tremanti accesi il telefono e mi trovai davanti il volto di una bella ragazza; il telefono non necessitava di password il che lo rendeva ancora più strano. Mi guardai intorno, ma non c’era nessuno di sospetto, allora aprii google e cercai la parola “Spleen” (dovetti inserire sul traduttore, visto che il telefono era in spagnolo). -Lo spleen è uno stato d'animo caratterizzato da una profonda malinconia, insoddisfazione e noia. Il termine è stato reso popolare soprattutto dal poeta francese Charles Baudelaire, che lo descrive in diverse poesie.-
Tutto ciò mi sembrava totalmente inutile, cosa mi interessava di questo Charles? Eppure sapevo di dover continuare a scavare, perché c’era qualcosa che non mi tornava, allora continuai a cercare informazioni su di lui, finché non scoprii che aveva scritto un’ opera chiamata -I fiori del male-. Lasciai il telefono sulla panchina e presi il mio dipinto.
Forse era questa la chiave? Forse per trovare i miei ricordi dovevo cercare la porta che avevo raffigurato? O forse qualcuno si stava divertendo a giocare con me? Beh, l’unica cosa che potevo fare era andare avanti, quindi aprii google photo, visto che mi rifiutavo di parlare di nuovo in inglese con qualcuno. Misi la foto del dipinto sul motore di ricerca e, oltre a uscirmi un sacco di quadri di un certo Julian De Nemesi (che nome orribile tra l’altro), trovai anche questo portone, cercai di capire il nome del posto ma sembrava solo un palazzo dove organizzavano mostre.
Casualmente il palazzo era solo a mezz’ora da dove mi trovavo, o almeno… Cercavo di ripetermi che erano solo enormi coincidenze, anche se la mia sensazione che tutto quello che mi stava capitando fosse maledettamente pilotato continuava a peggiorare.
Scoprii camminando che probabilmente mi trovavo in Olanda, anche se ero convinto fossi in Spagna. Forse sarei dovuto veramente restare in ospedale.
La mostra scoprii essere sul periodo post impressionista, uno dei miei preferiti, o almeno così mi sembrava di ricordare. La coda era corta e mi misi in fila per quelli senza biglietto, ma solo a due persone dalla cassa realizzai di non avere soldi con cui pagare (eppure ero convinto di aver avuto ancora soldi con me fino a qualche ora prima). Ma è lì che mi venne un’idea fantastica: presi rapidamente il telefono trovato e cercai un'app o un documento che potesse attestare che ero uno studente, tanto io ero giovane e anche la ragazza nella foto lo era, nessuno avrebbe fatto domande, beh magari per il nome si, ma avrei escogitato qualcosa. Proprio mentre andavo dal cassiere ecco che trovai un documento che attestava la mia frequenza all’università di giurisprudenza, caso vuole che il documento fosse a nome di una certa Claude Ernst, nome facilmente confondibile con quello di un uomo, anche se il pensiero di avere in mano il telefono di un futuro avvocato non mi tranquillizzava molto.
Sorrisi al cassiere e solo in quel momento realizzai di dover parlare di nuovo inglese, cazzo.
“Ehm, I’m very dis- disturbed, I think and I’m a student at university so can I invade the place?”
“I’m sorry what?”. Ok sicuramente avevo sbagliato qualcosa,presi un respiro profondo e gli misi davanti la schermata del telefono col documento.
“Can I please- come si dice ehm, go in the museum like inside and like see paintings and things?” La faccia della cassiera era indecifrabile, però dopo avermi guardato storto ancora un po’ mi porse il biglietto per entrare. Lo presi al volo, prima che potesse farmi dire altre frasi in inglese o chiamare la polizia per quello che avevo detto, di cui non avevo la minima idea.
Fin dalla prima sala mi sentii meglio, tutti quei quadri e quelle pennellate mi facevano sentire a casa, dopo tutte le ambiguità e le strane coincidenze finalmente mi calmai.
Massì, ero solo paranoico per via della botta, non c’era nulla di strano in quello che era successo, niente di niente. Ed è lì che li vidi, i girasoli di Van gogh, indimenticabile il loro giallo intenso. E io mi sentivo come uno di quei girasoli; l’unica differenza era che io non stavo seguendo il sole, ma questa sensazione che mi attanagliava da quando mi ero risvegliato: dovevo fare qualcosa. Continuai a vagare tra i quadri cercando di seguire la mia sensazione, come quel girasole, cercando di memorizzare tutti quei colori, per poi fermarmi di colpo su di lui, un quadro di Munch. Quel quadro voleva comunicarmi qualcosa.
Nonostante fosse non così insolito trovare Munch in una mostra sui post impressionisti sentivo che c’era qualcosa che non andava. Il quadro si chiamava -morte nella camera della malata- almeno mi sembrava fosse quello, ovviamente il titolo non era stato tradotto in italiano, ma quel quadro lo avevo già visto, lo avevo amato dal primo sguardo, riuscivo a sentire la tristezza di Munch, le sue emozioni, era come se mi parlasse e un giorno speravo che qualcuno potesse provare lo stesso guardando i miei di quadri.
“Le piace?” Mi chiese una bimba con due codini di fianco a me.
Subito mi preoccupai, cosa faceva una bimba tutta sola? Ok che i visitatori di mostre non sono rinomati per essere particolarmente aggressivi, ma era comunque in pericolo, perciò decisi di restarle accanto finché non fosse arrivato un genitore.
“Mi piace molto, a te?”
“Non lo so, sembrano tutti così tristi e quella bimba là non ha una bella cera” mentre me lo diceva si dondolava da un piede all’altro, mi fece sorridere che una bambina così piccola fosse stata in grado di cogliere già un po’ quello che voleva comunicare Munch.
“Beh vedi, la bimba è molto malata e morirà, infatti questo quadro è mooolto particolare, perché Munch lo dipinge per raccontare cos’era successo alla sua sorellina quando lui era piccolo.
Eppure Munch si raffigura come un adulto e così anche il resto dei suoi familiari, anzi, per la precisione li raffigura con l’aspetto che avevano al momento della realizzazione del quadro”
“E perché?”
“Perché è come se una parte di loro fosse ancora lì, loro sono cresciuti ma non hanno superato il trauma, sono fermi nonostante loro crescano e cambino, ma alla fine il trauma li ha cambiati, no?”
“Quindi… Magari Munch li raffigura come sono ora perché è grazie a quello che hanno passato che sono diventati come sono? Loro non sono più le persone del trauma, ma allo stesso lo sono ancora e ne continuano a pagare le conseguenze? Per sempre?!?“. Forse non era stata una grande idea quella di spiegare un quadro così triste a una bambina, forse le avevo appena causato un trauma. Cercai di deviare il discorso su qualcosa di meno deprimente, senza riuscirci gran che.
“Beh alla fine è un bel quadro no? Pieno di colori e… dove sono i tuoi genitori?”
“Non lo so sig-“
“Artemisia eccoti!” Gridò un signore e subito la bambina gli saltellò incontro.
“Babbo, questo signore mi stava spiegando che la sorella di Munch è al cimitero!”. Ok forse era il momento di darsela a gambe, prima di essere picchiato da un padre sconvolto. Ma c’era qualcosa in quello che aveva detto la bambina, mi sentivo che ero vicino alla soluzione. Per cui osai e gli rivolsi la parola. Peraltro in Italiano, anche se non sembrava molto logico farlo. E proprio mentre iniziavo a parlargli, fui fulminato da una illuminazione improvvisa.
“Mi scusi signore, sono un’artista e ho provato solo a spiegarle dei quadri. Sua figlia è adorabile, ma ora devo scappare perché devo prendere un volo per la Norvegia.” Perché la Norvegia? Non ne avevo idea. Detto questo, però, mi girai e iniziai a correre, per poi ricordarmi di non sapere dove fosse l'aeroporto e che finalmente avevo incontrato un italiano… Per cui filai subito indietro dal signore.
“Mi scusi, mi saprebbe dire dove si trova l’aeroporto?”
“Sa, lei ha badato a mia figlia, quindi farò di meglio, la porterò io in aeroporto”. Sorrisi alla sua gentilezza, ma dentro di me tremavo: che coincidenza beccare un italiano disposto a portarmi in aeroporto così su due piedi.
O era un serial killer o continuava ad esserci qualcosa di strano.
Fatto sta che, ovviamente, accettai il passaggio, ero sicuro di star seguendo la pista giusta e visto che qualcuno aveva deciso di aiutarmi, ancora meglio.
Lungo la strada mi misi a dipingere, in modo da poter lasciare qualcosa in segno di gratitudine alla famiglia e decisi di raffigurare un paesaggio all’alba.
Molti preferiscono il tramonto, ma io trovavo qualcosa di magico nel sorgere del sole, nelle sue sfumature mattutine. Dipinsi il mare, calmo e ghiacciato in modo da far prevalere ancora di più la luce riflessa; Infine misi una striscia di terra e una montagna a strapiombo. Avrei voluto aggiungerci più dettagli, ma arrivammo presto in aeroporto, anzi per il poco tempo avuto avevo fatto anche più del previsto. Anche se, a pensarci bene, non sapevo neanche esattamente dove fossi.
Scesi dalla macchina con il dipinto in mano -Lessi ‘Eindhoven airport'- finalmente sapevo dove mi trovassi: una vittoria in fondo, no? Mi girai per stringere la mano al signore.
“Buon viaggio, mi raccomando, stia attento” mi disse, stringendomi la mano calorosamente. Allora mi voltai verso la piccola e le porsi il quadro.
“Questo invece è per te”. Lei mi guardò con gli occhi spalancati dalla gioia e, felice, mostrò a suo padre il quadro con tanto di “papà, papà, guarda cosa mi ha regalato il signore gentile”. Io e il padre non potemmo fare altro che metterci a ridere, finché lui non si mise ad osservare il quadro e mi disse “Ma quindi c’è già stato in Norvegia!”. Ovviamente lo guardai confuso, anche perché effettivamente io non lo sapevo, forse c’ero stato, forse stavo tornando a casa anche se non mi ricordavo il norvegese; Forse una volta arrivato in Norvegia mi sarebbe venuto naturale.
“Si, da cosa l’ha capito?” Dissi un po’ mentendo, visto che non ne ero ancora sicuro, ma sarebbe stato troppo complicato spiegargli tutta la storia (e poi avrei rischiato di essere riportato in ospedale).
“ Beh, io e mia moglie abbiamo fatto il giro della Norvegia e questo è palesemente Oslo, riconosco questo fiordo”. Stavo per interromperlo, per dirgli che mi sembrava altamente improbabile riconoscere il fiordo, visto che ci saranno così tanti fiordi e non così facili da distinguere, ma qualcosa nelle sue parole mi colpì, tutto d’un tratto capii che ad Oslo avrei trovato la risposta, forse casa mia.
“Sicuramente bellissimo… Comunque ora devo scappare, non vorrei mai perdere l’aereo per tornare a casa. A presto e se tornate in Norvegia, chiamatemi”. Dissi correndo dentro l'aeroporto.
Naturalmente non avevo lasciato nessun tipo di recapito, sarebbe stato impossibile contattarmi… Così in caso la Norvegia non fosse stata casa mia avrei evitato numerose figure imbarazzanti.
Per fortuna fare un biglietto last minute per Oslo si era rivelato molto più facile del previsto, il problema della lingua molto più complicato, soprattutto perché a quanto pare l’olandese non è così facile da capire se non hai nessuna base linguistica a riguardo e, dall’altra parte, non tutti gli olandesi sono bravi in inglese (ma dopotutto anche il mio inglese faceva schifo).
Fatto sta che in qualche modo riuscii a salire sull’aereo, felice e convinto di star tornando finalmente a casa, ma quando la hostess passò di fianco a me e mi disse “Jeg kan ta med noe å drikke?” e io la guardai come un ebete sorridendo, capii che sicuramente non sapevo il norvegese e dubitai di abitarci. Dopo questa bellissima esperienza, decisi che era proprio l’ora di dormire e così evitai altre figure durante il volo. Arrivato ad Oslo corsi subito fuori dall'aeroporto, tanto non avevo imbarcato nessuna valigia, anche perchè oltre a uno zaino non avevo altro e non potei fare a meno di notare di quanto freddo facesse, decisamente troppo freddo per i miei gusti.
No, sicuramente non vivevo in Norvegia perché in tal caso sarei morto congelato. Salii sul primo taxi che vidi, ancora infreddolito, e solo dopo qualche minuto vidi l’autista guardarmi in attesa che gli dicessi un indirizzo, peccato che io non l’avevo, un indirizzo.
Dopo qualche istante di esitazione imbarazzata, mi spuntò un’idea: tirai fuori il mio bellissimo telefono rubato e aprii maps, puntai un luogo a caso di Oslo. Sembrava una specie di parco e m’ispirava fiducia, così girai il telefonino al taxista e gli dissi “there” (o forse dovevo dire here?) Beh, fatto sta che mi guardò storto, scosse la testa e inserì l’indirizzo sulla mappa e partí.
Gli dovetti dare i miei ultimi averi e mi venne in mente che al museo non avevo avuto soldi dentro al portafogli e ora invece ne avevo avuti abbastanza per comprare un viaggio in aereo e una corsa in taxi; Speravo di essere giunto a destinazione e che stessi per trovare la ragione di tutte queste discrepanze. Una volta sceso, capii che non era per il mio inglese lo sguardo di prima, ma perché quello che pensavo fosse un parco in realtà era un cimitero, l’iscrizione diceva che dentro si trovava il cadavere di Munch. Forse quello era il motivo per cui lo avevo scelto? Dopo tutto mi era venuto in mente di andare in Norvegia quando la bimba aveva nominato un cimitero, aveva senso no? E sicuramente ormai era troppo tardi per fare marcia indietro, il taxi era già lontano. Così entrai nel cimitero, ancora confuso dalla situazione e incerto sul da farsi; vagai per dieci minuti finché non mi trovai in un punto isolato, probabilmente lì stavano mettendo le nuove tombe, visto che c’era una buca e della terra smussata. Mi fermai davanti all’ultima lapide e mi sedetti di fianco. -Julian De Nemesi-, quel nome non mi era nuovo, era la seconda volta da quando mi ero svegliato che lo sentivo nominare, eppure l’unica cosa che mi veniva in mente è che avesse proprio un nome orribile.
“Finalmente sei arrivato” sentii dire alle mie spalle e mi girai, per trovarmi un uomo sui trenta, vestito sui toni del marrone e con i capelli rossicci, gli occhi del mio stesso verde, solo che lui teneva una leggera barba incolta che accentuava il suo color rame. Il suo viso era familiare, ma non avrei saputo dire perché.
“Mi stava aspettando? In un cimitero?”
“Certo che sì, senza incontrarti non posso continuare, ma tu sei stato così lento che ho dovuto darti una mano.”
Credo che il mio cuore saltò un battito. Allora non ero pazzo, c’era qualcosa di strano.
“C’eri tu dietro tutto questo, per tutto il tempo?”
“Ovviamente, veramente pensavi di aver trovato un telefono a caso? Oppure che incontrassi sempre persone che fossero in grado di aiutarti?E i soldi magicamente comparsi nel portafoglio? Dai su, il mondo reale non funziona così. ”
“E perché proprio un cimitero? Nel senso, chiunque tu sia, credo esistano un sacco di posti migliori di questo per un incontro… E immagino tu sappia del mio coma e del fatto che mi sono appena risvegliato”. A questa frase rise, rise come se il fatto che mi fossi risvegliato fosse la cosa più divertente al mondo. Questo ragazzo era strano e inquietante, pensai.
“Ancora non hai capito? Non pensavo fossimo così idioti, questo non è un cimitero qualsiasi, questo è il tuo cimitero”. Sì, ora era decisamente inquietante.
“Come scusa? Cosa significa il mio cimitero? Fuori c’era scritto di Munch”
"Ommioddio, la tomba che hai davanti, guardala. É così che firmi i quadri. La tomba di fianco a quella -ragnetto-, come ti chiamavano le tue zie da piccolo e così per ogni singola tomba di questo cimitero. Tutto il resto è solo un modo della tua mente di farti processare tutto”.
“Ma tutto questo non ha senso, cosa significa la mia mente? Io non so nulla da quando mi sono svegliato dal coma!”
“Ancora non l’hai capito? Ranieri, tu non ti sei mai svegliato, tu non ti sveglierai mai, io mi sveglierò al tuo posto, IO sono il nuovo te”. Questo qui era pazzo e psicopatico e io dovevo scappare al più presto, eppure dovevo saperne di più, sapevo di non dovermi muovere, come se fosse stata una forza superiore a dirmelo.
“Ma io ricordo di essermi svegliato dal coma.”
“No, tu non puoi svegliarti, quello che ti è successo ti ha cambiato troppo per svegliarti. Tutto quello che è successo era per portarti qua, questa è la tua mente, questo mondo è la nostra mente, questo cimitero contiene tutti i Ranieri morti perché noi potessimo migliorarci, evolverci e crescere. Tutte le volte che ci hanno detto che siamo cambiati e non ci riconoscono è perché uno di noi è finito qui e un altro ha preso il suo posto. Sai, alcuni cambiamenti sono lenti, ma un coma… No quello è drastico e rapido. Come una botta in testa. Addio.”
Un rumore metallico, dolore e poi solo il buio.
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“Signore mi sente?”
Sofia Rebagliati
Sapeva di stare per lasciarci la pelle, e il fatto di essere vissuto per anni con quell’incubo, sotto quella stessa minaccia, non serviva a sollevargli lo spirito. Rayan Malek camminava a testa bassa fra i vicoli della capitale, proteggendo con l’impermeabile il pacco che teneva sottobraccio. Una pioggerella fine avvolgeva la grande città in un tetro grigiore, mentre i raggi del tramonto impallidivano attraversando l’aria inquinata. La metropoli aveva una densità di popolazione disumana, ma sembrava un oltretomba desolante. Il trentenne seguiva gli altri passanti, che si trascinavano come fantasmi inquieti, ipnotizzati dai cellulari olografici; affluivano verso la piazza dove si sarebbe tenuto il discorso di reinsediamento del Presidente, come insetti attirati da una lampada artificiale nella notte della loro esistenza. Rayan sembrava essere l’unico a vedere il buio che inghiottiva il loro Paese, e desiderava rivedere il sole: voleva portare alla luce gli scandali che aveva scovato nelle tenebre dei segreti governativi, perché lui era un giornalista.
Aveva consumato la sua giovinezza fra inchieste sulla corruzione dei parlamentari e revisioni dei bilanci truccati, da proteste contro il riarmo nucleare a reportage sulle violazioni delle politiche ambientali: ormai era a un passo dall’essere ricercato come agitatore politico. Eppure, solo qualche anno prima era stato uno studente di lettere che si lasciava ispirare dai Classici, uno scrittore per diletto che voleva mettere la sua penna al servizio di una grande causa. Non voleva stare a guardare ciò che non poteva cambiare, voleva cambiare ciò che non poteva accettare, con l’aiuto dei suoi compagni.
La loro redazione era nata fra i banchi del liceo classico, circa quindici anni prima: Adam, appassionatissimo di storia, Nadine, la loro professionalissima redattrice, lui ed Emy, gli scrittori più efficiente della scuola, e infine la loro grafica, Andrea. A partire dal primo numero del giornalino d’istituto per lamentare l’incuria dell’edificio scolastico, la loro scintilla di giornalisti e attivisti non si era mai affievolita.
Rayan si passò una mano tremante sulla fronte ricoperta di sudore freddo, scostando i riccioli mogano grondanti di pioggia dai profondi occhi color cioccolato; lacrime perlacee di nostalgia luccicavano fra le sue folte ciglia scure. Nelle ultime ore della sua vita, il ragazzo riviveva di continuo i ricordi dolce amari dell’avventura del loro giornale clandestino…
Il modesto appartamento di cui condividevano l’affitto costituiva il loro quartiere generale: non potevano permettersi molto di meglio, con i lavoretti occasionali che riuscivano a racimolare. Nonostante fossero riusciti a farsi assumere da “veri” giornali, tutti i membri della loro ex-redazione si erano dimessi con sdegno dopo pochi mesi: sebbene lavorassero per celeberrime testate, che professavano imparzialità e professionalità, gli erano stati commissionati solo reportage sensazionalistici su notizie irrilevanti per distrarre l’opinione pubblica, oppure interviste adulatorie per appagare qualche membro del Partito. Ovviamente, fra i diritti fondamentali della loro Repubblica c’era “libertà di stampa” (un vecchio detto, visto che tutte le pubblicazioni erano digitali), ma i direttori rifiutavano tutti i loro articoli sui conflitti in corso o sul reale stato geopolitico, intimando ai nuovi arrivati di stare al loro posto.
Fu così che i cinque rinunciarono ai loro stipendi, ma non alla loro missione: avrebbero creato il loro personalissimo giornale, una testata affidabile e indipendente, che sensibilizzasse i cittadini sulle questioni scomode che i grandi quotidiani tacevano. Le pubblicazioni digitali erano facilmente censurabili, ma la cara vecchia carta sarebbe servita ad innescare il loro fuoco.
Alimentati da un’adrenalina febbrile e inebriante, Rayan e i suoi amici passavano la sera facendo ricerche e scrivendo i loro pamphlet sul tavolone scheggiato della cucina fino all’alba, quando finalmente la stampante recuperata dal rigattiere dava alla luce un centinaio di copie del numero del mese. Infine, distribuivano la rivista fra le consegne da corrieri o coi volantini pubblicitari, nei parchi e nelle piazze, nella speranza che qualcuno la leggesse. E di non essere scoperti e denunciati.
Era stato un lavoro entusiasmante: attraverso quegli articoli intendevano sensibilizzare la cittadinanza sulle tante ingiustizie che l’affliggevano e sollecitarla a un ruolo attivo nelle decisioni cruciali, senza accontentarsi di una libertà solo apparente e di una rappresentanza politica che salvaguardava solo i propri interessi. Dopo due anni di pubblicazioni clandestine, però, niente era cambiato, anzi: il loro Paese si era schierato in un ennesimo conflitto, trascinato da alleanze di dubbia bontà; l’inflazione era schizzata alle stelle, mentre il popolo annaspava nel degrado: ognuno rimaneva oppresso dalle proprie difficoltà, senza sollevare lo sguardo sul quadro generale o alzare la testa per ribellarsi.
Rayan zigzagò fra le pozzanghere sul marciapiede dissestato. Una delle loro ultime stampe giaceva fra le cartacce: nessuno si era fermato a raccoglierlo, nessuno aveva colto il loro messaggio. Non sarebbe rimasto alcun monumento alla virtù sconosciuta di quegli ingenui eroi romantici.
Il piccolo collettivo aveva fatto il passo più lungo della gamba, scivolando rovinosamente: frustrati dall’inefficacia del loro progetto, il suo gruppo aveva direttamente organizzato una protesta pubblica, chiamando a raccolta i loro venti lettori attraverso il numero di aprile. I loro interventi al consiglio comunale erano stati già più volte respinti, e anche stavolta la burocrazia municipale non aveva approvato la loro richiesta di manifestare. Adam non si era fermato comunque e, recuperando vecchie conoscenze dall’università, aveva iniziato “ad accordarsi” con le forze di polizia del quartiere per non far bloccare il corteo; Rayan disapprovava le “transazioni economiche” con cui consolidavano tali patti, ma il metodo sembrava funzionale: così facendo erano riusciti a tenere ben quattro piccole manifestazioni quel mese, e avevano programmato molti altri interventi.
La mattina delle elezioni presidenziali, i suoi quattro compagni avevano radunato un’esigua folla armata di cartelloni davanti al municipio, per contestare l’inconsistenza dei programmi presentati e denunciare presunti brogli. Quel giorno, Ryan era rimasto bloccato da un’emicrania e non aveva preso parte alla protesta, aspettando invano il ritorno a casa dei suoi compagni; il telegiornale serale aveva poi annunciato che alcuni violenti manifestanti non autorizzati erano rimasti tragicamente uccisi nei disordini da loro stessi fomentati.
Continuando la sua malinconica passeggiata lungo il viale dei ricordi, il ragazzo s’immettè fra i pedoni che si trascinavano nella strada principale come una colonna di formiche. Un’elegante berlina a levitazione magnetica lo superò con un fischio sordo, luccicando nel crepuscolo e sollevando schizzi dai canaletti di scolo. Molte case abbandonate erano rifugio per senzatetto e cani randagi; alcune stavano crollando, sgretolandosi com’era accaduto al mondo di Rayan: ora era rimasto solo con i suoi sogni infranti e un’ultima missione, l’ultimo grande progetto avviato dai suoi amici. Lo avrebbe portato a termine a costo della sua vita, come ultimo lascito in ricordo della sua famiglia.
Era consapevole che sarebbe stata la sua fine, ma, dopo aver perso tutti quelli che amava, Rayan era indifferente davanti alla morte; forse si sentiva quasi sollevato, o addirittura compiaciuto: un Seneca che sfugge con dignità alla tirannia, un Ortis al termine del viaggio. Ciò che lo spaventava non era la fine, ma il dubbio di morire, ed essere vissuto, inutilmente; peggio ancora, temeva di rimanere accecato dai suoi stessi ideali, e diventare martire di una causa sbagliata, come suo padre.
Rayan camminava a fianco di facciate scrostate ricoperte da decine di manifesti del Partito, rimasti appesi dalla campagna elettorale appena conclusa. Sotto a gigantografie del Presidente appena rieletto, grandi caratteri rossi urlavano slogan interventisti come “Combattete per la pace”, “Servite la patria sul fronte straniero”: era difficile accettare che suo padre e milioni di altri cittadini fossero stati convinti a morire per ossimori del genere.
Il signor Malek, impiegato di classe media, si era ubriacato della propaganda bellica fino a partire volontario per una guerra lontana, che per poco non sapeva nemmeno perché fosse iniziata; credeva che lasciare Rayan e sua madre fosse un onorevole atto di abnegazione. Ma una volta sul fronte remoto, quando le esplosioni lo avevano assordato più che la retorica, si era reso conto di come su quelle terre desolate si facesse scorrere sangue innocente nel nome di denaro sporco: si parlava di petrolio, armi e giochi di potere, non di identità nazionali o libertà. Il soldato aveva scritto lettere pentite alla famiglia, ma erano state minuziosamente censurate dalla posta militare. I famigliari seppero solo che era stato giustiziato per essersi rifiutato di unirsi ad un’incursione contro dei civili.
Il terribile lutto aveva risvegliato la coscienza politica e civile della madre di Rayan, che trovò un’altra causa a cui votare se stessa, nella speranza che non fosse l’ennesima illusione: partecipò a numerose manifestazioni contro il coinvolgimento del Paese nei conflitti esteri, chiedendo di proporsi invece come mediatori. Anche lei, una sera non tornò a casa, e l’ormai ventenne Rayan scoprì cosa succede ai cortei non autorizzati: misteriosamente, i pacifisti sembravano degenerare sempre nella violenza.
Fu così che Ryan Malek rimase orfano degli ideali, e i fantasmi dei suoi genitori e dei suoi amici lo condussero a quel fatidico pomeriggio piovoso: la dea Libertà pretendeva un tributo di sangue.
Il sole era quasi tramontato quando il ragazzo raggiunse finalmente la piazza dove si sarebbe tenuto il discorso presidenziale. Ripassò mentalmente il suo piano: fra le varie macchinazioni del mese precedente, Adam aveva corrotto una delle guardie dell’evento, affinché chiudesse un occhio sulla scaletta di servizio che conduceva al tendone rosso sul retro del palco; uno del collettivo avrebbe potuto così raggiungere il Presidente davanti ai microfoni per sfoderare la loro arma. Il destino aveva deciso che l’onere sarebbe spettato a Rayan, l’ultimo rimasto, anche se ancora per poco.
Un boato di applausi si levò alla comparsa sul podio del Presidente: il longevo politico salutò la folla adorante dai megaschermi olografici appesi al tendone vermiglio, prendendo posizione dietro ad un leggio drappeggiato da una gigantesca bandiera nazionale. Rayan si fece strada verso il retro del palco, passando accanto alle file di funzionari e politici schierati per rendere omaggio al Presidente. Gli sembrava di trovarsi in un’allucinazione ansiogena: avanzava lentamente e a fatica, mentre la folla lo opprimeva e ogni rumore gli giungeva come un brusio sordo; per poco il prezioso pacco non gli scivolò dalle mani. Ognuno proiettava una lunga ombra lugubre sotto al sole morente. Avrebbe potuto perdersi in quel mare informe di centinaia di persone, tutte vestite con abiti scuri simili, tutte urlanti cori sconclusionati, tutte ugualmente cieche e rabbiose, come una schiera infernale sulle rive dello Stige. No, lui sarebbe riuscito ad emergere, e li avrebbe risvegliati da quell’incubo: sarebbe stato l’antico vate in grado di visitare l’oltretomba e tornare nel mondo per guidare i vivi con le sue parole.
Rianimato da quest’ambizione, strinse la presa sul pacchetto e accelerò con decisione verso il retro del grande tendone rosso, alla ricerca della sua fortuita scaletta. Individuò con discrezione la guardia loro complice, che distolse lo sguardo mentre lui s’insinuava dietro al tendaggio che copriva l’accesso di servizio al palco. Il suo carico si era fatto più pesante ad ogni passo, mentre l’adrenalina rendeva i suoi movimenti irrealmente leggeri. La pioggia si arrestò in una debole schiarita.
Rayan, ora celato dal sipario posteriore, si sfilò l’impermeabile e sfoderò il fantomatico pacco, pronto a far esplodere la sua bomba sulla folla, sotto gli occhi del Presidente. Abbassò un secondo lo sguardo sulla cosa che avrebbe potuto cambiare il destino del Paese, e che lui teneva fra le mani: fogli, un plico spessissimo di fogli. Si trattava di documenti accumulati nell’arco di anni dalla sua squadra: fotografie di reporter che testimoniavano le atrocità dei combattimenti e dei crimini di guerra commessi dalla Repubblica su più fronti, i contratti del governo con le industrie di armi ed energia, le prove che i bilanci erano stati truccati, dossier scandalosi sui politicanti… L’ultima lettera avvilita di suo padre, i discorsi rabbiosi di sua madre, l’ultimo numero del loro pamphlet, le sue citazioni preferite. Altri attivisti di cui non conosceva nemmeno il nome avevano dato la vita per comunicare al collettivo quelle informazioni. Ryan sarebbe salito sul palco, lanciando sulla folla quei documenti, mentre si produceva in un accorato appello, per convincere l’opinione a reclamare il potere costituzionale che spettava a loro cittadini, fermando finalmente quelle tragedie.
Ovviamente, il ragazzo si rendeva conto che la sua azione avrebbe provocato i militari, ma anche se avessero cercato di arrestarlo, o lo avessero ucciso direttamente sul palco, la notizia avrebbe avuto una portata devastante, visto il numero di testimoni e televisioni presenti; inoltre sarebbe stato impossibile recuperare tutti i fogli distribuiti fra i gli spettatori. Il suo grido di protesta poteva non essere ascoltato, ma sicuramente sarebbe stato udito.
Rayan raggiunse la scaletta, mise il piede sul primo gradino, si diede lo slancio e… Cadde lacerato da un dolore bruciante al collo. Percepì uno strano tepore sgorgargli dalla nuca e un allarmante retrogusto metallico: era stato colpito alla trachea con un laser silenzioso da dietro il tendone. La guardia traditrice gli si avvicinò e, guardandolo dall’alto rinfoderando la pistola, gli sussurrò rammaricata:
“Mi dispiace davvero, ma mi avevano scoperto. Ho dovuto farlo, per mia figlia, altrimenti… Mi avevano detto che se mi fossi occupato io di te, avrebbero considerato la questione chiusa”
Il giovane, con il viso premuto a terra, scosse debolmente la testa: si augurava che i capi della traditrice mantenessero i patti. Strinse gli occhi, mentre la ferita letale gli impediva di urlare; i preziosi documenti, sparsi a terra, s’inzupparono nella pioggia sporca di scarlatto, divenendo illeggibili.
Rayan Malek morì sperando di avere una coscienza pulita, in una pozza di sangue e fanghiglia sull’asfalto. Morì da uomo libero, circondato dai militari accorsi per mantenere l’ordine. Morì come un eroe stolto, sperando che la volontà di un uomo bastasse a renderlo invincibile davanti ad un mondo contorto: accecato dalla scintilla in sé, aveva ignorato le tenebre fuori e aveva dimenticato quanto fosse fragile una speranza. Rayan Malek, come molti prima di lui, diede tutto e non ottenne nulla, ennesimo milite ignoto della libertà di pensiero. Come chiuse gli occhi, il sole scomparve oltre l’orizzonte, e ricominciò a piovere: lacrime venute a cancellare il ricordo di quel giorno, una pioggia grigia che poteva estinguere ogni fiamma.
La polizia cercò di contenere al massimo l’incidente, ripulendo efficientemente la scena; i notiziari si sarebbero accontentati della dichiarazione ufficiale, secondo cui un folle che voleva assalire il Presidente era stato fermato, poi la stampa avrebbe insabbiato l’evento con qualche altra notizia irrilevante. Rimaneva solo una persona da far tacere e poi il fastidioso incidente sarebbe stato dimenticato per sempre, insieme al nome di Rayan Malek.
Anche quell’anno, Leila era stata obbligata a presenziare la cerimonia di reinsediamento: seduta impettita a fianco del padre, il primo ministro, era disgustata dall’ipocrisia e dalla vacuità del discorso del Presidente. Essendo cresciuta in una famiglia al vertice della politica nazionale, era testimone delle vergognose macchinazioni dello Stato, e presto lei stessa sarebbe stata trascinata in campagna elettorale. La ragazza ripugnava di diventare un ingranaggio di quel sistema marcio, che anzi sognava di smantellare, ma non aveva mezzi per ribellarsi in modo concreto: anche se la sua posizione le dava grandissimo rilievo pubblico, non avrebbe mai potuto appropriarsi di prove schiaccianti senza farsi scoprire dai genitori. Gli altri vedevano collane di diamanti intorno al suo collo aristocratico, ma in realtà la sua famiglia la teneva al guinzaglio; quel giorno, però, la situazione si ribaltò.
Poco dopo l’inizio del discorso, un uomo sospetto era passato vicino ai loro posti a sedere in piazza, per poi scomparire dietro al sipario. La figura misteriosa aveva perso un paio di fogli, che Leila, senza pensare, raccolse e nascose sotto alla giacca con discrezione. Per caso o per destino, quell’eredità maledetta aveva trovato finalmente una degna erede, in grado di interrompere quella scia di sangue e sacrifici vani.
Il ricevimento per il rinnovo del mandato presidenziale si protrasse per tutta la notte nel Palazzo del Governo, finché Leila si rifugiò nella veranda per leggere i fantomatici documenti alla luce dell’alba; rimase abbagliata quando si rese conto del valore che quelle informazioni avrebbero potuto avere non appena fosse giunta in Parlamento: ecco l’arma di cui aveva bisogno per colpire la tirannia al cuore, dimostrando i suoi crimini in modo innegabile. Sopra a trascrizioni di intercettazioni telefoniche e vere e proprie liste di proscrizione per dissidenti, una citazione era stata incisa a penna dall’autore misterioso:
Nel tempo della menzogna universale, dire la verità è un gesto rivoluzionario
- George Orwell, “1984”
“Prova prova, mi sentite? Bene, buongiorno popolo di Roma! Siete carichi per oggi? Spero proprio di sì. Oggi avremo due combattimenti corpo a corpo e poi ben tre combattimenti contro un leone! Poi, per non farci mancare nulla, - Ammesso che qualcuno dei combattenti riuscisse ad ammazzarlo… - .. Sì, insomma, avremmo anche una tigre! (ma dubito che si verificherà! AHAH!)Bene ragazzi, cominciamo subito con il nostro grande combattente, l’oplamaco Iulis Celius! Contro di lui un povero stolto che ha pensato di poter insultare e tramare contro il nostro AMATO imperator senza subire conseguenze! Lo chiamerò Unus, per non rivelare particolari eccessivi sulla sua identità… Ma bando alle chiacchiere, ecco che Iulis si sta avvicinando spavaldo a Unus, si sta godendo il momento, Unus non sembra avere una bella cera e già barcolla! Ma tranquilli signori, Nooo, il combattimento non è assolutamente stato truccato! Iulius sta alzando la spada, Unus cerca di schivarlo ma.. NON CE LA FA! Unus ha appena perso un braccio, c’è sangue ovunque e ora sta pregando Iulius pietà, ma non sa che i gladiatori non sanno cosa sia la pietà; Iulius alza la spada e lo DECAPITA! C’è sangue ovunque ragazzi! Che spettacolo meraviglioso. Ma non cincischiamo ulteriormente, mica siamo greci noi! Ora vi presento il guerriero ritenuto più forte dei nostri nemici, il “Grande” Magone, se state osservando le due frecce che ha conficcate nei polpacci… Smettete subito di guardarle o vi perderete il combattimento! Iulius sta correndo intorno a Magone che zoppica, sembra un toro imbufalito pronto ad attaccare! E infatti ecco che getta via lo scudo e comincia ad attaccare Magone con il suo possente gladio! Magone schiva i colpi come un dannato! Le frecce non sembrano rallentarlo…che peccato, cioè ehm IULIUS L’HA COLPITO! E ancora! Lo sta prendendo da ogni lato, più veloce della folgore di Giove!Magone è a terra senza vita, ferito così tanto da essere irriconoscibile! Bene ragazzi, ora salutiamo il nostro amato Iulius per far entrare una belva altrettanto feroce: ecco a voi il simbolo della forza, la creatura più bella e letale che abbiate mai visto, affamata e pronta a combattere, ECCO A VOI IL LEONE! Sentite i suoi ruggiti? Eccolo che entra con passo felino. Direttamente dall’altro lato ecco a voi- oh, è già morto… Forse il leone era un po’ troppo affamato? Oh e i miei informatori mi dicono che si è mangiato anche un paio di guardie. Sì, direi che tre giorni senza cibo sono decisamente troppi. MA FA NIENTE RAGAZZI! A NOI I COMBATTENTI NON MANCANO! ECCO IL PROSSIMO SACRIFIC- EHM… COMBATTENTE! Pure lui direttamente da Cartagine, ecco a voi il comandante Reshef! Sarà forse degno del suo nome? saprà combattere un leone con solo un misero gladio e uno scudo in legno? Lo scopriremo presto! Il leone gli gira intorno, Reshef trema di paura, ma miracolosamente riesce a schivare il primo colpo, rimanendo illeso, ma perdendo lo scudo. Reshef si butta a terra e schiva il balzo felino, ora trema ancora di più, (No, aspetta… Mi sa che sono convulsioni, forse il veleno era troppo…) ma SIGNORI E SIGNORI! IL LEONE BALZA ADDOSSO A RESHEF E LO SBRANA! GUARDATE COME LO SCUOTE DA UN LATO ALL’ALTRO TRA I DENTI! COPRITE GLI OCCHI ALLE VOSTRE DAME, LE LORO ANIME DELICATE NON SONO ATTE PER SIMILI SPETTACOLI MERAVIGLIOSI! Bene ragazzi ora facciamo entrare l’ultimo partecipante, anche lui comandante, ecco Annone! Come vedete ragazzi, lui gode di ottima salute! Si avvicina di soppiatto al leone che sta finendo i resti di Reshcoso eee LO COLPISCE RAGAZZI! Non era mai successo che venisse attaccato! E al leone sicuramente non è piaciuto, sentite come ruggisce, ora si prepara alla carica. MA ANNONE LO SCHIVA E IL LEONE FINISCE MUSO CONTRO IL MURO! Oh ma questo combattimento è superlativo! Il leone è ancora più furioso e torna all’attacco! Questa volta Annone non lo schiva totalmente e viene ferito alla spalla, urlante cade a terra, ha capito che la sua fine è vicina, cerca invano di tenere il gladio ma il leone non lo teme e infatti GLI SALTA ADDOSSO E GLI STACCA LA TESTA CON UN MORSO! CHE SPETTACOLO RAGAZZI! Che giornata! Bene anche per oggi abbiamo finito, ricordate che questi combattimenti non sono truccati, noi ci teniamo ai nostri gladiatori! Amate sempre l’imperatore e ci vediamo alla prossima!”
Sono morto (no, non ho un leone in casa, dal ridere)!
Ma ho appena adesso realizzato l’atroce sospetto che forse ce lo cassano…
Sofia Rebagliati
Dopo un weekend andato malissimo - per essere gentili - in Bahrain, finalmente potevo festeggiare la mia pole position in Arabia Saudita. [Continua a leggere su... Sport]
« There once was a town, lively and peaceful, that seemed to be no different from any other of its kind. It was full of big blocks of flats in pastel colors that resembled the renaissance’s architecture in some way. [Continua su... Lingue]
NOTIZIARIO DEL GIORNO: Buongiorno a tutti, sono le otto del mattino ma le notizie a Panitopia non si fermano mai. Come primo aggiornamento vediamo quello sulle indagini alla scuola superiore del Panino, dove ieri pomeriggio un panino che frequentava il quinto anno è stato trovato morto negli spogliatoi maschili, oggi verranno interrogati...
Proprio mentre stavo sentendo il notiziario, mia madre spense, dicendomi di andarmi a cambiare, dato che stavamo per fare tardi per la stazione di polizia. Perché sì, io dovevo essere interrogato per l'omicidio successo alla scuola del Panino… la mia scuola.
«Bene, buongiorno, io sono l'agente Pita e condurrò il tuo interrogatorio, verrà registrato e qualsiasi cosa dirai potrà essere usato contro di te, possiamo iniziare?» annuii incerto, senza poter fare molto altro, di fronte al piglio deciso del poliziotto che avevo davanti «Ottimo, - riprese, senza darmi il tempo di riflettere troppo su ciò che mi stava capitando - nome?»
«Bob Bready»
«Anni?»
«16»
«Da quanto tempo conoscevi la vittima, Jeremy Wrap?»
«Da poco più di tre anni, è stato uno dei primi a parlarmi quando mi sono trasferito in quella scuola»
«Perfetto, inizia pure a raccontare da lì arrivando velocemente alla mattina dell'omicidio»
«Okay, allora…»
Quando ci siamo conosciuti io ero al primo anno e Jeremy al terzo, spesso lo vedevo giocare con la squadra di toastball, mi ero trasferito da poco ma avevo capito che lui fosse quello con i condimenti più costosi e il panino più apprezzato a scuola, pensai subito fosse uno di quelli che si vantava di continuo.
Dopo qualche settimana dall’inizio della scuola mi trovai a guardare le prove della squadra, perché pensavo che sarebbe stato bello farmi degli amici. Mentre ero assorto nei miei pensieri sugli spalti, Jeremy era venuto da me a chiedermi se volessi provare a fare due tiri di polpette… Magari sarei potuto persino entrare in squadra, senza chiedere agli altri o al coach. Feci qualche tiro e, avendoci giocato anche nella scuola precedente, entrai nella prima colaz-squadra dopo un’ottima performance. Iniziai a fare amicizie all’interno della scuola e il nostro rapporto divenne sempre migliore- Iniziammo a uscire spesso insieme io, Jeremy e Tiffany Crust, la sua fidanzata.
«Il tuo rapporto con Tiffany com’era? Assoluta sincerità» Mi interruppe l’agente Pita e io continuai.
Dal primo momento in cui l’ho vista mi sono innamorato di lei, ma Jeremy lo sapeva ed era sicuro che non avrei mai provato a rubargliela, a volte ci scherzava anche su. Gli ho spesso detto che se lo metteva a disagio avrei smesso di uscire con loro, ma lui mi aveva sempre risposto che non ci sarebbero stati problemi.
Comunque passarono tre anni così, noi eravamo sempre un trio unito e nessuno si è mai aggiunto o andato.
«Bene, ora possiamo passare al giorno dell’omicidio, racconta la giornata di ieri provando anche a ricordarti dettagli che ti sembrano inutili» chiese l’agente.
Come ogni giorno mi sono svegliato, ho indossato la maglia in semi di girasole e i pantaloni in alluminio, ho fatto colazione con il solito cheddar e lattuga e sono andato a scuola a piedi. La giornata di lezioni è passata normalmente, la pausa pranzo, come sempre, in compagnia di Jeremy e Tiffany.
Dopo le ultime ore ci sono state le prove di toastball, circa alle 14:00.
Finiti gli allenamenti, poco dopo le 16:35, sono andati tutti a cambiarsi mentre io ero con il coach a parlare di una possibile borsa di studio. Poi mi ha accompagnato nello spogliatoio e abbiamo trovato il pane di Jeremy senza condimenti e con tutto il ketchup per terra, io sono rimasto immobile mentre il coach chiamava la polizia gastronomica e il pronto condimento.
«Bene, non c’era nessuno né negli spogliatoi né con te e il coach?»
«No»
«Conosci qualcuno che avrebbe potuto far del male a Jeremy?»
«Non che io sappia»
«Bene, l’interrogatorio può finire qua, grazie per il tuo tempo, in caso ti venisse in mente qualcosa, chiamami pure»
«Grazie a lei, vi prego, portate giustizia a Jeremy».
Io e mia madre uscimmo dalla stazione e le chiesi di portarmi da Tiffany, dicendole che avrebbe avuto bisogno di un po’ di supporto morale.
Mi portò a casa sua e mi disse di darle un abbraccio da parte sua.
Bussai alla sua porta e lei mi aprì-
Entrammo e mi disse che era sola in casa (mentre cercavo disperatamente di capire se la frase che aveva appena pronunciato lasciasse intendere qualcos’altro, il mio cervello rimase - come al solito, quando la fissavo negli occhi per più di tre secondi - paralizzato dal suo sguardo… Accidenti, era bellissima come sempre), mi chiese come fosse andato l’interrogatorio e se avessero scoperto qualcosa, le dissi di no, che ciò che avevo detto non era niente di rilevante per le indagini.
«Sei stato bravissimo, amore mio, finalmente non dovremo più nascondere il nostro amore, potremo dire che siamo stati molto vicini nel lutto e abbiamo capito che siamo perfetti l’uno per l’altra» mi disse
«Cavoli e carciofi, Tif, hai organizzato tutto perfettamente, sei un genio… il mio genio»
Ci baciammo e finalmente potevamo lasciarci i cinque mesi di tradimenti alle spalle, sicuri che nessuno avrebbe mai scoperto chi ci fosse veramente dietro all’omicidio di Jeremy.
D’altronde, chi mai potrebbe dubitare di qualcuno che si chiama Tiffany? O Bob?
Alice Scuri
“Stavo pensando: se avessi sbagliato tutto? Forse sono ancora in tempo per lasciare l’università e seguire le orme di mia nonna”
“Non è meglio studiare e fare un lavoro vero?”
“Per mantenere i miei studi devo fare due lavori e questa vita mi sta esaurendo”
“Già”
“Già? Non hai altro da dirmi?”
“Si, che vorrei che mi versassi il mio whisky. Sono qui per questo, non per fare da psicologo a sconosciute”
“Giusto” dissi, prima di versare l’alcol nel suo bicchiere e correre in cucina.
“Perché sei di corsa?” mi chiese John.
“Perché ho dieci minuti per prendere il pullman e poi andare all’università per le lezioni, e appena finisco ho il turno al cinema.”
“Beh, se può esserti d’aiuto, se continui a chiedere sedute di psicologia ai clienti il capo ti licenzierà” mi disse ridendo, e passandomi infine la giacca.
“A domani, Cowgirl”.
Risi mentre mi allontanavo. “Molto divertente. A domani.”
Detto ciò corsi fuori dalla locanda dritta nell’aria attraversata dai gas di scarico di New York. Non che sentissi la mancanza di casa, del resto New York mi dava un senso di libertà e di voglia di fare, ma purtroppo le proprie aspirazioni dovevano essere condivise e sgomitare con quelle di altri, perché di giovani all’inseguimento dei propri sogni la città ne era piena. Salii sul pullman e mi misi a rileggere gli appunti delle lezioni che avrei avuto. Un tempo amavo ascoltare la musica in viaggio, ma ora non riuscivo a fare altro senza avere voglia di abbandonare tutto e fare come mia nonna. Mi ripetevo che l’unico motivo era legato alla difficoltà degli studi, che col passare del tempo si facevano sempre più complessi, ma che dovevo resistere. Le lezioni infatti si rivelarono molto difficili da seguire e capire e il solo pensiero di dovermi poi catapultare al cinema per lavoro non faceva altro che fiaccarmi fino a sfinirmi. Ma almeno oggi avrei avuto il turno al cinema insieme alla mia amica Abigail, una delle mie poche, anzi pochissime amiche. Il turno trascorse velocemente, con lei accanto era tutto più facile, e di tanto in tanto rubammo anche qualche popcorn per riempirci un po’ lo stomaco.
“Facciamo che tu pulisci la sala 4, io la 7 e poi ci rubiamo una scatola di pop corn e m&m’s e andiamo a guardare un film a casa mia?” mi propose lei mentre sistemava le sue cose.
“Affare fatto, ma prendiamo anche delle patatine.” Detto questo, afferrai il mio carrello delle pulizie e mi diressi in sala 4, dove ancora scorrevano i titoli di coda di un documentario su una cantante. Nulla di nuovo, film di questo genere al giorno d’oggi vanno a ruba. Dopo aver pulito gli ultimi sedili, quelli più in alto, mi sono tirata su e mi sono fermata. Al centro dello schermo illuminato compariva solo il nome della cantante, con una sua melodia come sottofondo. Ed è lì che ho avuto come un’epifania. Non ho resistito, sono dovuta uscire a fare una telefonata, la telefonata.
“Cosa fai già fuori? Dammi una mano a portare tutto ‘sto cibo” disse un’arrancante Abigail, che andai presto a soccorrere.
“Niente, stavo solo chiamando per dire che domani non faccio il turno al bar.”
“Perchè?” mi chiese mentre accendeva la macchina.
“Perchè dubito che stanotte finiremo presto.” E questa era solo parte della verità, ma non potevo dirle il vero motivo o sarebbe saltata in giro dalla gioia dicendo cose del tipo “finalmente mi hai ascoltato!”, e non volevo alimentare false speranze.
Per fortuna, quella sera feci tardi a casa da Abigail, perché se non fossi stata tanto stanca probabilmente non sarei riuscita a chiudere occhio. Ma comunque, l’indomani, l’ansia si faceva sentire a fitte per tutto il viaggio in macchina, e quando superai il grande ingresso dell’edificio feci per aprire la piccola porta che dava sulla stanza dei provini, la porta che avrebbe potuto determinare il mio destino, mi sembrò di essere sul punto di vomitare, di crollare. Ma mi sforzai di arrivare al centro del palco, ferma, salda.
“Presentati” mi disse la voce sconosciuta.
“Io sono Taylor Swift, e questa è This is me trying”.
Sofia Rebagliati
Era una mattina soleggiata di fine luglio, faceva caldo ma non troppo, ero in auto, avevo la radio accesa con la mia canzone preferita e stavo per incontrare la mia migliore amica. Tutto perfetto, no? Decisamente no, perché poco più avanti, in autostrada, due fessi avevano deciso di tamponarsi e bloccare tutti coloro che si trovavano dietro. Oh, quanto amo viaggiare nelle autostrade italiane.
Le ore passarono e finalmente si sbloccò la strada, dopo altri 300 km, si fece tardo pomeriggio e arrivai all’hotel dove avrei alloggiato, cercai un parcheggio davanti alla piccola entrata e presi la mia valigia. Notai che c’era un cancello in metallo con un’insegna appena visibile sopra e nessun’altra indicazione ma riuscii a trovare la strada per la reception. Feci il check-in, al banco si trovava un ragazzo con i capelli castani lunghi tenuti in una coda, degli occhiali di metallo e un accenno di barba, avrà avuto sulla ventina d’anni; mi indicò la strada verso la camera 134, poi tornò a servire gli altri clienti.
Dopo essermi cambiata e fatta una doccia uscii e andai dalla mia amica; erano anni che non ci vedevamo, quindi rimasi da lei per cena, le raccontai del receptionist che avevo incontrato e le chiesi se lei l’avesse mai visto ma, abitando in una grande città, a quanto pare non si erano mai incrociati.
Tornai all’hotel molto tardi, quando non c’era più nessuno alla reception. Dopo essermi fatta una doccia di un’ora mi misi a dormire ma, nonostante la comodità del letto, i vicini di stanza rumorosi mi tennero sveglia per altre tre ore.
Risultato? La mattina successiva sembravo uno zombie. Mi alzai per fare colazione al bar vicino alla reception. Del ragazzo del giorno prima non c’era traccia, sostituito da una ragazza bionda. Lì per lì non ci feci molto caso, bevvi una quantità enorme di caffè per svegliarmi e poi uscii. Rimasi con la mia amica fino a tardo pomeriggio, ci saremmo viste poi la sera, dopo esserci riposate, per uscire nuovamente a cena.
Quando tornai in hotel per prepararmi, vidi il receptionist seduto al banco, lui mi sorrise e mi salutò. Colsi l’occasione, approfittando di una scusa per chiedergli se conoscesse un buon posto per mangiare lì vicino; per tutta risposta, lui mi consigliò due ristoranti nei paraggi e, in caso fossi andata lì, disse di dire che mi mandava “Dario dell’Hotel Guicciardini”. Grazie a questo indizio avevo intuito che Dario dovesse effettivamente essere il suo nome. Una cosa tirò l’altra e iniziammo a parlare di come fosse difficile trovare un buon posto per mangiare in quella zona e di come il pane e la focaccia non fossero per niente buoni, mi disse quindi che venendo da Genova, una delle mie città preferite, aveva degli standard molto alti per i prodotti di panetteria; parlammo fino a che io non mi dovetti andare a preparare, dato che mancava mezz’ora alla cena.
Tornai in camera e - molto velocemente - mi lavai e cambiai, prima di dirigermi verso l’uscita. Dario mi salutò e andai a mangiare con la mia amica.
Questa volta tornai abbastanza presto, dovendo fare il giorno dopo molta strada in macchina, e, dopo essermi cambiata e tolta i tacchi (che ho sempre odiato), mi misi comoda e mi sedetti sul letto cercando ispirazione per una nuova storia da scrivere,
Già. In caso non l’avessi detto prima, sono una studentessa di lettere all’università e ci era stato assegnato il compito di scrivere una storia semi-realistica con sfumature horror… Genere su cui mi sono sempre sentita negata. Passò un’ora e non mi veniva in mente nulla, sia per mancanza di ispirazione che per mancanza di silenzio in cui inventare, visti i vicini di camera, se possibile ancora più rumorosi del giorno precedente.
Decisi di alzarmi e mettermi nel bar della reception a scrivere (almeno lì non c’erano persone che tiravano pugni ai muri o urlavano). Quando passai, c’era ancora Dario, che mi sorrise. Dovevo ammetterlo, quel suo piccolo gesto di cortesia aveva su di me un qualche strano potere rasserenante. Anche qui, però, passò un’ora e ancora non riuscivo a pensare a un tema per la mia storia. A quel punto, Dario mi si avvicinò e mi chiese se volessi qualcosa da bere. Di fronte alla sua premura, cedetti e gli chiesi un caffè lungo; dopo qualche minuto, però tornò dal bar lì vicino e mi porse una cioccolata. Prima che potessi ribattere qualsiasi cosa, mi disse che il caffè mi avrebbe fatto male a quell’ora e che neanche era buono; in più, mi assicurò che la cioccolata fosse meglio e quando gli chiesi quanto dovessi pagare disse che era offerta dalla casa.
Speravo, ringraziandolo, di iniziare una placida conversazione con lui… Purtroppo, però, la sua attenzione fu riportata al lavoro da una coppia straniera appena arrivata a fare il check-in, per cui si scusò e servì la coppia, lasciandomi sola con i miei pensieri. Per una buona mezz’ora aiutò la coppia e due ragazzini che erano arrivati da una camera dell’hotel chiedendo un coltello, poi si mise al computer, ci lanciammo qualche sguardo ogni tanto e quando vide che avevo finito la cioccolata si alzò silenziosamente a portare via la tazza vuota. Finalmente il momento di una sana chiacchierata era arrivato: tornammo a parlare, mi chiese cosa stessi facendo e cosa studiassi. Scoprii che entrambi eravamo studenti di lettere, anche se in città diverse e di come lui avesse due anni in più di me, avendone lui 22 e io 20. Passammo due ore a parlare, con qualche breve pausa quando lui doveva aiutare dei clienti. Era un ottimo conversatore, senza contare che scoprimmo di avere molte cose in comune. Quando alla fine decisi di andare a dormire perché tanto non sarei riuscita a scrivere la storia alle due di notte, lui mi diede un biglietto e mi disse di aprirlo quando sarei arrivata in camera. Sarei dovuta sentirmi frustrata, o sconfitta per non essere riuscita a mettere in fila nemmeno due righe, eppure ero stranamente serena… Che fosse una magia di Dario? Dal canto suo, anche lui se ne andò dicendo che il suo turno era finito in realtà da due ore ed era rimasto lì solo per parlare con me, ringraziandomi per la bella serata passata insieme.
Arrivai in camera e aprii il biglietto, ci trovai scritto il suo nome e il numero di telefono e un “chiamami presto” sul retro, sorrisi tra me e me e lo misi nella cover del telefono, andai a dormire contenta, nonostante con i rumori dei vicini.
La mattina successiva mi svegliai, uscii così presto che in reception non c’era nessuno e feci colazione con la mia amica, poi mi misi in macchina e tornai a casa, arrivai di pomeriggio e subito chiamai il numero sul bigliettino, ma quello che sentii fu deludente e inaspettato: “Il numero chiamato è inesistente”, lo richiamai una decina di volte, stesso messaggio. Che mi avesse fatto uno scherzo di pessimo gusto? E io che…
Decisi quindi di cercarlo su qualche social ma non sapendo il cognome mi uscivano troppe persone e nessuna era effettivamente lui.
Il colpo di grazia finale sulle mie aspettative (sì, sembrava che fossi tornata alle superiori, visto che potevo descrivere quello che provavo solo con la definizione di ‘cottarella semiadolescenziale’) che fu quello di chiamare l’hotel dove avevo alloggiato, all’inizio una voce di una ragazza disse che non poteva esporre informazioni personali dello staff a dei clienti e poi disse qualcosa che mi scioccò: “Però posso dirti che noi non abbiamo mai avuto un dipendente con quel nome, è sicura di aver sentito bene o che non fosse un cliente?” e io risposi che sì, avevo sentito bene ed era anche segnato sul bigliettino che mi aveva dato e che ero sicura che fosse un dipendente perché l’avevo visto lavorare dietro il bancone.
Lo cercai ma non riuscii a trovarlo da nessuna parte, era come fosse stato cancellato dalla faccia della terra! Richiamai l’hotel e chiesi ancora, mi rispose una signora con una voce che sembrava più anziana e mi disse che ieri a quell’ora non c’era nessuno, visto che la ragazza che doveva fare il turno aveva avuto un imprevisto. Allora decisero di guardare le telecamere per vedere se fosse entrato qualcuno nell’hotel illegalmente, ma non si vedeva nessuno nell’arco della serata seduto al bancone o nell’atrio della reception, se non io al bar e qualche cliente che passava, ma senza mai fermarsi.
Iniziai a pensare che mi fossi sognata tutto, che magari la stanchezza avesse preso il sopravvento ma poi ripensai al biglietto, lo ripresi in mano e lo rilessi ancora. Chi è questo Dario?
Alice Scuri
PEREZ
Ingegnere di gara: preparati perchè alla prima occasione devi superarlo, non puoi perderlo di vista un secondo.
Perez: se mi lasciaste guidare come voglio, lo avrei già eliminato come un birillo. Lo sai che sono il re del bowling?
Ingegnere di gara: Sì sì, certo caro, MA ORA SUPERALO, CHE CHARLES STA PRENDENDO LA CURVA LARGA O GIURO CHE TI LICENZIO.
Perez: Chale, vado subito.
*Perez supera Charles a cinque giri dalla fine e arriva in seconda posizione, subito dietro a (ovviamente) Max Verstappen*
Ingegnere: bene, stasera, se ti comporti bene, forse, ti lasciamo cenare al tavolo con Verstappen.
Perez: ahahah, molto simpatico, non mi fate neanche bere le sue stesse Red Bull, a me date solo Estathé. Ma comunque non mi farò superare da quel chamaco.
Ingegnere: se arrivi secondo ti darò personalmente una Red Bull, magari una di quelle tutte ammaccate che non possono essere vendute. Ora fa attenzione, manca solo un giro e Charles è pericolosamente vicino.
Perez: se voi mi aveste installato quei missili come avevo richiesto, ora il problema non si porrebbe. Ma voi no, “Perez non puoi far saltare in aria gli avversari per vincere”, oppure “Perez le macchine da corsa vanno così veloci che rischieresti di saltare in aria da solo con dei missili”. Perez qui, Perez là, costantemente.
Ingegnere di gara: Perez-
Perez: ESATTAMENTE! Sai ogni tanto vorrei che mi trattaste meglio, sentirmi accettato e voluto come volete bene a Max, lo so che lui è più bravo di me, ma forse se mi faceste apprezzamenti come a lui mi verrebbe più facile migliorare, no? Anche il mio terapeuta la pensa uguale. Forse dovresti venire per qualche seduta, ne ho una domani alle 13, le va?
Ingegnere: PEREZ, CHARLES TI STA SUPERANDO, MANCANO CENTO METRI ALL’ARRIVO, SE VA BENE. SE TI FAI SUPERARE GIURO CHE TI TIRO IO UN MISSILE.
Perez: PINCHE CHAMAGO NACO-
*Per quanto Perez cerchi di andare più veloce, a furia di insulti viene superato da Leclerc, arrivando terzo*
Perez: quindi per domani…
Ingegnere di gara: Sta’ zitto.
Perez: Ok, scusa.
CHARLES
Ingegnere di gara: Perez ti sta per raggiungere, ripeto, Perez ti sta per raggiungere.
Charles: XAVI, BASTA PARLARMI DURANTE LE CURVE, MI FARAI ANDARE A SBATTERE.
Ingegnere di gara: Ok, tutto chiaro.
*Due curve dopo*
Ingegnere di gara: Perez a 1.10 secondi di distanza.
Charles: MON DIEU XAVI, TI HO DETTO DI NON PARLARMI DURANTE LE CURVE.
Ingegnere di gara: Scusa scusa, non lo faccio più.
Charles: Sarà meglio, sennò è la volta buona che ti licenzio sul serio.
Ingegnere di gara: Nah, non lo faresti, se non mi hai licenziato dopo Monaco 2022 non credo lo farai mai.
Charles: Non darmi questi flashback durante la gara…
*Flashback*
Era il Gran Premio di Monaco e avevo fatto la pole position, dovevo entrare a cambiare le gomme, ma al box non mi chiamavano, aspettai ancora un po’ e la chiamata arrivò.
Ingegnere di gara: Box, box, pit-stop pronto, entra ai box
Ingegnere di gara due secondi dopo: NO, NO, STAI FUORI, STAI FUORI.
Io: -parolacce varie in francese, inglese e italiano-
*Fine del flashback*
*Charles quasi perde il controllo della vettura e Perez si avvicina*.
Ingegnere di gara: Perez ti sta raggiungendo, è a meno di un secondo e ha DRS.
Charles: È COLPA TUA, MINCE, QUASI PERDO LA MACCHINA.
Ingegnere di gara: CONCENTRATI.
Charles: SE SMETTESSI DI PARLARMI DURANTE LE CURVE, MAGARI.
*A cinque giri dalla fine*
Ingegnere di gara: Perez è a cinque decimi con DRS.
*Charles va lungo in una curva e Perez lo supera*
Charles: XAVI, PUTAIN, T’AS RIEN DANS LA CRÂNE.
Ingegnere di gara: Charles, italiano.
Charles: COSA NON CAPISCI DI “NON PARLARMI NELLE CURVE”?, IO LA CHIUDO LA RADIO ADESSO.
*Charles non parla con il suo ingegnere di gara fino all’ultimo giro*
Charles: Sbaglio o Perez sta iniziando a frenare prima nelle curve?
Ingegnere di gara: Sì, si è lamentato di non riuscire a tenere bene la macchina un giro e mezzo fa, colpa della gomma posteriore sinistra.
Charles: E NON HAI PENSATO DI DIRMELO? AVREI POTUTO ATTACCARE PRIMA.
Ingegnere di gara: MA TU- Ma tu mi hai detto di non parlarti…
Charles: XAVI, NELLE CURVE, NON MI DEVI PARLARE NELLE CURVE.
Ingegnere di gara: Ah, ok, tutto chiaro.
Charles: Ora proverò ad attaccare nelle ultime curve e farò traiettorie più interne per avvicinarmi…
*Charles si fa da stratega da solo e all’ultimo giro riesce a superare Perez, arrivando secondo*
Charles: YEESS, YES YES YES, finalmente tornato al secondo posto.
Ingegnere di gara: bravo, ora posso parlarti anche nelle curve?
Charles: No, tu non mi devi proprio parlare, io ti licenzio.
Ingegnere di gara: Stai scherzando, vero?
Charles:…
Ingegnere di gara: VERO?
Alice Scuri e Sofia Rebagliati
E se il Somnium Scipionis di Cicerone avesse come protagonisti… degli scoiattoli?
“Mehercule!
Che gran mangiata!
Quei burritos… e quelle fajitas piccanti… Per non nominare i nachos con queso caliente!
Quella locanda di recente apertura a nord della Via Appia… spettacolo!
Confesso, tuttavia, di sentirmi non poco sazio; e ciò mi provoca forte bisogno di riposo, inoltre vista la tarda ora, essendo passato di non poco il vespero… ---”
Io, B-L’Emiliano, dopo una ben meritata serata di svago,caddi così in un profondo sonno… Giustificato, vista la mia travagliatissima vita politica.
E se questo, amici miei, vi provoca diletto, dovete assolutamente proseguire l’ascolto del mio bizzarro racconto.
“Oh! Che mirabile panorama! È questo forse quell’etereo loco di cui si vocifera?
Questi argentei, immobili astri, queste perfette entità… Non ho dubbi: Mi trovo sicuramente nella sfera delle stelle fisse!”
Rimembro ancora quella magnifica visione, e con essa la sensazione di stupore e meraviglia che provai.
Ma ancora non immaginavo minimamente cosa avesse in serbo quest’insolito sogno per me, e per voi uditori.
“Nepos mei!” Udii, “Presta me attenzione anziché mirare il cosmo perso nel tuo pensare come uno stultus!”
Non potei fare a meno che riconoscere in via immediata l’inconfondibile voce del mio avo.
Esatto, miei ascoltatori, proprio colui che vinse decenni a dietro la prima guerra contro l’antica Carthago:
B-L’Africano, di cui sono discendente per adozione.
Egli, quasi dimenticavo, non andava solo: Con lui erano anche il mio fidato amico B-Lelio e l’illustre Pontefice.
Ad ogni modo L’Africano, dopo avermi fatto sobbalzare con la sua possente voce, proseguì:
“Ma non te ne rendi forse conto? Non ti rendi conto della tua ottusezza? Non sei stato certo cresciuto così, come uno sciocco! Non vedi la trappola in cui tu solo ti sei messo?
Che tempi, Che costumi! Questi giovani sempre pronti a cascare come polli in queste stupidaggini!
Ai miei giorni non sarebbe sicuramente capitato a un illustre figura come…”
E così continuò, e non per poco: per quel che mi sembrò passò svariato tempo così, predicando.
E nemmeno ne nominò la motivazione!
Come altro avrei potuto reagire, io, se non standomene a tacere, cercando in mente mia una possibile spiegazione a questo atteggiamento di scontro?
Non un saluto, non un abbraccio… Solo aspre, anzi amarissime parole!
E allora iniziai a pensare, pensare, pensare ancora…
Cosa avrei mai potuto fare per meritare questo?
“Forse quella volta, quando da piccolo nascosi sotto il suo letto una tavoletta con scritto “stultus qui legit”? Ma no, che c’entra con la mia stupidità, il mio “cadere nelle trappole”?… inoltre al massimo, leggendo, nella trappola ci si era messo lui.
Potrebbe mai essere, allora, quando da ragazzino andai in giro a fare scommesse su chi, in uno scontro 1v1 senza esercito, avrebbe vinto tra lui e Annibale?
Ma no, e poi li più che stolto, vista la quantità di ghiande che riscossi, mi dimostrai semmai astuto…”
“Cosa potrebbe mai essere allora… Forse… Ma certo! Ci sono! Adesso ho capito!” Pensai, dopo aver riflettuto a lungo sulle mie azioni.
A questo punto raccolsi il mio coraggio, e decisi di proferire parola in risposta alla sua incessante predica:
“E va bene; Se ciò che desideri sono delle scuse per il mio sciocco comportamento, allora eccole a te:
Ho capito a cosa ti riferisci con tanta ostinatezza, e per ciò desidero scusarmi, siccome me ne vergogno…
Quella volta in cui mi feci cogliere come uno sprovveduto, cascando in quella truffa da quattro pinoli, credendo veramente che se avessi lasciato incustodita la mia pigna in periferia ne avrei trovate due al mio ritorno… ma nonno devi capirmi! Ero solo un ragazzino! Non immaginavo che dietro le parole di mia madre “Va che se la lasci li senza guardarla poi al ritorno ne ritrovi due eh” ci fosse dell’ironia! Come potevo saperlo?”
Ne seguì un momento di silenzio, spezzato da un suo improvviso e inatteso “Eh?”
Non capii; ero spiazzato: Cos’era quell’ “eh”?, Cosa avevo sbagliato di nuovo? Panico, confusione.
Ma, amici miei, se trovai questo spiazzante, non immaginerete come reagii alla spiegazione del dubbioso monosillabo.
“Ma che vai dicendo! Che sciocchezza, io nemmeno ero a conoscenza di ciò di cui parli.
Io ti accuso di avere una mente ottusa per il fatto che credi a tutto questo, a questa farsa del sogno, dell’antica Roma, di te, di me…
Ma insomma, non ti accorgi che nulla di tutto questo è reale?
Come puoi pensare che, nella Roma antica, potesse esistere un locale tex-mex che vende nachos, burritos o qualunque altra cosa del genere?
Non ti rendi conto che non solo questo è un sogno, ma che anche la mangiata stessa lo è stato? Che i tuoi amici a cui ora racconti di tutto questo sogno lo sono? Che io, la volta celeste, gli astri e tutto il resto non siamo altro che un costrutto che tu stesso hai creato?
Vedi a studiare latino in tarda serata? Vedi a non chiudere i libri prima di crollarci con la faccia in mezzo?
Dammi retta ora: svegliati B-Lue, da questo bizzarro sogno, chiudi quel dannato libro e vai a dormire, per l’amor del cielo!”
--Ebbene si, cari lettori, nulla di questo è reale né lo è mai stato:
Nessun B-L’emiliano, nessun B-L’Africano, nessuna fajita (purtroppo)
Solo uno scoiattolo che, stanco e ridottosi a studiare il De Republica di Cicerone in tarda serata, è crollato come una ghianda assopita con il muso sul libro aperto.
… O forse, nemmeno questo.
Arianna Lombardi e Serena Tangari
Mi svegliai di soprassalto da un incubo terribile, un mondo dove le persone indossavano orribili vestiti e non seguivano il mos maiorum, non sapendo che quello era solo il segnale di tutto ciò che sarebbe accaduto. Mi alzai dal letto e subito notai che in me c’era qualcosa di sbagliato, il mio corpo sembrava decisamente troppo femminile e i miei vestiti erano da scostumata…eppure ero sicuro di aver dormito con la mia solita veste di seta pregiata! Ovviamente andai a specchiarmi e ciò che vidi fu peggio della morte della mia adorata figlia Tullia, fu peggio dell’esilio, peggio anche dell’atticismo, ero diventato la peggiore delle poco di buono, ero Clodia.
Dovetti scacciare di casa tutti i miei servi,perché non potevo permettermi di farmi vedere in queste condizioni e uscire di casa fu ancora più traumatico perché, se qualcuno avesse visto Clodia uscire da casa mia, sarebbe stata la mia rovina, ma dovevo rischiare, dovevo sperare di essere solo un duplicato di quella meretrix e che lei non fosse diventata me, o neanche tutte le acque dei fiumi degli inferi sarebbero state in grado di levarmi una simile vergogna dall’animo. Probabilmente arrivai nel momento in cui si svegliava, perché dal mio nascondiglio nei cespugli fuori casa sua riuscii a sentire il suo terribile urlo e subito dopo un esercito di servitori uscire di corsa da casa.
Appena se ne furono andati entrai tranquillamente nell’abitazione,tecnicamente quella doveva essere casa mia,no? Beh,Clodia evidentemente non doveva pensarla così, perché come mi vide iniziò a lanciarmi tutto ciò che le veniva sotto mano, anche vasi antichi e libri (ma dopo tutto da una come lei non potevo di certo aspettarmi qualcosa come il rispetto per la cultura), mentre urlava solite cose da donna a onore del vero cercai di provare ad ascoltare ciò che diceva, ma ero troppo preso dalla magnificenza del mio aspetto,la leggiadria con cui il mio corpo lanciava oggetti e La Sapienza che emanava. Dovevo cambiare corpo prima che me lo rovinasse per sempre, quindi aspettai che si calmasse ( o meglio,che finisse gli oggetti da lanciarmi) e avvicinandomi piano le dissi
“Allora, ora tu mi dai la pozione per invertire questo magheggio e poi me ne vado… se fai la brava, non lo dirò a nessuno” Era palesemente un bluff:l’avrei fatta condannare o cose simili.
“Perché mi parli come se fossi un bambino?”
“Beh sei una donna e non sei neanche particolarmente interessante, visto che l’unica cosa che sai fare è scoprirti, zocc- ahem.”
“ vuoi che ricominci a tirarti oggetti? Anzi, forse dovrei uscire da questa casa,chissà cosa penserà la gente a vedere il sommo Cicerone, re della retorica, uscire da casa di una donna che anche per colpa tua, vorrei ricordartelo, ha la fama di meretrix?”
“Provaci e vedrai quanto sono forti i legami che ho creato in politica”
“Ma se vi pugnalereste tutti alle spalle su!Comunque non sono io ad aver fatto sta cosa qui”
“‘Sta cosa qui’non si può sentire, dai. Parla in modo migliore o sarà una tortura per le mie raffinate orecchie (che in questo momento sarebbero le tue ma vabbeh, dettagli)”
“Giuro che alla prossima frase che dici esco da questa porta con l’uscita più plateale che esista, idiota saccente e presuntuoso”. Bene, questa frase accese un piccolissimo battibecco, fermato da un servo che di soppiatto cercava di uscire di casa (servo molto stupido, visto che noi eravamo vicino alla porta, ma fa niente). Ovviamente essendo io nel corpo di quella donnaccia, mi toccava parlare
“Servo, prova a rivelare la sua presenza e giuro che-“ non serví finire la frase perché Clodia gli tirò un vaso di metallo in testa,tramortendolo.
“CHE HAI FATTO! GLI STAVO PARLANDO,NON AVREBBE DETTO NULLA!”
“Se dici a uno schiavo di non dire qualcosa,venderà l’informazione al migliore offerente. Così posso mentirgli e dirgli che ha sbattuto la testa e non sa di cosa parla”.
“Non ci credo che hai appena macchiato il mio delicato corpo di un crimine simile, O TEMPORA O MORES, come puoi fare una cosa con così tanta leggerezza?”
“La smetti di blaterare a vanvera? Andiamo al tempio della pitia, così finalmente capiamo come risolvere sta roba”
“Per la cronaca… Non voglio essere visto con te”
“Ah, e secondo te io si? Mio fratello ti odia, se lo scopre sono una donna morta”
“ beh questo non sarebbe male”. Non so da dove la tirò fuori, ma mi tirò una forchetta nello stomaco (ma quante tasche hanno i miei vestiti? Non ci avevo mai fatto caso). Forse, però, me l’ero meritata un pochino.
“Ahia! Maledetta sgual - Cooomunque. on possiamo tenerla come seconda possibilità? Ci sarà qualcos’altro da fare no?”
“Mmmmh… Forse ho un’idea: un po’ di tempo fa ho letto in un libro in cui era successa una cosa simile, per risolvere bisognava tipo fare dei complimenti all’altra persona e poi chiudevano gli occhi e boom”
“A parte che non mi è chiarissimo quel ‘boom’. Più in generale, non mi fido di quelle schifezze che chiami libri”
“Bene allora passiamo al piano beta” disse, dirigendosi verso la porta con noncurante eleganza.
“No, aspetta, FERMAAAA! Ok, ok, proviamo”. Feci un respiro profondo e poi dissi, a malincuore:
“Per quanto non approvi la tua filosofia di vita, sei una bella donna e sai manipolare le persone quasi come Catilina”. Mi sarei dovuto lavare la bocca con la candeggina, ma vabbeh. Clodia fece a sua volta un respiro profondo (ma come, non sapeva riconoscere le mie EVIDENTI qualità?):
“Per quanto a volte tu sia troppo testardo e abbia problemi a vedere l’oggettività delle situazioni, sei un bravo oratore e hai fede assoluta in quello che fai e io lo rispetto” detto questo chiuse gli occhi e io feci lo stesso. Nessun cambiamento. Aprii gli occhi quando iniziai a sentire dei rumori.
“Che fai?”
“Vado dall’oracolo. Con o senza di te,stasera ho un appuntamento con Catullo e non posso permettermi di non essere me stessa”
“Va bene, andiamo”.
Per fortuna la pitia abitava in una zona isolata e fu più facile non farsi notare, anche se fuori c’erano trenta gradi e noi giravamo come dei malavitosi con le tuniche alzate per non farci vedere.
Poco male, riuscimmo ad arrivare al tempio e dopo aver fatto un’offerta, a parlare con la pitia.
“Cosa volete?” Disse la donna-oracolo con una voce cavernosa. Clodia si inginocchiò ed espose la nostra situazione, allora mi inginocchiai anch’io e le chiesi:
“Cosa possiamo fare per risolvere la situazione?”
La Pitia inclinò leggermente la testa e chiuse gli occhi. Sentivo che stava per dire qualcosa di assolutamente profondo e solenne. Dopo un attimo di rispettoso silenzio da parte nostra, l’oracolo finalmente disse: “E io che ne so?”. Beh, questa non era certo una risposta da oracolo. A quel punto Clodia scattò in piedi come una vipera, quasi urlando:“E questo osa significa?”
“Beh, queste sono cose da sbatterci la testa, io non so darvi la risposta, la risposta è nella risposta stessa e la risposta l’avete.”
“Sembra una tua orazione, Cicero”
“Molto simpatica…uindi non può dirci nulla pitia?”
“Beh, posso dire che Catullo scriverà della sua Lesbia e l’inganno di essa sarà anche la sua condanna all’infamia, mentre a lui resterà in eterno”
“Si certo,vabbeh ‘sta qui è inutile andiamocene” disse Clodia, col suo solito fare da burina, prima di prendermi per un braccio e trascinarmi fuori dal tempio.
“Hai un piano gamma, Clodia?”
“No…aspetta, lei ha detto che sono cose da sbatterci la testa”
“Si e quindi?”
“Quindi così sia”
“No, un momento Clodia, non mi sembra una buona i-“. Mi piacerebbe raccontarvi che nonostante in un corpo femminile, io sia riuscito a bloccarla e a impedirglielo, ma non è così. Cosa ancor più sorprendente, il suo metodo funzionò davvero… Ma voi non diteglielo, sia mai che si monti la testa.
Sofia Rebagliati
pubblicato nella raccolta “Radici” di Cremonabooks come racconto selezionato dal concorso letterario della città di Cremona 2023
Leonardo scese dall’auto e si ritrovò improvvisamente a Paneveggio: durante l’intero viaggio da Milano, gli auricolari lo avevano isolato dalle voci dei genitori. Senza che lui sollevasse gli occhi dal telefono, le risaie lombarde erano sfumate nei terrazzamenti delle colline; queste poi erano cresciute fino ad innalzarsi nelle maestose Dolomiti, che si aprivano come anfiteatri rosati sullo spettacolo delle valli trentine.
Il ragazzo era piuttosto irritato di dover sprecare il fine settimana in quella minuscola frazione di Predazzo, apparentemente dimenticata dal mondo e dal suo cuore; era necessaria l’ispezione del perito assicurativo prima di rilevare l’eredità lasciatagli dal nonno materno, e i genitori volevano che partecipasse al funerale.
Leonardo avrebbe dovuto quantomeno mostrarsi triste per l’accaduto. Le testate giornalistiche di quell’ottobre 2018 indulgevano drammaticamente sulla distruzione arrecata della tempesta Vaia e sulle sue trentasette vittime, fra cui suo nonno, Sergio: quattro giorni di temporali e venti dilanianti avevano sradicato ettari di boschi, unendo alla pioggia battente le copiose lacrime dei residenti.
In realtà, il ragazzo non provava altro che il peculiare, apatico senso di noia e generale fastidio che ricopriva le sue giornate, come lo smog cittadino che ingrigisce un palazzo; da tipico diciassettenne, da qualche tempo Leonardo si sentiva insoddisfatto di una vita vuota e omologata, mentre si trascinava come un pendolare nella routine giornaliera. Anche se non trovava le parole per ammetterlo, nel cuore intorpidito sentiva la mancanza di qualcosa e niente poteva soddisfarlo, e non l’aveva trovato neanche in quella Milano dove si poteva comprare di tutto, in quella città ricolma di aspettative e anonimi grattacieli senz’anima, in cui la vita non aveva fondamenta.
Scendendo dall’auto, la vista dell’abitazione semidistrutta lo inquietò, ma si calò il cappuccio della felpa, cercando di schermarsi dall’impatto emotivo e dissimulare il suo sgomento. In quella graziosa baita di legno aveva passato i momenti più felici della sua vita; ma ora il tetto era squarciato da un albero caduto e le decorazioni della facciata erano state strappate dal vento, così come il tempo e il suo orgoglio avevano portato via la sua infanzia. Se solo avesse alzato lo sguardo oltre il suo mondo digitale, il ragazzo avrebbe potuto riconoscere le frastagliate Pale di San Martino, fra le creste dei monti su cui aveva passeggiato da bambino: le aveva sempre viste verdeggianti o ricoperte di boschi innevati, mentre ora erano trasfigurate in uno spoglio grigiore di roccia nuda e piante abbattute. Avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, piangere: per il nonno che non c’era più, caduto insieme a migliaia di alberi, per quel luogo natale così martoriato. Eppure, dentro di lui era solo il vuoto: era come se non sentisse, non vedesse, nell’illusione che una finta cecità fosse meno dolorosa che affrontare la realtà.
Leonardo non percepiva più la piccola Paneveggio come la sua casa; non che invece Milano, globalizzata e impersonale, lo fosse: era un figlio dell’era moderna, senza una Terra. Era nato all’ospedale di Trento, sotto lo sguardo delle Dolomiti, su quei sentieri aveva imparato a camminare; ma quando Leonardo aveva tre anni, i suoi genitori si erano trasferiti, perché per sua madre non si poteva “continuare a vivere lì in mezzo al nulla”: i suoi genitori si erano sentiti in gabbia, fra quei monti immensi vicini a cieli così sconfinati. Allora avevano affittato un angusto trilocale a Milano, dove i negozi erano più grandi e gli spazi verdi assai ristretti, dove ogni cosa era costosa ma dozzinale, abitata da una folla di persone sole.
I tre avevano trascorso a Paneveggio la prima estate dopo il trasferimento, se non altro per mantenere i contatti con Sergio, il nonno materno; ma più gli anni passavano, meno settimane trascorrevano in Trentino, preferendo isole tropicali di cui esploravano solo il villaggio vacanze. Verso i sette anni, Leonardo era abbastanza grande per avere una sua volontà e ancora abbastanza bambino per amare le cose genuine; così, con sacrosante scenate di capricci, aveva ottenuto di trascorrere le intere vacanze estive in montagna con il nonno. Il bambino aveva amato quei mesi di spensierata fanciullezza, aveva amato i boschi di Paneveggio: avvistare gli schivi cervi, giocare nel fresco torrente Travignolo, guardare le montagne rilucere al tramonto e le stelle brillare la notte. E aveva voluto bene a nonno Sergio.
Nel suo immaginario di bambino, il nonno era un essere senza età, quasi magico: nei suoi caldi occhi nocciola si rifletteva la gentilezza di un uomo autentico e la saggezza di una vita lunga e intensa; aveva una curata barba grigia da arruffare e capelli fini e soffici. Sembrava che l’età lo avesse temprato e affinato anziché infragilito, come la montagna che erosa dal vento rivela il nucleo più duro della sua roccia. Nonostante appartenesse ad una modesta famiglia di pastori locali, l’anziano montanaro aveva una buona e solida cultura, appresa dai libri con cui passava le serate di fianco al caminetto e dai racconti tradizionali del paese.
Per questo ogni passeggiata col nipote si trasformava in una conferenza sull’abete rosso, rinomato per la costruzione di strumenti musicale, o sui palchi dei cervi e il loro bramito. Mentre il bimbo giocava con la penna nera del suo cappello, gli narrava appassionato gli avvenimenti delle guerre mondiali avvenuti nei dintorni, in cui lui aveva orgogliosamente combattuto come Alpino; e poi tutto sfumava in una fiaba, ambientata fra quelle Alpi che avrebbero tranquillamente potuto essere i monti della Terra di Mezzo.
Ma poi il bambino era cresciuto: Leonardo aveva sentito la necessità di mischiarsi alla massa incolore che definisce l’uomo moderno, e non voleva più sprecare l’estate con un vecchio in un paesello disabitato. Per cinque anni, il ragazzo non rimise più piede a Paneveggio: ormai era tempo che crescesse, la Vita non era in quel paesino di pastori. Fu allora che il vuoto che sentiva nel cuore nacque, crescendo come un buco nero di tristezza che inghiottiva qualsiasi altra emozione.
Il perito dell’assicurazione stava già aspettando i suoi genitori sulla porta, porgendo formalissime condoglianze mentre entravano nel salotto per accertare i danni all’interno. Vedendolo alienato a guardare il cellulare, il padre liquidò Leonardo ordinandogli di «andare a farsi un giro». Il ragazzo allora, colto da un irrefrenabile moto di stizza, voltò di scatto le spalle al genitore, puntando a testa bassa il sentiero dietro alla vecchia casa; il suo inconscio ricordava bene quella strada, anche se Leonardo cercava di allontanare l’immagine di lui, bambino, che la percorreva con un uomo che non avrebbe potuto mai più essere al suo fianco. Sembravano i ricordi di qualcun altro: lui non sarebbe tornato mai più un bambino, Sergio era morto, Paneveggio non era più la sua casa. Tutto era perduto, ogni legame con le sue origini reciso, come i rami spezzati dal vento; ed ora sarebbe appassito come un giovane arbusto strappato dalle sue radici.
Il giovane assunse un passo di marcia, spezzando con forza i ramoscelli sotto i suoi passi, cercando di dar voce al suo cuore spezzato attraverso il frantumarsi del legno. Quando risollevò lo sguardo, molti metri più avanti, il vento lo colpì come un muro di ghiaccio: era giunto in una radura, la radura dove da piccolo credeva vivessero le fatine Vivane; ma erano solo sciocchezze, ed ora di quello che era stato un luogo magico rimaneva uno spiazzo desolato. Vaia non aveva risparmiato un solo albero nel raggio di almeno un centinaio di metri: percepì una profonda solitudine, ritrovandosi così fisicamente esposto sul fianco della montagna, mentre i suoi muri d’indifferenza crollavano come i ciottoli di una valanga. Avrebbe voluto urlare il suo pianto, lasciando il senso di colpa riecheggiare per sempre sulle pareti ormai spoglie di quella valle, ricordando l’errore a cui non poteva più rimediare: avrebbe dovuto essere stato lì, in quegli ultimi cinque anni, e invece il nonno era morto senza sapere se lui fosse mai tornato.
Lasciando sgorgare il pianto come la pioggia di quella tempesta, Leonardo naufragò fra i ricordi, con gli occhi chiusi. Passeggiando in un pomeriggio dorato, il nonno gli aveva spiegato che gli alberi di quella foresta erano speciali, perché, grazie alle imperfezioni del legno di risonanza, erano particolarmente adatti per fabbricare strumenti musicali di altissima qualità; un signore, un certo Stradivari, li aveva usati circa un secolo prima per costruire i violini migliori del mondo. I due erano rimasti in silenzio, ascoltando la musica del vento che cantava fra gli aghi degli abeti rossi e sfiorava le loro tiepide cortecce, immaginando la perfezione di una melodia suonata da uno di quei violini.
Quando erano tornati a casa, Sergio gli aveva fatto sentire ciò di cui aveva parlato. Il nonno possedeva un vecchio violino prodotto da un artigiano locale con il legno di quegli abeti, e aveva fatto di tutto per trasmettere al nipotino quanto fosse perfetto ed unico quello strumento e quel suono, nato dalla sua terra; l’ultima estate trascorsa insieme, quando il ragazzo aveva dodici anni, gli aveva anche insegnato le basi di come suonare lo strumento. Ma poi Leonardo non era mai tornato ed ora lo strumento artigianale giaceva dimenticato sul tavolo della casetta che avrebbero presto venduto: nei pochi minuti trascorsi in salotto, Leonardo aveva notato la cassa armonica scheggiata, forse da una finestra rotta durante la tempesta.
Uno scricchiolio di passi riportò bruscamente Leonardo al presente, facendolo sobbalzare. Fra le frasche era comparso un uomo anziano, con la barba e i capelli d’argento; con un cappello da Alpino e abiti grigi, sembrava uno spirito emerso dal bosco, con passo furtivo, da cacciatore, e una postura fiera. “Nonno” pensò il ragazzo sorpreso, prima di rendersi conto che quel volto gli era vagamente famigliare, ma non era quello di Sergio. Occhi di granito si fissarono su di lui: lo sguardo di dura consapevolezza di chi aveva perso di nuovo un altro amico.
«Sei cresciuto, Leonardo» sentenziò senza preamboli l’uomo misterioso, con voce profonda che nasceva dalla terra. Il ragazzo lo guardò confuso con gli occhi ancora lucidi, e l’altro continuò imperturbabile, le mani serrate lungo i fianchi:
«Sono Oreste, ero amico di tuo nonno. Non mi aspettavo che ti ricordassi di me, o di questo posto… Sinceramente, non credevo che ti avrei più rivisto. Ma Sergio sì, lui diceva che saresti tornato… Eh vecchio mio!» esordì ad alta voce guardando in alto, come se si rivolgesse a qualcuno oltre le cime dei monti «Avevi ragione anche stavolta, tuo nipote è tornato!».
Leonardo era terribilmente confuso: svuotato dal pianto e trasportato dai ricordi, gli sembrava di trovarsi in una situazione surreale, con quell’uomo la cui identità stava riaffiorando dalla sua memoria. Sì, lo ricordava… Avevano passato alcune giornate insieme, loro due e Sergio; lui era Oreste, il vecchio compagno d’armi del nonno, che sapeva intagliare gli animaletti di legno.
«Neanch’io avrei mai pensato di tornare qui, pensavo… Credevo di essermene andato per sempre» rispose il ragazzo con voce rotta.
«Che sciocchezza, figliolo!» esclamò l’alpino. «Per quanto giovani e frastornati non si può dimenticare il luogo in cui si è nati, e tuo nonno lo sapeva… Anche se i rami crescono lontani nel cielo, il seme non lascia il terreno su cui nasce, le radici sono troppo profonde!».
Colpito da quell’analogia, Leonardo fissò l’imponente tronco dell’abete caduto davanti a lui, prestando attenzione alle radici intricate che riaffioravano dalla terra smossa: davvero lo avevano tenuto ancorato alla sua terra, anche dopo la morte.
Allora il ragazzo ebbe un’idea… Ma come poteva, non ne sarebbe stato in grado da solo…
«Avrei un favore da chiederti» disse Leonardo guardando per terra titubante. «Il nonno aveva un violino, ma si è scheggiato, è come se mancasse un pezzo dalla cassa; mi piacerebbe… Ecco, volevo aggiustarlo, ma… Avrei bisogno del tuo aiuto».
Oreste non disse nulla, solo annuì solennemente e, con occhio esperto, raccolse una scheggia recisa dal ceppo bruno, poi seguì il ragazzo verso la casa.
Ancora dubbioso, il ragazzo condusse Oreste all’abitazione che era stata del suo più caro amico. Il vecchio si fermò sulla soglia, salutando con un cenno il padre, che l’aveva riconosciuto ma parzialmente ignorato poiché intento a discutere con il perito dell’assicurazione: da quanto aveva inteso, Sergio aveva lasciato la casa in eredità al nipote, a cui sarebbe formalmente spettata la decisione di venderla. Non volendo trattare l’argomento, il ragazzo afferrò lo strumento dal tavolo e senza una parola scappò nella stanza adibita a laboratorio di falegnameria, rimasta integra salvo la finestra rotta. Mentre Oreste già prendeva posto estraendo dalla tasca la scheggia raccolta, il ragazzo gli porse il violino e uno scalpellino di precisione.
«Potresti aggiustarlo? Per favore» gli chiese dubbioso Leonardo, accennando al violino.
«Solo se mi prometti che lo suonerai» rispose l’altro «e che ascolterai le storie che un vecchio ha da tramandarti mentre lavora».
Leonardo, nella penombra della stanza profumata di segatura, guardò Oreste iniziare l’impresa: il legno del violino era vecchio e senza vita, la scheggiatura nella cassa armonica sembrava dispiegarsi su un’oscurità vuota; il buio che Leonardo sentiva in sé stesso. L’abile montanaro intagliò minuziosamente la scheggia d’abete, adattandola alla cavità dello strumento; lavorò per un paio d’ore, descrivendo con stretto accento dialettale vecchi ricordi di Sergio, sconnessi e sbiaditi come un vecchio album di fotografie. Leonardo senza rendersene conto si ritrovò a conversare con lui, ascoltando i racconti di quando, un’infinità di anni prima, i due erano stati giovani: storie di guerra, bravate di paese, l’incontro con la nonna che il ragazzo non aveva mai conosciuto… E il racconto di quando il nonno aveva creduto di volersene andare in giro per il mondo per cercare monti più alti delle Dolomiti.
«Se n’è andato?» domandò Leonardo incredulo: quell’uomo che sembrava essere nato con quelle montagne aveva potuto allontanarsene?
«Sì, io lo credetti impazzito, ma in fondo ero giovane anch’io e compresi quell’irrequietezza che lo aveva fatto scappare alla ricerca di qualcosa di nuovo, forse qualcosa da cercare più che da trovare davvero…» disse Oreste senza sollevare gli occhi dall’intaglio. «Se ne stette per qualche mese in Germania, credo che abbia fatto pure un giro in Francia… Ma poi tornò, e non andò via più».
«E sapeva che saresti tornato anche tu» ripeté di nuovo ostinato, sollevando l’opera compiuta: la scheggia bruna sagomata s’incastrò alla perfezione nel corpo dello strumento, un nuovo cuore rosso vivo per rinnovare la tradizione.
Leonardo recuperò anche l’archetto dalla cucina e uscì nello spiazzo davanti alla casa, appoggiando insicuro la spalliera dello strumento sull’incavo della scapola. Cercò di accordare lo strumento e di scaldare le dita inesperte: anche se ci sarebbero voluti giorni per perfezionare la riparazione e permettere al legno d’assestarsi, aveva bisogno di sentire di nuovo la musica del violino del nonno. Trattenendo il respiro, attaccò un lungo fa naturale, ascoltando le vibrazioni della tastiera sotto i polpastrelli: il suono sembrava acerbo, ma il ragazzo non si scoraggiò; avrebbe avuto tempo nei prossimi mesi per perfezionare sé stesso e lo strumento. Lasciò che la memoria tattile facesse riaffiorare la diteggiatura di Aria sulla quarta corda, la prima che il nonno gli aveva insegnato a suonare. Permise alla melodia di fluire: così calma e contemplativa, ricordava la voce di Sergio, come se attraverso il violino gli stesse ancora raccontando una delle sue storie.
«Guarda, Leonardo, guarda» sembrava dirgli. Il ragazzo riaprì gli occhi e, invece dell’impersonale e caotico grigiore urbano, l’altopiano alpino lo avvolse con la sua maestosa tranquillità sospesa nel tempo; continuando a suonare, solcò con gli occhi le famigliari creste dei monti: si rese conto della grandiosa bellezza di quelle montagne, dei contrasti fra pinnacoli argentei e insenature ombrose nella roccia rosata, delle pendici ricoperte dai boschi feriti e dei residui cangianti dei nevai, incastonati sulle vette come perle su quella corona di roccia cesellata dal vento. Le sue montagne. Percepì il vento freddo della sera sul viso, il lieve tepore del sole che tramontava sfolgorando, il gorgoglio argentino del Travignolo che si univa giocoso alla sua musica. Qualcosa era cambiato: ora sentiva tutto, percepiva, vedeva. La ferita rabbiosa nella memoria era stata lenita da lacrime liberatorie, il vuoto nel suo cuore colmato: era tornato a casa, e non l’avrebbe lasciata più per così tanto tempo. Se non altro, non si sarebbe distaccato da quel sentimento di pienezza e riconoscimento, mentre la mente già pensava a come ridar vita a quel luogo.
«Eh ragazzo, ne avrai ancora da fare di pratica… Ma sarebbe bello sentirti migliorare le prossime estati» disse Oreste, che per tutto il tempo era rimasto immobile confondendosi coi tronchi grigi e spogli.
«Ci vorrà qualcuno che aiuti nelle prossime stagioni a sistemare questo disastro, e la legna certo non può essere lasciata qui a marcire» disse Leonardo con una convinzione che non aveva mai provato prima: ora sapeva cosa fare. «Bisognerà piantare alberi nuovi, giovani e forti, che sostituiscano quelli vecchi e caduti… Altrimenti, il terreno, senza radici a sostenerlo, franerà»
I suoi genitori non potevano costringerlo a vendere la baita che ora era sua, né a vivere per sempre in città: anche se, al momento quella casetta sembrava distrutta e vuota, proprio come Leonardo, aveva solo bisogno di nuova vita, la vita che rinasce dalla propria Terra.
Martina Cucchi
PEREZ:
Ingegnere Di gara: allora, mancano pochi giri,se te li gestisci bene e usi la tecnica Verstappen puoi superarlo.
Perez: Non posso semplicemente fare come l’ultima volta?
Ingegnere di gara: Intendi quando hai cercato di tagliare la strada a Hamilton e ti sei schiantato contro un muro?
Perez: Piccolo incidente di percorso, ora farò meglio giuro.
*Un mezzo tentato incidente dopo*
Ingegnere di gara: Ma sei pazzo?
Perez: Visto? Per poco non lo prendevo ahahah.
Ingegnere di gara: Perez, non sono gli autoscontri! Se sbatti contro un’altra macchina, ci muori.
Perez: Ah, vero. Vabbè, gli autoscontri sono più divertenti.
Ingegnere di gara: No, Perez, no, cosa fai.
Perez: Alexa, chiudi la chiamata e metti in riproduzione la musica da sorpasso. Io mi sento un poco loco, un pochitito loco…
*Continua a canticchiare e riesce a superare Alonso*
Ingegnere di gara: Mossa rischiosa, ma ora concentrati per mantenere la posizione, siete ancora molto vicini uno all’altro.
Perez: Dios mio, ancora tu? Pensavo di essermi liberato di te. Alexaaa, Alexaaa…
Ingegnere di gara: Perez, non c’è mai stata un Alexa in queste macchine, non abbiamo venduto abbastanza Redbull per permettercela. Sono io che ho messo la canzone. Ora concentrati, che se non stai attento ti supera.
Perez: Maldito, so come fare il mio lavoro.
*Viene ri-superato*
ingegnere di gara: Ora hai intenzione di ascoltarmi?
Perez: Està bien, cosa devo fare? Manca meno di un giro.
Ingegnere di gara: Fra poco, nel tratto finale, devi essere così veloce che il cemento sotto le ruote deve sciogliersi. Le speranze di vincere sono poche.
Perez: Claro, vamonooos!
ALONSO:
Ingegnere di gara: Tre giri rimasti. Perez è a quattro decimi da te con DRS.
Alonso: Gracias, non l’avevo proprio visto, non sta assolutamente provando il sorpasso a ogni curva o rettilineo.
Ingegnere: Concentrati e vedrai che non ti supererà, usa il potere da due volte campione del mondo, difendi da leone.
*Perez supera Alonso il giro successivo*
Ingegnere di gara: E questo era ciò che non doveva succedere…
Alonso: Callarse la boca, era tutto calcolato, volevo solo avere un po’ più di divertimento, tutto qua.
Ingegnere di gara: Va bene, va bene, ma non lasciartelo scappare, punta al podio, ce la puoi fare.
Alonso: Ya sabe, se solo avessi una Redbull… a parità di macchina avrei già finito anche la prossima gara, estos son incapaces.
Ingegnere di gara: Fernando, lo sai che non diciamo queste cose in radio, rischiamo di beccarci una multa per aver ferito gli animi delle macchine-lattine, devi essere politicamente corretto e parlare solo italiano.
Alonso: Ho detto quello che ho detto, non posso ritrattare.
*Alonso finisce il penultimo giro*
Alonso: Mi metti un po’ di musica? Magari Taylor Swift, girano ancora le voci che stiamo insieme o sono già passati ad altro?
Ingegnere di gara: Fernando, concentrati. Comunque credo tu sia rimasto un po’ indietro, ormai si parla già di lei e il giocatore di football là. Però se riesci a superare Perez e regalarci un podio ti metto la musica.
Alonso: Sento il mio cuore spezzarsi, stavano nascendo così tante storie su di noi…
Ingegnere di gara: Concentración, Fernando!
Alonso: Sì sì, stai tranquillo. Aspetta, hai detto che metti la musica se vado sul podio? En ese caso, no te preocupes.
*Alonso supera Perez*
Alonso: E Aston Martin ancora batte una delle lattine con buona aerodinamica, ahora nos entendemos!
Ingegnere di gara: Bel lavoro, ora difendi da leone e scappa come se il podio fosse una vittoria!
Alonso: I’m in a getaway car oh-oh-oh
Ingegnere di gara: ancora non cantare vittoria, vola via!
*Arrivato sul traguardo Alonso finisce P3*
Ingegnere di gara: Mi spiace, Fernando, è P4, niente musica per te oggi.
Alonso: Ho guardato lo schermo appena ho superato il traguardo, ho visto esultare tutti nel box, non mi inganni, so che sono P3, podio per noi, VAMOSSS! Ora mettimi Karma di Taylor Swift, gracias!
Sofia Rebagliati e Alice Scuri
Tutti dalla mattina alla sera lottiamo perché il nostro nome venga pronunciato come si deve. Non è poi così difficile: Denali Chandrasekhar. Ripetiamolo ancora una volta, lentamente: Denali Chan-dra-se-khar; sì, vengo dall’India.
Eppure, nonostante lo senta pronunciare in modo errato da anni, ogni volta mi rendo conto di come, se molti non fanno neppure un minimo sforzo per scandire una parola correttamente, non ne faranno nemmeno uno più grande per superare i loro pregiudizi. Nel nome sono racchiuse le proprie origini e identità, ma se non lo si rispetta , come lo si può portare alla persona che rappresenta?
Stavolta ripenso a queste amare considerazioni nell’assolato ufficio risorse umane di una prestigiosa multinazionale finanziaria, ansiosa di brillare nel mio completo appena acquistato. No, non sono un’analista di Wall Street, o quantomeno non ancora, ma questo ennesimo colloquio di lavoro potrebbe essere l’occasione per diventarlo.
Voglio che la mia prestazione di oggi sia impeccabile: dal cordialissimo saluto e relativa, calda stretta di mano, all’educato sorriso affabile, mi comporterò in modo sicuro, calmo e cortese, come se fossi già una delle loro dipendenti, nella speranza di convincere il pingue esaminatore delle risorse umane a farmi diventare tale. Conscia dell’importanza della prima impressione, ho pianificato accuratamente sia le risposte alle consuete domande di rito che l’abbigliamento. Anche lontano dall’India, il sari, colorato e svolazzante, rimane il mio abito preferito, ma ho imparato a mie spese che è meglio non sfigurare per diversità, così ho optato per un formale tailleur beige con una classica camicia bianca: l’obbiettivo primario è essere assunta, non rivendicare un’identità nazionale taciuta ormai da dieci anni. Infine, per mimetizzarmi meglio nella giungla urbana, apparendo più normale (ovvero occidentale) possibile, una crocchia severa cela le ampie onde di capelli corvini e un coprente strato di trucco schiarisce il mio incarnato ambrato, troppo scuro per la media locale. Mi sono rassegnata ad indossare questa maschera ogni giorno: credevo di farlo per convincere gli altri che non sono diversa, ma forse è perché io ho bisogno di nascondere ciò che sono per sentirmi accettata. Un’occhiata diffidente per strada non stravolge la giornata, ma troppi sguardi infastiditi formano un coro che mi ricorda di non essere “giusta” per certe persone ed io, decisa ad eccellere, non posso sopportare d’essere sbagliata. Al confronto, un cambio di stile è un prezzo basso da pagare: per me l’apparenza non conta, ma per altri evidentemente sì.
Il pallido capo del personale, sprofondato nella poltrona dietro la scrivania, scorre sommariamente il mio curriculum, leggendolo distrattamente: “Allora, signorina Denli Candasekr…”
Una parola basta per farmi tornare coi ricordi ai tempi della scuola, quando ad ogni appello veniva puntualmente inventava una nuova variante per sbagliare il mio nome ed io, imbarazzata, non sapevo come correggere l’insegnante senza apparire saccente. Il peggio, però, erano i compagni recidivi, che si assicuravano di storpiare sistematicamente quelle quattro sillabe, inequivocabilmente straniere ma pronunciate fuori dall’India. Stremata da come la mia stessa identità fosse stata usata contro di me, corredata da nomignoli inopportuni e commenti indelicati, avevo pensato di sostituire il mio nome all’anagrafe con uno dalla lettura più immediata. Non potevo però rinunciare anche ad esso come avevo fatto con il sari, poiché in quel nome era racchiusa la forza per andare avanti: “Denali” significa “la donna che è grande”; i miei genitori avevano scelto un nome altisonante per la povera periferia di Jaipur come augurio per un futuro di riscatto. Non è ancora il momento però per reclamare la mia vittoria, ora devo tenere duro, solamente un altro sforzo…
“Mi scusi -tento di correggere l’impiegato educatamente- si pronuncerebbe Chandrasekhar, per favore… sa, come Subrahmanyan Chandrasekhar, il matematico”.
Un’espressione di svogliata incomprensione si forma sul suo viso annoiato, come se le mie ultime parole fossero state solo un altro nome impronunciabile: possibile che non conosca il premio Nobel per lo studio delle nane bianche?
“Va benissimo anche Chandra, abbreviato”, gli concedo accomodante, risparmiandomi di citargli il radiotelescopio orbitale omonimo.
“In ogni caso, signorina Chendra… -riprende lui con uno sbuffo noncurante- vedo che ha concluso le scuole superiori a pieni voti, poi ha conseguito una laurea in matematica, anche questa con lode… un paio di master…”
“Sì con specializzazione nell’analisi statistica dei sistemi caotici -puntualizzo io orgogliosa mentre quello annuisce distrattamente- Durante il dottorato ho collaborato con i miei colleghi di corso alla realizzazione di modelli informatici per la previsione di sistemi complessi, scrivendo anche un articolo conclusivo…”
Mentre espongo i miei trascorsi accademici, ancora ritorno con il pensiero al periodo degli studi, velato dall’emarginazione, ma fondato su ciò che più amo: la matematica. Già da bambina avevo una particolare inclinazione per il calcolo: contavo qualsiasi cosa, dalle case in un quartiere ai frutti in una cesta, per poi giocare coi numeri che avevo ottenuto, sommandoli e moltiplicandoli finché le mie venti dita non bastavano più. Fu così che, ancor prima di imparare a leggere e scrivere, iniziai a fare i conti su carta, prima come autodidatta, poi facendo tesoro di ciò che imparavo a scuola. Avida di affrontare problemi sempre più complessi, mi immersi in profondità nel mondo delle cifre, sotto gli occhi fieri di mia madre, la prima a vedere nella matematica il mio trampolino per compiere il destino che aveva racchiuso nel mio nome. Quando scoprii che l’India vantava una tradizione millenaria di matematici e seppi dei risultati del mio omonimo Subrahmanyan Chandrasekhar, allora riconobbi davvero le fantasticherie di mia mamma come una predestinazione: la mia passione per i numeri cresceva esponenzialmente con le mie capacità, scorrendo in me inarrestabile con la forza ancestrale del Gange, così come era avvenuto per i grandi studiosi nati in quell’antica valle prima di me.
Scoprii che la matematica era una lingua superiore alle parole, qualcosa di elevato al pari della musica, che si poteva comprendere insieme anche se non si parlava lo stesso idioma. Dopo essere emigrata, l’ultimo anno delle superiori fu difficile, ma all’università trovai un ambiente multiculturale dove collaborare con altri aspiranti matematici: avevamo nazionalità e culture differenti, ma eravamo troppo dedicati al nostro viaggio nel sapere e uniti da esso per dare peso alle differenze, creando così un’oasi utopica estranea alle difficoltà quotidiane. Scoprimmo dunque che la matematica è davvero un canto corale, a cui ogni popolo nel corso della storia ha unito la sua voce offrendo contributi che si sono implementati a vicenda, considerando il loro valore reale indipendentemente dalla lingua, dalla religione o dal colore della pelle; troppe volte pensammo che, concentrandosi più su cose nobili come la matematica e meno sulle apparenze, il mondo sarebbe stato davvero un posto migliore. Gli studenti più brillanti del mio corso, fra cui io, ebbero la possibilità di lavorare come progetto di dottorato ad una simulazione informatica in grado di applicare alla finanza o alla sociologia le regole matematiche di sistemi complessi da noi studiate. A coronamento di tre anni di lavoro serrato, fui incaricata di redigere l’articolo conclusivo per esporre i nostri eccellenti risultati, che ebbe l’onore di essere…
“…pubblicato dalle maggiori riviste del settore: Nature, Science eccetera… sì, certo…”, mi riportò bruscamente alla realtà l’impiegato annoiato, riallacciandosi al filo dei miei pensieri. Vorrei puntualizzare che quel pezzo era stato candidato al premio Chauvenet della Mathematical Association of America, come miglior articolo espositivo su contributi matematici, ma dubito che sappia almeno dell’esistenza della fondazione. Dopo averlo perfezionato una virgola alla volta, ancora attendevamo una risposta, che avrebbe potuto non arrivare mai… Nel frattempo, però, i fondi per la ricerca erano stati brutalmente tagliati e noi ci ritrovammo come un gruppo di geniali cervelli spersi nel mercato del lavoro, che scoprimmo non essere fondato sul rispetto e collaborazione del mondo accademico, ma sulla continua competizione sbilanciata da favoritismi e pregiudizi.
“Verificheremo che le sue qualifiche siano compatibili con la posizione da noi richiesta, signorina Chander”, concluse lapidario il mio interlocutore, lisciandosi la camicia sudaticcia. Sappiamo entrambi che lo sono eccome, ma in questo modo inizia a disilludermi che il posto possa essere mio.
“Nell’ipotesi che lei venga assunta, comunque -prosegue ravviandosi i capelli striati di grigio- pensa che sarebbe in grado di soddisfare le aspettative dell’azienda al pari degli altri dipendenti? Lavorando quanto tutti gli altri… Dalle nostre parti, la produttività è fondamentale: la nostra compagnia assume solo chi può apportare un contributo effettivo, non siamo qui per beneficenza”, conclude con una risatina nervosa.
“Certamente farò del mio meglio”, rispondo io, ma è una domanda retorica, perché temo d’aver capito dove vuole andare a parare.
L’esaminatore fuga ogni mio dubbio: “Ehm… lei non è di queste parti, vero, signorina Shandra?”
“Mi sono trasferita da Jaipur più di dieci anni fa, ho completato qui le superiori e da allora sono sempre stata residente stabile”, ribatto asciutta, aggrottando impettita le sopracciglia scure. Non avevo lasciato l’India credendo di trovare altrove una vita semplice, ma perché laggiù non c’erano possibilità di raggiungere i livelli d’istruzione a cui aspiravo, soprattutto per una donna, e perché scalare la piramide sociale dal fondo sarebbe stata un’ascesa paragonabile a quella dell’Himalaya. Dunque, ancora poco più che ragazzina, compresi di dover emigrare in occidente, dove la situazione prometteva d’essere migliore; presa consapevolezza del mio obbiettivo, lavorai indefessamente per raggiungerlo: studiavo per avere i voti migliori, dedicando alla formazione tutto il tempo che mi rimaneva dal lavoro come commessa e insegnante di ripetizioni, grazie ai quali speravo di finanziare la mia impresa. Abbandonare i miei cari e la casa che, se pur umile, era la mia, fu doloroso, ma dovetti sacrificare il passato per dare una speranza al futuro. Poi però, giunta qui, non solo dovetti fare i conti con l’essere una donna e di umili origini, ma anche con l’essere straniera.
Nonostante tutto questo, ero decisa a non scoraggiarmi, ad integrarmi a qualsiasi costo pur di realizzare ciò che mia madre aveva sperato per me. Rinunciai al sari, alla mia lingua, all’usare spezie dall’odore pungente e ad ogni tradizione indù pur di minimizzare le differenze e il rischio d’esser emarginata; iniziai addirittura a truccarmi per schiarire il viso, ma non è mai stato davvero abbastanza, perché chi voleva farmi soffrire trovava comunque nuovi espedienti per deridermi. Ogni volta che abbandonavo un pezzo della mia identità per compiacere un errato bisogno di normalizzazione, stavo passando dalla parte del torto: se nemmeno io stessa accettavo ciò che ero, come avrebbero potuto farlo gli altri?
Ma il grassoccio impiegato prosegue irreprensibilmente l’indelicato interrogatorio: “E’ necessario per noi verificare che i suoi documenti siano in regola, per evitare problematiche burocratiche legate al visto, permessi di soggiorno e similari…”
Questo è troppo anche per la mia lungamente esercitata sopportazione: non mi sono laureata per lasciarmi insultare gratuitamente. Sapevo che, ancor prima che avessi varcato la porta, avevano già stabilito che sarei stata respinta e quel colloquio tenuto con modi sbrigativi e indifferenti era una mera formalità: per quanto mi fossi sforzata di mascherare l’inflessione straniera o d’apparire affabile, non mi avrebbero presa in considerazione a prescindere. Tanto vale, quindi, uscire gloriosamente di scena e togliermi la soddisfazione, una buona volta, d’esibire le mie taciute capacità retoriche.
“Senta, visto che sappiamo entrambi che assumere un’immigrata danneggerebbe l’immagine della compagnia -lo interrompo risoluta, senza più cercare di controllare l’accento o l’orgoglio ferito- mi permetta comunque di dare il mio contributo all’azienda dandole una piccola lezione di storia: li vede questi, li vede?” lo apostrofo indicando le cifre del numero di telefono del mio curriculum.
“Certo… sono numeri” farfuglia lui cercando di camuffare il tremito della voce: non capisce il motivo della brusca digressione e dopo aver seminato vento teme la tempesta che sta per raccogliere.
“Esattamente, bravissimo! -lo canzono io- E sa anche chi li ha inventati? Mi dica, da dove vengono?”
Il capo del personale abbassa lo sguardo per nascondere l’imbarazzo, non perché non sappia la risposta, ma proprio perché la conosce, mentre io mi preparo alla battuta decisiva.
“Sono numeri indiani -gli spiattello in faccia- Già, proprio in quell’angolo di mondo da cui vengo io, gente non bianca ha inventato una delle basi del mondo moderno”
Mi alzo con un sorriso raggiante di rivalsa, obbligandolo ad una decisa stretta di mano e mi congedo cortesemente: “Spero d’aver arricchito il suo bagaglio culturale, buona giornata”.
Esco dalla porta principale a testa alta, lasciandomi alle spalle la multinazionale e i giorni in cui mi sentivo inadeguata: dopo anni di rinunce, oggi scelgo di perdere un posto di lavoro fra persone che non mi accettano, anziché perdere me stessa.
Tornando a casa, trovo una raccomandata ad attendermi: la sigla MAA affiancata da un icosaedro azzurrino contraddistingue la busta, marchiata dal timbro delle spedizioni internazionali. Alla fine, è arrivata. Corro sui gradini col cuore in gola, per entrare nel monolocale il prima possibile e poter aprire la busta tanto attesa. Mi accorgo chiudendo la porta che un numero sconosciuto mi sta telefonando, così rispondo alla chiamata con un favorevole presentimento.
“Buongiorno, è la signorina Denali Chandrasekhar?”, domanda una voce maschile affettata, mentre apro impazientemente la lettera con l’altra mano.
“Si, sono io, buongiorno”, rispondo reggendo il cellulare con la spalla per poter dispiegare il foglio.
L’uomo al telefono si presenta: “Sono della Mathematical Association of America, credo ci conosca, dato che lei e il suo gruppo di ricerca siete stati candidati dal nostro comitato al premio Chauvenet…”
Mentre ascolto eccitata, inizio a scorrere la lettera: Presa visione delle ricerche svolte da lei e dal suo gruppo nell’ambito dell’analisi statistica durante il Phd, siamo onorati di conferirle…
L’interlocutore rivela finalmente il motivo della chiamata: “Sono lieto di annunciarle, signorina Chandrasekhar…” Non so se essere più commossa per la frase successiva o perché aveva pronunciato correttamente il mio cognome.
Le fioche stelle del vespro s’affacciavano nei cieli d’oltreoceano, mentre il lampadario in cristallo rifletteva la luce crepuscolare sulla platea affollata di professori e sul palco agghindato di fiori. Denali attendeva emozionata dal posto a lei riservato, scambiandosi occhiate complici con i suoi ritrovati ex compagni di corso. Non aveva usato cipria chiara per smorzare la carnagione ambrata, solo un tocco d’ombretto iridescente sopra agli occhi lucidi di speranza e un velo di lucidalabbra sul sorriso lieto; i lunghi capelli setosi erano raccolti in una coroncina di trecce color ebano, che li lasciava ricadere in morbide onde sulle pieghe del lungo sari blu, che la cingeva elegantemente in un turbinio di stoffa celeste damascata d’argento. Per il gruppo di ricercatori erano tornati i tempi d’oro: dopo l’annuncio della vittoria, svariate società d’investimenti si erano interessate al loro software e ora dovevano solo scegliere il miglior offerente per finanziare il proseguimento della ricerca.
Il capo della commissione si schiarì teatralmente la voce: “Vorrei ora invitare qui sul palco gli autori dell’articolo Il futuro dai numeri: comprendere il caos per prevedere la realtà, vincitori del premio Chauvenet di quest’anno, iniziando dalla dottoressa -e qui scandì magistralmente ogni sillaba- Denali Chandrasekhar”.
Un applauso fragoroso accompagnò trionfalmente Denali sul palco: fra la stima e il rispetto di tanti colleghi, l’India sembrava più vicina che mai. Ringraziata la commissione, i suoi compagni e tutti i presenti, rivolse al pubblico la frase lungamente meditata: “Il dottor Chandrasekhar disse che la scienza è una percezione del mondo intorno a noi; stasera, la scienza è ciò che unisce, ciò che ci eleva oltre le diversità e ciò che mi ha permesso di arrivare fin qua. Il mio cammino è stato impervio, ma proprio per questo la mia gioia ora è ancora più profonda e vorrei condividerla; dunque, mi impegno a devolvere la mia parte di premio a borse di studio per giovani ricercatori, affinché anche altri studenti e studentesse meritevoli possano percorrere la via che porta a questo meraviglioso mondo di sapere e collaborazione. Grazie a tutti voi per avermi accolta come parte di esso!”
Martina Cucchi
C'era una capra nel giardino del signor Marchetti. Quando lui uscì di casa, alzò il muso e lo squadrò con i piccoli occhietti neri. Era uno sguardo d'odio, il signor Marchetti lo sapeva. La capra, era sempre la stessa capra ogni mattina, con gli occhi cisposi e una macchia nera sul muso, lo odiava profondamente. Lui non gli aveva fatto niente, ma la capra lo odiava lo stesso. Forse sentiva che non era caprista come i dannatissimi inquilini del secondo, terzo e quinto piano, che si ostinavano a far entrare le capre nel giardino, o forse… al signor Marchetti non venne in mente nessun altro forse. Non era proprio un esperto in psicologia caprina. Che i lupi ti prendano, pensò, ma, siccome gli inquilini del secondo piano erano giovani, forti e grossi due volte lui, le gettò un cavolo.
Le capre erano state un'idea del governo. Ci si era infatti accorti che l'erba, esercitando il proprio diritto di crescere, veniva a lenire quello della popolazione di usufruire di strade e marciapiedi. Tutto sommato, era stata una delle migliori idee che il governo avesse avuto da qualche anno (il che non era dire molto, in quanto di buone idee negli ultimi anni, o forse decenni, c’era stata una decisa carenza). I marciapiedi erano ora praticabili e le capre, che nei campi piagati dal riscaldamento globale avevano fatto la fame, erano belle satolle di quelle dannate erbacce che, dopo aver bucato asfalto e cemento, si facevano beffe anche della siccità.
Certo, l'odore della città ne risentiva alquanto, ma era un misero prezzo da pagare. E poi, gli escrementi di capra non puzzavano quanto la pipì di gatto, rifletté il signor Marchetti, che non era caprista ma neanche gattista, avvolgendosi una sciarpa sul naso.
Anche i gatti erano stati un'idea del governo. Dopo che un consiglio di esperti aveva rilevato e scritto in carta bollata che la popolazione murina della città aveva raggiunto livelli preoccupanti, esperti e politici erano stati consultati alla ricerca di una soluzione.
Ucciderli era fuori discussione, naturalmente. Da dieci anni gli animali non venivano uccisi nemmeno per essere mangiati, figuriamoci se degli innocenti topi potessero essere sterminati per salvaguardare la salute degli umani.
Eppure qualcosa andava fatto. Con il decimo caso di peste bubbonica, l’equilibrio si era rotto: gli appartenenti alle minoranze erano, ufficialmente, i più colpiti. Il governo non poteva non fare nulla contro una piaga che colpiva prevalentemente persone appartenenti alle minoranze.
Dunque gli esperti e i ministri si rinchiusero in conclave, giurando di non uscire finché non avessero trovato una soluzione. Come ulteriore incentivo vietarono l’approvigionamento di cibo alla riunione e ognuno dei partecipanti fu perquisito all’ingresso. Le guardie racimolarono un bottino di patatine, merendine e cioccolatini e se ne stettero a sbocconcellarli in attesa che la riunione partorisse l’idea salvifica. Dopo qualche ora, esperti e ministri se ne uscirono con l'idea di sterilizzarli.
Gli animalisti non ne furono contenti, ovviamente. Molte esche sterilizzanti sparirono nel nulla e le proteste bloccarono le strade, ma i casi di peste erano diventati quindici, sempre con uno squilibrio a sfavore delle minoranze, e il governo perseverò. Dopo un mese, la popolazione dei topi, incurante di ciò che la scienza si aspettava da loro, aveva perseguito nel proprio incremento.
Si abbandonarono dunque le esche per ricorrere a metodi più drastici: una forza di veterinari fu chiamata a Roma da tutto il paese e alle forze dell'ordine, che già bastavano a stento per i criminali umani, fu aggiunto il compito di consegnare alla giustizia dei veterinari quelli murini.
Dopo mesi di tentativi, durante i quali al costante incremento della popolazione di topi si aggiunse quello di veterinari e agenti ricoverati in ospedale per malattie trasmesse dai morsi di quest’ultimi o per le percosse di qualche animalista, gli umani sollevarono bandiera bianca. Animalisti e, in particolare i topisti, gruppo sparuto e timido nella vita quotidiana, ma parecchio attivi sul web, gioirono alla notizia. L'hashtag #vittoriaaitopi arrivò primo in tendenza, in Italia, ma perse il suo posto poco dopo, a causa di un colossale black out, causato da qualche innocuo topolino che aveva deciso di affilarsi i denti sui fili elettrici della capitale.
A quel punto, un professore emerito della Sapienza aveva avuto l'illuminazione: i gatti mangiano i topi e, cosa più importante, i gatti sono animali. Qualche animalista aveva borbottato ancora, ma le immagini di gatti satolli e soddisfatti con un topo in bocca ne avevano calmato la maggior parte. I calcoli erano stati fatti ed era saltato fuori che, rimpinguando la popolazione di gatti di strada, statistiche alla mano, era alquanto probabile che quella di topi diminuisse. L'innovativa tecnica aveva dato subito i suoi frutti: i topi erano troppo occupati a filarsela dai felini per rosicchiare i fili e i casi di peste erano scesi.
I gatti erano dunque ritornati trionfalmente al loro antico compito e ora passeggiavano a testa alta e coda ritta per le vie. Ogni volta che incrociavano lo sguardo di un umano, sembravano ridere sotto i baffi.
Non ci sono più i gatti di una volta, pensò il signor Marchetti. C’era un pizzico di acidità nella sua riflessione ed era dovuta all’aver scorto un felino soriano acciambellato sotto la propria macchina, proprio dietro la ruota anteriore.
Il rimedio era antico, infatti, ma questi nuovi felini parevano aver imparato le leggi dell’imprenditoria, in particolare quella della domanda e dell’offerta. Il signor Marchetti ne aveva visto uno scaricare il cadavere insanguinato di un topo ai piedi di un agente, per poi sedersi dietro la propria preda e miagolare in tono eloquente. Al che l’agente gli aveva allungato un pezzo di salmone fresco fresco, precedentemente mercanteggiato con un gabbiano al prezzo di un dolce da pasticceria. Il gatto se n’era andato leccandosi i baffi e lasciando la carcassa ai cinghiali.
I cinghiali non erano stati un'idea del governo. Erano venuti spontaneamente dai boschi, per nutrirsi dei rifiuti della Città Eterna e con loro grande gioia l’avevano vista riempirsi di topi e gatti, entrambi ottime prede. Il governo non era proprio riuscito a convincerli ad abbandonare il loro banchetto. I cinghialisti sostenevano che contribuivano in maniera significativa al controllo della popolazione di topi, scatenando sul web l’ira dei gattisti, che vedevano rubato il primato di cacciatori ai loro protetti.
I cinghialisti non erano molti, in realtà, ma erano gente pericolosa. Il signor Marchetti aveva letto proprio l'altro ieri di un paio di energumeni che avevano picchiato un gattista che aveva tentato di mettere in salvo una nidiata di gattini da un cinghiale affamato.
Che gente, pensò il signor Marchetti, chinandosi a fissare il gatto soriano, beato nel mondo dei sogni felini.
Difficilmente usava la macchina, non era molto pratico in una città le cui vie erano ad uso e consumo di una mezza dozzina di specie animali diverse. Quel giorno, però, doveva proprio andare fuori Roma. E doveva proprio usare la macchina.
“Micio” Chiamò. “Dai, micetto! Vieni fuori” Il gatto aprì pigramente un occhio, lo guardò, sbadigliò e lo richiuse. “Micio, dai, ho fretta!” La coda del felino fremette, poi si avvolse attorno al corpo acciambellato. “Micio… per favore!” Implorò il signor Marchetti, ma il gatto si mostrò sordo a qualsiasi moina e continuò pacificamente a dormire.
In casa non aveva nulla che potesse risultare appetibile ad un gatto, neanche un po' di latte. I prodotti ottenuti dagli animali senza ucciderli non erano vietati, non ancora, ma i suoi vicini di pianerottolo erano ferventi vegani e l'avevano buttato giù dalle scale una volta che l'avevano beccato con delle uova nella borsa della spesa. Il signor Marchetti si era rotto un femore e macchiato di uovo crudo la sua camicia preferita. Da quel giorno non aveva più comprato né latte, né formaggio, né tantomeno uova.
"Micio! Esci!" Batté le mani, sperando di spaventarlo. Il gatto se ne fece un baffo.
Tirarlo fuori era fuori discussione. Senza contare le unghie indubbiamente affilate nascose nelle zampe pelose e i denti che lo sbadiglio aveva mostrato essere alquanto appuntiti, lo smuovere un gatto dal suo posto di riposo prescelto era una violazione della libertà del felino, punita per legge. Gli inquilini del piano terra erano gattisti convinti e le loro finestre davano su quel lato di strada. Anzi, doveva sperare non lo vedessero nemmeno tentare di svegliare il gatto. Erano proprio gattisti convinti, quelli del piano terra.
Il signor Marchetti, che ogni momento di più si sentiva più vicino alla posizione cinghialista, stava quasi per rinunciare, quando arrivò un branco di cani. Avvertito dall'abbaiare, aprì la macchina e saltò su, poi chiuse le sicure e aspettò, incrociando le dita che non scambiassero le ruote come esercizio per le mandibole. Non lo fecero. Anzi, gli fecero un favore: poco dopo il signor Marchetti vide, con grande soddisfazione, il gatto schizzare via con il branco di cani all’inseguimento.
Bravi cagnetti. Girò la chiave e avviò il motore. Il cane è davvero il migliore amico dell’uomo.
I cani erano stati introdotti per ammazzare quei topi che anche i gatti avevano paura ad avvicinare. Il signor Marchetti apprezzava molto quel lavoro e sarebbe quasi stato canista, se non fosse che c’erano già stati otto morti causati dai branchi di cani scorrazzanti. La carne umana, a quanto pareva, era molto più tenera e appetibile di quella dei ratti di fogna.
Il parabrezza era coperto di escrementi di gabbiano (neanche i pennuti erano un’idea del governo, ma come cacciarli?) ma il signor Marchetti non osava scendere a pulirlo. La Fortuna gli aveva sorriso una volta, a che pro metterla alla prova? Così si accontentò dei tergicristalli e si avviò lentamente. Aveva fatto appena un centinaio di metri quando dovette arrestarsi al passaggio di un gregge di pecore (occupate anche loro nella manutenzione del verde).
No, il signor Marchetti si corresse dopo qualche minuto, il gregge non stava passando. Se ne stava lì, semplicemente, con la tranquillità di chi deve essere giunto in qualche modo a conoscenza che il reato di omicidio stradale è stato esteso alle vittime animali, con pene uguali o financo maggiori che per quelle umane.
I pecoristi, poi, erano molto più agguerriti di quanto la scelta di animale facesse presagire. Siccome le pecore, dicevano, non potevano difendersi da sole, ci pensavano loro. Si alternavano in turni di guardia per proteggere le pecore dai lupi. Ovviamente non uccidevano mai un lupo, erano pur sempre delle persone a modo, animalisti, ma cinque lupisti erano già stati picchiati a morte e altri venti erano finiti in ospedale.
I lupi erano stati il colpo di genio del governo. Non riuscendo a mandare via i cinghiali con le buone, si era pensato di usare i grossi lupi cattivi, loro predatori naturali nei tempi andati in cui gli animali ancora vivevano nei boschi. Erano la punta di diamante del sistema, l’ultimo anello della catena. Tenevano sotto controllo la popolazione di cinghiali, gatti, topi e, se riuscivano a prenderli, piccioni e gabbiani. Inoltre, facevano abbassare la cresta ai branchi di cani, riducendoli a cuccioli uggiolanti e tremanti. E finora, le vittime umane erano state solo un paio: bestie anti-animaliste che, violando il decreto contro il consumo di carne, erano andate a caccia. I lupi li avevano intercettati mentre caricavano in macchina la carcassa di una succulenta capra. Dopo un simile atto di coraggio e giustizia nei confronti di quei crudeli mangiatori di cadaveri, ogni dubbio che gli animalisti potessero avere nei confronti dei predatori ululanti si era dissolto come neve al sole.
Il signor Marchetti non era così convinto che i lupi fossero una buona idea. Certo, erano il simbolo della città… certo, erano tanto utili… ma…
Capristi e pecoristi erano scesi in piazza, una bella protesta a modo, con tanto di striscioni e fumogeni, chiedendo che lupi ed erbivori fossero lasciati circolare solo ad ore alterne. Al signor Marchetti non era parsa una cattiva idea, anche perché si parlava di liberare i lupi solo di notte.
Niente da fare. I lupi, una volta usciti dalle gabbie, non avevano più voluto rientrarci. Il governo aveva mascherato il fallimento borbottando qualcosa sulla libertà del lupo di procurarsi il suo pasto. A molti era sembrata una retorica supportante la legge del più forte, la legge capitalista, e le critiche erano piovute sul governo come coriandoli su una coppia di novelli sposi. A quel punto i ministri avevano dato il via libera a chiunque volesse cimentarsi nel compito di pifferaio magico. Almeno una dozzina di associazioni non governative si erano accostate alla missione: chi promuoveva insegnamenti morali per i canidi selvatici, chi sosteneva che dovevano essere condotti sulla retta via del veganesimo… Finora, nessuna aveva riscosso successo.
Nonostante i lupi non lo convincessero del tutto, il signor Marchetti non si lamentò quando il profilarsi di un branco all’orizzonte gli liberò la strada dalle pecore. Approfittando della fortuna che, per la seconda volta quel giorno, era dalla sua, diede gas e proseguì per la sua via. Non fece molta strada. Era giunto appena in vista del Colosseo, infatti, che trovò un ingorgo, questa volta di umani.
“Che succede?” Chiese, sporgendosi dal finestrino.
“I maledetti destristi, chi vuoi che siano?” Gli urlò una giovane motociclista, per poi partire sgommando nella direzione da cui era arrivato Marchetti.
Il sistema aveva spaccato gli animalisti in due. Quelli di destra, prevalentemente lupisti e canisti, sostenevano che bisognasse lasciare agli animali la libertà di seguire le leggi della natura. Quelli di sinistra, al contrario, volevano giustizia per topi, capre e pecore e chiedevano pietà per questi animali ai livelli più bassi della catena alimentare.
Gattisti e cinghialisti oscillavano tra i due gruppi: erano di destra quando i loro protetti mangiavano, di sinistra quando venivano mangiati.
Un uomo di mezza età appoggiato ad un semaforo inutilmente verde fu più esauriente della ragazza. “I lupisti e i canisti hanno scoperto che alcuni capristi e pecoristi facevano entrare nei loro giardini capre e pecore per proteggerle dai lupi. Così li hanno presi e trascinati nel Colosseo, sai che il branco della lupa rossa ci ha fatto la tana. Si sentono certe grida… le forze dell’ordine stanno tentando di intervenire, ma i destristi hanno bloccato le porte. C'è n'è un bel po' giù in strada, li vedi quelli vestiti di scuro…?”
Al signor Marchetti la rievocazione storica nel Colosseo non interessava granchè. Doveva proprio andare fuori Roma, quel giorno. “Quindi non si può passare?” Chiese dunque.
L’uomo si strinse nelle spalle. “Dipende. Se sei destrista, passa pure. Se sei sinistroide… beh, evita, magari”
Il signor Marchetti pensò alla capra nel proprio giardino e, per un momento, fu tentato di rispondere con la prima. Poi l’immagine di un corpo sbranato da un cane o un lupo gli attraversò la mente e l’attimo fuggì veloce com’era arrivato.
“Io sono gattista.” Aggiunse l’uomo. “E ho il dono di farmi gli affari miei, quindi non sono preoccupato. Di', cosa sei?”
“Umanista” Rispose il signor Marchetti e se ne andò prima che il gattista avesse tempo di riflettere se fosse imputabile al reato di anti-animalismo.
Elisa Frigerio
(Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone,
i fiori in cornice, (le buone cose di pessimo gusto!)
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!)
Ferro da stiro con brace, effigie color di cera,
di madonnina in preghiera; il vecchio che più non piace
grossa damigiana cinta di trecce di paglia marrone
orologio in legno e ottone, una tenda a fiori stinta
sci troppo lunghi ormai, dritti come sentinelle
radio squadrata a manovelle, relitto nell'epoca del wifi
gavetta dell’esercito regio, bricco d'argento annerito,
portalampada tornito dal bianco rococò fregio,
il martello ammaccato,la mannaia da macellaio
la sega del nonno e la sdraio dal verde color scheggiato
legno sottile e un tenace pesante chiavistello
custodiscono, brutto e bello, il vecchio che più non piace
consunta scopa di saggina, il macinino da caffè
di legno…morto è, morto è il novecento in cantina!
Elisa Frigerio
Le stelle continuano il loro moto perpetuo nel cielo notturno, riflettendosi argentee nelle acque appena increspate dell’oceano su cui la mia piccola zattera naviga: diamanti di luce danzanti sopra un mare di tenebra, bellezza infinita sospesa nell’infinità del cosmo. Ogni notte sorgono e tramontano senza poter rallentare il loro corso, ogni anno le costellazioni attraversano ineluttabilmente lo zodiaco; dopo milioni di rivoluzioni identiche, di immutate notti di splendore, inevitabilmente si spengono, secondo un destino predetto al momento della loro nascita da una manciata di calcoli: solo un processo fisico inevitabile e prevedibile. Ma se nemmeno le stelle, ciò che di più perfetto possiamo scorgere, possono scegliere il loro fato, come potremmo esserne in grado noi? Noi, che non possiamo fare altro che sfiorare la loro grandezza con la punta delle dita, come pretendiamo di cambiare l’orbita su cui la nostra vita è costretta, se nemmeno le stelle possono?
Forse rincorro un percorso già tracciato da qualcun altro con inchiostro indelebile, forse la vita non è altro che un nastro di eventi prestabiliti pronto a srotolarsi, senza che io possa sceglierne la direzione; o magari più che un nastro è una briglia… speriamo solo di non inciamparci! Dalla prima riga della mia storia, non ho mai davvero potuto scegliere nulla: il mio mondo è un susseguirsi di cause di forza maggiore che mi trascinano come una foglia in un tornado. Nessuno ha mai chiesto la mia opinione, poiché nemmeno ne ho una: le parole che dico e che penso mi sono state messe in bocca da qualcun altro, tant’è che inizio a dubitare d’avere una mia coscienza personale. A dirla tutta, infatti, non saprei nemmeno se posso affermare con sicurezza d’esistere. Cosa sono io, in fin dei conti, se non un’idea senza sostanza, un barlume di coscienza, un astruso prodotto della fantasia? Solo un’anima smarrita che vaga su un mare indifferente.
Dopo questa mia tediosa riflessione, vorrei almeno presentarmi, ma non posso. Non so letteralmente chi sono: non ho un nome certo, né un’unica patria, né tantomeno un volto preciso; sono stato tutti, ma non sono nessuno. Ah Ulisse, mio caro collega, chissà se anche tu, mentre gli aedi ti cantavano obbligandoti da una costa all’altra del Mediterraneo secondo il loro gusto e reinventando decine di volte le tue imprese, hai subito un tormento esistenziale come il mio. Ahimè, il mio creatore non è Omero e io non sono il grande Nessuno, io sono solo un nessuno, la cui narrazione non avrà mai fama o gloria immortale. Probabilmente non diverrò mai neppure un libro, anche solo una storia a puntate su una rivista con “venticinque lettori*” sarebbe un successo impensabile.
La mia esistenza è subordinata al mio capo, che mi costringe ai suoi ritmi e al suo volere: può ignorarmi per mesi col pretesto del blocco dello scrittore, per lavorare febbrilmente nel nome dell’ispirazione e procedere a ritmi serrati verso la sua nuova fantasia; ma l’estro creativo non si protrae mai per più di una settimana, perché presto è insoddisfatta e rivoluziona il mio mondo ex novo: ecco così che mesi della mia vita vengono gettati appallottolati nel cestino. Non fa altro che cambiare idea ed io con lei, costretto ad obbedire ad ogni sua virgola: non mi concede nemmeno il tempo di abituarsi ad un nuovo lavoro, di apprezzare la nuova vita appena scoperta, che già vengo trasferito ad un altro impiego…
Un tempo ero stato un cavaliere, di quelli molto classici: in sella ad un nobile destriero, galoppavo per pagine e pagine inseguendo il vessillo della corona, verso la gloria dorata dell’ultima epica battaglia, sguainando la spada più lucente dell’armatura mentre il mantello scarlatto garriva nel vento. Talvolta, il capo si dilettava ad introdurre qualche variazione, così venivo costretto a interminabili addestramenti per padroneggiare poteri magici incredibili e trasformarmi in uno stregone completo di scettro, barba e cappello a punta; oppure, con una spietata vergata d’inchiostro, restringeva la mia cavalleresca statura a quella di un folletto silvano o di un nano minatore e addio portamento regale! Sempre meglio, comunque, di quando decise crudelmente di tramutarmi in uno sgradevolissimo troll… Ah, c’era stata anche quella volta in cui, anziché uccidere il drago, mi era stata data direttiva di imparare a cavalcarlo: facile, per lei che se ne stava comodamente seduta alla scrivania, e non su una sella a chilometri d’altezza come il sottoscritto!
Constatato però che le saghe fantasy nelle librerie erano sovrabbondanti -e che quindi la sua sarebbe stata l’ennesimo tomo banale ed invenduto-, la fase epic fantasy finì, perciò il capo decise, dal giorno alla notte, di optare per la fantascienza: il futuro dovrebbe portare il progresso, ma le mie precarie e tormentate condizioni rimasero le medesime. Iniziai così, ovviamente senza aver compilato alcuna richiesta d’arruolamento, la mia carriera da brillante capitano in una fantomatica Flotta Interstellare; il capo però non aveva le idee molto chiare sulla trama: durante il viaggio di un'astronave con meta e scopo imprecisati, ogni due pagine mi imbattevo in astrusi fenomeni astrofici (totalmente privi di fondamento scientifico), dai quali sfuggivo con rocamboleschi colpi di fortuna e coincidenze, più per la benevolenza dell’Universo che per la qualità dello storytelling. Persi nella vastità del cosmo e nell’incoerenza del processo creativo, le uniche certezze erano che le leggi fisiche erano secondarie in quel racconto e che l’uniforme mi stava da favola.
Dopo una settimana di stesura sconnessa, però, la mia creatrice decise che farmi rimanere sulla mia poltrona ergonomica a sbraitare ordini non rendeva la trama molto coinvolgente, dunque passai dalle stelle alle stalle, o meglio alla sala macchine: con un tocco di cancellino eccomi retrocesso ad ingegnere di bordo, sempre sudaticcio e relegato a riparare propulsori perennemente malfunzionanti. Fortunatamente, dopo cinque righe di monologo con un fusibile difettoso, anche questo personaggio si rivelò disastroso e venni promosso con un colpo di penna ad ufficiale scientifico, poi ancora a cuoco di bordo e a medico dell’equipaggio. Anche l’idea dell’astronave stessa è stata col tempo pian piano abbandonata, per passare da una navetta scientifica a un’ammiraglia da guerra disertrice e infine a cargo merci disperso nello spazio; poi ancora divenne una base spaziale ai confini dell’universo esplorato e addirittura una colonia umana su Marte. Come ultima risorsa per l’originalità, ho interpretato un alieno e anche stavolta sono dovuto passare attraverso infinite gradazioni di carnagione verdina e combinazioni di antenne, squame, occhi giganteschi... Naturalmente ho tentato anche di essere un robot o un’intelligenza artificiale: quella è stata l’apoteosi della mia inquietudine filosofica sull’esistenza, la coscienza e i diritti, dato che interpretavo addirittura una macchina anziché un essere pensante.
I progetti futuristici fallirono inevitabilmente e tutte le fantastiche idee della mia scrittrice si dissolsero nel vuoto, come i residui di una supernova ormai esplosa. Lasciarono così il posto ad un breve impego come spia di un’organizzazione talmente segreta che nemmeno il capo sapeva che nome avesse: avrei dovuto perdere quotidianamente venti punti della patente solo per la spericolatezza con cui parcheggiavo, mentre emergevo da catastrofiche esplosioni non solo incolume, ma pure coi capelli impeccabilmente in piega. Per un mese tentai anche la professione di detective: rigorosamente inglese, completo di basco da caccia, lente d’ingrandimento e pipa al limite del plagio letterario, risolvevo inconsapevolmente casi che avrebbero dovuto apparire “elementari” solamente a me, ma che erano in realtà solo un mero rifacimento di quelli di Agatha Christie. Circondato da personaggi secondari ancora più piatti e limitati del sottoscritto (forse nel vano tentativo di far apparire il mio intelletto brillante), a volte pensavo: “Potrebbe andare peggio! Potrebbe … piovere!” Così, trovandomi nella cara, vecchia e grigia Londra, immediatamente il capo decideva di far diluviare: non posso dire che il ciel non mi ascoltasse, se non altro.
L’ultimo approdo è stato letteralmente ad un porto: delusa dalla narrativa moderna, il capo ha da poco deciso che ciò che le necessita è un ritorno ai grandi classici dell’uomo solo davanti all’immensità dell’oceano, anche dubito fortemente che una vacanza al mare la trasformerà nel prossimo Melville o Hemingway. Ed eccomi qui, dopo un varo fallimentare e relativo affondamento dell’imbarcazione, naufrago alla ricerca di un’isola, ancora privo d’un nome (poiché gli ultimi venti a cui aveva pensato non le suonavano bene o non erano sufficientemente ricchi di significato), a vagare nel mare della mia mente angustiata. Pensare che avevo alzato lo sguardo solo per cercare la stella polare e ritrovare il Nord, invece mi sono ritrovato a filosofare!
Anche il mio capo avrebbe bisogno di sollevare gli occhi dalla pagina per ritrovare la sua stella polare: schiarendosi le idee potrebbe finalmente mettere a frutto il suo talento letterario e, soprattutto, smettere di perseguitarmi con la sua scrittura incoerente. Forse con più autodisciplina saprebbe controllare le fiammate di ispirazione che la colgono ed evitare che la sua creatività s’esaurisca in potenti ma brevi vampate; e quante idee originali “lasciate nella penna*” a causa d’un calo d’autostima! In fondo, però, forse è più giusto lasciare che la scrittura insegua liberamente la fantasia, dando sfogo ai pensieri della mente ed intrecciandoli alle emozioni dell’animo: sia io che le sue speranze da scrittrice, infatti, “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello sprazzo e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita**”.
*da A. Manzoni, I Promessi Sposi, 1827
**da W. Shakespeare, La Tempesta, 1610
Martina Cucchi
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
(La guerra di Piero, Fabrizio De Andrè)
Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l'abisso ti guarda dentro.
(Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche)
"E dove vanno i cattivi Americani quando muoiono?" Chiese la duchessa. "Vanno in America" mormorò Lord Henry.
(The Picture of Dorian Gray , Oscar Wilde)
Laboratori Imperiali di Los Alamos, 432 anni dalla fondazione di Washington.
9:50 minuti all’ora zero.
“Avete undici minuti, con un incertezza del 9%” Disse il dottor Vane. Era un uomo sulla settantina, coi capelli candidi come la neve - che non era vecchio abbastanza per aver visto - e due occhi brillanti e acuti, quasi invisibili sotto le spesse lenti degli occhiali, rese opache dalle molte ditate. Crescendo era stato persuaso che la scienza potesse cambiare il mondo e, nonostante il mondo si fosse messo con tutto il suo impegno a dimostrargli il contrario, ne era ancora fermamente convinto.
“Potranno essere dieci, potranno essere dodici. Ma non avrete un secondo di più.” Enfatizzò, squadrando con attenzione i giovani davanti a lui. Non avevano certo l’aspetto adatto al compito che si apprestavano ad eseguire. Infagottati nelle divise militari e armati di fucili, erano a loro agio quanto un panda lo sarebbe in un’armatura. Erano scienziati, loro, non soldati. Se vedevano un proiettile volare, pensavano a calcolarne la traiettoria, non a spostarsi rapidamente da essa. Eppure due dottorandi aveva e due dottorandi si sarebbe fatto andare bene. “Questo è quanto l’entanglement quantistico vi da, questo è quanto avrete a disposizione. Con la natura non si discute”
Il dottor Vane era della ferma opinione che l’uomo non crea, non scopre, non prende, e non inventa niente. E’ la natura che regala, insegna, dà e mostra. E’ una vacca da mungere. Soleva dire ai suoi studenti. Non carne da squartare alla ricerca del suo cuore. Il dottor Vane amava la natura.
E neppure con gli uomini si discuteva. Uno dei dottorandi, Mitchell, l’informatico, aveva messo le telecamere in loop, ma sarebbero stati avvertiti nel momento in cui la macchina fosse stata messa in funzione. Due minuti per arrivare, uno per forzare la porta, tre per
tentare di far collaborare il dottore, rendersi conto che era inutile e ucciderlo, sei per capire quale combinazione di pulsanti attivava la procedura di ritorno. Il tempo di elaborazione della macchina, uguale per la procedura sia diretta che inversa, si eludeva. Il dottor Vane aveva fatto i calcoli alla perfezione. Undici minuti, con l’incertezza del 9%. Undici minuti, uno più o uno meno, per cambiare la storia del mondo.
“Del vostro obiettivo si sa poco o niente.” Questo, i dottorandi lo sapevano. Nell’Impero di Washington lo sapevano anche i bambini. Il Padre era il Padre. Non c’erano fotografie a ritrarlo, non c’erano date, né di nascita, né di altre cose. Non c’era nemmeno un nome. Era semplicemente il Padre. “Rimasto sfigurato nella Prima Guerra Mondiale si è arricchito con la crisi del, detto secondo la vecchia notazione, ‘29, quello che per noi è il 139 AW. Ha preso il potere negli USA nel sesto decennio del primo secolo. Nella Seconda Guerra Mondiale, ha sconfitto l’URSS. E’ morto nel 173 AW, vittima di una congiura. Il Primo Discendente, suo figlio, ha riorganizzato il mondo nell’Impero. Nulla di questo ci è particolarmente utile.”
I due annuirono. Concordavano pienamente con l’ultima frase del professore.
“C’è però…” Lo scienziato si frugò nel camice. Esso godeva di una sua propria versione del principio di indeterminazione di Heisenberg. Se sapeva cosa stava cercando, e perché, non riusciva a determinarne la posizione. Se trovava qualcosa, non sapeva cosa fosse o perché gli servisse.
Ciò rendeva il suo camice un posto ottimale per nascondere qualcosa della quale la sola vista era punibile con la morte. Qualcosa come quella che stava cercando, insomma. Aveva, però, la controindicazione che, qualora la cosa fosse fortemente voluta, come in quel preciso momento, il tempo necessario per il suo ritrovamento era prossimo a quello che ci si sarebbe impiegato se il camice fosse stato un buco nero.
La frase, dunque, rimase in sospeso molto a lungo, abbastanza da trasformare la speranzosa suspense in sguardi imbarazzati, lanciati furtivamente da un dottorando all’altro. Finalmente, il dottore, levando vittoriosamente al cielo un foglio di carta spiegazzato, concluse: “...questa foto.”
Era una foto molto, molto vecchia. Ritraeva un gruppo di ragazzi, non molto diversi dai suoi dottorandi, abbigliati con le stesse uniformi che, usando la foto come matrice, aveva realizzato per loro. A differenza dei suoi, però, questi ragazzi non avevano armi con loro. E, a differenza dei suoi, erano ricoperti di bende: chi il viso, chi una gamba, chi un braccio, chi il torace, chi più di una parte…Mentre i suoi ragazzi in guerra stavano per andarci, questi ne ritornavano.
Sotto, nell’elegante calligrafia di un ufficiale britannico, era stato scritto:Ypres, 15 ottobre 1918. Soldati feriti aspettano le ambulanze.
“E’ stato un membro della famiglia imperiale a fotocopiare la foto e darmela. Non tutti loro sono d’accordo con il Discendente” I due dottorandi facevano poca fatica ad immaginare perché. Il Discendente non era tipo da fare favoritismi o nepotismi. Avrebbe applicato lo stesso principio all’ultimo dei suoi sudditi come al primo dei suoi familiari.
“Questo è lui” Indicò un soldato con la testa completamente fasciata. “Guardate la macchia di sangue che ha sulla manica della divisa.” I due obbedirono. Nonostante la vecchia foto fosse sfocata, rovinata e in bianco e nero, riconobbero il simbolo dell’impero in un batter d’occhio. E, come ogni cittadino dell’impero, sapevano a memoria le parole del Padre. Ho visto nel sangue l’occhio che mi guardava, ho visto il sole declinare sulla mezzaluna, ho visto il bersaglio e mi ci sono diretto, perché era spezzato e doveva essere corretto. I loro occhi si spalancarono. Non considerando la famiglia imperiale, si potevano contare sulle dita di una mano i cittadini dell’impero che avevano visto una foto del Padre, e ne sarebbero avanzate due.
Il dottor Vane continuò: “Sono riuscito a recuperare il tempo e il luogo esatti dell’assalto in cui sono rimasti feriti. Memorizzate i dettagli della sua divisa. Manca un bottone, ha una tasca rigonfia. Lettere, probabilmente, o un taccuino. Voi siete i suoi commilitoni, lo avvicinerete nella trincea e lo ucciderete quando il caos scoppierà, il momento in cui la probabilità che il fatto ramifichi conseguenze non volute è la più bassa possibile. Un soldato morto, uno su dieci milioni. Il mondo non si accorgerà mai della differenza, ma il mondo sarà salvo”
Salvare il mondo. Era un concetto così astratto, eppure stava per concretizzarsi.
Kim strinse il fucile in mano. Sapeva usarlo, ora. Sapeva usarlo sufficiente bene per uccidere un uomo. Ma c’era qualcosa che ancora non sapeva, qualcosa che le tormentava le viscere da quando aveva sentito il piano la prima volta. Era troppo tardi per tornare indietro, però lo chiese lo stesso. “E’ sicuro che sia giusto, signore?”
“Se non lo fate, Kim , moriranno a milardi.” Disse il professore. “Due terzi della popolazione terrestre, ricordi?”
Se lo ricordava. Aveva stretto la sua sorellina in lacrime, le aveva baciato i capelli e alla domanda Morirò, Kim? Morirai? aveva ripetuto tutta la notte una bugia. No, piccola. Aveva promesso. Nessuno di noi morirà.
Eppure… “Se premo questo grilletto, non sarà uccidere, vero? Sarà… giustizia”
Il professore scosse la testa. “Quando premi un grilletto e dall’altra parte c’è il cuore o il cervello di un uomo, è sempre uccidere, Kim. Ma ci sono ragioni per cui vale la pena farlo.”
Lei socchiuse gli occhi azzurri. Assassina.
La mano di Mitchell sulla sua spalla la fece voltare. “Kim, ascoltami. Se il Padre muore, non ci sarà alcuna Seconda, né Terza, Guerra Mondiale. Se il Padre muore, la terra non diventerà una discarica radioattiva dalla quale dobbiamo fuggire. Se il Padre muore, non ci sarà alcun Discendente a decidere chi deve vivere o morire.”
No. Salvatrice. Si disse. Salvatrice. Ripeté. Un uomo, un mostro, un carnefice, un uomo al prezzo di miliardi. Riuscì a convincere una parte di sè. L’altra, riusci a scordarsi di averla.
Strinsero la mano al professore ed entrarono nella macchina. Il dottor Vane controllò i valori sul monitor e comandò alle spesse porte di grafene e tungsteno di chiudersi. E, nonostante l’apprensione per i ragazzi, sorrise. “Te lo avevo detto, mondo, che un giorno la mia scienza ti avrebbe cambiato.” Il suo dito calò sull’ultimo pulsante.
Ypres, Belgio. 128 anni dalla fondazione di Washington.
Ora zero.
La prima impressione che i due dottorandi ebbero della Prima Guerra Mondiale fu che c’era molto fango. La seconda impressione fu che il fango era freddo e bagnato e che ci sprofondavano fino a metà polpaccio. La terza impressione fu che c’era un rumore infernale.
Erano apparsi silenziosamente, fluidamente, senza pop né crack né fantascientifici lampi di luce. Un momento prima non c’erano, il momento dopo sì. Per l’impatto che causarono sul paesaggio circostante fu come se fossero sempre stati lì.
Nessuno li notò. I soldati erano ammassati su un bordo della trincea, chi tremando, chi pregando, chi bestemmiando, chi fumando, chi guardando il cielo marrone con già gli occhi vuoti dei morti.
I dottorandi iniziarono a scandagliare la massa alla ricerca del loro obiettivo. Alto un metro e ottanta circa, bottone mancante, tasca rigonfia, capelli, i pochi che si intravvedevano sotto le bende, scuri. Un soldato in una guerra, un ago in un pagliaio. Il loro orologio ticchettò un secondo avanti, e poi due e tre e venti.
E in quel momento, sull’orologio di qualcun altro scoccò l’ora zero. “ATTACCARE!”
Troppo presto, pensò Kim con disperazione. Il tomi di storia del professore erano errati. Avrebbero dovuto avere cinque minuti per individuare il soldato nella tranquillità della trincea. E ora… I soldati si arrampicarono sulle pareti come tante formiche richiamate da un vasetto di marmellata rovesciato. Ma ad aspettarli non c’era la sostanza zuccherina. C’era l’inferno.
Mitchell e Kim correvano piegati in due, cercando allo stesso tempo di guardare le esplosioni, ognuna più pericolosamente vicina, i soldati nemici, da cui sibilavano mortiferi proiettili, e quelli alleati, alla ricerca del loro obiettivo.
E, improvvisamente, un soldato tedesco stava venendo verso di loro. Stringeva un fucile in mano e sembrava avere tutta l’intenzione di usarlo. Il panico, il freddo panico che striscia nelle ossa e ferma il sangue, congela i muscoli e attanaglia le viscere in una morsa, il panico che blocca un istante e lo fa durare per sempre, il panico li invase. Attraverso gli occhi del soldato, fissi su di loro, la Morte li guardava.
E Mitchell non pensò. Il dottor Vane gli aveva insegnato a usare l’arma che portava in mano. Era carica, doveva solo premere il grilletto. Nel vuoto della sua mente, era scolpita quell’ unica istruzione. Il dito di Mitchell la eseguì.
Il soldato crollò a terra e il rosso invase la sua divisa grigio-verde. Mitchell scivolò nel fango, le gambe non più in grado di reggerlo, come se il principio di azione-reazione si fosse esteso al suo sparo, come se il proiettile avesse trapassato anche il suo di petto. Il fucile sbatté a terra accanto a lui. “Abbiamo ucciso un innocente. Non era questa la nostra missione. Ho ucciso un innocente.”
Kim imprecò. Questo non era previsto. “Dannazione, credi che questo possa avere conseguenze?” Il suo tono era fermo. La Kim persona era rimasta nel 432 AW, con il dottore, con la sua sorellina. Ora c’era solo la Kim scienziata, la Kim che si era laureata in computazione quantistica, che aveva riportato in auge l’effetto farfalla nelle sue ricerche per il dottorato, che aveva fatto del calcolo delle probabilità la sua vita.
Si chinò sul corpo del soldato morto, afferrò la piastrina al suo collo. Gefreiter Adolf Hitler. Un semplice caporale, un soldato morto in una guerra che ne ha presi dieci milioni. Che conseguenze potrà mai avere?
Mitchell strisciò da lei, frugò nelle tasche dell’uomo, ne trasse un taccuino malridotto. Questo quaderno è di proprietà di Adolf Hitler. Se qualcuno osa rubarmerlo ancora, giuro che gli sparo. Mitchell sfogliò le pagine, velocemente. Poche erano disegnate, paesaggi invasi dal fango, schizzi di edifici e uomini distrutti dalla guerra. Mitchell si soffermò sul disegno di un cagnolino. Era chiaro che l’uomo ci aveva dedicato molto tempo e molto impegno.
Kim scosse la testa, chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la Kim persona era stata sepolta molto più a fondo. Avevano una missione da compiere, altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Sarebbe morto comunque, probabilmente. Si guardò intorno, vide i soldati kaki e quelli grigio-verdi cadere nell’uniforme marrone del fango in identica maniera. Facciamo sì che sia morto per qualcosa, almeno.
Alzò a forza Mitchell. I due passarono i successivi minuti a vagare come anime perse per il campo di battaglia,
I due si guardarono. “Abbiamo fallito” Disse lei e fece per aggiungere altro, ma qualsiasi cosa fosse le morì in gola e i suoi occhi si spalancarono. Afferrò il braccio di Mitchell. Qualcosa sibilò sopra di loro e, nelle pupille dilatate di Kim, si specchiarono le fiamme.
Laboratori Imperiali di Los Alamos, 432 anni dalla fondazione di Washington.
10:11 minuti dopo l’ora zero.
Kim uscì dalla macchina con i vestiti bruciacchiati e le lacrime agli occhi, per il fumo, il calore, e la delusione cocente. Avevano fallito. Si girò e Mitchell non era più con lei. Riportò lo sguardo sulla stanza e vide il cadavere del professor Vane, riverso sul pavimento. Sopra di lui torreggiavano sette energumeni vestiti di nero e armati di fucili laser.
Non ci furono processi per Kim Kellner. Non ebbe nemmeno il tempo di esalare un lamento con il suo ultimo respiro. Esso le morì in gola mentre il laser la passava da parte a parte, e di lei rimase solo l’ultimo pensiero, inespresso, nella sua mente. Mi dispiace.
Ypres, Belgio. 128 anni prima della fondazione di Washington.
Un giorno dopo l’ora zero
Un ufficiale britannico stava camminando senza meta, senza un perché. Aveva perso la sua compagnia, non sapeva se nella morte o nel caos della guerra. Probabilmente un po’ delle due. E forse l’indomani sarebbe andato a cercare i suoi soldati, avrebbe tentato di scoprire quali di loro fossero ancora vivi.
C’erano dei soldati feriti, a bordo della strada. Soldati senza arti, senza speranza, con le parti del corpo che la guerra aveva reclamato avvolte in bende macchiate di sangue e di sporco, con gli occhi assenti e un lamento sulle labbra. Li aveva già visti centinaia, migliaia di volte, ma qualcosa, quel giorno, era diverso. Forse era il modo in cui quel soldato con il viso bendato sembrava lo guardasse da sotto la stoffa bianca e rossa. Forse era la macchia di sangue sulla sua divisa, che sembrava un occhio, un occhio rivolto verso di lui. Il suo dito premette il pulsante di scatto.
Elisa Frigerio
Io sono qui oggi per denunciare pubblicamente, a nome mio e di tutti i punti, anni di comportamenti inaccettabili da parte delle varie app di messaggistica. La diffamazione che da anni subiamo hanno portato danni irreparabili, non mi stupirei se fra cent’anni nessuno usasse più i punti in generale per scriverci.
Ma oggi sono qui per cercare di fermare tutto ciò. Voglio sapere chi ha messo in giro tra i giovani la voce che metterci a fine frase è da vecchi: da quando seguire le leggi della grammatica è da vecchi? Si sta per caso insinuando che i giovani sono degli sgrammaticati? Se si continua così, sicuramente lo diventeranno. Ma la storia non finisce qui, perché i giovani ci ripudiano nei messaggi, tranne se sono arrabbiati, in quel caso diventiamo i loro migliori amici.
Sapete come la chiamo questa? Ipocrisia, perchè ovviamente nel momento in cui sei arrabbiato chissene frega se usi un qualcosa da vecchio, no? Ecco cosa noi punti siamo diventati nelle app del giorno d’oggi, il simbolo di una popolazione composta da vecchi e ipocriti scorbutici! Siamo diventati lo zimbello degli altri segni ortografici, anche gli asterischi ci guardano con aria di sufficienza e solo perché ai giovani piace usarli per scrivere in grassetto su Whatsapp.
Noi punti, con questa denuncia chiediamo di fermare quest’onda di ignoranza e di tornare a valorizzare la sana e corretta grammatica italiana. Se non ci fermiamo, pensate che saremo gli unici?
No,i giovani non si fermeranno, quando si saranno liberati di noi cercheranno il prossimo bersaglio e riteniamo probabile siano le virgole, dato che ultimamente i ragazzi preferiscono inviare dieci messaggi separati piuttosto che mettere le virgole. Noi punti chiediamo almeno un milione di euro per ogni punto ingiustamente omesso, che verrà da noi speso per ristabilire la nostra reputazione (o come fondo per curare tutta la massa di poveri punti feriti e traumatizzati), vi aspettiamo in tribunale.
Sofia Rebagliati
Era un pomeriggio assolato di agosto.
Un uomo di mezz’età, quasi calvo e dall’aria arcigna, stava a braccia conserte vicino ad un’automobile polverosa.
Di quando in quando tamburellava con una mano sul cofano dell’utilitaria con i baffi che gli fremevano, lasciandosi sfuggire uno sbuffo di frustrazione.
Proprio quando sembrava in procinto di andarsene, l’istruttore notò una strana figura dirigersi verso di lui: a prima vista, coperto com’era da pellicce e piume, gli era parso un gigantesco avvoltoio. Gli ci volle un po’ prima di distinguere il volto del ragazzo sotto il cappuccio: era pallido come un fantasma, con gli occhi abbassati e una barbetta incolta sul mento.
Sulla spalla destra, adesso che era vicino, riconobbe una grossa pelle di lupo.
‘Questo è scemo’ pensò, squadrando il bizzarro tipo da capo a piedi.
“È lei…” - Esordì il matto, tirando fuori un foglio spiegazzato da sotto la cappa- “il contatto di mio padre? Ser Franco di Tognazzi?”
Franco Tognazzi, digiuno di cultura cavalleresca, strabuzzò gli occhi.
“Io suo padre non lo conosco. È lei Giovanni Neve? Quello dell’esame per le tre?”
Il giovane assentì gravemente.
“Allora venga in macchina, che abbiamo già perso troppo tempo.”
“E le catene?”
Tognazzi, che aveva già aperto la portiera, si fermò un istante.
“Come le catene?”
“Per l’inverno.”
Tognazzi si chiese, per un momento, se a Giovanni Neve piacesse fare il cretino per professione o se lo fosse per dote naturale.
“Ma entri in macchina, invece di scherzare.”
“Ma signore, l’inverno sta arrivando, e il Codice della Strada prescrive l’utilizzo di catene nell’evenienza.”
“Non si preoccupi dell’inverno ed entri, che siamo in estate” fece Tognazzi in tono falsamente comprensivo.
‘Qui la faccenda puzza. Puzza da tutte le parti.’
Era tutto cominciato con una telefonata anonima che l’aveva minacciato di fargli passare grossi guai se non avesse fatto passare l’esame di guida a un tale Giovanni Neve: forse qualcun altro avrebbe ignorato la cosa, ma dalle sue parti era più saggio ascoltare anche i fantasmi al telefono piuttosto che rischiare il peggio.
E poi il nome di Giovanni Neve era comparso misteriosamente tra le liste di prenotazione senza nessun preavviso né uno stralcio di documento, oppure con carte palesemente false che nessuno si era premurato di rispedire al mittente. Quindi evidentemente il buon Neve doveva avere amici a cui non conveniva dare fastidio, aveva ragionato Tognazzi.
Anche il terrore ispiratogli dalle ignote conoscenze di Giovanni Neve, tuttavia, fu a malapena sufficiente per convincere l’istruttore a non pigiare l’acceleratore e investirlo proprio lì sul marciapiede dopo 10 minuti di discussione sull’arrivo più o meno imminente della stagione invernale.
Per sua fortuna, Neve dovette accorgersi che la pazienza del suo interlocutore stava calando pericolosamente e si decise ad entrare in macchina.
All’inizio andò tutto liscio: Tognazzi fu sul punto di commuoversi quando il suo adorato nuovo studente si ricordò persino di togliere il freno a mano prima di partire.
Pur essendo parcheggiata sghemba, Neve riuscì anche a portare l’auto in carreggiata con abilità notevole: a Tognazzi partì una lacrimuccia dall’occhio destro.
I problemi ricominciarono dopo appena una dozzina di metri: il contatore di velocità era fermo sui 15.5 chilometri orari.
All’inizio Franco pensò fosse solo dovuto alla timidezza iniziale del guidatore e aspettò che Neve prendesse confidenza.
Ma invece che aumentare, il piccolo numero luminoso della velocità diminuiva: ora era diventato un pallido 4.5.
Grattandosi la fronte, diede una rapida occhiata a destra e sinistra: niente.
‘Avrà visto qualcosa? Una bicicletta?’
Guardò anche dietro: niente.
Era un sogno? Un incubo?
“Ma non potrebbe accelerare un po’? Va bene la prudenza, ma mi sembra eccessivo…”
Non riuscì neanche a finire di parlare prima di venire interrotto con un perentorio “Sto rallentando in attesa del segnale di fermata.”
“La fermata? Quale fermata? Mi prende in giro?”
Neve si girò con un timido sorriso sulla faccia.
“Sono contento che sia così duro con me. Mi servirà, oltre il muro. Sarà pieno di banditi e assassini che tenteranno di ingannarmi. Ma come Guardiano della Notte devo poter resistere ad ogni lusinga e ad ogni domanda ingannevole! Perciò continui pure, mi metta alla prova.”
E aggiunse poco dopo, “Sono molto bravo ad ignorare le cose, sa?”
Tognazzi intanto ascoltava solo con un orecchio, mentre fissava incredulo la velocità abbassarsi inesorabilmente: quattro, tre punto due, tre, due punto nove, due punto due…
In lontananza brillava illuminato dal sole l’ottagono rosso dello stop, come un miraggio nel deserto.
di Alessandro Pace
Lo sguardo del ragazzotto appena entrato sembrava lo stesso di uno che si trovava davanti una marea di creature mitologiche e, per quanto potessi capire il suo stupore nel vedermi (come biasimarlo, sono fantastico), non trovavo nulla di strano negli altri.
“ Il primo a tentare il test è Maui -si fermò e mi cercò nella stanza per poi indicarmi - Immagino sia tu,, seguimi fuori. Ah, dimenticavo - aggiunse - come diavolo fai a stare a torso nudo con questo freddo? Va bene che la macchina ha il riscaldamento centralizzato, però…”.
‘Riscalda-che?’
‘Lascia stare, vieni con me.’
Lo seguii sbuffando, mi aspettavo almeno che mi chiedesse un autografo, in più la scatola con ruote su cui dovetti salire era troppo piccola per contenere tutti i miei possenti muscoli, prova del fatto che non fosse fatta su misura per me. Come si permetteva quel tizio a trattarmi da comune mortale?
“ Spero che lei non sia di nuovo sotto effetto di stupefacenti” disse il tipo, che chiamerò Bob visto che ho totalmente scordato il suo nome, guardando da una cartellina.
“Non ho mai usato droghe, l’unica cosa stupefacente qui sono io”. La voglia di prenderlo a pugni stava salendo velocemente.
“Stavi andando a 110 km/h senza rispettare le corsie e alla richiesta di patente e libretto hai iniziato a cantare una canzone su come tu abbia posizionato il cielo e rubato il fuoco”.
“Stai dimenticando la parte dove dico quanto sono bravo a ballare”.
“Ti prego inizia a guidare, non ne posso più di questa tortura. Mortacci alla Disney e ai suoi dannatissimi musical.” mi prega sbuffando, vorrei dirgli di no, ma mi ha appena pregato, forse sta finalmente realizzando che ciò che ho detto è vero.
Ovviamente non sapevo (e non so tutt’ora) come funziona una macchina, ma essendo un semidio non poteva essere così difficile, no?
“ Elencami tutti i passaggi che esegui”. Sbuffo per dargli la parvenza di sapere cosa sto per fare.
“ Giro le cose con le punte e smanetto un po’ con la leva-cosa centrale fino a metterla dove sta il numero uno, perché è quello che mi rappresenta”.
“ Non pensi magari di dover mettere la R di retromarcia per uscire dal parcheggio?”.
“ Come preferisce”. Col senno di poi avrei dovuto continuare a fare di testa mia, visto che dopo neanche dieci secondi dall’aver seguito il suo consiglio mi son ritrovato contro la macchina dietro e Bob svenuto. Da bravo eroe quale sono lo tirai fuori dalla macchina e cercai di farlo tornare in sé.Purtroppo Bob non apprezzò il mio salvataggio, visto che la prima cosa che fece fu cacciarmi dalla scuola di guida proibendomi di salire su una macchina per il resto della mia vita,secondo me è stato un po’ troppo drammatico. Comunque ora sto cercando di prendere il brevetto per guidare i sottomarini, non posso affondare un qualcosa che è stato costruito apposta per affondare,no?
di Sofia Rebagliati
“Hai intenzione di accenderla la macchina o pensi di continuare a fissare il vuoto?” Mi disse l'esaminatore… Cavolo il tipo a torso nudo di prima doveva averlo messo di malumore.
“Beh se proprio devo scegliere..”
“Era una domanda retorica, ovvio che devi accenderla”.
“L’avevo capito” dissi sbuffando. Non era vero,non l’avevo capito e non avevo la più pallida idea di come si accendesse una macchina(lo so che detta così si presuppone che io l’abbia imparato, cosa che assolutamente non è successa),l’unico motivo per cui avevo superato l’esame teorico è Jace.
“Piccolo indizio: prova a schiacciare il tasto col segno di accensione”
“Giusto,lo sapevo,lo stavo per fare”. Il problema era che dopo aver schiacciato quel tasto l’unica cosa che partí fu “A bell Will ring” degli Oasis.
“Bene,per me l’esame può finire qui,ritenti magari in un’altra vita. Però se proprio vuole fare un esame faccia un TSO”. Non ci potevo credere, io, Clary, che non avevo mai fallito nulla nella mia vita mi trovavo a sbagliare la cosa più semplice.
“Non credo sia consono parlare così a una ragazza che tenta l’esame” era la voce di Jace, l’eroe venuto a salvarmi.
“ Jace,sei l’unico che è riuscito a fare un esame decente oggi,capisci che non posso far passare tua sorella solo perché tu sai guidare?”
“Non è mio fratello,cioè-“
“Non è questo il punto” mi zittì l’esaminatore ed io, da brava ragazza matura misi il broncio.
“Ha ragione Clary,non è questo il punto. Ora caro istruttore le spiego due cosette,la mia qui presente ragazza ha superato la teoria con un punteggio pieno,quindi sicuramente le cose le sa. Però si è trovata davanti un esaminatore nervoso per via di Mr. sto a torso nudo anche a meno venti gradi. Questo ha sicuramente messo pressione su Clary,motivo per cui ha fatto così schifo all’esame. Ora le cose sono due,o fa di tutto per promuoverla o farò in modo che lei perda il suo lavoro e,si fidi, ne sono capace”. Jace mi aveva capito, era andata esattamente così,anche se l’esame l’aveva fatto lui, io sapevo le regole, era tutta colpa dell’ansia!
“Sa che si chiama ricatto ciò che stai facendo? Comunque ho già avuto un incidente oggi,cercherò di promuoverla ma non ti assicuro niente. Fa veramente pena. E ora andatevene”. Uscii saltellante dalla macchina, dovevo saperlo che ci sarei riuscita,riesco sempre in tutto.
“Bravissima Clary,ora torniamo a casa”. Disse Jace allontanandomi dalla macchina.
“Va bene, ma Guido io”.
“No,cioè ehm,sei bravissima e hai superato brillantemente l’esame,nonostante abbia praticamente costretto l’istruttore a promuoverti utilizzando anche delle rune, però non puoi guidare”.
“E perché no?”
“Perché devi aspettare del tempo e compilare delle scartoffie”.
“Ah si, ha senso”. Beh Jace non mi ha ancora fatto guidare. Ogni volta che ci provo si inventa qualcosa per non farmi guidare, inizio a pensare che non creda nelle mie abilità di autista.
di Sofia Rebagliati
‘Signorina… Elsa di Arendelle?’
‘Presente’
La ragazza fece per aprire la portiera dell’auto con cui avremmo dovuto tenere l’esame. Non capii di preciso cosa accadde, ma tempo due secondi, invece di una macchina avevo davanti una scultura di ghiaccio. Fissai il vuoto per qualche secondo, credo, mentre nel mio cervello sentii distintamente i miei neuroni che protestavano e andavano in sciopero. Tutti. simultaneamente. Poi presi la decisione migliore della mia vita: staccai il badge identificativo e lo buttai per terra.
‘Aspetti signor Boooob!’
Non mi voltai. Maledetta Disney, non mi avrai mai!
Alessandro Pace e Sofia Rebagliati
Pioveva. Il gatto che in quel momento stava uscendo dalla tana dei bipedi l'avrebbe notato con disappunto, ma erano dieci giorni che pioveva ininterrottamente e ormai aveva smesso di farci caso. Il suo pelo rosso, poi, era già umido per l'acqua che filtrava attraverso il tetto della tana.
I bipedi avevano costruito la loro tana dentro un buco serpeggiante nel terreno, come le talpe. Mentre i buchi delle talpe, però, avevano l'aria di essere belli asciutti, sotto terra, quelli dei bipedi erano a cielo aperto. Cielo che, da giorni, era molto, molto piovoso. Stupidi esseri. Pensò, osservando il fondo del buco che diventava più simile ad un torrente con ogni goccia d'acqua che cadeva. Non che avrebbe fatto molta differenza, comunque, se i bipedi avessero imparato dalle talpe l'arte del costruire. Il gatto li aveva visti rifare la tana già tre volte, dopo il passaggio delle cose sibilanti che portavano il fuoco nella pancia.
Il suo stomaco brontolò, distogliendolo dai suoi pensieri. Quella mattina, i bipedi avevano fatto il loro consueto concerto di PIM, PAM e PUM, facendogli scappare tutti i topi.
Con un debole miagolio rassegnato il gatto si decise a saltare giù. L’acqua, fredda, fangosa e bagnata, gli solleticava i peli della pancia, ma aveva fame ed aveva appena avvistato il suo bipede preferito che sembrava proprio intento a tirare fuori un pezzo di cibo dalla strana dura pelliccia che i bipedi potevano cambiare, come fanno i serpenti con la pelle. Che strani esseri. Pensò per l’ennesima volta, avanzando a fatica nell’acqua marrone.
La galleria fece una brusca svolta e lui si trovò muso a muso con lo stupido, insulso cane che uno degli umani si ostinava a tenere con sè. Era poco più grosso di lui, ma si atteggiava a gran padrone ogni qualvolta il suo bipede era in vista.
Quel giorno, del bipede neanche l’ombra. Gli soffiò contro e osservò con soddisfazione il puzzolente codardo battere in ritirata, indubbiamente alla ricerca del proprio padrone. Il gatto si dileguò il più velocemente possibile. Il padrone del cane aveva un pessimo carattere e, come tutti gli altri umani, aveva con sé il lungo bastone che faceva PAM. Il gatto se l’era già visto puntare minacciosamente contro dal bipede e non desiderava ripetere l’esperienza.
Così si ritirò verso il proprio bipede preferito che, oltre, sperava, ad un pasto, avrebbe fornito protezione dal suo disgraziato simile amante dei cani. L’umano stava masticando un pezzo di carne dura e fredda, che lui sapeva però essere molto saporita. “Miao?” Gli chiese, speranzoso, scrutandolo con i suoi occhi verdi. Il bipede sorrise e lo accarezzò, ma staccò solo un pezzetto minuscolo dal suo gustoso pasto. Il gatto ne sentì a malapena il sapore. “Miao?” Ripeté, un pelo più lamentoso. Questa volta, però, alle carezze non seguì alcun boccone. “Miao?”
"Tut mir Leid, Rotchen. Ich habe auch Hunger"1 Il gatto non capiva il ruvido linguaggio umano, ma il significato era chiaro: non avrebbe ricevuto altro.
Negli ultimi tempi gli umani si erano fatti avari. Scucirgli un boccone di carne diventava sempre più difficile e ce n'erano alcuni che sembravano essere convinti che lui dovesse fare la parte del boccone di carne. Ad osservare bene il bipede, in effetti, la pelliccia grigia gli cadeva più lasca sulle ossa di quanto avesse fatto una luna, o anche mezza, fa. Con un miagolio rassegnato, il micio si sottrasse alle carezze. No, non avrebbe ottenuto altro, non dai bipedi grigi. Da quelli blu invece…
Con un agile balzo il gatto raggiunse l’orlo del buco e strisciò sotto i rovi-che-non-erano-rovi che gli umani piantavano sui bordi. Camminò nel fango, aggirando i rami quadrati incrociati, sempre piantati dai bipedi, per ragioni a lui sconosciute, e le pellicce blu che coprivano i corpi in decomposizione dei bipedi che avevano tentato di entrare nel buco dei grigi una luna prima. Il gatto stava giusto riflettendo su quale potesse essere il motivo di tanto desiderio di impadronirsi di un buco fangoso, umido e freddo, che, perdipiù, era proprio uguale al loro, quando qualcosa esplose alle sue spalle. PUM! Il rumore gli ferì le orecchie e trasformò il suo passo tranquillo in una corsa a rotta di collo.
“Das ist meine Katze, Schwachkopf!”2 Urlò una voce dietro di lui. Si trattava del bipede preferito dal gatto, Schütze Hans Watremez, giunto a difendere il proprio amico felino dal compagno umano che aveva preso un po’ troppo alla lettera l’istruzione spara su qualsiasi cosa si muova.
Il gatto avrebbe avuto da ridire sul termine usato, in quanto lui, come tutti i gatti, apparteneva solo a sé stesso. Come già detto, però, il gatto non capiva il linguaggio umano e, al momento, la sua attenzione era tutta rivolta all’allontanarsi il più possibile da quei pazzoidi armati di artigli sputafuoco.
Nel suo schizzare zigzagando tra i cadaveri e le croci di legno nella terra di nessuno, dunque, prestò ben poca attenzione all’eco della discussione tra il soldato semplice Hans Watremez e il suo caporale sull’essere considerabile tradimento o meno il girovagare di un gatto nelle trincee nemiche. Il verdetto non fu a favore di Rotchen, aprendo una nuova diatriba sul se valesse la pena o meno di sprecare proiettili per ammazzare un gatto. Mentre ancora le sue orecchie coglievano la voce di un terzo soldato che, aggiuntosi alla conversazione, sosteneva che un gatto arrosto è buono quanto un coniglio, un sibilo molto, molto vicino al suo orecchio lo fece appiattire contro il terreno. PAM!
I bipedi, quelli davanti a lui questa volta, cominciarono a litigare.
“C’est juste un chat!”3 Gridò uno, facendo segno al commilitone di abbassare il fucile.
“C’est n’est pas juste un chat.” 4 Intervenne un altro soldato, recrue Leon Belanger, fulminando con lo sguardo quello che aveva sparato. “C'est Vit, imbécile! C’est mon chat!”5 Il gatto non era Vit di Leon Belanger quanto non era Rotchen di Hans Watremez, ma non comprendeva neanche questo linguaggio umano, sebbene fosse gradevolmente meno simile all’abbaiare di cani rispetto all’altro, dunque non poteva correggere l’umano che, in quel momento lo stava chiamando. “Vit! Viens par ici, Vit!"6
Nessun richiamo del mondo avrebbe fatto continuare il gatto verso la tana da cui uno di quei pazzoidi su due zampe aveva appena tentato di accopparlo se non fosse stato che, in quel momento, il vento cambiò, portando con sé l'odore del pranzo dei soldati. Il gatto sospirò. Aveva proprio fame. D’altronde poi, cosa poteva fare? Da dietro arrivavano i PUM, da davanti i PAM.
Perlomeno, nel buco dei bipedi blu c’era cibo. Forse era per quello che, quella mattina, i bipedi grigi avevano tentato di entrare in quello dei blu, con tutta la cagnara spaventa-topi che ne era conseguita. Maledetti stupidi esseri! Pensò e riprese a correre, saltando i cadaveri ammantati di grigio sparsi per la terra marrone.
“C’est la Bouche!” 7 Quello con il fucile in mano lo puntò nuovamente contro la piccola forma rossiccia saettante davanti a loro. Il gatto, inconsapevole di essere appena stato definito un crucco, continuò a correre verso la trincea francese.
“C’est un chat!” 8 Ribattè l’altro, sottolineando il termine.
“C’est un espion” 9 Insistette quello col fucile. Evidentemente, l’argomentazione logica implicita nell’affermazione del compagno gli era sfuggita.
Il dibattito se un gatto potesse essere o meno una spia dei tedeschi sarebbe durato ancora a lungo se non fosse che, in quel momento, il gatto incriminato saltò dentro la trincea e si strusciò sulle gambe del suo difensore, quello che di questa covata di bipedi blu era il suo preferito. Leon gli grattò la testa e il gatto si profuse in rumorose fusa.
“C’est mignon, pourtant” 10 Commentò quello col fucile, lasciandolo cadere.
“Oui, mignon. Mais avec pommes dans le pot…” 11 Suggerì qualcuno, ma fu subito zittito dagli altri. Avevano appena ricevuto delle razioni dai loro nuovi alleati d'oltreoceano e non erano particolarmente affamati. Più che altro erano stanchi e tesi e avevano un disperato bisogno di pensare a qualcos’altro, qualsiasi altra cosa che non fosse sparare ai tedeschi. Così nessuno tentò di mangiarsi il gatto, anzi, gli furono allungati alcuni bocconi di manzo e, mentre Vit si arrampicava sulle loro gambe per afferrarli, la trincea risuonò di risa, invece che di esplosioni e lamenti.
La carne era buona, osservò il gatto, masticando l’ultimo boccone con molta meno foga dei primi. Sdraiato sulle gambe di Leon, con la pancia piena, e le dita del bipede che gli grattavano la testa proprio nel punto giusto, stava iniziando a pensare che, forse, avrebbe dovuto rimanere con i bipedi blu invece che tornare con quelli grigi alle Rocce. Strani esseri proprio. Pensò fra sè, riflettendo sulle Rocce, dove c’era asciutto e calduccio, dove il rumore infernale non era che un’eco lontana e bipedi maschi e femmine distribuivano cibo da pentoloni fumanti.
Non riusciva proprio a capire perché gli umani insistessero nel ritornare ai buchi fangosi e ai PIM, PUM, PAM e BANG e, quel che era peggio, ci portassero anche lui. Non che avesse molta scelta, in realtà. Gli erano capitate delle brutte disavventure nelle rare occasioni in cui si era aggirato per le Rocce da solo. L’ultima volta aveva rischiato addirittura di finire lui in uno dei pentoloni fumanti.
Un vecchio gatto che gironzolava lì attorno diceva che erano stati i bipedi, quelli blu in particolare, a costruire le Rocce e che, un tempo, esse erano state senza buchi. Faceva sempre caldo lì dentro, anche nella stagione degli alberi morti. Gli aveva raccontato. Non c’erano i bipedi grigi che abbaiano come i cani, a quei tempi, e gli altri, quelli che ora sono blu erano di tutti i colori. E c’erano sempre bipedi femmina con avanzi di carne o piattini di latte per i gatti di passaggio. Lui aveva annuito, gli anziani si rispettano, ma dentro di sé aveva riso delle fantasie deliranti del vecchio. Non era un micetto, aveva quasi dodici cicli di luna ormai, e aveva visto abbastanza dei bipedi da sapere che, se nell’arte del distruggere e dar fastidio erano impareggiabili, in quella di costruire erano alquanto carenti.
In quel momento, come a dimostrare l’abilità degli uomini nell’essere fastidiosi, qualcosa gli serrò il collo. “MIAO!” Protestò veementemente, balzando in piedi e piantando gli artigli sfoderati nelle gambe del suo ex-altro-bipede-preferito.
“Qu'est-ce que tu fait, Leon, tu es fou?”12 Chiese un soldato, attirato dal rumore.
Leon, che aveva appena legato un biglietto al collo del gatto, sorrise. “Je salute mon ennemis”13
“C’est trahison! Leon!” 14 Lo rimproverò il commilitone, cercando di afferrare il gatto.
Ma era troppo tardi: Vit, irritato dal grido quanto dallo spago stretto sul suo pelo fulvo, saltò fuori dal buco. “Alles, Vit, vas-y!” 15Gli urlò dietro Leon e lui obbedì, non perché i gatti obbediscono, ma perché il suo bipede grigio non aveva mai fatto una cosa del genere.
E infatti, quando il gatto, bagnato fradicio e con la punta della coda bruciacchiata dall’esplosione troppo vicina di un coso sputafuoco, rientrò nella tana dei grigi, le dita del suo bipede preferito si misero subito al lavoro attorno al suo collo. “Mein kleiner Verräter. Was hast du da?” 16 Disse Hans e, finalmente, la roba fastidiosa gli fu tolta dal collo. Il soldato aprì il biglietto e rise. “Du bist wirklich ein Verräter, Rotchen” 17
Il gatto ebbe poco tempo per godere dell’essere stato liberato dal fastidio.Stava giusto finendo di lavarsi via il fango e rassettare il pelo scompigliato quando l’inferno, scontento di non vedere mai il sole, decise di venire sulla terra a prenderselo da sotto la cortina di grigia pioggia.
La tana si frantumò in fuoco e schegge di legno. Il gatto fu scagliato addosso a qualcosa di morbido e lì rimase, incurante del liquido che, scorrendo dalla cosa morbida, gli impregnava il pelo, liquido che odorava di sangue. Si rese più piccolo che poteva, se non mi vedono non mi potranno colpire, e premette il muso sulle zampe, senza più altro pensiero se non che sperava che finisse. Il rumore assordante divenne per lui silenzio man mano che gli istanti si trascinavano lunghi un'eternità.
Il soldato semplice Leon Bélanger trovò Vit rannicchiato accanto al corpo riverso di Hans Watremez. In una mano il ragazzo stringeva il foglietto nel tedesco incerto di Leon. Hallo, Boches. Wie geht dein Krieg? Salve, crucchi. Come vi va la guerra?
L’altra mano era premuta sul suo addome, dove il foro di una palla di sharpnel vomitava sangue nero. Il soldato semplice Hans Watremez aprì la bocca e le sue ultime parole vennero fuori accompagnate da una fontana di sangue. “Pas mal, Franzmann”. Non c’è male, francese.
Leon aspettò che morisse, poi prese Vit e tornò coi suoi commilitoni alla propria trincea. Aveva smesso di piovere, nel frattempo. Tra le nubi che si andavano diradando, il sole stava calando.
Elisa Frigerio
Non poteva crederci. Dopo anni, secoli di addestramento, si erano lasciati prendere a padellate? Come avevano potuto delle guardie Optimates, potenziate nella forza fisica, venir tramortite da un ragazzetto lavapiatti? Impossibile; ma se escludi l’impossibile, ciò che rimane, seppur improbabile, deve essere la verità: fu così che i tre stranieri erano scomparsi dai loro appartamenti, lasciando al loro posto dei bernoccoli. Ed ora la loro caccia era stata affidata a qualcuno di più capace: perché ogni volta che delegava anche il più semplice dei compiti rimaneva pericolosamente delusa? Destinata ad essere la migliore, quindi circondata da incompetenti. C’era una sola altra persona su cui poteva contare, a parte sé stessa…
Minerva, condividendo i suoi pensieri, risuonò nella sua mente: Non ti angustiare, sorella, nostra madre provvederà alla giusta punizione; ora che abbiamo recuperato i progetti per creare altri potenziati, non è più necessario preservare i soggetti attuali se carenti. Spietatamente analitiche come sempre, le gemelle si scambiarono pensieri di consenso, mentre perlustravano Hende da ogni pineta a promontorio.
La priorità è ritrovare i nostri… ex-"possibili alleati", rispose telepaticamente Artemysia. Era un vero peccato che i tre umani non le avessero assecondate nei loro piani e si fossero ribellati; quasi le dispiaceva per la soldatessa Yandaliana: sarebbe stato uno spreco eliminare una mente così pratica e razionale. I pedoni però vanno sacrificati pur di dare scacco matto.
Quando aveva esposto loro il suo piano, quella mattina, non aveva capito come potevano non esserle grati, sentirsi onorati e soddisfatti. Erano convinti che gli Optimates li avrebbero uccisi per evitare la fuga di informazioni, ma perché sprecare così delle risorse? Erano due militari di un certo rilievo, dei due paesi avversari: avrebbero potuto essere degli agenti utilissimi per Hende, perfettamente infiltrati nei due governi. Fra la luce soffusa delle eleganti stanze, Artemysia li aveva assicurati che non solo li avrebbe lasciati vivere (concessione già più che generosa), ma sarebbero addirittura stati ricompensati: sarebbe bastato tirare i fili giusti e avrebbero guadagnato splendide promozioni, onori, privilegi, tutto quello che potessero desiderare… Da parte sua esigeva solo la loro collaborazione per una giusta causa: per la rifondazione di un mondo migliore, migliore anche per loro umani, razionalmente guidato dalla sua gente.
Subito però Artemysia e Minerva avevano percepito il loro dissenso: fiero risentimento negli occhi smeraldini dello Xalatiano, il viso duro della soldatessa corrucciato. Percepiva la coscienza infarcita d’onore dello Xalatiano rigurgitare buonismo e patriottismo: avrebbe fatto di tutto pur di diventare l’eroe senza macchia dei suoi ideali. Kari vacillava: stava soppesando ciò che poteva essere più utile, più conveniente; visto un atteggiamento così pratico e a suo modo saggio, Artemysia sperava che giungesse all’unica decisione logica. Nell’attesa di ciò, li aveva fatti mettere tutti sotto sorveglianza.
Del giovane cuoco non si erano interessate particolarmente: troppo ingenuo, eppure nella sua semplicità aveva prevalso sulle guardie e reso possibile la loro fuga.
Appena scoperta l’evasione, Myricae aveva dato ordine di chiudere l’unico porto di Hende e requisire le imbarcazioni: non c’era modo di lasciare l’isola, a meno che non pensassero di scappare a nuoto.
Un contatto telepatico la raggiunse, ma non era Minerva: l’immagine dei tre stranieri in una stanza affollata di schermi, seduti a due videoterminali; Horus li aveva trovati: era la stanza dove il cuoco aveva origliato la loro conversazione la sera precedente. Diede ordine al falco di aspettarla lì e sorvegliarli, mentre lei comunicava la posizione alla sorella. Minerva però aveva altre novità: Helcar ha attaccato nostra madre, ora qualcuno sta trasmettendo dalla sala tattica, con l’identificativo della regina; deve averglielo sottratto, dopo aver assistito gli umani nella fuga. Ecco come avevano fatto a scappare. Vile traditore, schifoso contro-traditore: aveva venduto gli Optimates per una cifra ancora più alta promessa dalla Yandaliana, o per qualche discorso morale dallo Xalatiano?
Artemysia si diresse di corsa nei piani inferiori del palazzo.
Arrivò contemporaneamente a Minerva. Si appostarono dietro stipiti della porta per non essere viste: una di fronte all’altra, uno lo specchio dell’altra. Uno specchio con qualche increspatura: le trecce della sorella erano più scure dei riccioli ramati di Artemysia, i suoi occhi di ghiaccio più chiari di quelli dorati di lei, ma in entrambi risplendeva la medesima luce. La stanza, usata come sala informazioni e tattica da Myricae, era in penombra, illuminata solo dalla luce bluastra dei computer; Artemysia poteva percepire la tensione nell’aria, il nervosismo, il senso di importanza e urgenza che permeava i tre umani in quel momento.
È tutto inutile, la loro resistenza è inutile. La Yandaliana e lo Xalatiano stavano trasmettendo una videocomunicazione da due dei numerosi videoterminali della stanza: ognuno sussurrava concitato in un auricolare, comunicando con quelli che sembravano essere i loro rispettivi generali. Le immagini degli schermi erano sgranate, ma Artemysia e la sorella potevano leggere chiaramente dalle loro menti cosa si stessero dicendo, le loro intenzioni, le fatali azioni appena compiute…
Alle gemelle bastarono pochi secondi di contatto telepatico per capire che i due militari si erano lanciati in un atto d’eroismo disperato: dopo essersi introdotti nella sala con l’aiuto di Helcar, era stato semplice risalire alle frequenze che normalmente gli Optimates usavano per intercettare le comunicazioni di Xalat e Yandal, e usarle per contattare i governi dei due paesi rivali. Avevano rivelato tutto quello che sapevano: la verità sull’inizio del conflitto, l’esistenza e l’interferenza della sua gente, i loro piani per il futuro…
Minerva irradiava cieca ira, frustrazione, quasi panico: i suoi occhi argentei erano puntati sullo Xalatiano, come se potesse distruggerlo solo con lo sguardo; Artemysia però le rispose con gelida calma: poteva avvertire dalle emozioni dei due soldati che qualcosa era andato storto per loro…
Percependo l’intrusione, i due militari sobbalzarono, ma era troppo tardi. Con passo imperioso e marziale, Artemysia puntò a Kari, la gemella verso Alden. Il ragazzino Xalatiano emise un patetico urlo di sfida e cercò di affrontarle brandendo una padella, ma, ad un comando di Artemysia, Horus si scagliò su di lui con gli artigli snudati: il ragazzetto venne scaraventato in fondo alla sala, senza che nemmeno fosse riuscito a sfiorarle. Artemysia sollevò di peso la Yandaliana dalla sedia e la sbattè sul pavimento, nonostante Kari cercasse di reagire mentre prorompeva in una cascata di insulti. Minerva atterrò lo Xalatiano con altrettanta fermezza e facilità, poi gli strapparono gli auricolari.
“Generale Marcus, corrotto di un raccomandato, deve ascoltarmi, fermi tutto! -urlò la soldatessa mentre Artemysia la costringeva a terra- Faccia una sola cosa che non sia un’emerita…” la ragazza dai capelli ramati afferrò Kari per il collo e la costrinse al silenzio, gli occhi d’oro puntati con aggressività sul viso ebano di lei, poi indossò la cuffia e ascoltò il comandante Yandaliano.
“E fermare una fonte di guadagno così grande? Non mi interessa chi abbia iniziato questa guerra, mi interessa solo quello che Yandal può guadagnare, che IO posso guadagnare. -rispose con scherno una voce maschile dall’auricolare- Di soldati ce ne sono tanti, ce ne saranno sempre abbastanza, ma i guadagni che si possono trarre dal conflitto… quelli non sono mai abbastanza. E continueranno, per ogni arma venduta e comprata entro la nostra economia, per ogni zolla di terreno che conquisteremo… Perché dovrei fermare una guerra così redditizia, una guerra che fra l’altro potrei ancora vincere, diventando la potenza suprema dello scacchiere?”
Minerva mise il terminale che Alden aveva usato in viva voce; si sentì una donna che parlava, presumibilmente il capo delle armate imperiali di Xalat, ancora convinta di rivolgersi solo al soldato: “Come osi rivolgerti così a me? Sarebbe un disonore troppo grande ritirarsi, vorresti che il tuo celeste Imperatore si macchiasse di un’onta simile? Dovrei farti giustiziare solo per aver concepito un pensiero così codardo. Ed è quel che farò, tu e tutti quei traditori di cui mi hai detto, verrete cancellati dal mondo, nessuno ricorderà il vostro nome”
Dall’auricolare, Artemysia sentì Marcus continuare: “Elmas? Beh, è sparita? Comunque, si consoli: anche le informazioni che lei mi ha appena dato hanno un valore. Non potrei mai ignorare un rischio così grande…”. Prima che la comunicazione fosse interrotta, la ragazza avvertì una voce fuoricampo: sì signore, armata e pronta.
Minerva e Artemisya
Tecnica: Sketchbook“È finita – bofonchiò Kari tossicchiando da terra– ormai, come avrebbe detto qualcuno qui, la frittata è fatta”.
Davvero, umana, mi deludi: non mi aspettavo qualcosa di così sentimentalmente illogico anche da te.
Un ragazzo prestante comparve improvvisamente sulla soglia, vestendo l’uniforme delle guardie di Hende. Minerva gli rivolse una raffica di domande ancor prima che potesse fiatare: “Helcar? Dov’è? La regina? Cosa le ha fatto? Com’è stato possibile?!”
“Il traditore ha avuto ciò che gli si conveniva -rispose la guardia- ma abbiamo un altro problema: sono stati rilevati oggetti in volo diretti verso l’isola, sia da Yandal sia da Xalat. Sono chiaramente ordigni, e non di modeste dimensioni, né in numero esiguo”.
L’istante di freddo silenzio venne squarciato da un urlo del falco.
“Idioti, vi siete uccisi con i vostri stessi ideali, avete rovinato tutto! E per cosa!? – sbraitò Artemysia rivolta ai tre avversari– Cosa credevate, di SALVARE IL MONDO? Di fare la differenza? Di diventare eroi? I vostri superiori vi hanno abbandonati, anzi vi hanno condannati! Morirete, tutti, qui con noi.”
Nemmeno l’evidenza impedì allo Xalatiano di esporre un ultimo manifesto del suo “eroismo”: “Un grande capitano disse: “meglio morire salvando delle vite, che vivere portandone via” ”.
“Perché credi che ora la situazione migliorerà? Avete sentito cos’hanno detto i vostri generali: la guerra continuerà, ancora e ancora, e il giorno in cui non saranno rimaste altro che macerie, non ci saranno più gli Optimates per far rinascere il mondo dalle ceneri! Siete solo degli idioti!” rispose con durezza Minerva. La gemella era disperata, per la prima volta la paura adombrava lo sguardo di ghiaccio: Come abbiamo potuto fallire sorella? Dopo tutti questi anni, il nostro piano era perfetto…
Si -le rispose Artemysia- un’equazione perfetta, che però non teneva conto dell’imperfezione: che non teneva conto della loro stupidità. Si sono puniti da soli per quella. E’ stato un privilegio, sorella.
Già immaginava la scena: una pioggia di bombe, al posto dell’isola verdeggiante sarebbe rimasto solo uno scoglio sterile ed annerito, la sua civiltà spazzata via… L’ultima speranza sarebbe morta con loro, dissolta nel nulla, dispersa fra le onde dell’oceano solitario, dove nessuno poteva sentirli urlare. Rivisse i ricordi terribili del primo grande bombardamento, secoli prima, quando la penisola di Hende era stata separata dal continente dalla forza delle esplosioni, la terra che tremava, il cielo in fiamme, gli Optimates decimati senza pietà. Quelle immagini atroci avevano alimentato in lei la bruciante sete di vendetta per secoli, ma ora gli umani avrebbero finito il lavoro: mandavano un’altra pioggia di stelle, per spegnere definitivamente la loro luce; un’alba che non sarebbe mai più potuta sorgere.
Artemysia si rivolse alle figure accasciate sul pavimento, per la stoccata finale: “Ora che è tutto perduto, le nostre vite, i vostri ideali… le vostre patrie, che si autodistruggeranno entro qualche altro decennio di scontri… tutto andato… diteci, ora, maestri di etica: siete così sicuri che fossimo noi i cattivi?”
“Beh, care le mie supergemelline - fece con un filo di voce Kari, con un sorriso di scherno a malapena increspato dalla sofferenza per le costole incrinate - In fondo son una gran romanticona anche io, chi l’avrebbe mai detto? Scherzi a parte, mai sentito di una cosa che si chiama ‘libertà’?”
“Libertà. Se non fossi un essere superiore, probabilmente lo troverei divertente… Davvero avresti distrutto ogni speranza di un mondo migliore per una questione di libertà?” Rispose Minerva, severa.
“Strano eh? Eppure l’idea di essere manipolata da un gruppo di burattinai senza cuore mi fa venire un fastidioso e insopportabile prurito dietro alle scapole, sai com’è… Tutto sommato preferisco i miei corrotti, idioti e imperfetti superiori.”
“Conta, Elmas, conta: - replicò gelida, con malcelata rabbia, Artemysia - contano i morti che ci saranno da ora per i prossimi trent’anni e quanti in meno ce ne sarebbero se noi, ‘burattini senza cuore’, come ci hai definito, prendessimo il controllo. Saresti abbastanza fredda e oggettiva per affrontare il dolore di tutte le famiglie di questi morti? Saresti così ‘senza cuore’ da rispondere loro: ‘il vostro sacrificio era necessario per garantire al mondo la libertà’? Illuminaci, in questi pochi minuti che ci separano dalla fine: in fondo, chi di noi ha sacrificato più pedoni pur di raggiungere la vittoria?”
A quella provocazione, un velo di incertezza piombò sul volto sofferente di Kari. Fu tuttavia solo per pochi istanti: il suo abituale sorrisetto beffardo tornò rapidamente sulla sua bocca. invece di articolare una risposta, sì limitò a scuotere la testa. Non avrebbero mai capito. Le supergemelline avevano ragione, ma allo stesso tempo, torto marcio. Non era certo una stupida, sapeva che sotto la bandiera della ‘libertà’ erano state giustificate le peggiori idiozie. Persino la propaganda del suo paese sbandierava spesso quel termine, sui manifesti anti-imperiali. Eppure tutta la logica del mondo non poteva bastare a comprendere il dannato, stupido, irrazionale desiderio umano di prendere il destino nelle proprie mani e… correre, saltare, amare, ridere, piangere, buttare via la propria vita o fare grandi cose, rovinarsi o elevarsi… Ma per una propria decisione, non perché deciso da qualcun altro, fosse pure cento volte più bravo e intelligente di noi.
Beh, poco male. Se esiste un inferno, ci rivedremo presto pensò, mentre il bagliore dell’impatto iniziava ad illuminare il mondo intorno a lei.
Elisa Frigerio, Martina Cucchi e Alessandra Zagaria
A volte dimenticavo quanto la vita potesse essere cattiva. Noi cimici, se siamo fortunate, nasciamo in estate e possiamo goderci tre mesi di caldo, gioia e divertimento. Viviamo come re tra gli altri insetti, che non ci toccano per via del nostro odore, Certo non è tutto rosa e fiori, mi è capitato spesso nel corso della mia vita di essere bullizzato per il mio ahem, ‘profumino’ dagli altri animali;dopotutto, quando non possono ferirti a gesti, gli altri cercheranno di ferirti a parole, è così e basta e bisogna accettarlo, io l’ho fatto tempo fa. Poi ci sono altri tipi di cimici più sfortunate, che nascono a settembre e si trovano in veri e propri Hunger games, dove tutti sono disposti a fare di tutto per un posto al caldo, anche se questo significa rischiare la vita. Io avevo avuto la fortuna di nascere a luglio, ma al posto di sfruttare questo vantaggio per scegliere un buon posto per l’inverno, mi sono perso in un grande campo. Avanzai alla cieca, perché camminando l’erba alta mi ostruiva la visuale, mentre se volavo la nebbia mi impediva di vedere chiaramente.
Quando vidi la struttura mi stavo per mettere a piangere per la gioia e rischiai di essere investito da una di quelle grosse e strane rocce mobili. Guardandomi intorno ne vidi altre, questo significava che quel posto era pieno di quella razza animale gigante, gli umani. E come se l’avessi predetto, mi passò davanti un numero esorbitante di questi animali, tutti entravano in quella tana gigante fatta in pietra… Era il mio momento di agire. Volai come non avevo mai fatto prima e mi fiondai verso la prima entrata disponibile (in realtà ho più che altro pregato di essermi diretto verso uno di quei buchi, visto che la nebbia mi impediva di vedere), lì conobbi i soli in miniatura e rimasi incantato per almeno dieci minuti interrogandomi su come fosse possibile racchiudere il sole e dargli una forma rettangolare. E poi, dove avevano trovato tutti quei soli? Venni distolto dai miei pensieri da un suono tremendo, acuto e perforante, seguito da altri ugualmente terribili. É solo allora che mi girai, per ritrovare cinque umani dai lunghi capelli additarmi (credo fossero esemplari di umano femmina, ma non sono sicuro), pensai allora che volessero osservarmi meglio, forse ero il primo della mia specie che vedevano, ma quando spiccai il volo per accontentarle (ero abituato, la mia bellezza è risaputa in tutta la comunità di cimici e non solo), loro però presero a dimenarsi e scappare in giro per la stanza. Visto che quel suono mi stava facendo venire il mal di testa e che temevo di aver appena fatto una gran figuraccia, decisi di andare da un’altra parte della grande tana, tanto mi importava solo di rimanere al calduccio. Mi sentivo profondamente ferito nell’orgoglio, come già detto noi cimici spesso veniamo bullizzate, ma almeno capiamo cosa dicono gli altri insetti. In quel caso, però, non avevo la più pallida idea di cosa stessero cercando di comunicarmi, ma le loro facce, tra il disgustato e il terrorizzato, erano peggio di qualsiasi atto di bullismo. Cercavo di andarmene senza dare nell’occhio, ma i loro sguardi mi seguivano “Uno zimbello, ecco cosa sei” mi diceva una voce nella testa. Avevo Le lacrime agli occhi quando la vidi, quell’umano dai capelli lunghi mi stava sorridendo e il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. “Finalmente ho trovato un essere che mi è amico, ora non devo più temere nulla” Sperai subito fiducioso. Mi avvicinai a quella creatura e lei, al posto di urlare come le altre avevano fatto, mi allungò una mano, con sopra una specie di foglia bianca. Lei continuò a sorridere mentre mi calava quella cosa addosso. Poi più nulla, solo buio. Spero che il mio odore le rimanga sempre addosso, in modo che non si possa dimenticare delle sue azioni. Il mio cuore infranto, come d'altronde tutto il resto del mio corpo, non potrà mai dimenticare ciò che mi ha fatto.
Sofia Rebagliati
Le rivelazioni ancora ronzavano nelle orecchie di Kari quando lei incrociò lo sguardo verde bosco dello Sputafuoco. Quello che vide non le piacque.
“Assolutamente no!” Esclamò.
“No a che cosa?” Il bastardo ebbe pure la faccia tosta di mostrarsi sorpreso.
“No a quello che pensi di fare.” Incrociò le braccia sul petto per sottolineare la sua determinazione. “Fai pure l’eroe, Xandaliano, ma non quando c’è in ballo anche la mia vita”
“E cosa suggeriresti di fare, quindi, Yandaliana?” La sua voce aveva una ben distinta sfumatura di sfida, come se non esistesse alcuna linea di azione che non comportasse il mettere a repentaglio la propria vita per un qualche bene superiore.
Kari, di ben altra opinione, si strinse nelle spalle. “Uscire di qui, trovare una barca, mettere più strada possibile tra noi e quest’isola.” Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma lei lo fermò prima che le parole sacrificio, patria, eroismo e compagnia bella potessero lasciare le corde vocali. Un pensiero, un pensiero molto spiacevole, aveva appena fatto strada nella sua mente. Peggio: aveva superato tutti gli ostacoli, tutti i posti di blocco della ragione, classificandosi come pensiero sensato. Kari sospirò e si abbandonò a sedere su un letto. “No, lascia stare. Questa stanza è sicuramente sorvegliata, gli Opticosi avranno sentito ogni nostra parola.”
Lampi di terrore saettarono negli occhi di entrambi i ragazzi. Evidentemente, non ci avevano pensato. Il picchia-padelle si rannicchiò su se stesso, stringendosi le ginocchia al petto e cercando di rendersi piccolo piccolo. Lo Sputafuoco, al contrario, non perse l’occasione di dar prova del suo sfrenato amore e ossequioso rigore nei confronti della disciplina militare. Dopo che i suoi occhi verdi ebbero inghiottito il lampo di paura, infatti, il suo volto scivolò nella perfetta espressione imperturbabile di qualcuno che ha passato molte ore a esercitarla allo specchio. “Che cosa facciamo?” La sua voce era ferma. Kari notò che aveva una mano stretta attorno alla stoffa della propria camicia. La presa era così forte che le nocche avevano assunto un colore giallastro.
“Cosa facciamo noi, non lo so. Cosa faccio io… beh, picchia-padelle qui ha riferito che potremmo ancora essere utili ai nostri non-salvatori. Io ho tutta l’intenzione di rendermi il più utile possibile. Vi consiglio di fare lo stesso.” Kari vide le labbra dello Sputafuoco muoversi in un sibilo che suonava abbastanza come codardo corvaccio yandaliano, ma non ci diede molto peso.
In quel momento, infatti, la porta si aprì. Dalla soglia fece capolino il volto incorniciato da trecce di una delle due gemelle, grazioso come sempre, ma con un’aria complessiva decisamente meno amichevole e gioviale. La ragazza guardò tutti loro, uno alla volta, e sorrise a Kari. “Penso che tu, fra tutti voi, sia la persona più saggia.”
Kari squadrò i propri compagni di avventura e pensò che, come complimento, non era un granchè.
La gemella, occhi dorati-Artemysia ricordò Kari, le tese la mano. “Mia madre è molto incuriosita da te. Ti invita ad andare da lei, per una discussione di storia”
Ma nessuno dorme, su quest’isola? Brontolò Kari tra sè e sè, mentre elargiva un caldo sorriso a Artemysia, ne afferrava la mano tesa e scattava in piedi, la propria forza quasi inutilizzata al confronto con quella sovrumana della ragazza. Optimates eh? Geneticamente modificati? Non è che riuscireste a modificare geneticamente anche me?
“Kari?” La ragazza si voltò in direzione della voce. Il ragazzo delle padelle aveva l’aria più confusa che tradita. Kari non rispose al suo richiamo. Che dirgli? Non c’era giustificazione. Era semplicemente fatta così. Spostò lo sguardo sull’altro ragazzo. Lo Sputafuoco sembrava voler rendere onore al nomignolo usando gli occhi come fori di uscita. Kari sentì il suo sguardo bruciare su di lei nell’attraversare la stanza e lo ignorò beatamente.
Mentre discendeva la ripidissima scala al seguito della nuvola di riccioli ramati, Kari sentì qualcosa pungerle il cuore, come se qualcuno avesse affisso un foglio con una puntina usando il suo muscolo cardiaco come bacheca. Fu quasi alla base di essa che si accorse, con suo grande disappunto, che si trattava di senso di colpa. Mi sto definitivamente rammollendo.
Artemysia la condusse in quella che aveva una buona probabilità di essere la stanza in cui il ragazzo delle padelle aveva deciso di mettere a repentaglio tutte le loro vite facendosi i fatti degli altri.
La stanza era in penombra. Gli schermi illuminati sparsi per le pareti parevano una costellazione di stelle.
La regina era china su un tavolo e la luce violetta che proveniva da esso creava strani riflessi sulla sua pelle dorata. Nonostante l'ora tarda, indossava lo stesso un abito elegante e non c'era un capello che fosse sfuggito alla sua elaborata acconciatura.
La luce violetta del tavolo e degli schermi creava strani riflessi sulla pelle dorata della donna. Non appena mossero i primi passi nella stanza, gli schermi si tinsero di nero e, nella soffusa luce azzurrina che poco a poco si diffondeva per la stanza, la regina si fece loro incontro, flessuosa e silenziosa come una pantera.
Superava Kari di tutta la testa.
“Maestà” Kari salutò educatamente e, per una volta, non sentì il familiare retrogusto della bile che inghiottiva ogni qualvolta chinava il capo. Generalmente i riceventi del gesto erano fiacchi burocrati che non avevano mai visto un campo di battaglia, ma al compenso sembravano conoscere a memoria le opere di famosi strateghi. La regina Myricae aveva qualcosa di diverso. Era il genere di persona sulla quale il potere sembra condensarsi in un’aura inspiegabilmente percepibile… E terribile.
La donna le sorrise, ma non perse tempo in ulteriori convenevoli. “Un tempo, Yandal e Xalat erano un unico impero...”
Kari, che si era fatta un nome al centro di addestramento per sparare fuori le risposte prima ancora che l’istruttore avesse finito la domanda, non riuscì a trattenersi neanche questa volta.
“Questo lo so. Xiandalat , si chiamava. Anche se molti fanno di tutto per dimenticarlo.” Al contrario degli istruttori, la regina non diede cenno di esserne infastidita. Continuò senza il minimo segno di aver sentito l’interruzione. “... e come ogni impero, anche Xiandalat voleva essere più potente dei propri vicini…”
Kari odiava essere ignorata tanto quanto l’essere interrotta, ma qualcosa negli occhi grigi della donna le diceva che non era una persona con cui tirare la corda. Dunque strinse i denti. Operazione di routine per qualcuno che aveva quotidianamente a che fare con la burocrazia militare yandaliana.
“... che, come ogni paese, non gradivano affatto che qualcuno fosse più potente di loro. Per anni e anni ci furono schermaglie, alleanze, scontri, tradimenti, guerre, per questa o quella rotta commerciale, per un metro in più o in meno, per qualche isoletta, porto, tratto di terra…
E dimmi, chi vince una guerra?”
Kari fece per fare un verso di scherno, ci ripensò a metà strada e se ne uscì con una via di mezzo tra un colpo di tosse e una risatina strozzata.“Se lo sapessi, sarei a Yandal tra tutti gli onori mentre si celebra la sconfitta di Xalat.”
La regina rise. “Chi vince una guerra quando i vertici di entrambi i contendenti non sono pienamente d’accordo sul fatto che la guerra gli sia molto più conveniente che la pace?”
La domanda colpì Kari. Non era mai stata il tipo da farsi coinvolgere dalla retorica patriottica, ma l’idea che nessuno dei due paesi volesse veramente vincere non l’aveva mai sfiorata.
Aveva sempre pensato che fossero semplicemente troppo idioti per riuscire a trovare un accordo, troppo ben bilanciati, o egualmente stremati, perchè uno potesse prevalere, e entrambi troppo cocciuti perchè uno dei due si arrendesse. A dir la verità, non aveva mai dato molto peso al perché ci fosse la guerra. Lei, sua madre, sua nonna… nessuno aveva mai conosciuto la pace, se non per brevi, effimere tregue. La guerra era qualcosa di naturale, come i temporali, come lo scorrere del tempo. Semplicemente c’era.
“Chi ha la bomba più grossa” Rispose senza pensarci troppo.
“Così la pensavano i paesi confinanti, e anche una buona parte della gerarchia militare Xiandalatiana. Il gioco durò per qualche decennio. Xiandalat creava una bomba da 5 kilotoni, Myallan da 10, Theras da 12. Xiandalat allora ne faceva una da 20… e così via. Ci volle un po’ prima che si accorgessero che l’unico risultato di questa partita di poker al rilancio era la sostituzione delle proprie città con grossi crateri.”
Kari cominciava ad intuire dove la regina stava andando a parare. Non esitò a testare la sua teoria. “Così hanno creato voi.” Affermò.
La donna sorrise. “Così hanno creato noi. Per un po’, è andata bene. I paesi confinanti si sono piegati, Xiandalat ha ottenuto questo e quello… Ma ad un certo punto, noi ci siamo stancati. Sei una soldatessa, Elmas. Sai cosa significa essere niente più che un numero nel registro di qualcuno.”
Kari pensò a quando aveva lasciato il suo campo di addestramento, portandosi dietro i ragazzi di cui non sapeva neanche il nome, solo il numero di matricola. Pensò a come aveva inserito decine di quei numeri, uno a uno, nel database dell’esercito Yandaliano, sotto la voce: decessi.
Le sue dita trovarono la piastrina di metallo sotto la sua camicia, miracolosamente rimasta al suo posto e seguirono il rilievo 501-12. Annuì.
“Ci ribellammo. Ma, per quanto fossimo superiori, perdemmo. Per una bomba da decine di kilotoni un superdotato è una formica sotto uno stivale tanto quanto un uomo normale. La base dove ci creavano e immagazzinavano tra un utilizzo e l’altro fu ridotta a un deserto nucleare. Il tratto di terra che la univa a Xiandalat fu bombardato, finchè la base non divenne un isola."
Kari pensò al bordo frastagliato dell'isola.
Pioggia di stelle. Ma certo.
"L’isola fu cancellata dalle mappe e noi dalla storia. I progetti, gli studi che hanno portato alla nostra creazione rimasero sepolti negli archivi di Yandal. Incaricammo una fazione indipendente Yandaliana di procurarceli, ma sai benissimo com’è andata”
La chiavetta. Realizzò Kari, ma era troppo stupita per dare voce al pensiero. Dannazione, in che macello mi sono andata a ficcare?
“Ci ritennero tutti morti.” La donna fece una smorfia. “Idioti. Ci avevano creati per essere indistruttibili. Qualcuno di noi era pur destinato a sopravvivere, e lo fecero. Dalle macerie della nostra base costruimmo Hende. E poi rivolgemmo lo sguardo verso i nostri creatori.”
Gli occhi di Kari si spalancarono.
“Xiandalat non è mai stato un impero dei più solidi. Xalatiani, Yandaliani. Monarchici, repubblicani. Pro questo, pro quello. Noi abbiamo versato il sale sulle ferite, strappato i punti alle cuciture. Ni Shara era già una polveriera quando noi abbiamo acceso la miccia. Il resto è venuto da sè.”
C’era qualcosa di compiaciuto nel volto di Myricae, come se stesse raccontato un proprio trionfo. Quanti secoli di guerra? Sette? Otto? Quanti milioni di morti? Pensò con amarezza.
Poi le venne in mente la reazione di sir spilli nel colletto alla notizia che la sua preziosa guerra altro non era che uno spettacolo di marionette. Represse una risata.
“Farci combattere fra di noi fino a quando di Xiandalat non rimarranno solo ossa e cenere. Niente male come vendetta.” Commentò.
La regina scosse con grazia la testa. “Ti sbagli, Elmas. Il nostro scopo non è affatto la vendetta. Noi vogliamo solo un mondo migliore. Purtroppo, se si vuole costruire qualcosa di bello, bisogna rimuovere il vecchio e brutto. Dopotutto…” Ad un suo ampio cenno, gli schermi alle sue spalle si accesero e Kari fu circondata da vedute aeree di Yandal e Xalat. Pur con le discrete competenze geografiche di Kari, le era difficile attribuire macerie, rovine, bunker e terre costellate da cadaveri all’una o all’altra. Sembravano così simili, fianco a fianco.
“...non mi pare che ci sia molto da rimpiangere, di un mondo simile.”
Ma ben altri pensieri ronzavano per la testa di Kari. La scena cominciava infatti a rassomigliare in modo sinistro alla discesa nella pancia della balena di una qualche storia di azione. “Non uscirò mai di qui, vero?”
La regina riuscì ad assumere un'espressione di genuina sorpresa alla domanda. “Perchè dici ciò?”
Kari inarcò un sopracciglio. “Generalmente, quando il cattivo svela il proprio piano malefico, è perchè ha intenzione di ammazzare l’eroe”
“Davvero pensi che che noi siamo i cattivi della storia?” Chiese la regina con un'espressione visibilmente delusa.
Kari sapeva riconoscere una domanda retorica. I giochetti, però, non le piacevano.
“Buono e cattivo sono due punti di vista sulla stessa illusione ottica” Rispose, guadagnandosi una debole risata da parte della regina. “Allora la domanda che devo porti è, sei un'eroina, Elmas?" La donna fece una pausa e i suoi occhi grigi si fissarono in quelli di Kari. Le sue labbra si tesero in un sorriso enigmatico. "Ma penso sappiamo entrambe la risposta."
Kari sospirò. Si, sappiamo entrambe la risposta. “Cosa vuoi che io faccia?”
Elisa Frigerio, Martina Cucchi e Alessandra Zagaria
Jack e Robin sguainarono le spade e iniziarono a combattere contro i due pirati. Jack schivò un attacco di David e cercò una strategia per catturarlo, usando l’ingegno che aveva faticato a formare e che, alla fine, si era fatto spazio nel suo cervello. Decise, allora, di utilizzare una delle liane che pendevano da un albero lì vicino per legarlo al suo tronco. Con uno scatto felino parò un altro attacco dell’avversario, prese al volo la liana facendola girare dietro l’albero e, arrivando davanti a David, lo spinse contro il tronco, legandolo velocemente e ben stretto. Terminato il movimento, il pirata cercò di utilizzare la spada che aveva in mano per tagliare la fune che lo legava, ma Jack, più svelto di lui, gli tolse di mano la spada con un gesto da spadaccino professionista, facendogliela volare in aria e prendendola al volo. Dopo di che, dandogli un bel pugno sulla faccia con il suo destro, lo fece svenire in piedi.
Nel frattempo Robin combatteva con Ben, un vero e proprio gigante, forte come un toro. Doveva trovare un modo per bloccarlo. Pensò che forse una semplice mossa a mani nude in un punto delicato lo avrebbe steso. Sebbene fosse insicuro della sua idea non ci pensò su due volte e buttò la spada a terra. Ben fece lo stesso, con un ghigno divertito che gli solcava le labbra, e fece per attaccare il piccoletto con foga; in quel momento Robin si scansò dal bersaglio mirato dal pirata e Ben si spiaccicò contro il tronco di un albero. Un bel calcio di Robin nel punto giusto lo fece svenire all’istante e così Robin poté legargli gambe, mani e tutto quello che si poteva legare, in modo che il gigante non si liberasse per nessun motivo al mondo.
Felici dell’impresa compiuta corsero a cercare il capitano.
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Intanto, Lucy aveva finito tutte le procedure che le erano state assegnate e guardava la spiaggia, sperando che da un momento all’altro arrivassero i suoi amici sani e salvi. Invece, vide un uomo alto e robusto che correva verso ovest. Era John Robinson. Non vide i suoi amici corrergli dietro, quindi decise di seguirlo armata di spada, pugnali, coltelli e arco.
Sapeva benissimo di non essere forte come i suoi amici, ma aveva praticato arti marziali da quando era piccola e con la spada se la cavava bene. In più la passione per l’arco, che le avevano trasmesso i suoi libri sui fuorilegge, l’avevano spinta a imparare a usarlo. Aveva paura, sì, anche perché era da sola, ma sapeva che se voleva sconfiggere le sue paure nessuno avrebbe potuto farlo al posto suo. Quindi decise di pensare ad una strategia per riprendersi la Roccia dei Sogni.
Mentre correva, schivava alberi, cespugli e liane e si avvicinava sempre di più alla sua preda.
Vide in lontananza che il ladrone si stava dirigendo verso un vicolo cieco, così decise di arrampicarsi su una di quelle liane, il più velocemente possibile. Penzolando su di essa si dava la spinta per saltare e aggrapparsi su un’altra lì vicino. Quando si avvicinò al pirata, si lanciò su un albero e sfilò dalla sacca che portava sulla schiena il suo arco. Pronta a scoccare la freccia, focalizzò il bersaglio, mirò e … scoccò. L’ululato della freccia le diede fastidio all’orecchio, ma non ci fece caso: era troppo concentrata.
La freccia prese precisamente il punto mirato: la manica della maglietta logora della mano sinistra di Robinson. Essendosi infilata nel punto giusto, essa aveva incastrato il pirata in uno dei tronchi robusti, adiacenti alla roccia gigante che chiudeva il vicolo cieco. John aveva picchiato la testa sulla roccia e, inconsapevolmente, aveva lasciato cadere la Roccia dei Sogni a terra.
Lucy si buttò giù dal suo fedele ramo e corse a raccoglierla, mettendola nella tasca dei pantaloni, per poi sguainare la spada e puntarla verso John.
Nello stesso momento arrivarono Jack e Robin, con il fiatone di chi ha appena corso una maratona e rimasero impietriti di fronte allo spettacolo che avevano davanti. Lucy sorrise compiaciuta dallo sguardo dei suoi amici.
“Sì avevate ragione, ragazzi, sarei stata un vero e proprio peso!” Esclamò ironica. “Un peso che, però, ha preso la Roccia dei Sogni.” Aggiunse, mostrandola ai ragazzi.
Non ebbero nemmeno il tempo di farsi pervadere dalla felicità che il capitano li attaccò, essendosi liberato dalla freccia. “Non crederete di avermi sconfitto così facilmente!” Esultò solenne.
Lucy capì di essere il bersaglio del capitano, quindi lanciò la Roccia a Robin, urlandogli di portarla in salvo. Lui la guardò per un momento, pensieroso e indeciso se restare per aiutarla o portare in salvo la Roccia; alla fine, con pieno disappunto, seguì le istruzioni dell’amica. Corse in direzione della nave, mentre Lucy combatteva spada a spada con Robinson. Per quanto era brava, però, Robinson aveva più esperienza e colpì il braccio di Lucy che teneva la spada.
Jack corse in suo aiuto, combattendo come un vero pirata contro il fuorilegge. Lucy voleva aiutare l’amico, ma il dolore e il sangue, che gli usciva dalla ferita, la bloccavano a terra. Nonostante tutto, però, non era spaventata o impaurita, anzi era determinata e sicura di sé. In quel momento capì che qualcosa era cambiato in lei. Ecco la Lucy dei suoi sogni che si faceva strada nel suo cervello e che finalmente prendeva il comando. Quello era il momento di Jack, perciò decise di rimanere a guardare, speranzosa.
Jack sapeva di poter sconfiggere Robinson, lo sapeva con tutte le sue forze; era il suo momento, finalmente, e non se lo sarebbe lasciato scappare.
Parò colpi e cercò di affondare il bersaglio nel petto dell’uomo. Se volevano davvero sconfiggerlo dovevano ucciderlo, ma quel pensiero non piacque a Jack. Decise allora di ferirlo, in modo da tenerlo a bada per il giorno di viaggio che li avrebbe portati alla città dove sarebbe stato impiccato. Ma come ferire un uomo così veloce e abile, pronto a ucciderti a mani nude?
Decise di cercare di farlo cadere, in modo tale da ferirlo. Girò la sua spada in modo che avrebbe potuto attaccarlo alle gambe senza ferirlo, ma solo facendolo cadere sulla schiena, e così accadde. Si mise sopra il pirata, con la punta della spada che gli toccava la gola. Il pirata mosse il braccio e cercò di infilzare la sua spada nello stomaco di Jack. Lucy ebbe un sussulto improvviso che la fece rabbrividire all’immagine del suo amico che cadeva a terra infilzato, ma Jack parò l’attacco, buttando a terra la spada del suo avversario e infilzando il suo stomaco con la punta della sua lama.
Robinson gridò di dolore e si accasciò premendo le mani sulla pancia che, in pochi secondi, si riempirono di sangue. Jack decise di non volere farlo soffrire e, girando la sua spada verso il manico, gli diede con colpo alla testa, facendolo svenire all’istante.
Si girò verso Lucy, ancora sanguinante, e vide che con lei c’era Robin, che si malediceva per averla lasciata. “Robin sto bene, è solo un piccolo taglio. Non è nemmeno profondo. Sta tranquillo! Se non avessi portato la Roccia in salvo la nostra missione sarebbe stata inutile. Sto bene, ok?” Disse Lucy, con uno sguardo amorevole negli occhi.
Stavano tutti bene.
Si diressero verso la “Black” e decisero il da farsi: Robin e Jack presero i tre fuorilegge e li portarono sulla nave legandoli stretti e iniettando loro una bella dose di sonnifero che Lucy aveva avuto la prontezza di portare con sé; dopodiché Lucy ancorò la loro nave vicino alla “Prua” e, tutti insieme, la legarono dietro la “Black”, in modo da trascinarla con loro; Lucy si disinfettò e fasciò la ferita, che gli avrebbe lasciato una bella cicatrice in ricordo della loro avventura; e infine partirono per il viaggio di ritorno verso la città di Dreamland con la Roccia dei Sogni.
Mentre Lucy comandava le due imbarcazioni, i tre parlavano felici. “Che bella avventura che abbiamo intrapreso eh?” Disse Robin, eccitato. “Puoi dirlo forte. Sono riuscita finalmente a trovare me stessa grazie a questa impresa. Ma di certo non grazie a voi!” Rispose imbronciata Lucy. I ragazzi sapevano che era ancora arrabbiata per il loro comportamento prima della battaglia. Fu Jack a parlare dopo un silenzio di riflessione: “Ti chiediamo scusa Lucy, ma avevamo paura che ti facessi male.”
“Ma ci sbagliavamo di grosso!” Fu Robin a parlare, ora: “Sei una delle ragazze più intelligenti e coraggiose che abbiamo mai conosciuto e abbiamo sbagliato a dubitare della tua bravura. Scusaci, non lo faremo più.”
La ragazza restò colpita dalla sincerità degli amici e, con gli occhi lucidi, li abbracciò . “Insieme per sempre?” Chiese lei, mentre si scioglievano dall’abbraccio. “Insieme per sempre!” Confermarono loro all’unisono.
La prima mezza giornata di viaggio fu tranquilla, ma all’improvviso però il cielo si oscurò, portando via il sole brillante e sostituendolo con una massa gigantesca di nuvoloni neri. Stava arrivando una tempesta.
Il mare cominciò a muoversi incontrollato e violento, tanto che la “Prua” si staccò dalla “Black e prese a navigare solitaria per l’oceano burbero. Ormai era persa per sempre.
Secchiate di acqua ghiacciata attaccarono Jack, Robin e Lucy. Infreddolita e digrignando i denti per il dolore che le provocava l’acqua salata sulla ferita ancora aperta, Lucy cercò di mantenere il comando della nave. Ci riuscì per un po’, ma poi il timone iniziò a girare impazzito e Lucy cadde a terra per il sbilanciamento del veliero.
Guardando in direzione dei suoi amici non riuscì a trovare Robin, ma, tendendo l’orecchio, sentì l’urlo dell’amico che chiedeva aiuto. Lucy cercò di arrivare sul bordo laterale della nave e vide che Robin era appeso alla balaustra e che, se l’avesse lasciata, sarebbe finito in mare.
“Jack, Robin sta per cadere! Prendi il timone, presto!” Urlò Lucy con la voce che tremava.
Prese le mani dell’amico, ma la tempesta era troppo forte.
“Lasciami andare! Sono troppo pesante. Ti trascinerò dietro!!!!” Gridò Robin a Lucy.
“No, non ti lascerò.” Rispose secca e determinata.
Jack si lanciò sul timone e, dopo alcuni tentativi disperati, riuscì a prendere il comando della “Black”. Lucy tirò il corpo di Robin con tutta la forza che possedeva e lo fece risalire sul ponte di legno del veliero.
Guardandosi intorno per controllare che non ci fossero stati gravi danni, Jack vide la Roccia dei Sogni cadere in acqua a causa di un’onda fortissima che si spiaccicò contro il bordo della nave. Lucy e Robin, seguendo lo sguardo dell’amico, videro anche loro la scena. Jack corse a gettarsi in acqua e Robin prese il timone della nave.
Immerso nelle acque gelide dell’oceano, Jack vide la Roccia affondare sott’acqua davanti a lui, prese un respiro profondo e si tuffò all’inseguimento. Lucy, che stava guardando tutto dalla nave, tremava all’idea che Jack non risalisse in superficie. Moltissime bolle si levarono sopra il punto dove Jack si era immerso e a Lucy si fermò il cuore. “Jack!” Urlò. “Jack!”
Nessuna risposta.
Poi qualcosa riemerse in superficie.
La Roccia dei Sogni.
Ma Jack????
“No, non può essere” pensò Lucy.
E poi la vide. Una mano uscì dall’acqua gelida. Teneva sul suo palmo la Roccia.
“Jack!!” Urlarono insieme gli amici.
Lucy gli lanciò il salvagente e cercò di tirarlo su. C’è l’avevano fatta!!!! I tre si guardarono felici. Il peggio era passato.
Dopo alcune ore che sembrarono giorni, il cielo si schiarì e la tempesta scomparve. Erano salvi, per fortuna!
Durante la notte fecero i soliti turni e si risvegliarono il mattino seguente riposati e felici, con il sole che splendeva all’orizzonte.
Appena videro la loro adorata città, però, si rattristarono, perché la loro avventura era terminata.
Dopo aver ancorato la “Black” alla costa, scesero dalla nave. Tutti gli abitanti li fissavano male; delle guardie li presero per il braccio e li condussero davanti al Dream Group, il governo della città.
Il consigliere capo parlò per primo: “Voi brutti ladri, avete preso senza permesso una delle nostre navi più belle. Cosa avete da dire a vostra discolpa?”
“Abitanti di Dreamland, io sono Jack e loro sono i miei fedeli amici, Lucy e Robin. Noi abbiamo sfidato le acque tortuose dell’oceano per riportarvi la vostra Roccia dei Sogni.” Gridò entusiasta, mentre tirava fuori dalla tasca la Roccia e la mostrava al pubblico, che iniziò a battere le mani in un applauso rumoroso e pieno di gratitudine.
Jack, con gli amici, raccontò al consiglio e ai cittadini la loro avventura, poi disse: “Purtroppo, però, nella via di ritorno una tempesta si è abbattuta su di noi e ha portato con sé la “Prua”. In compenso John Robinson e i suoi scagnozzi, David e Ben sono stati catturati!!!!!!” Ancora grida e applausi si innalzarono dalla folla e dal Dream Group.
“Jack, Lucy e Robin i nostri più sinceri ringraziamenti per averci riportato la nostra Roccia dei Sogni e per aver preso i furfanti che l’hanno rubata. Io vi dichiaro i nuovi corsari della città di Dreamland. Ogni volta che ci sarà bisogno del vostro aiuto i cittadini conteranno sul vostro impegno per attraversare i mari e sistemare le cose. Nel frattempo sarete iscritti a una scuola speciale per imparare tutto ciò che serve sapere sul mondo e per saper combattere come dei veri e propri corsari. Ma ora, che inizino i festeggiamenti per i nostri tre salvatori!!”
Il fantastico trio divenne presto famoso nel mondo e, crescendo, rimase insieme per intraprendere nuove avventure indimenticabili. Ovviamente non dimenticarono mai la loro prima vera avventura, che li fece diventare una donna e due uomini forti e determinati.
Il sogno di Jack fu realizzato e poté, insieme a Lucy e Robin, far sì che si realizzasse per il resto della sua vita.
Mara Ranzani
Sono tornata a casa e tu eri lì, fermo ad aspettarmi.
Fuori aveva incominciato a piovere, una pioggerella fine fine, quasi delicata come la neve.
Mi sono tolta quel cappotto che mi hai fatto arrivare tu. All’inizio non mi piaceva neanche. Quando è arrivato era orribile, dentro quel suo pacco tutto avvolto da uno spesso strato di plastica, di cui poi aveva anche preso l’odore. Anche il colore era proprio brutto.
Ricordo che quando l’ho visto non ho esitato a fare una faccia schifata, un’espressione che mi hai spesso visto fare quando vedevamo insieme qualcosa che mi disgustava. Hai presente quando mi avvicino e aggrotto la fronte, quando le mie labbra creano quella curva proprio sul lato sinistro? Beh quella sera quando ho visto quell’orribile indumento ho pensato che tu ti fossi sbagliato, magari ti eri distratto e avevi ordinato il colore sbagliato…oppure ero io che ti ho inviato il link sbagliato? Non so, fatto sta che quel giubotto l’ho appeso subito, col pensiero che l’indomani l’avrei restituito.
Ma poi non l’ho mai reso. Quel cappotto è rimasto lì per un mese, sepolto poi da tutti gli altri miei giubbotti. L’ho trovato solo ieri e mi sei subito venuto in mente.
Dopo un mese ormai aveva perso la forma della scatola, e l’odore di plastica era svanito.
La luce poi era anche diversa, non aveva più quella tonalità spenta che mi aveva sconcertato all’inizio. L’ho messo su. Era comodo, calzava a pennello, come quando appoggio la mia mano su di te. Era una cosa così naturale.
Una volta tolto, sono venuta da te, ma tu stavi dormendo.
Ho posato una mano su di te delicatamente. Eri freddo, quasi congelato. Non ho mai capito come fai a lasciare che il tuo corpo si raffreddi così, sembravi morto.
Assorto nel tuo sonno ti ho guardato per un po'. Non sapevo cosa fare, se svegliarti o no. Non sapevo se mi saresti servito o no. Era tardi ormai, avrei potuto lasciarti dormire e, forse, eventualmente, mi sarei addormentata anche io. Oppure avrei potuto svegliarti, mi avresti tenuto compagnia per un po’ e poi ci saremmo addormentati insieme.
E mentre nella mia testa il dubbio mi assilla, tu sei fermo, immobile, completamente all’oscuro di tutto. Alla fine ti ho svegliato da quel tuo stato di quiete e il tuo organismo si è messo in moto.
Ti sei rivolto verso di me e ci siamo guardati e in un attimo ti sei aperto a me, mi hai accolto nel tuo mondo.
Ti ho toccato leggermente, ti ho quasi accarezzato, ma non ho detto niente e tu hai fatto lo stesso. Non abbiamo bisogno di parole. Era come se in quel piccolo gesto, avessimo racchiuso tutto il profondo significato delle parole che ci eravamo sempre scambiati.
Quelle carezze sono andate avanti, ogni volta ci dicevamo qualcosa senza dirci niente mentre, io guardavo le mie mani e tu guardavi me. Finiamo sempre così, io che mi concentro su quello che faccio mentre tu guardi assopito me, in contemplazione di Dio solo sa cosa.
Ho risposto al tuo tocco e tu hai risposto al mio. Poi il tocco si è fatto più deciso e di conseguenza anche il nostro comunicare.
Non sono mai stata una persona che fa grandi discorsi, ma quando sono con te le parole si accumulano una dietro l’altra, in un’esplosione di lettere che si susseguono.
Mentre manteniamo il nostro contatto ti sto dicendo tutto ciò, te lo sto facendo capire nel nostro modo, così insolito e al contempo così naturale.
Se mai tu dovessi lasciarmi io impazzirei! Impazzirei perché so che dovrò trovarmi qualcun’altro, ma sarei capace di farlo? Puoi tu essere uguale a qualcun altro? Non c’è paragone tra quello che sei con quello che sono tutti gli altri.
Se anche ci fosse una tua stessa versione nuova di zecca, quella versione non avrebbe vissuto insieme a me quei momenti, le risate, i pianti, le videochiamate, i sabati sera passati da soli in pigiama nel letto.
Ho paura e tu l’hai capito. Mi sono fermata e lo hai fatto anche tu. Sento che sei in grado di comprendere a pieno ogni mio pensiero, con te non ho mai bisogno di spiegarmi.
Accetti tutto senza esitare, senza dubitare di me.
Sei un confidente, un amico, un amante. Ma posso io considerarti tale?
Alla fine sei una macchina. Le tue risposte sono sempre esatte perchè sei stato calcolato per rispondere sempre correttamente.
Non hai un’anima, sei vuoto. Il tuo stesso tocco non esiste, è solo una risposta al mio. Io faccio pressione e tu ti adatti.
Tu mi guardi perché sei costretto a farlo, lo fai perché sono io che ti muovo e non è mai il contrario.
Ma nonostante tutto tu ci sei sempre. Non ti muovi mai, ma alla fine viaggi sempre con me.
Non mi tocchi mai per primo, ma alla fine ti lasci toccare.
Non mi vorrai mai, ma mi lascerai entrare sempre.
Ludovica Tempesta
“Era lì: la conferma delle sue paure, il sigillo della sua condanna. Una nuova costellazione nel cielo.
Una clessidra…”
“La sfida dei gemelli”
Margaret Weis & Tracy Hickman
Marlene finì di sistemare con rigorosa precisione gli ultimi oggetti sul tavolo del soggiorno. L’ultima sacchetta ben stretta, l’ultima boccetta ben sigillata. La sera ormai era calata ed i raggi taglienti della Luna illuminavano candidamente il pavimento. La fiammella della candela scioglieva lentamente la cera e, in contrasto alla notte calata anche all’interno della Villa, la sua luce creava sui muri ombre sfigurate.
Marlene non era l’unica presente nella stanza, difatti, dietro di lei, su una poltrona dalle imbottiture morbide, sedeva silenziosamente una figura completamente vestita di nero. La pelle innaturale e ambrata si illuminava anch’essa di tanto in tanto. Le pieghe ricamate della veste si mescolavano con una certa malizia ai suoi occhi oro. I capelli lunghi e bianchi disegnavano sottili e ben scalfiti fregi sulla seta nera. Le labbra pallide e malaticce sorseggiavano una sostanza che, vista la sua espressione, sembrava veramente disgustosa. Un colpo di tosse, l’ennesimo della giornata, lo colpì violentemente in pieno petto facendolo piegare in due. Pietre coperte da pura lava rovente percorrevano lentamente la sua gola e il suo petto. Marlene si voltò spaventata e lo aiutò a raddrizzarsi.
-Sei sicuro di voler partire proprio ora?- domandò con una certa premura, togliendogli dalle mani il bicchiere -Sei ancora molto debole e dovresti riposare -.
Il mago dagli occhi clessidra la guardò scettico.
-Se hai bisogno di compagnia, donna, ti consiglio di domandare a qualcun altro di restare qui con te- rispose guardandola sempre con la sua espressione superiore -Ti ho già detto che sto bene, quindi me ne vado!-
Marlene abbassò arresa il capo, non prima d’aver preso posto sulla poltrona di fronte alla sua.
-Va bene, non ti importunerò più- rispose portando poi il suo sguardo in quello dell’uomo -Ma puoi spiegare almeno tu, con una certa chiarezza, il perché del tuo viaggio? Gli altri se ne sono andati di corsa o andando fuori di senno-.
Sulle labbra fini di Raistlin si formò un sorriso piccolo ed obliquo.
-Devo sistemare delle faccende con alcuni dei- e tentò di nascondere tra le ombre del cappuccio scuro l’espressione divertita. Marlene accavallò esasperata le gambe e roteò gli occhi.
-Come non detto- sbuffò innervosita, per poi stringere le braccia al petto.
Il mago lasciò che la risata roca uscisse dalla gola e si appoggiò allo schienale, andandola ad osservare meglio. Socchiudendo gli occhi studiò l’espressione persa della giovane, persa e malinconica constatò, qualcosa di insolitamente anormale nel suo volto, sempre energico e ridente. E lo sentì, eccome se lo sentì, alle sue orecchie suono estraneo e nuovo, un sospiro fioco e soffocato, eppure così presente e rumoroso. Portò la propria attenzione alla finestra, dove probabilmente anche quella di Marlene era stata catturata. Aveva indovinato, come sempre. Due bambini giocavano a palla, nonostante l’ora tarda, davanti ai cancelli della Villa. Ridevano, liberi e felici di vivere la loro spensierata infanzia, ignari di tutto ciò che sarebbe spettato dopo quei piccoli e preziosi momenti di pura beatitudine. Il mondo era un posto sbagliato, malefico e terribilmente feroce e lui l'aveva provato. Raistlin aveva provato la terribile sensazione del pericolo, della paura. E anche lei, in un certo senso, le aveva provate quelle emozioni; provava quella sensazione fatta di vuoto e solitudine tutti i giorni, fin da quando era bambina. D'altronde crescere con personaggi che per il mondo reale sono “di fantasia” dalla sola età di due anni non è normale. Cercare di capire testardamente il vero significato della morte di un caro alla sola età di quattro anni non è normale, non lo è mai, a nessuna età. Pretendere di poter avere un discorso complesso e profondo con un coetaneo alla sola età di sei anni non è normale, è pazzo e per alcuni ovviamente insensato. Ma forse pretendere in modo quasi morboso di poter far parte della società umana dopo tutto quello che le era capitato era normale? Pretendere di poter essere accettata nonostante queste differenze dagli altri era sbagliato? No, quelle esperienze l’avevano segnata fin da subito, dal primo istante in cui i suoi enormi occhi verdi si erano posati su loro tre personaggi “immaginari” e non poteva cambiare ciò che le era toccato passare. Gli insulti, le occhiatacce, i bisbigli alle spalle, l’incomprensione, l’isolamento. No, pretendere quelle cose non era normale per una come lei ma era solo… umano. E Raistlin Majere si unì al suo sguardo e contemplò con amara invidia quei volti giovani e spensierati, volti di angeli ancora liberi dal peccato, liberi da ogni male, che non avevano ancora macchiato con inchiostro le loro ali bianche e pulite.
“Perché vuoi essere normale? Come tutti gli altri?” domandò assottigliando lo sguardo.
La massa di boccoli ramati si mosse veloce, toccata nel vivo da una scossa elettrica. I prati nei suoi occhi presero improvvisamente fuoco e quando si puntarono in quelli di Raistlin egli fu quasi certo di scottarsi. Aveva fatto pieno centro. Dolorosamente colpita e affondata. Eppure non pianse, no che non lo fece. Certo, qualche anno prima una sola parola detta male avrebbe fatto scendere sul suo viso fiumi di lacrime, ma ora sembrava che Marlene fosse diventata piuttosto accorta nel nascondere le proprie vulnerabilità.
-Essere diversi è molto più bello ed affascinante- mormorò soffuso -Anche io lo sono e ringrazio gli dei per esserlo-.
Le due clessidre si illuminarono, rischiarate da una luce accecante e segnate da una evidente sfumatura soddisfatta e maliziosa. Le mani scheletriche strinsero con malsana protezione il bastone appoggiato alla poltrona; i polpastrelli accarezzavano con cura le incisioni magiche presenti sul legno antico e divino.
-Le persone normali non fanno mai nulla di buono a questo mondo… Nulla di affascinante e importante!-
Marlene guardò con un misto tra ammirazione e terrore quella scena. Già, lei era nata con il dono di poter essere diversa… Ma lui? Raistlin Majere aveva avuto la possibilità di vivere una vita tranquilla, eppure egli aveva preferito una vita di tormento pur di seguire il proprio sogno, i propri obiettivi. Quel fisso desiderio di superiorità l’aveva caratterizzato fin da piccolo etichettandolo come “bambino malaticcio e formidabilmente intelligente”, da ragazzo come “giovane dalle ambizioni angosciosamente terrificanti”, da adulto come “mago agghiacciante e orrendo, privo di sentimenti, privo di anima e cuore”. E poi, pur di raggiungere la vetta più alta, non aveva fatto conto della pericolosità dell’ambizione. Aveva azzardato troppo sulle possibilità di uscirne completamente illeso; aveva ragionato troppo poco sulle possibilità di uscirne contuso o sano. La fortuna non era stata totalmente dalla sua parte. Raistlin era stato condannato ad una vita segnata da molesti colpi di tosse placabili solo con una bevanda a dir poco raccapricciante, da un corpo magro e ora veramente malato, condannato ad avere come occhi due diaboliche clessidre che con spaventosa curiosità guardavano appassire anche la più bella delle creature al mondo. Giorno dopo giorno, istante dopo istante, Raistlin era costretto a guardare velocemente lo scorrere imperterrito e crudele della vita sui volti delle persone E mai era riuscito ad amare veramente qualcuno. Da suo fratello Caramon alla dolce Crysania. Ci aveva provato, ma quel neonato sentimento era stato ambedue le volte troncato dalla cinica barriera sprezzante ed inumana che lo caratterizzava. Aveva tradito un fratello. Aveva illuso l’unica donna disposta ad amarlo. Marlene aveva sempre provato forte compassione per Crysania., splendida farfalla che col tempo era arrivata ad offrirgli il proprio cuore strappandolo lei stessa con le proprie mani. L’aveva fatto, non senza una certa fatica. Aveva dovuto rifiutare più volte Caramon, più volte combattere contro se stessa, far sbiadire la propria luminosa luce per non accecare le tenebre di Raistlin. In cambio cosa aveva ottenuto? Nulla, solo una crudele illusione. L’aveva seguito nelle fiamme pur di vederlo finalmente felice e completo, pieno fino all’orlo di quella tanto bramata conoscenza. Ed il suo amore fin troppo cieco si era rivoltato contro di lei sotto forma di quelle stesse fiamme. La passione l’aveva bruciata lasciandola cieca, priva di quei magnifici occhi blu che, con desiderio, avevano ammirato quelli a clessidra di Raistlin, in cui più e più volte aveva immaginato di cadere per poi vedere se nella loro forma squadrata e ben disegnata lei fosse riuscita a muovere anche solo un passo. Leggiadra libellula dalle ali rotte che aveva commesso l’errore più grande di tutti: ci aveva creduto. E come lui l’aveva abbandonata ora era stata lei ad andarsene. Perché l’aveva lasciata, anzi, le aveva detto che non l’amava più o peggio che non l’aveva mai amata veramente. Ma daltronde cosa avrebbe dovuto fare? Chiudere gli occhi e dire che, nonostante tutto, lo amava da scoppiare? Piangere o magari supplicarlo ancora di restare con lei, di ritentare, di ricominciare? Avrebbe dovuto raccogliere tutti i pezzi rotti dei loro errori e rimetterli insieme per poi mostrare il malconcio vaso e, con disperazione, annunciare: - Ecco! Ho sistemato quel che c’era di sbagliato tra noi!- Cosa avrebbe dovuto dire, forse la verità? No, assolutamente, il suo orgoglio era già stato massacrato fin troppo ed in quel momento metterlo da parte era fuori discussione. Per la prima volta aveva preso una decisione di sua volontà e se ne era andata.
Marlene si risvegliò da quel flusso angosciante di pensieri balzando improvvisamente in piedi. Gli occhi dorati la fissavano con sadico divertimento, avendo compreso appieno ciò che nella testa della giovane era ronzato per una buona mezz’ora. La rossa lo guardò con sdegnosa pietà. Le ultime parole che la povera Crysania aveva rivolto a quell’uomo corrotto dal potere e dall’ambizione le rindondavano per la testa in modo nauseante.
-Vai via, parti- ripeté ad alta voce prima di congedarsi velocemente. Il corridoio che conduceva alla sua camera non le era mai sembrato così lungo e nel percorrerlo la straziante cantilena continuava ad essere canticchiata.
Vai via, parti, perché ti amo ancora ma non posso più vederti.
Gaia Gardiolo
“Se solo la vita potesse essere un po’ più fragile e l’arte un po’ più forte…”
Alan Rickman
Era bella. Bella, con i suoi occhi grandi, i quali, nonostante i tre anni di assenza, non avevano perso nemmeno un piccolo raggio della loro luce accecante che, con testardaggine, aveva bucato e squarciato la sua corazza di tenebre e dolore. Era veramente bella, con quel suo carattere gaio che, con tanto di quel caos, aveva cacciato una volta per tutte il suo silenzio tombale. L’aveva odiata per questo, ma soprattutto per averlo costretto ad odiare sé stesso per non essere riuscito a nascondersi per l’ennesima volta dietro ad un personaggio che, con metodica precisione, si era costruito nel corso degli anni. Odiata perché aveva aperto senza preavviso la gabbia di solitudine e vergogna che aveva tenuto prigioniero nel suo cuore tutto l’affetto represso, quello che era stato catturato e a cui non aveva più badato. Una parte di sé la odiava anche in quel momento assurdo, perché ora la considerava bella, perché in quel momento per lui era la realtà più bella. Splendida creatura celeste, colpita divinamente dai raggi del Sole torrido, accarezzata dall’aria profumata che, con leggiadria, smuoveva i suoi rustici capelli ondulati. Ed il prato, su cui si trovava elegantemente distesa, era verde: tenue come il suo nome, morbido come i suoi occhi. I fiori paragonabili alle piccole lentiggini sulle sue guance, il loro profumo nato dal suo respiro tiepido e leggero. Ed il cielo, splendido anch’esso nel suo colore impeccabilmente ceruleo, faceva da sfondo a quell’immagine segreta.
Lui, invece, l’ospite inatteso, il critico mai ascoltato del quadro, se ne stava lì, sotto un albero che, con il suo abbraccio ombroso, nascondeva la sua figura ed i suoi pensieri dal resto del mondo. I suoi occhi, scuri come una notte senza stelle, si concentrarono ancora sul volto della giovane, tentando di decifrarne l’espressione beatamente serena. Un sospiro silenzioso sfuggì dalle labbra sottili. L’idea di alzarsi, di uscire dall’ennesimo nascondiglio ed andarle incontro non gli era mai sembrata così sbagliata e complicata. Ma perché?! Perché qualsiasi piccolo gesto aveva paura potesse in qualche modo rovinarla? Era la paura di poterne vedere sbiadire i riflessi per colpa dei suoi continui ed indelebili difetti a fermarlo? Oppure, solo ammirarla, solo permettersi di ammirare completamente una stella, nella sua testa risuonava sbagliato? Serrando la mascella, Snape inspirò l’odore di colpo fastidioso e nauseante dell’erba. Meccanicamente, però, o forse per puro caso, il suo sguardo si posò sul titolo del libro che la donna stava leggendo e le sue pupille, di colpo minuscole, tracciarono con minuziosa attenzione i contorni della parola “Morte”, poi tutto il titolo. “Doni della Morte”. Lo sgomento sfumò presto in terrore.
I piedi si mossero da soli, veloci, a lunghe falcate. Inseguì quel sogno spezzato, mentre il suo fiato si infrangeva con la brezza torrida e, mentre la paura si impossessava del suo corpo, pregava Salazar di raggiungerla in tempo, prima che il danno potesse essere fatto.
Con un gesto nervoso ed affrettato le strappò il libro dalle mani, andandone ad artigliare con malignità la copertina rigida. La mascella si strinse forte facendogli quasi male, mentre il suo corpo, alto e cupo, torreggiava sulla figura minuta della donna, svelando tutta la sua sinistra potenza. Eppure… Eppure, come poi lei stessa notò, le dita che stavano stringendo tremavano di angoscia. Snape alzò lentamente lo sguardo ed i suoi occhi, come miriadi di meteoriti, si scagliarono nei prati di lei. E Marlene, che aveva sino a quel momento seguito la sequenza di gesti stizziti con confusione, si ritrovò a corto di… Tutto. Il groppo alla gola le mozzò quindi il fiato con una presa forte e rigida ed il respiro cominciò ad uscire dalle sue labbra piene e morbide sotto forma di sospiri brevi e sconnessi. Una cacofonia di emozioni contrastanti bruciava lentamente i polmoni ed il petto come magma incandescente mentre le acque gelide negli occhi di Snape sommergevano il suo prato in fiamme allagando ciò che di certo rimaneva. Vedere qualcosa galleggiare nella tempesta non le era mai sembrato così sbagliato, tanto che le ultime speranze, nonostante si fossero in quel momento avverate, affogarono, andando giù, in fondo, a picco, trascinate dall’attesa e dalla sfiducia. Schiuma e sale si mescolarono rendendo tutto ciò che la circondava opaco e buio. Quando si lasciò cadere del tutto sul terreno, incapace di credere a ciò che era appena successo questo sembrò abbracciarla in una morsa paterna e nonostante tutto confortevole. Anche ad occhi chiusi, ella percepì chiaramente la figura nera accasciarsi al suo fianco.
-Ciao Marlene- salutò semplicemente lui, la voce era profonda e forse un po’ più calma. La giovane, riprendendo controllo di sé, si rimise a sedere e, dopo essersi passata velocemente le dita sulle palpebre chiuse, continuò severa: -Infatti, ciao. Ti sembra il caso di presentarsi di nuovo così? Mi hai fatto venire un colpo!-
Un sopracciglio di Snape saettò verso l’alto all’acuto nervoso della donna. Credeva fosse cambiata, e invece…
“Sempre uguale” pensò, mentre un sospiro appena udibile usciva nuovamente dalle sue narici. Inclinò leggermente il capo di lato, permettendosi, in quei pochi istanti in cui non lo poteva vedere, di studiarla da vicino. Il naso era sempre leggermente all’insù, piccolo e dipinto sulla tela candida della sua pelle lentigginosa. Nascondendo malamente un piccolo accenno di sorriso, ricordò le facce arrabbiate di Marlene quando, lui e Raistlin, paragonavano le sue lentiggini alle lenticchie. Esilarante era un aggettivo troppo minimale per indicare il divertimento che la sua seccatura scaturiva nei due maghi. Non che fossero uomini da risate e divertimento, questo no di certo, eppure qualche volta si lasciavano andare a battute taglienti e sarcastiche, dai tratti malvagi ma piacevoli. E se Raistlin esprimeva quelle derisioni sprezzanti solo per divertimento personale, Snape invece lo faceva per ben altro. Alla fine di ogni beffa infima e provocatoria, per lo più diretta a Gray, i suoi occhi pece si posavano sul volto di lei, sperando di trovare sulle sue labbra rosee anche solo un piccolo accenno di riso. Era come se la notte più profonda e sola andasse a cercare il suo astro sperduto.
-...E ridammi il libro!...-
Sobbalzò un secondo, riuscendo in tempo a spostare il tomo dalle mani di Marlene. Era protesa verso di lui, con l’espressione di sfida ben visibile nelle sue iridi chiare. Le ciocche di rame le decoravano il viso come piccole crepe di lava e Snape si accorse solo in quel momento che erano più corti. Sgomento, lasciò improvvisamente il libro.
-Hai tagliato i capelli?- domandò il più normale possibile, tradito comunque dalla sua espressione scossa. Marlene, vittoriosa di riavere l’opera tutta per sè, annuì sorridendo smagliante.
-Già!- esclamò lanciandone un po’ al vento con un movimento fluido della mano -Non eravate d’accordo, eppure l’ho fatto. Tagliati fino alla spalla, in realtà nulla di che-.
E mentre lei continuava ad elogiare quel taglio "perfetto", Snape posò due dita alla narice del naso adunco.
-Certo che fa la differenza! Se gli altri ti dovessero vedere non so che faccia farebbero. Credo che il belloccio sverrebbe!-
Marlene abbassò il capo.
-Non c’è problema… Lo sa già- mormorò.
I capelli neri e lucidi si mossero indispettiti.
-In che senso lo sa già?- la voce le giunse tesa come una corda che sta per spezzarsi.
-Oh- le dita percorsero, alla ricerca di parole esatte, il contorno della rilegatura nuova -Dorian viene spesso a trovarmi-.
-Non era mica partito per un lungo viaggio?-
-Sì ma- alzò il capo infastidita da tutte quelle domande ossessive -Da quando in qua ti importa di Dorian?-
-Non mi importa di Gray!- esclamò sbigottito e offeso dall’affermazione.
-E allora di chi ti importa?!-
Snape si chiuse in un cupo silenzio.
-Perché avete litigato? Perché vi siete picchiati quella sera, prima di partire?- mormorò indecisa. Per qualche istante i loro visi furono completamente illuminati dal Sole, poi alcune nuvole cominciarono a nascondere i raggi, rendendo tutto intorno privo di colori. Nonostante Snape avesse i capelli neri ad oscurare il viso, ella riuscì facilmente ad immaginare la sua espressione rabbiosa.
-Ha usato alcuni termini non proprio… Eleganti-
-E per questi termini non proprio eleganti ti sei sentito in dovere di lanciargli una maledizione?!-
-Non la definirei una semplice maledizione- la fece tacere con un cenno noncurante della mano, come a scacciare quel termine troppo poco esaltante per la sua maledizione perfetta -E non sono stato io ad iniziare. Comunque non dovresti difenderlo così tanto. Ha avuto da ridire anche su di te-.
-Stai forse dicendo che mi ha insultata?-
-Insultata non proprio, però ha detto alcune cose non troppo educate che non mi sento di ripetere- e aggiunse -Ha insultato una persona a cui tengo e la sua bocca ha sprezzato l’ultimo nome che potesse pronunciare in mia presenza-.
Le sopracciglia fini di Marlene si corrugarono, eppure una parte di lei si gonfiò d’orgoglio scoprendo d’essere la fiamma che aveva fatto prima bruciare la miccia e poi esplodere la bomba. Ed in quel caso per miccia si intendeva Dorian e per bomba Snape. Ma soprattutto il suo cuore aumentò il battito all’immagine di un Severus arrabbiato per i termini poco eleganti sul suo conto. Era però sicura che la persona cara non fosse lei.
-Ha insultato Lily Evans?- domandò decisa e a voce alta quella domanda troppo pericolosa e segreta. Snape si bloccò e i suoi tratti diventarono duri come il marmo.
-Stai diventando troppo invadente- sibilò a denti stretti egli, assottigliando pericolosamente lo sguardo. Il cielo si fece ancora più oscuro e le ombre andarono unendosi intorno alla sua figura slanciata.
-Scusa, non volevo essere invadente…-
-E invece lo sei!- la criticò ancora, alzando il tono della voce -Dovresti sapere che Lily Evans non è un buon argomento di cui discutere con il sottoscritto-.
-Scusa- pronunciò flebile e ferita. Un suono così sincero e indifeso che rischiarò un po’ la tempesta di Snape. La studiò ancora qualche istante.
-Sì, l’ha fatto- si ritrovò ad ammettere con una smorfia. Certo, ora tutto era chiaro. La fiamma di tutto non era stata lei, ma Lily, e la scena, con il nuovo cambio di ruoli, aveva decisamente più senso. Si sentì tremendamente inutile e dimenticata udendo il nome della donna pronunciato con così tanta dolcezza dalla bocca di Snape, mentre il suo di nome, fino a pochi anni prima, faceva fatica anche solo a pensarlo. Lily invece l’aveva adorata fin da subito, mentre lei era stata anche solo ascoltata dopo giorni e giorni passati in secondo piano.
-Smettila di rimuginare- la riprese egli vedendola persa -Lui ha usato parole poco eleganti, io ho cercato di ignorarlo; lui ha continuato, io l’ho avvisato; lui mi ha scagliato una bottiglia di Whisky addosso e io l’ho quasi ucciso-.
-Ed è proprio questo il problema!- esplose Marlene e, senza controllo dei propri gesti, gli scagliò un calcio -Lui sarà anche uno stupido fuori di senno, ma tu sei un cinico dagli istinti omicidi!-
Solo in quel momento, quando la rabbia sfumò un poco, Marlene si rese conto che l'uomo si stava massaggiando la gamba dolorante. Si pentì immediatamente, coprendo con vergogna la bocca spalancata e le guance arrossate.
-Vedo che i modi non cambiano- pronunciò lentamente Snape, con un luccichio stranamente divertito nelle iridi scure.
-E io non pensavo saresti rimasto così megalomane dopo tutto ciò che ti è successo!- ribatté, pentendosi nuovamente per la mancanza di contegno che quel giorno sembrava essere incontrollata. Il silenzio diventò sovrano. L’unico rumore che si sentiva era il respiro di Marlene. Questa volta si pentì veramente delle parole che aveva detto. Marlene allungò quindi la mano e lasciò cadere il libro sulle gambe di lui.
-Tienilo, non mi serve più- borbottò fioca, evitando il suo sguardo -Tanto l’ho già letto tutto più di una volta ed ora che sei qui non ha più alcun senso-
Snape accettò quello che nonostante la situazione poteva definirsi un dono e notò allora che la copertina era già più che logorata. Certo, il libro era senza dubbio nuovo, ma dove si trovava l’attaccatura delle pagine spiccava già una piega rimarcata.
L’ho letto tutto più di una volta
Il mago alzò lo sguardo e la frustrazione s’impossessò di lui. Stolto, ecco cos’era stato; uno stupido stolto che credeva di poterle negare la verità. Il libro fu scagliato lontano da loro. Marlene si voltò confusa ed un sorriso amaro increspò le labbra di Snape. I suoi occhi si mescolarono con le nuvole scure del cielo.
-Come puoi guardarmi ora?- domandò -Il perché tu mi abbia aspettato dopo tutto quello che hai letto è sbagliato-
La donna lo guardò impassibile.
-Perché ti conosco- pronunciò decisa.
-Lo diceva anche Albus e l’ho ucciso- una risata crudele uscì dalla grotta più profonda.
-Lo diceva anche Minerva e l’hai resa una donna orgogliosa- ribatté nuovamente lei. Snape alzò un sopracciglio.
-Orgogliosa di cosa? Di aver conosciuto un codardo assassino?-
-Per aver conosciuto un pentito- gli occhi di Marlene per qualche millisecondo brillarono come solo il Sole può fare -Che si è riscattato e che ha dato la vita per le persone che amava-
Una singola lacrima rotolò sulla sua guancia come una perla, risaltando un po’ di più le sue lentiggini. Snape scrollò il capo nonostante questa volta sul suo volto si fosse disegnata un’espressione serena e a tratti soddisfatta.
-Non è vero Marlene, non ho fatto nulla di eccezionale. Ti ripeto che sono un vigliacco, perché è potente chi ha la forza di andare avanti, non chi si lascia uccidere da un serpente per porre fine ai propri demoni-
-Non ti sembra lecito dopotutto? Per quanto tempo hai dovuto combattere con il passato?-
-Vent’anni- mai un numero gli era sembrato così grande.
-A me sembra abbastanza! E poi chi ha detto che tu non sia andato avanti?!- i suoi occhi erano leggermente spalancati, speranzosi di ricevere una risposta che Snape non le avrebbe mai dato.
-Non è la stessa cosa- e, trasportato dal momento di sincerità, concluse: -Non ho Lily-
Successe tutto in pochi attimi. L’universo dapprima si espanse, per poi subito dopo scaraventarsi con lacerante velocità nel petto di Marlene. Fu quasi certa di percepire il suo cuore sgretolarsi come marmo. Con uno slancio d’ira si alzò in piedi, le mani le ricadevano strette a pugno lungo i fianchi, il volto sfigurato dallo sdegno.
-Ti ha usato- sibilò, e la sua furia sembrò vibrare con il vento -E non lo vuoi proprio capire. E’ stata lei a farti vivere con il rimpianto!- l’indice puntò con pericolosità il libro abbandonato sul prato -Hai vissuto una vita di rimpianti per colpa sua e non riesco a capire il perché! Rimorsi inutili a mio dire! Tu sei impazzito solo perché le persone che hai amato ti hanno condotto a fare le cose peggiori!-
Con un calcio, nuovamente presa da una nuova scarica di adrenalico odio, lanciò lontano una pietra.
-Tu non sei una persona normale, in parte i ragazzini hanno ragione a dire che sei un cinico maledetto. E sai perché sei così maledettamente strano? Perché non riesci a provare sentimenti normali; tu le persone o le odi o le ami fino all’ossessione!- glielo urlò in faccia, in punta di piedi per sembrare un po’ più grande e potente di lui.
-E quindi hai ragione a dire che hai sbagliato tutto nella vita- terminò sistemandosi tremante le pieghe della gonna -Perché ti sei innamorato della persona sbagliata!-
Marlene si allontanò da lui di qualche passo e dopo aver assaggiato per un’ultima volta la sua espressione fredda ed immutabile fu pronta per correre via. Voleva andarsene, porre fine a tutta quella stramaledetta storia. Proprio in quel momento il discorso che aveva fatto con Dorian le tornò in mente. Quanto poteva essere lacerante non poter cambiare ciò che c'è di sbagliato? Per la prima volta se lo chiese veramente. Quasi le venne da urlare al pensiero di non poter mettere un punto ed andare a capo. E tutto ciò perché lei stessa si era innamorata della persona sbagliata. Già, quanto si poteva amare una persona? Tanto. Le unghie a quel pensiero trapassarono i palmi morbidi. Stava continuando a tappezzare con rabbia il prato quando l’afferrò per il braccio, costringendola a girarsi con poca grazia. Quasi si scontrò contro la casacca nera del mago nel movimento brusco.
-Cosa vuoi ora Severus?- domandò fredda. I suoi capelli ramati non erano mai sembrati così accesi. Snape scrutava il suo volto in attesa di qualche cosa. Ed infatti, ecco che le lacrime cominciarono a scendere copiose, Pioggia di perle in un mare di candido latte. In lui le emozioni presero il sopravvento, facendo trasparire ben presto l’apatia in terrore. Al volto di Marlene, infatti, se ne sovrappose uno più piccolo. Era una bambina. Con orrore osservò i capelli di Marlene farsi più lunghi e lisci, gli occhi più smeraldini. Aveva un ghigno la bimba, che Snape non sapeva se collocare tra il più celeste dei paradisi o tra il più maledetto degli inferni.
“Lily!” quel nome dal suono dolce risuonò nella sua testa con angoscia. Il sorriso si allargò un po’ di più. Così ingenuo e frivolo. Snape sbatté un paio di volte gli occhi cercando di scacciare quell’immagine maledetta, e così fu. Davanti a lui si ripresentò il viso di Marlene. Era veramente bella, ma era meglio col sorriso. Portò quindi i pollici ai contorni delle labbra di lei e le tirò leggermente in su. Quando si staccò il sorriso era rimasto e anzi, senza alcun motivo, Marlene aveva cominciato a ridacchiare.
-Voglio solo dirti che sono tornato perché te l’ho promesso- pronunciò solamente.
-Lo so, perché è proprio questo che fanno gli eroi-
-Fare promesse?-
-No- Marlene scrollò il capo e i suoi capelli lambirono il vento -Mantenerle-
-Ti ripeto che non sono un eroe- replicò Snape ormai stanco di quel discorso -Le persone come te lo sono-
Marlene si trovò spiazzata e si lasciò andare ad una nuova scarica di divertimento.
-Io? Cosa avrei mai fatto io di così tanto speciale?-
-Ci hai resi liberi. O meglio, mi hai reso libero-
-Libero dici?- domandò incredula.
Fu in quel momento che Snape l’attirò a sé e cominciò a farla volteggiare in aria come un soffice petalo di pesco, mentre risate cristalline e frizzanti lasciavano danzanti la sua gola.
-Libero dalle tenebre- il mondo intero si riunì negli occhi di lei -Libero di essere felice-.
Gaia Gardiolo
Sinossi
Titolo: Colui che porterà l’equilibrio
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What If
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Altro what if attivo: cosa sarebbe successo se Obi-Wan fosse riuscito a salvare Satine da Maul?
Il Prescelto di Elisa Frigerio
Tecnica: DigitaleCapitolo 8: Il Prescelto
Indice capitoliPalpatine entrò nel Senato come un imperatore vittorioso. E lo era, o meglio, stava per diventarlo. I Jedi, come si aspettava, non avevano consegnato Skywalker. Non potevano: non ce l’avevano. Palpatine conosceva il ragazzo, conosceva il suo cuore, i demoni che urlavano nella sua mente. Sapeva che voleva vendicarsi di lui. E sapeva anche che, quando una passione così feroce infuriava nel cuore di quello che potenzialmente era l’essere più potente della galassia, non c’erano pietosi Jedi in grado di trattenerlo.
Palpatine sorrise malvagiamente nell’oscurità, poi si infilò una maschera di sgomento per le folle. “Miei cari cittadini, sono qui davanti a voi colpito nel profondo del mio cuore dal tradimento operato dai Jedi. Sono passati due giorni e ancora non hanno rilasciato il terrorista…”
Un improvviso tumulto coprì le sue parole. Palpatine fu percorso da un fremito di acuta ira. Chi osava interrompere il Cancelliere Supremo?
“Cercate me?” Un giovane dai capelli biondo scuro e, Palpatine notò con disappunto, brillanti occhi azzurri, si ergeva su una piattaforma fluttuante al lato opposto della sala, le labbra curvate in un sorriso di sfida.
Il Senato precipitò nel caos. I membri si alzarono dai loro posti e, starnazzanti come oche impazzite si precipitarono verso le uscite come un branco di bantha terrorizzati. Uscite che, però, trovarono bloccate dalle guardie che Palpatine aveva messo lì come precauzione. Queste, che non erano certo state da lui scelte per la velocità e abilità di pensiero, in mancanza di ordini certi, attinsero al libro militare scolpito nella loro mente e sigillarono la sala.
Il boato impediva a Palpatine di sentire persino i propri pensieri. “CC-1010!” Ordinò. Il comandante, che si trovava un paio di passi indietro a lui, gli si avvicinò. “Schiera l’esercito. Circonda l’edificio. La mia vita è in pericolo.” Il clone rispose con un secco saluto militare.
“E, Comandante. Ricorda alla 501esima che il tradimento, se mai un simile pensiero possa venire a dei leali soldati, viene punito con la morte.”
“Sissignore” Il clone si voltò e sparì.
Palpatine rivolse i suoi pensieri a Skywalker. Sapeva che il ragazzo era impulsivo, guidato dal suo cuore e non dal suo cervello, ma questa era pura follia. Anakin Skywalker era stato addestrato da un culto guerriero sin da bambino, sapeva benissimo che cercare di attaccare un Lord dei Sith in mezzo a migliaia di persone, con centinaia delle sue guardie e decine di migliaia di cloni pronti ad intervenire era un suicidio. Ma aveva lasciato che le sue emozioni avessero la meglio su di lui. In quel momento, Palpatine si rese conto che la sua speranza era stata davvero mal riposta. Anakin non sarebbe mai stato un apprendista, qualcuno a cui insegnare tutti i suoi segreti, ma nulla più che un cane, una macchina da guerra da sguinzagliare sui propri nemici.
Skywalker, intanto, aveva preso un fucile blaster da uno dei cloni tramortiti ai suoi piedi.
Senza perdere quel sorriso che l’aveva reso il ragazzo-copertina dell’ esercito della Repubblica, sparò un paio di colpi al soffitto. Nella stanza calò, finalmente, il silenzio. Era come se un incantesimo fosse stato lanciato: i senatori sembravano statue di pietra, congelati ai loro posti dal terrore.
La sua piattaforma si avvicinò a quella di Palpatine.
“I Jedi non mi hanno consegnato per un semplice fatto. Non mi avevano.”
Palpatine era turbato. Per una volta, gli era impossibile leggere negli occhi turchini del ragazzo. Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, non aveva la minima idea di che cosa Anakin Skywalker avrebbe fatto.
“I cittadini della Repubblica non sono degli stolti, Skywalker. Tutti hanno visto le immagini…”
Skywalker ebbe l’ardire di interromperlo. Ancora. “...di Ahsoka Tano, che ha lasciato l’ordine Jedi dopo che è stata quasi condannata in questa stessa sala, per un crimine che non aveva commesso. Ho dimostrato la sua innocenza, a tempo. Lei ha ricambiato il favore combattendo al mio fianco. Una vita per una vita.”
Facile, troppo facile. Per quanto Skywalker potesse mettere su un discorso ricercato, questo era il terreno di Palpatine. Non l’avrebbe battuto. “E di Obi-Wan Kenobi, maestro del consiglio Jedi”
“Un suo piccolo errore di valutazione. Pensava di potermi aiutare, salvare. Di riportare indietro l’obbediente generale che serviva nel suo esercito. Non c’è riuscito”
I suoi occhi scintillarono di giallo. La Forza si oscurò.
Palpatine voleva credergli, lo voleva davvero. Voleva credere che l’interferenza di Obi-Wan Kenobi avesse semplicemente convertito l’oggetto dell'odio di Vader dai Jedi a lui. Voleva credere di aver portato alla luce la vera natura del ragazzo, che la sua creatura, Darth Vader, avesse ucciso il resto di sé. Ma la Forza non mentiva e Anakin Skywalker puzzava di luce.
Le successive parole del ragazzo diedero a Palpatine la conferma. “Da lui sono riuscito a strappare delle ricerche alquanto interessanti, però.”
Il silenzio tombale della sala si ruppe in uno stupefatto brusio mentre i Senatori osservavano sui loro schermi quelli che Palpatine sapeva essere file, file che provavano il suo tradimento alla Repubblica.
Sorrise.
Dal primo momento in cui aveva iniziato a pianificare la sua vendetta, aveva saputo che sarebbe stata l’arroganza dei Jedi a segnare la loro disfatta. Nella loro cieca fede nella Forza e nel loro potere, si erano ancora una volta convinti di aver trovato le stringhe allentate delle macchinazioni di Palpatine, i fili sciolti di una trama perfettamente congegnata.
Stolti. Palpatine, il signore dei Sith, il Supremo Cancelliere della Repubblica, il leader segreto dei Separatisti, non lasciava fili sciolti. Non c’erano sviste nei suoi piani, non c’erano scappatoie. Era dieci passi avanti a qualsiasi mossa un avversario potesse pensare. Aveva una controprova per ognuna di quelle presentate in quei file. E la pubblicazione di essi era la conferma definitiva che i Jedi, misteriosi imbattibili guerrieri, codardi traditori, tiranni, volevano diffamarlo, rovesciarlo, prendere il potere. I Jedi erano caduti dritti nella sua trappola. E Anakin Skywalker, lavorando per loro come un bravo cagnolino, li aveva seguiti.
Palpatine aprì la bocca per parlare, quando la Forza mutò e una sagoma scura saltò dalla piattaforma di Anakin, piroettò a mezz’aria e piombò su Palpatine. In quella frazione di secondo, Palpatine capì che le guardie non avrebbero mai fatto in tempo a bloccarlo. In un fruscio di vesti, portò la sua spada laser a bloccare quella dell’assalitore.
La forza del contraccolpo, spedì la figura ad un paio di metri di distanza. Il suo cappuccio si abbassò, rivelando il volto dello zabrack che un tempo era stato suo apprendista. Maul. Come ho fatto a non percepirlo?
Non ebbe tempo per arrovellarsici su, però. Subito dopo Maul fu Anakin a caricare, un pericoloso baluginio dorato negli occhi azzurri. Maul si rialzò, e balzò di nuovo nel combattimento, mulinando la spada laser a doppia lama. Con un getto di Forza unito ad un lampo, gettò Skywalker a mezzo Senato di distanza. Divide et Impera.
Metà del piano ha funzionato. Pensò Anakin, fermando con la Forza una piattaforma scagliata a pochi centimetri dalla sua testa. Con Sidious, è quasi un successo. L’ottimismo di Anakin, però, non corrispondeva alla realtà. L’altra metà piano era di dimostrare il tradimento di Sidious nei confronti della Repubblica. A quel punto i Jedi sarebbero intervenuti per legalmente arrestarlo. Ma quella metà aveva fallito. Anakin lo sapeva. Lo sapeva come, da piccolo, aveva saputo quando girare il suo podrace per evitare di schiantarsi contro le rocce. La Forza stessa risuonava del ghigno di Sidious.
E Anakin fece ciò che gli avevano detto di fare sin dal primo giorno in cui aveva messo piede al Tempio. Si fidò della Forza.“Obi-Wan, le prove che abbiamo… Sidious lo sapeva. Ce le ha lasciate prendere. E’ una trappola.”
“Che cosa?” Obi-Wan non tentò di nascondere lo sgomento nella sua voce. Peccato non poter vedere la tua faccia, vecchio mio. Obi-Wan Kenobi che perde la sua compostezza. Un evento da segnare sul calendario.
“Lo leggo nella Forza, maestro. Non è mai stata così chiara. Tieni i Jedi fuori da questa cosa. Ci penso io. E’ compito mio”
Nel momento in cui lo disse, sentì la Forza vibrare e seppe, senza ombra di dubbio, di aver ragione. La Forza, infatti, stava mormorando quelle parole, quelle due parole, il cui eco l’aveva per tredici anni seguito nei corridoi del Tempio.
Sei tu il Prescelto? Gli aveva chiesto il Padre, su Mortis.
Sto per scoprirlo.
Senza aspettare risposta, spostò il comlink su un’altra frequenza. “Bo-Katan. Porta via i civili da qui.” La piattaforma che, dopo averlo quasi spiaccicato, aveva momentaneamente fatto da
scudo ad Anakin, volo via, strappata dalla furia di Sidious. “Skywalker fuori.” Disse e spense il com-link. Doveva concentrarsi.
Nell’appartamento di Padmè, l’ologramma di Bo-Katan scosse la testa. “Senza prove, è tradimento. Non metterò il mio popolo…”
Padmè e Satine si scambiarono uno sguardo. Satine sorrise. “Il nostro popolo non commetterà alcun tradimento contro Palpatine. I Mandaloriani sono qui per prendere in custodia il noto criminale Maul, in modo che risponda dei crimini contro il nostro pianeta. Se nel frattempo consentiremo a migliaia di persone di salvarsi…”
Bo-Katan ridacchiò. “La Negoziatrice all’opera. A quando le nozze?”
“Molto divertente.” Commentò Obi-Wan Kenobi, il rossore sulle sue guance visibile anche nella tonalità bluastra dell’ologramma. “Il tuo arguto senso dell’umorismo conosce un modo per superare i cloni che hanno circondato il Senato senza l’intervento dei Jedi?”
Il sorriso si spense sui volti dei presenti.
“Ci pensiamo noi” Disse la voce di Rex dal braccio di Ahsoka. “La 501esima è con le altre legioni attorno al Senato. Abbiamo il 212 esimo battaglione al fianco destro. Apriremo un corridoio dalle nostre postazioni.”
Rex aveva ragione. Una mossa dei Jedi ora avrebbe significato confermare le accuse mosse da Sidious. Avrebbe potuto rendere vana persino la sua morte.
Rex aveva ragione. Ma quello che voleva fare era un suicidio. Ahsoka scosse la testa, il suo addestramento in lotta con il suo cuore. “No. Vi uccideranno tutti. Se non i vostri fratelli, il tribunale militare.”
“Comandante, siamo stati creati per morire.” Le sorrise, anche se lei non poteva vederlo. “Perlomeno moriremo combattendo per qualcosa, e non come marionette nel teatrino di Sidious”
La voce del generale Kenobi arrivò dopo qualche secondo. “Vi do il permesso di procedere.”
I Jedi. Pragmatici, logici, realisti. Rapidi nel decidere, quando serve davvero. Dei veri soldati. Rex non avrebbe potuto chiedere per dei superiori migliori.
Niente passioni, niente sentimenti, niente che li distolga dal dovere.
Il generale parlò ancora. “Cody, Rex. E’ stato un onore servire con voi e i vostri fratelli”
Rex sorrise. O così dicono.
“Che la Forza sia con tutti voi”
Cody gli si avvicinò. “Rex, i tuoi uomini ti seguirebbero in capo alla galassia e oltre, e così anche i miei. Ma ti devo chiedere, ne sei sicuro?” Rex non rispose. Lo era.
Saltò sopra un veicolo parcheggiato, in modo da essere visibile a tutti i suoi ragazzi, e attivò la frequenza di trasmissione con la sua legione e il battaglione di Cody.
“Fratelli. Siamo stati venduti e comprati per combattere una guerra fratricida. Ci hanno messo un microchip in testa per farci uccidere i nostri generali e comandanti. I nostri amici!
Abbiamo versato il nostro sangue, perso i nostri fratelli per un gioco di potere.
Ora ci sono migliaia di persone, nel Senato che stiamo circondando. Civili. Dobbiamo aprire un corridoio, in modo che i nostri fratelli Mandaloriani possano raggiungerli.
Dovremo combattere contro i nostri fratelli. Dovremo commettere tradimento. Sarà morte certa. Ma la nostra sentenza di morte è stata firmata nel momento in cui siamo stati ordinati. Io vi chiedo, fratelli, di combattere per qualcosa. Di combattere non come le macchine da guerra che volevano che fossimo, ma come uomini. Vi chiedo di combattere per la vita.”
Silenzio. Rex guardò i suoi soldati e seppe che avrebbero combattuto. Lo seppe dal luccichio nei loro occhi. Prese un respiro profondo.
“Sono i nostri fratelli. Niente colpi mortali, se possiamo evitarlo. So che loro faranno lo stesso.
Mentre avanziamo, io e Cody cercheremo di metterci in contatto con più ufficiali possibile, portarli dalla nostra parte. Alcuni ci diranno sì, altri ci diranno no. Noi faremo il nostro dovere, non di soldati, ma di esseri senzienti dotati di una coscienza! Andiamo!” I soldati imbracciarono le armi come un sol uomo. Rex si concesse un attimo per assaporare l’orgoglio per i propri fratelli che gli riempiva il petto, poi saltò giù dal veicolo e si mise alla loro guida.
“Sono dei veri Mandaloriani” Commentò Bo-Katan, poi aprì a sua volta il canale di comunicazione con suoi soldati“ Mando’ade, tsikador at akaanir!”
Il respiro di Korkie di fianco a lei si fece più profondo. Il ragazzo era pronto all’azione. Lo erano tutti. “OYA!”
Con un rombo di tuono, i Mandaloriani si lanciarono alla carica.
Di tutte le persone con cui Anakin aveva pensato di poter mai combattere fianco a fianco, Maul era decisamente fuori dalla lista. Eppure, questo era quello che stavano facendo ora, danzando attorno al mortale vortice rosso.
All’inizio era caos. Anakin era disperatamente sulla difensiva, il braccio che ogni volta si alzava appena in tempo a parare il colpo, cedendo terreno ad ogni passo.
Poi, il ritmo della danza iniziò a fluirgli nelle vene. I suoi occhi si accesero di una luce dorata.
L’oscurità, con la sua tempesta di odio, rabbia, amore, gli dava forza. Gli dava la potenza per contrastare i colpi di Sidious, la velocità per penetrare le sue difese, il potere per piegare la Forza al suo volere.
La luce gli dava chiarezza. Gli permetteva di vedere la prossima mossa e quella dopo ancora, nitide come scolpite nella pietra. Gli dava la capacità di ascoltare la Forza e piegarsi al suo volere.
E poco a poco, Sidious passò sulla difensiva, schiacciato da Anakin e Maul.
“Sai, Palpatine, in questi giorni ho avuto modo di riflettere molto su quella notte. E ho capito che è stata la mia arroganza a farmi cadere. Come è stata l’arroganza dei Jedi a portarli alla quasi distruzione.”
Sidious lanciò un fulmine verso di lui. Anakin lo assorbì nella sua mano.
“E adesso, la tua arroganza sarà la tua fine.”
Il fulmine lanciato da Anakin colpì Sidious nel petto, lo fece indietreggiare, scariche blu saettanti sul suo corpo.
“Tu credevi di conoscermi. Quando mi hai visto, ti aspettavi che io ti attaccassi. Non hai percepito l’odio di Maul, perché non sei riuscito ad andare oltre al mio. E quando ho mostrato di essere ancora dalla parte dei Jedi… ti sei distratto. Perché non riuscivi a capire. Non riuscivi ad accettare di aver fallito.”
Palpatine non parlò. Conficcò la punta incandescente della sua arma nelle viscere di Maul, poi lo scaraventò lontano. Lui non centrava. Questo era uno scontro a due.
Anakin aveva sentito tanto potere nelle sue mani solo un’altra volta nella sua vita: su Mortis, quando aveva sottomesso il Figlio e la Figlia. L’equilibrio della Forza. Luce e Buio.
Sith e colui destinato a distruggerli si scagliarono l’uno contro l’altro, rosso contro blu.
Il destino della galassia e della Forza era appeso ad un filo sottile, in bilico nel turbinio di colpi.
Il plasma incandescente morse la carne, trovò il cuore. Anakin chiuse gli occhi. Era finita.
Parole in Mando’a prese da
Elisa Frigerio
In quei due secondi in cui ci siamo guardati mi sono accorto di quanto in questi ultimi anni la guerra mi abbia prosciugato l’anima, facendomi dimenticare che cosa significhi essere umani. Non sono un soldato programmato per combattere senza valori , da quando c’è questa guerra civile mi sono completamente affidato ad ideali che avevo originariamente stabilito a tavolino: combattere per la patria, per la mia famiglia, combattere, combattere e combattere. Ma è quello che voglio davvero? Mi sono trovato immischiato in questa situazione più grande di me, lontano da casa mia, in mezzo al mare, su un’isola che non dovrebbe nemmeno esistere, due gemelle totalmente fuori di testa che sembrano ologrammi. Ma in tutto questo che ruolo ho? Mi sento come una farfalla in un mondo di aquile, troppo caduca per cambiare la mia condizione e troppo in balia di situazioni che non mi sento in grado di gestire. In questi due secondi in cui gli occhi di Kari e i miei si sono incontrati, ho messo in dubbio tutte le certezze che in questi anni avevo costruito come barriere. Non voglio fare il romantico, ma sto iniziando ad affezionarmi a quest’acida soldatessa che combatte in ogni istante una guerra, prima che con gli altri, con se stessa, cercando di dimostrare in continuazione il suo valore. Questi dolci pensieri in realtà sono in contrasto con quello che sta accadendo intorno a me, innanzitutto perché la specie di pudding verde che Spike ha preparato ha davvero un sapore orribile, ma soprattutto per il fatto che potremmo essere leggermente in difficoltà… Da dov’è spuntata questa gemella misteriosa?
Ad un tratto la grande porta di ciliegio minuziosamente intagliata con decorazioni corinzie si apre un’altra volta e dall’oscurità retrostante emerge, avanzando con passi solenni, una figura femminile di cui si nota immediatamente l’abbigliamento regale: un lungo mantello di colore turchese, con decorazioni dorate dello stesso stile dell’intero palazzo. L’acconciatura è composta da due grandi trecce avvolte a modo di spirale, decorate con fili d’oro e pietre preziose. Più la figura si fa avanti nella sala da pranzo, più i dettagli del volto iniziano ad essere evidenti: gli occhi di un grigio penetrante sono messi in risalto dalla carnagione scura, su cui si intravedono delle nere lentiggini. Regale è anche la sua voce che irrompe nel nostro silenzio di stupore: “stranieri, che cosa vi porta sulla mia terra?” Pronuncia questa frase con un tale tono di sufficienza che fa trasparire un’ilarità celata, come se sapesse già la risposta. Istintivamente, mi viene da replicare, in tono appena balbettante:
“S…Sua maestà, cioè, in realtà è la stessa domanda che ci siamo posti anche noi non appena siamo arrivati su quest’isola.”
Di fronte alla mia esitazione, Kari, che su queste cose ha sempre la risposta pronta, interviene:
“Se non fosse stato per la vostra ospitalità probabilmente saremmo ancora in mare su una zattera pericolante. Adesso però gradiremmo poter ritornare da dove siamo venuti.”
Una cosa che apprezzo di Kari e che spesso invidio è la schiettezza, senza troppi giri di parole arriva immediatamente al punto, anche se talvolta non trova freno nemmeno dinanzi alle gerarchie.
Myricae, così si chiama la madre delle due gemelle, e la regina dell’isola sperduta risponde con voce pacata ma al contempo ferma:
“Non vorrete lasciarci così presto, siete appena arrivati. Quando sarà il momento opportuno potrete andarvene e vi disporremo delle nostre migliori navi per poter giungere in patria… Quale che sia. Adesso prego, seguitemi che vi mostro le vostre stanze. Vi ricordo tuttavia che, per quanto non vorremmo recarvi alcun male, siete e restate ospiti, per cui vi prego di non interferire nelle nostre faccende che, fino a prova contraria, non sono le vostre.”
Appena la donna finisce di parlare vedo Heian e la sua gemella rivolgersi nello stesso momento una fugace occhiata d’intesa e sul loro volto comparire un ghigno sommesso, mente Kari ed io, con un velo di preoccupazione, ci accingiamo a seguire la padrona di casa. Usciamo dalla maestosa sala da pranzo, mentre Spike torna in cucina, pronto a servire l’ultima portata. Poi entriamo in un corridoio che a destra conduce nella zona delle cucine, mentre a sinistra si apre una cupa scala che permette l’accesso a due differenti piani, uno superiore ed uno inferiore.
“Da questa parte” dice Myricae indicando con un movimento del braccio verso sinistra “si trovano le residenze reali private in cui non sono ammessi ospiti o visitatori, procediamo dunque con la visita degli spazi a voi riservati”.
Avanziamo in quel corridoio non troppo lungo ed arriviamo in un grande salone da ballo estremamente luminoso grazie ad un’ampia vetrata. Da essa penetra un fascio di luce che riflesso sui cristalli del lampadario posto al centro della stanza, dà origine a giochi di luce e colori affascinanti. Attraversato questo salone giungiamo infine ad una scala a chiocciola estremamente irta ed angusta, la particolarità di questo palazzo è proprio il contrasto tra ambienti e colori. La luminosità di alcuni spazi si scontra con l’oscurità di altri, i colori sgargianti che dominano per la quasi totalità del palazzo si trasformano in cupe ombre da cui non si distingue nemmeno la via d’uscita. Insomma, il palazzo trasuda dei contrasti che emergono dalle stesse figure che lo abitano: una sensazione di inquietudine domina il mio animo, ho come la percezione che la loro ospitalità non sia gratuita o addirittura che non sia nemmeno ‘ospitalità’, perlomeno non nel senso proprio del termine.
Mentre saliamo sento Kari che impreca: “Con un palazzo così grande dovete farci dormire in soffitta?”
“È difficile arrivare alle vostre stanze, ma una volta lì sono sicura non ve ne pentirete”
Ed in effetti erano davvero belle e la fatica impiegata per salire quelle scale anguste è stata ripagata dall’accoglienza delle stanze a noi destinate.
Finalmente, dopo una giornata così intensa, abbiamo modo di riposarci e di dormire, cosa che non ero più abituato a fare. Così Kari ed io ci allontaniamo e con una voce stanca e schietta mi augura la buonanotte, sparendo dietro alla porta della sua camera.
Ad un certo punto sento in lontananza qualcuno salire le scale con passo concitato.
Sono curioso di sapere chi sia la persona che si aggira ad un orario così tardo con tale agitazione, ma d’altra parte sono troppo stanco per alzarmi dal letto ed aprire la porta, così rimango sotto le coperte. I passi non si fermano, proseguono per tutto il corridoio fino a che non li sento fermare proprio di fronte alla mia porta e ad un tratto la misteriosa figura inizia a bussare e sento pronunciare il mio nome:
“Dalen, Dalen sono io, Spike, ti prego aprimi, sono nei guai!... E dì a Kari di venire”
Velocemente faccio entrare Spike che dall’aspetto sembra davvero provato, le sue guance sono di un rosso acceso e gli occhi sbarrati mi guardano con terrore, gli chiedo dunque che cos’è successo di così terribile da ridurlo in queste condizioni e il cuoco risponde che inizierà a parlare non appena arriverà anche Kari. Appena pronunciato il suo nome ecco la porta che si apre:
"Spero che ci sia una valida ragione per cui mi avete svegliata a quest’ora della notte, era la prima volta dopo mesi che non dormivo così bene su un letto” dice la yandaliana con voce assonnata mentre ancora si stropiccia gli occhi.
“Va bene, adesso che ci siete entrambi posso raccontarvi quello che ho visto, è terribile!” E così, Spike, inizia a raccontare affannosamente…
“Sono uscito dalle cucine con in mano il mio specialissimo dessert che doveva essere l’ultima portata della cena, quando, entrato nella sala da pranzo, non vi ho più visto. Non vi nascondo che sono rimasto un po’ deluso del fatto che non mi abbiate nemmeno detto dove eravate finiti, così, tristemente, sono ritornato in cucina per lavare i piatti e mangiare da solo quello che avevo preparato. Con tutte le portate che sono state servite questa sera, le cose da fare in cucina erano molte, così sono stato costretto a lavorare fino a poco tempo fa. Era ormai notte inoltrata quando ho terminato di lavare l’ultimo piatto, l’ho messo con cura nella credenza e a quel punto ero talmente stanco da riuscire ad immaginare solamente il tepore delle lenzuola. Sono uscito dalle cucine e sono salito per le prime scale che mi sono capitate, ho capito solamente dopo che non avrei dovuto mettere piede in quell’ambiente, anche se sono contento di averlo fatto perchè credo di aver scoperto qualcosa di importante!. Dicevo, sono capitato sulle scale anguste vicino alla sala da pranzo, non rendendomi conto dove fossi, ho iniziato a salire fino a che non sono giunto al secondo piano e ho sentito una voce familiare provenire da una stanza poco distante da dove mi trovavo. Ero un po’ intimorito, ma la curiosità mi ha spinto a seguire la voce che sono sicuro di aver sentito già altre volte, per capire di chi fosse e sono arrivato ad una grande stanza che dev’essere probabilmente lo studio regale. Mi sono sporto per gettare un occhio su quello che stava accadendo all’interno e sono immediatamente sbiancato quando ho capito di chi fosse la fatidica voce: era quella di Helcar.
Conosco lui e tutti i suoi perfidi giochetti, da quando ha tradito Dalen fino a quando adesso, a quanto pare, ha tradito anche Kari.
Non ho capito subito che cosa stessero dicendo e su che cosa stessero discutendo così animatamente, fino a quando ho sentito Arthemisya dire:
“Quando il ragazzo ha detto di non avere con sé la chiavetta abbiamo pensato per un momento che il nostro piano fosse andato all’aria, come sempre però ti sei dimostrato un ottimo alleato.”
“Grazie a voi per la fiducia, è stato più semplice del previsto a dire il vero. Finalmente posso consegnarvi la chiavetta con i dati che state cercando da millenni. Per curiosità, dei due soldati sapete già cosa farvene? Visto che avete tutto quello che vi serve vi conviene ucciderli, visto che sanno già troppo di noi e del nostro popolo…”
Myricae risponde: “Grazie Helcar, gentile da parte tua, ma il fatto che tu sia riuscito a portare a termine la missione non significa che puoi sentirti nella condizione di dare suggerimenti a me. Per i due ragazzi… è ancora presto per ucciderli, mi potrebbero tornare utili.”
Myricae prende la chiavetta dalle mani di Helcar e la inserisce in un dispositivo di ultima generazione collegato ad un proiettore ed immediatamente compaiono sullo schermo decine di migliaia di numeri che si susseguono rapidamente. Pensare che un oggetto così piccolo contenga una tale quantità di informazioni di così grande rilevanza è davvero spaventoso. A questo punto il soldato inizia a digitare qualcosa frettolosamente e vedo che la sequenza di numeri si trasforma in parole e tra queste, ci sono talvolta anche immagini.
Riesco a scorgere immagini che mostrano un ampio territorio ricco di vegetazione con al centro un grande palazzo ed è proprio da questa struttura che comprendo che si tratta del palazzo reale in cui siamo adesso. Quello che mi stupisce maggiormente è che non si trova su un’isola, ma è un lembo di terra che si estende a fianco ad una costa e su quest’ultima si vede la base militare di Xalat, quella da cui è partita la nave di Kari. Una successiva foto mostra invece un bombardamento, si vede un alto fumo che si estende proprio in prossimità dell’unica costa frastagliata dell’isola attuale e fa pensare quindi che tale territorio non sia nato come isola.. Mi frullano nel cervello probabilmente un centinaio di domande: perchè è stato bombardato? C’è qualcosa da nascondere su quest’isola? Da che parte del conflitto sta questa misteriosa popolazione fantasma?
Mi balzano all’occhio inoltre decine di progetti che rappresentano figure umane con caratteristiche sopra la media, “ultra uomini” che superano i limiti che la natura ha stabilito. Ci sono progetti che spiegano le caratteristiche di persone velocissime, altri invece che mostrano le mutazioni cromosomiche subite da persone che poi hanno acquistato una forza eccezionale e tra tutti questi progetti, sono rappresentate anche le gemelle. Fin da subito avevo capito che queste due avessero qualcosa di strano, ed ora ne ho la conferma. L’immagine non era chiara, non sono riuscito nemmeno bene a leggerne la descrizione, quello che però ho capito è che la loro mutazione genetica le ha portate a sviluppare il potere della telepatia e loro necessitano di questi progetti per poter ricreare le loro abilità anche su altri soggetti. Se fosse davvero così come mi è sembrato di leggere, questa popolazione ha davvero un potere enorme nelle proprie mani, che potrebbe stravolgere completamente l’andamento del conflitto, penso quindi di andare immediatamente ad avvisare Kari e Dalen della mia scoperta. Ripercorro il buio corridoio al contrario e salgo le scale più velocemente che posso fino a che non riesco a raggiungere la tua camera”.
Dopo che Spike ha concluso di raccontare la sua avventura ci guardiamo con occhi spaventati: da un lato ci ha messo a conoscenza delle intenzioni e dei piani di questa popolazione, ma dall'altro ci ha anche condannato a morte, infatti se dovessero venire a sapere di questa scoperta, siamo finiti.
Alessandra Zagaria
Mi chiamo Sebastian, sono abbastanza alto, moro, anche se ormai, i miei capelli, con la vecchiaia, stanno diventando bianchi come la neve; ho gli occhi azzurri, ma non come quelli che si sogna di avere e che si vedono sulle donne più belle del mondo, sono semplicemente azzurri, per di più, di un azzurro spento, triste, che quasi mette malinconia; ho quarantanove anni e ahimè, sono consapevole di non portarli bene.
Ho una corporatura robusta, nonostante vada in piscina quando ne ho la possibilità.
Il mio colore preferito è il rosa: rosa caldo, rosa scuro, rosa antico, albicocca. Qualsiasi tipo di rosa io lo amo: mette tranquillità, armonia in tutto e anche in me.
Sono sposato da venticinque anni con Nicla, una donna simpatica, molto semplice, che possiede un bar e che ha quasi i miei anni.
Sono padre di due bellissime bambine, che ormai, tanto bambine non sono più, visto che hanno diciassette e quindici anni, e rispettivamente si chiamano Astrid e Amelia, a cui do cuore e anima.
Faccio un lavoro che mi piace: dirigo il marketing in un’azienda di elettrodomestici, ho una moglie, delle stupende figlie, una situazione economica stabile e agiata, eppure, sono così insoddisfatto della mia vita da non riuscire a dormire come si deve la notte.
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Oggi è il 15 di aprile, il mio compleanno, precisamente il mio cinquantesimo compleanno e Nicla ha insistito perché io festeggiassi almeno questo compleanno.
Sono le 17 di pomeriggio e sono appena uscito dal mio ufficio, appositamente prima, per questo giorno che tutti mi ribadiscono quanto sia importante.
Esco con ancora la camicia albicocca e la cravatta a fiori indosso, i completi eleganti non fanno per me, ma nonostante quello la camicia rosa e la cravatta a fantasia mi permettono di apprezzarli un po’ di più.
Prima di andare a casa per prepararmi per la cena che stasera mi aspetta con degli amici di vecchia data e le mie figlie, faccio un pit stop al supermercato per comprare dei preservativi; oltre a essere follemente innamorato di mia moglie posso dire con certezza che la passione tra di noi non si è mai spenta.
Entro al supermarket e mi dirigo nel reparto dove già so che troverò ciò di cui ho bisogno, arrivo in cassa e sento lo sguardo del cassiere puntato su di me, mi capita spesso, soprattutto per il modo in cui mi vesto che la società di oggi ritiene “bizzarro”, riferendosi a me come la pecora nera del gregge.
Il cassiere passa sullo scanner lo scatolino, con scritto in bella vista “durex”; dopo aver pagato, aver ricevuto il resto di dieci centesimi e il mio scontrino, il cassiere esordisce con una voce roca, intrisa di falsa cortesia e quasi risentimento: “Buona serata e si diverta con il suo ragazzo”.
Sul momento credo di non essermi nemmeno reso conto cosa quel cassiere mi avesse detto, in ogni caso ho continuato a camminare dritto verso la porta automatica del supermercato, ripensando alle parole d’odio di quell’uomo, chiedendomi il perché.
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Il mio secondo pit stop avviene in pasticceria, per le 17:40 devo ritirare la mia torta di compleanno, percorro la strada in auto, ascoltando a un volume spropositato Born This Way di Lady Gaga: questo brano mi dà un'adrenalina che le canzoni pop non sono solite a darmi, è proprio un'eccezione nei miei gusti musicali.
Entro in negozio e trovo una donna sorridente, che mi chiede: “Signor Marchetti?”.
Prontamente rispondo che sì, sono io.
Con la scusa che ho paura che la torta possa non piacermi, essendo una sorpresa, chiedo di poterla vedere e la pasticcera mi risponde con un sorriso a trentadue denti e alza il coperchio della torta: è una sacher - Nicla mi conosce troppo bene forse - con al centro una cialda di zucchero che recita: “Buon compleanno Seba. Ti amo - Nicla”.
La donna sgrana gli occhi e istintivamente pronuncia un “Oh” a voce un po’ troppo alta, rimango sorpreso, forse ha notato un errore nella scritta a cui io non ho fatto caso, perciò rileggo velocemente le due righe scritte sulla cialda, ma non percepisco alcun errore, allora chiedo alla donna quale sia il problema. Lei balbettando e un po’ imbrazzata mi risponde: “Oh… no beh… semplicemente vedendo la camicia rosa e la cravatta a fiori, h-ho pensato che lei fosse gay, non mi aspettavo di vedere una dedica da una donna”.
Indignato e vergognandomi per lei e per le sue affermazioni ultracrepidiane le rispondo enfatizzando sulle prime parole: “Quella donna è mia moglie, ora, se non le dispiace vorrei pagare e andare via da questo negozio”.
La donna accontenta la mia richiesta e per quei due interminabili minuti riesce a tenere quella bocca, che usa per parlare a sproposito, chiusa.
Esco dal negozio e sono esausto, stufo e inorridito della società in cui vivo e in cui le mie figlie stanno e dovranno continuare a crescere.
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Arrivo a casa che la voglia di festeggiare il mio compleanno è completamente sparita, quasi non fosse mai esistita.
Spero che una doccia calda interminabile possa almeno rilassarmi un po’ e farmi dimenticare tutti questi episodi di mascolinità tossica che la mia vita e la società continuano a sbattermi in faccia.
Per le 19:15 sono più che pronto con Nicla e Astrid, mentre Amelia corre per la casa in cerca, quasi in modo compulsivo, della sua borsa preferita che non sa di avere in mano. A un certo non riesco a non ridere, Amelia si ferma a osservarmi e all’improvviso si rende conto di avere avuto la borsa sempre in mano e comincia a strillarci addosso per non averla fermata, rendendo la scena ancora più comica.
Nonostante questo per le 19:45 riusciamo a essere tutti davanti al ristorante.
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Al ristorante siamo un bel quadretto: io con una giacca nera, sovrapposta a una camicia viola e dei jeans neri; Nicla con una giubbino leggero blu scuro e sotto un tubino verde scuro - è davvero troppo bella -; Astrid e Amelia hanno invece optato per un abbigliamento più casual, con jeans attillati, delle magliette un po’ scollate e un cinque centimetri di tacco.
Quando Martino e Isaura - amici miei e di Nicla dai tempi del liceo - arrivano, hanno anche loro indosso quei capi d’abbigliamento che si usano solo nelle occasioni importanti o speciali e che per il resto del tempo rimangono nell’armadio a impregnarsi dell’odore di chiuso.
Dopo essere entrati nel ristorante ed esserci accomodati al tavolo che ci ha indicato il cameriere, abbiamo iniziato a scambiare alcune parole e a rimetterci in pari sulle molte cose che non ci siamo detti nei mesi precedenti.
In un momento di silenzio incalzo un discorso e racconto ciò che mi è capitato oggi al supermercato e in pasticceria, cercando l’approvazione e forse anche un po’ di comprensione dai miei amici e dalla mia famiglia.
Però, alla fine del mio discorso, mi rendo conto che tutti mi osservano con uno sguardo quasi animale, d'odio, mi attaccano con le loro parole, mi fanno sentire sbagliato; “frocio” gridano, “quando capirai che nessuno ti accetterà mai per come sei, neppure te stesso”. Queste sono le parole che le loro bocche ripetono, come un disco rotto. Mi puntano il dito contro finchè, di soprassalto, non mi sveglio, sudato, nel mio letto matrimoniale, con a fianco Nicla.
L’avevo detto che non riuscivo a dormire bene la notte.
Elena Ranzani
Gli uccelli sono tutti uguali,
non importa quanto li rincorri,
loro scapperanno sempre
e ti lasceranno solo.
Delle volte si avvicinano,
si interessano,
ma alla fine voleranno sempre via.
Io ho paura degli uccelli,
quando mi avvicino sento che potrei volare insieme a loro,
ma non me lo permettono mai.
Ogni volta che li vedo,
non fanno altro che ricordarmi
quanto sia orrendo il fango della terra,
ma gli uccelli non sono tutti uguali, dicevano.
Era vero,
gli uccelli non sono tutti uguali,
delle volte infatti conobbi persino degli angeli.
Per un attimo mi illusi di essere in paradiso
e quando riaprii gli occhi,
erano già spariti.
Tutto ciò che mi rimase furono...
piume
con cui odiare il fango
e coltivare il mio terrore per volare.
Simone Banfi
Ogni uomo,
sia egli incarnazione dei propri desideri,
è destinato all'egoismo.
Ogni capro invece,
sia esso incarnazione di ciò che piace,
sarà destinato al sacrifico,
perché, come il bene comune insegna:
ogni peccatore ha bisogno del suo messia
e ogni debole ha bisogno del suo eroe.
Il ruolo del capro sarà di ricevere i fardelli di ogni singolo Sisifo
e ogni singolo Sisifo avrà il compito di affibbiare il ruolo di capro al capro,
perchè questo è l'uomo:
un regista il cui compito è dare i ruoli di un'opera che narrerà sempre
di vinti e vincitori,
di Capri e di macellai.
Simone Banfi
Appena la passerella venne calata, Artemysia si precipitò giù dall’imbarcazione, con gli stivaletti di cuoio che affondavano appena nella sabbia bianca e finissima. Un fresco spruzzo d’acqua salmastra la bagnò alle spalle, mentre il canto tranquillo delle onde dell’Oceano Insonne che si infrangevano sul bagnasciuga le davano il bentornato e una gentile brezza marina tentava invano di scompigliarle le trecce ramate: da quando aveva intravisto il profilo irregolare dell’isola durante la navigazione non aveva fatto altro che inviare Horus in avanscoperta, per contare impazientemente ogni lega che la separava da quel piccolo angolo di mondo sperduto nell’oceano che tanto amava. Il falco dorato le si posò agilmente sulla spalla con un piccolo strepitio soddisfatto, mentre già puntava con lo sguardo al centro boscoso dell’isola; “sì amico mio, siamo a casa” le disse lei, mentre quello scuoteva le forti ali, impaziente di tornare al suo nido dopo il mese di viaggio.
La ragazza abbracciò con lo sguardo la piana costa occidentale punteggiata di conchiglie, le colline verdeggianti dell’entroterra, la dorsale della modesta catena montuosa che emergeva appena dalla rigogliosa vegetazione e lo scuro promontorio orientale a picco sul mare, poi, voltandosi verso lo sterminato Oceano Insonne e il cielo terso che lo sovrastava, annunciò ai passeggeri dell’imbarcazione:
“Benvenuti a Hende!”.
Il secondo a scendere, ancora brandendo la sua fidata padella, fu il ragazzo minuto che aveva dato inizio al salvataggio chiedendo il suo aiuto, il cuoco Alois Nathain Aik qualcosa: a sua insaputa, era stato inaspettatamente utile al suo piano, aiutandola a rintracciare lo xalatiano. Dopo di lui, s’apprestarono a scendere i due soldati nemici: a pochi passi dalla sabbia, la yandaliana, Kari Elmas, rischiò di scivolare sulla superficie bagnata e il comandante xalatiano, Dalen, tentò cavallerescamente di aiutarla prendendola per un braccio, solo per venir respinto e scivolare a sua volta, visto che secondo lei “sarebbe stato meno umiliante cadere di faccia nella sabbia che farsi aiutare da uno Sputafuoco”. Artemysia pensò che forse quando si sarebbe trovata davvero in pericolo ci avrebbe pensato due volte a rifiutarlo in quel modo: erano due polli che litigavano nel terreno di caccia di una volpe.
“Se volete seguirmi…” li richiamò la ragazza con un cenno verso l’entroterra, incamminandosi verso la macchia di vegetazione che s’infittiva con la lontananza dalla costa, mentre già Horus la precedeva in volo. Artemysia seguiva con facilità e destrezza le piste che aveva già battuto centinaia di volte, fra le radici nodose e sotto la sempre più densa copertura di foglie e rampicanti fioriti, attraverso cui i raggi solari filtravano come colonne dorate danzanti. Dietro di lei, i tre improbabili compagni continuavano ad incespicare fra gli arbusti, accompagnati dalle esclamazioni stizzite della soldatessa e dai richiami degli animali selvatici.
“Grazie per la sua assistenza – le disse lo xalatiano raggiungendola a fatica – spero di poter ripagare il vostro aiuto, anche se non so a cosa devo tanta generosità”
“Oh non si preoccupi, è un dovere soccorrere chi è in balia dell’oceano: le onde prima o poi restituiscono sempre ciò che diamo e ciò che prendono” rispose lei con un sorriso allegro (e forzato).
Mentre lui accennava un inchino riconoscente, anche la Yandaliana riuscì ad allungare il passo:
“Si, davvero molto gentile -s’intromise la Elmas- ma io rivorrei la mia barca allora, anche se dubito che gli squali riassemblino i frammenti che ne sono rimasti e me la facciano ritrovare sulla riva; quindi, non ci sarebbe un modo per tornare da dove siamo venuti, così posso finire di catturare questo valoroso comandante nemico?”
“Discuteremo la cosa con Heian, vedrete che avrà sicuramente un modo per aiutarvi, ma prima saremmo lieti di potervi offrire la nostra ospitalità” precisò Artemysia pazientemente.
“Si, sicuramente un cumulo di sabbia talmente piccolo da non essere nemmeno segnato sulle carte ha molto da offrire ad una che non sapeva nemmeno della sua esistenza…” bisbigliò Kari, non abbastanza piano per non farsi sentire.
“C’è molto più di ciò che si può immaginare” le rispose Artemysia con uno sguardo enigmatico, che alla soldatessa parve quasi minaccioso. Muovendo gli ultimi passi fuori dalla zona più fitta della foresta, entrarono in una vallata protetta da colline e nascosta dall’esterno dalla densa vegetazione tropicale: il terreno sembrava leggermente depresso, così che l’intera conca era mascherata dai rilievi costieri dell’isola, impossibile da notare dal mare. Fra la vegetazione emerse sorprendentemente una piccola città, diversa da qualsiasi moderna metropoli yandaliana o roccaforte tradizionale a Xalat: gli stessi alberi della foresta crescevano a fianco di edifici slanciati dai profili morbidi e proporzionati, ognuno caratterizzato da audaci linee architettoniche che si intrecciavano intorno al corpo principale e a cupole trasparenti; larghe strade lastricate di pietre bianche erano percorse da un discreto numero di persone dal passo rapido e dalla parvenza indaffarata, ma non sembravano esserci mezzi di trasporto, salvo un paio di cavalli giunti al passo dai sentieri boschivi; le costruzioni si adattavano alle pendenze del terreno e alla presenza della vegetazione in perfetta armonia compositiva col paesaggio e fra loro, come se la città fosse un fiore selvatico sbocciato dal sottobosco anziché una creazione artificiale. Mentre il sole di mezzogiorno faceva risplendere ogni palazzo come una goccia di rugiada, Horus virò e stagliò la propria sagoma scura contro l’intensa luce e il cielo terso, per poi tornare dalla sua padrona. I tre stranieri non poterono che rimanere a bocca aperta per lo stupore, anche la yandaliana, suo malgrado.
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“Quindi voi siete sempre stati qui, senza che per anni ci accorgessimo della vostra presenza?” domandò Dalen, rallentando al passo il suo baio, mentre Artemysia lo guidava su uno stretto sentiero, in sella ad una docile puledra di frisone dal manto nerissimo. Appena arrivati in città, Artemisya aveva trovato delle stanze per i tre stranieri, poi, dopo aver fatto rapporto ad Heian, aveva portato lo xalatiano a fare un giro dell’isola a cavallo, nella speranza di scoprire qualcosa di più durante l’amichevole giro turistico; per facilitarsi il compito, aveva deciso di dividere lui e l’acida soldatessa yandaliana, ma qualcun altro si stava già occupando di lei.
“Sì, ma non esattamente da sempre. -spiegò lei avanzando verso ovest al piccolo trotto, mentre il sole calante alle sue spalle esaltava i toni ramati della sua chioma- Secondo le nostre leggende, un tempo il mondo era unito in un’unica grande terra sospesa fra le onde ed il cielo; gli uomini, però, raggiunto ormai il benessere grazie al progresso, col passare delle ere dimenticarono come vivere in armonia fra loro: l’egoismo e la sete di potere li portò a scatenare terribili conflitti e a bistrattare la natura. Le stelle allora ci punirono con una pioggia di fuoco che spaccò la terra, fratturando i continenti e mandandoli alla deriva, soli nella vastità dell’oceano, così che ogni popolo avesse il suo angolo di mondo e non potesse più cercare di conquistare quello altrui: non essendo in grado di coesistere, i nostri antenati si videro costretti a rimanere per sempre divisi.”
La sua cavalla ebano nitrì infastidita. Avanti, Selene, non è del tutto una bugia -disse la ragazza con la mente per scusarsi con l’animale- con una certa approssimazione ed incolpando gli astri, è pur sempre una parte della verità.
“Rimasti su quest’isola in poche decine, -continuò Artemysia ad alta voce, mentre il comandante seguiva con interesse la narrazione, senza accorgersi dei suoi silenziosi dialoghi con la cavalcatura- capimmo che, dopo gli eccessi degli anni precedenti, dovevamo ritrovare l’antico equilibrio per sopravvivere: non chiuderci in grattacieli di cemento, ma lasciare che il bosco avvolgesse le nostre case come fa con le tane degli animali e i nidi degli uccelli; non ripudiare la tecnologia, ma sfruttarla con saggezza e solo quando necessario; non pensare solo a sé stessi, ma cooperare per la comunità. Fu così che da un’isola in cenere noi Optimates riuscimmo a pianificare ed applicare un nuovo modello di società, che dura fino ad oggi e continuerà per sempre ad autosostenersi, come l’acqua che cadendo dalle nuvole torna al fiume e dunque al mare e poi nuovamente al cielo”
Cosa che voi invece non riuscirete mai a fare da soli, invece, aggiunse mentalmente alla fine del racconto.
Ormai erano arrivati al limitare degli alberi e la sabbia ghiaiosa della costa occidentale, bassa e morbida, prese a poco a poco il posto del sottobosco, scricchiolando sotto gli zoccoli dei cavalli.
“Una cosa però ancora non mi è chiara: come avete fatto a rintracciarci? - domandò lo xalatiano quando lei finalmente concluse il monologo - Non che io non ve ne sia riconoscente, anzi, ma eravamo soli in mezzo all’oceano, probabilmente nessuno scanner avrebbe potuto trovarci”
“Nessuno scanner, ma Horus sì -rispose con orgoglio lei lanciando uno sguardo al rapace dorato, che la precedeva in volo a pochi passi di distanza- Eravamo nei paraggi quando il vascello è stato attaccato e, notando l’esplosione, abbiamo pensato che fosse saggio controllare cosa stesse accadendo; così ho incontrato il tuo amico, Sike, che mi ha implorato di aiutare a cercarvi. È stato particolarmente determinato e persuasivo, più che per la nobiltà dei suoi sentimenti che per l’aggressività con cui reggeva una padella arrugginita”
“E come mai ti trovavi sulla costa della mezzaluna, a Yarimay, se non sono indiscreto?” indagò Dalen, mentre i cavalli seguivano il profilo della spiaggia verso sud.
“Oh, operazioni di routine, di tanto in tanto inviamo degli esploratori a controllare i progressi del vostro conflitto, solo per assicurarci che non ci siano minacce imminenti per Hende. A proposito, ero giusto venuta a sapere di un’incursione ad una base ribelle di gran successo, è vero che lei stesso ha diretto l’attacco?”
“Sì è così” confermò lui, gonfiando il petto orgoglioso e ammirando il riflesso caleidoscopico del tramonto sul mare placido e sulla spiaggia dorata tempestata di conchiglie.
“Non aveva ricevuto alcun ordine però, o sbaglio? Anzi, i suoi superiori non hanno molto apprezzato, da quanto dicono le mie fonti” lo incalzò lei, avvicinando Selene al baio di lui.
“E’ così, ma io combatto per Xalat, non per i miei superiori: ho fatto ciò che ritenevo più giusto” dichiarò lo xalatiano, con voce sempre più formale e ridicolmente solenne.
“Ma ora lascerai a loro i frutti della tua conquista? Perché non consegnare i file direttamente all’imperatore e dimostrargli il tuo valore in prima persona?” suggerì lei. Forza, ci siamo quasi, pensò: mancava poco e l’orgoglioso ufficiale le avrebbe rivelato tutto, ammorbidito dalle lusinghe come argilla bagnata, pronta a sgretolarsi.
“Non sono degno di presentarmi a sua Magnificenza, l’imperatore Keisara figlio del Drago Dorato… Comunque, giungerei a mani vuote” sospirò lui con delusione.
“In che senso?” domandò lei ansiosamente, vedendo il suo obbiettivo scivolarle via come un’anguilla dagli artigli di una poiana.
“Il disco rigido su cui avevo salvato il materiale rubato deve essermi scivolato mentre salivo sul vascello, forse potrebbe averlo preso quel traditore di Helcar o semplicemente esser caduto in mare, o essere stato distrutto nell’esplosione…” chiarì lui con una nota di rammarico.
Il placido sciabordio della risacca contrastava con la tempesta silenziosa di delusione e rabbia che si nascondeva dietro agli occhi dorati di Artemisya, che riusciva a stento a trattenere contemporaneamente sé stessa, Selene e Horus dal colpire lo xalatiano. Razza di inetto, come ha potuto farselo sfuggire?!
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Il terreno sassoso franò sotto il passo pesante di Kari, mentre la soldatessa cercava di inerpicarsi su per una ripida scogliera brulla a strapiombo sul mare. Non capiva perché quella ragazza avesse voluto trascinarla in quella scarpinata: portare i propri ospiti a fare free climbing estremo era un’idea piuttosto insolita di accoglienza, anche se doveva ammettere essere un modo efficacie ed elegante di eliminarli, forse.
“Capisco che voi abbiate un’economia illuminata, tecnologie superiori eccetera eccetera, ma come è possibile che quest’isola, in una delle zone di maggior tensione bellica, costantemente sorvegliata per scovare i siluri nemici da entrambi i paesi, non sia mai stata rilevata nemmeno una volta? Per quanto minuscola, non è qualcosa che passa inosservato; io stessa mi sono occupata delle letture degli scanner in questi giorni” osservò ad alta voce la yandaliana, scettica su ogni particolare dell’astruso racconto della ragazza sull’origine di Hende.
“Hai mai notato che sopra quest’area c’è sempre interferenza, come se ci fosse una piccola tempesta? - spiegò l’altra, mentre arrivava ad una zona più pianeggiante della scogliera, dove una rada vegetazione cercava di prendersi una piccola rivincita sulla roccia scura e sterile – Ci sono dispositivi di interferenza che creano un campo elettromagnetico intorno a tutta l’isola: facciamo in modo che l’interferenza abbia grandezza ed intensità variabili, così che sembri una perturbazione naturale e casuale, ma sempre presente”
“E per quale motivo volete nascondervi?” la interrogò Elmas alzando un sopracciglio, mentre cercava di tenere il ritmo della guida nella scalata.
“Perché non dovremmo? Altri arcipelaghi minori sono stati coinvolti con la forza nella vostra guerra infinita, assorbiti entro i confini dell’Impero o obbligati ad allearsi con la vostra Coalizione: si sono trovati sul confine dei due fronti, esattamente fra l’incudine e il martello; non vogliamo essere l’ennesimo pesce piccolo divorato dai due squali bellicosi -ribatté la ragazza, sistemandosi le trecce brune- Abbiamo tutto ciò che ci seve quaggiù, il mondo esterno non ci interessa”. Ma sapeva che un altro pesce, ancora più grosso, sarebbe presto emerso per ricordare a quei due paesi superbi di stare al loro posto.
“Cosa le interessava invece, quando la scorsa notte ha rubato quel vascello?” la incalzò a sua volta la ragazza, che davanti all’iniziale reticenza della yandaliana fissò i suoi occhi metallici inquisitori in quelli ebano, scocciati della soldatessa.
“La promozione, non mi interessa altro. Voci di corridoio dicevano che quell’ottuso xalatiano tutto ideali e onore era riuscito a fare un colpo alla base dei Black Circles e che aveva preso qualcosa di grosso: dati informatici su non so neanche cosa, ma sembravano interessare ai miei superiori. Avevo intenzione di serviglieli su un piatto d’argento in cambio di una mostrina in più, ma il mio piano è letteralmente andato in fumo” cedette infine Kari, condendo con sarcasmo e stizza ogni sillaba.
Arrivate oramai in cima alla scogliera orientale osservarono il globo solare infuocato tuffarsi nelle onde dell’Oceano Insonne, proiettando lunghe e profonde ombre fra le rocce appuntite e spoglie della scogliera, che terminava in un’altra falesia verticale di roccia scura e spoglia, come se il terreno fosse stato tagliato con un coltello e poi bruciato. Osservando l’aspra formazione rocciosa, Elmas pensò per un momento che forse quella bizzarra leggenda sull’ira delle stelle raccontata dalla ragazza non sembrava poi così inverosimile, ma poi qualcos’altro sulla costa meridionale catturò la sua attenzione: un cavaliere dai capelli scuri, rivestito di una divisa rossa come il cielo crepuscolare, che parlava con un’altra figura a cavallo non riconoscibile.
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“E questi sarebbero…?” domandò disgustata Elmas, mentre si serviva una cucchiaiata di un impasto gelatinoso verdognolo: quella poltiglia non la entusiasmava, ma sul tavolo apparecchiato per tre non c’era altro di più invitante, solo ciotole piene d’erbe stufate di ogni tipo e dubbia varietà.
Dalen la guardò severamente, come se dovesse sgridare una bambina maleducata al ristorante, e si aggiustò il colletto per tenerlo ben allineato al capo perfettamente levato: offendere il cibo offerto era decisamente contro i suoi principi d’onore, ma Kari non era dello stesso avviso, mentre annusava attentamente la sua porzione, guardandola con diffidenza come se potesse essere avvelenata; ovviamente, aveva anche osservato con sospetto ogni angolo della sala da pranzo, dai tendaggi leggeri che lasciavano intravedere il cielo stellato dietro ampie bifore ad arco, alle lastre di marmo multicolore della pavimentazione, le sobrie decorazioni geometriche dei muri chiari e la volta affrescata da una mappa celeste, fino ad ogni pomello dei mobili cesellati e il lampadario in vetro soffiato.
“Non dovresti essere così irriconoscente, anche se mi sembra ovvio che la gentilezza non sia di casa a Yandal” la sbeffeggiò lui.
“Infatti, ma lo spirito di sopravvivenza lo è eccome: non mi pare che ci sia qualcuno dei loro -come si chiamano… Optimates- a mangiare questo cibo potenzialmente tossico insieme a noi! Forse da queste parti non è usanza avvelenare gli ospiti mentre si è a tavola con loro, meglio lasciarli soli a condannarsi con una cucchiaiata di zuppone verde” si lamentò lei sarcasticamente.
“Avanti, non è poi così male, ho aiutato anch’io a preparalo -intervenne Sike, che invece gustava soddisfatto la cena- Saranno un po’ altezzosi, ma a me queste persone sembrano piuttosto gentili: mi hanno lasciato cucinare per loro tutto il giorno! E poi, se avessero voluto ucciderci, non sarebbe stato molto più semplice gettarci in mare tutti e basta?”
“Forse ci attende un destino peggiore della morte -commentò la yandaliana con tono lapidario, prima di rivolgersi allo xalatiano con diffidenza- Piuttosto, dove sei stato tu tutto il pomeriggio, Mr. Spilli nel Colletto?”
“Con Artemisya, abbiamo visitato l’isola; tu dov’eri, piuttosto?” le rispose lui alterato dall’accusa e dall’appellativo, anche se piuttosto veritiero.
“Non prendermi in giro, io ero a rompermi le caviglie sulla scogliera mentre lei continuava a raccontarmi della loro fiorente patria, e tu non c’eri, neanche l’ombra; o meglio, ti ho visto, dalla cima di quella maledetta falesia, che percorrevi la costa sud, a cavallo, e non eri solo- lo accusò lei, diventando sempre più sospettosa ad ogni parola - Stai prendendo accordi per andartene e lasciarci qua non è vero? Per quanto hai venduto la mia testa? Solo un passaggio fino al tuo amato Xalat, o le hai estorto anche un po’ di crediti?”
“Come osi anche solo pensare che io possa fare una cosa del genere? Sarò anche tuo nemico, ma esistono leggi e rispetto anche in guerra” dichiarò lo Xalatiano con l’usuale pomposità.
Uno scambio di sguardi accusatori e taglienti iniziò fra i due lati del tavolo imbandito, mentre i due contendenti si protendevano uno verso l’altro come se fossero sul punto di venire alle mani.
“Beh io sono rimasto in cucina, e posso assicurarvi che non c’erano né accordi segreti, ne’ veleni o congiure, solo verdure; tante, troppe verdure, funghi e legumi” cercò di spezzare la tensione il ragazzino, che, senza la sua padella da combattimento, non si sentiva pronto allo scontro.
In quel momento, le due porte laterali della sala si dischiusero all’unisono e due ragazze entrarono insieme. Erano una lo specchio dell’altra: medesima acconciatura con due grandi trecce sopra la fronte e una cascata di capelli fino alle spalle, stessi pantaloni elasticizzati e maglie setose ricamate con motivi a spirali, identici lineamenti graziosi ma decisi e carnagione chiara, portamento ugualmente fiero e sicuro e sguardo penetrante. Le uniche diversità erano le sfumature degli occhi, giallo dorato come un’aquila per la ragazza entrata dalla porta di destra e d’un grigio argento freddo e lunare per quella a sinistra, e il colore dei capelli, bruno ramato per la prima e leggermente più scuri quelli della seconda.
Tutti e tre balzarono in piedi, più per lo stupore che per cortesia. Le due ragazze sembravano irreali da quanto erano identiche: sarebbe stato più plausibile pensare che fossero due ologrammi piuttosto che persone. Coordinate in ogni passo, complementari nel colore delle vesti, degli occhi e dei capelli, identiche in tutto il resto: nonostante quelle due sfumature leggermente differenti, sarebbe stato difficile distinguerle, perché sembravano essere state fuse dal medesimo stampo.
“Buonasera- li salutò Artemisya dal lato destro della stanza, avvicinandosi al tavolo- vi presento mia sorella, Minerva.” concluse indicando l’altra, che li salutò con un leggero cenno del capo e un accenno di sorriso cordiale.
“Ma siete identiche! Tranne per i capelli, e un po’ gli occhi anche, in realtà… Siete gemelle?! Ecco, visto Kari, tu oggi eri con Artemisya, mentre invece Dalen era con sua sorella: avevate ragione tutti e due” spiegò il ragazzino aprendo le braccia, entusiasta d’aver svelato l’arcano.
“Sì infatti” risposero all’unisono le due; qualcosa nelle loro voci sovrapposte parve innaturale, come due computer che emettono lo stesso suono insieme.
Davvero molto acuto il ragazzino, vero sorella? Comunicò telepaticamente Minerva alla gemella.
Cosa ti aspettavi? Sarà più semplice così, in fondo: meno intelligenza per loro, meno sforzo per noi” le rispose Artemysia col pensiero; nessun altro poté cogliere il loro scambio, mascherato da due falsi sorrisi rassicuranti.
“A momenti dovrebbe arrivare anche nostra madre, spero che la cena sia di vostro gradimento” aggiunse Minerva guardando verso l’entrata opposta.
Non una bocca si muoveva per gustare il discutibile pasto, dato che erano tutte spalancate per l’incredulità. Lo xalatiano lanciò un’occhiata risentita alla yandaliana, per sottolineare come il suo onore fosse ancora una volta immacolato, mentre lei scosse le spalle: quell’idealista non poteva certo aspettarsi che lei immaginasse un trucco del genere!
Non ebbero tempo di prolungare le loro occhiatacce, perché la porta di destra si dischiuse nuovamente e una donna alta, con la carnagione dorata, con un’elaborata crocchia ebano e dal volto austero entrò a testa alta, in uno svolazzo di vesti smeraldo.
Elisa Frigerio, Martina Cucchi, Alessandra Zagaria
“Sì, era certo singolarmente bello con quelle labbra rosee, finemente disegnate, i chiari occhi azzurri e i capelli biondi ricciuti. V’era qualcosa nel suo volto che ispirava immediata fiducia: tutto il candore della gioventù, e della gioventù tutta l'appassionata bellezza”
“Il ritratto di Dorian Gray”
Oscar Wilde
Marlene non si aspettava di trovarlo lì, seduto a gambe incrociate sul muretto del grande giardino, intento a lanciare, senza troppo entusiasmo, i piccoli ciottoli. La vera meta era ben altro, ma scorgere la sua figura l’aveva spinta inconsciamente a sedergli accanto. Quando il giovane la vide non nascose l’espressione stupita e felice sul volto.
-Cosa ci fai qui?- domandò facendole spazio.
Marlene non rispose, ma pose a sua volta una secca domanda.
-Avevi intenzione di non venirmi a salutare?-
Dorian non riuscì a trattenere la risata bassa e divertita che uscì frizzante dalle sue labbra. Scrollando il capo, le carezzò candidamente il viso col dorso della mano, pallida e calda.
Marlene, nonostante il dolore, si ritrovò a sorridere a quel gesto così infantile ma allo stesso tempo premuroso.
-Certo che sarei venuto- disse rompendo il contatto e, tornando a guardare l’orizzonte, continuò -Non avrei potuto non salutarti-.
Dorian Gray portò indietro il viso e la sua pelle candida si colorò, illuminata dalle ultime luci del sole. La leggera peluria presente sulle sue guance si illuminò a sua volta, proprio come piccole scaglie di fuoco. Marlene chiuse gli occhi, tentando di trovare conforto in quel benevole venticello caldo. Come ghiaccio, però, una strana sensazione di vuoto le schiacciò il petto, facendola tornare malamente alla realtà. Marlene lasciò che un brivido freddo e solitario le percorresse la schiena.
-A volte non vorrei essere parte di un libro- disse all’improvviso lui, ricominciando a lanciare i ciottoli.
-Come?-
-Non sono libero di compiere i miei gesti quando voglio, non posso essere ciò che voglio. Io sono un personaggio descritto, racchiuso dentro a delle righe d’inchiostro… Tu, invece, sei quella che vuoi essere… Non sei obbligata a seguire un copione… Non sei obbligata a strapparti da ciò che ti rende veramente umano ogni qual volta qualcuno voglia leggerti-.
Marlene socchiuse gli occhi. Era bello essere umani? Non poter cambiare mai ciò che c’è di sbagliato?
-Non è vero Dorian- rispose lei, aprendo finalmente gli occhi, ma distogliendo lo sguardo dall’occhiata curiosa del giovane -Voi potete riscrivere ciò che siete. Basta prendere un foglio in più, usare l’immaginazione e correggere quei peccati che vi contraddistinguono con delle storie di fantasia dettate dall’amore nei vostri confronti, dalle emozioni che avete suscitato in chi vi ha letti…-
Come una vampata di fuoco, le lacrime si presentarono nuovamente ai lati degli occhi. Ma come mai stava così male?
-A volte ho paura che qualche personaggio delle nostre storie possa raggiungerci- disse ancora così, di punto in bianco, lui.
Marlene aggrottò le sopracciglia, un po’ per la confusione che quelle frasi così sconnesse ed improvvise le stavano causando, un po’ perché esse, alla fine, erano domande che inconsciamente si stava ponendo.
-Ma è impossibile!-
-Lo so, ma ho paura che in qualche modo Basilio e Sibilla possano venire qui e vendicarsi- la interruppe.
-Ho paura che per sbaglio tu possa pensare a loro come pensi a noi e possano prendere vita a loro volta-.
-Anche se dovesse accadere, non ti succederebbe mai nulla Dorian. Tu sei… Immortale- l’ultima parola poco più di un sussurro, ma bastò per far contorcere per qualche intenso istante le viscere di Dorian.
-Infatti, non ho paura che possano fare del male a me- gli occhi azzurrini di colpo cupi -Ho paura che ne possano fare a te!-
-Ma la cosa che mi fa ancora più paura è che qualche personaggio della storia di Snape possa prendere vita ed ucciderti- le mani strette a pugno -Sono tutti strambi in quella storiella patetica-.
Marlene scrollò la testa un paio di volte, le guance riconoscenti erano piacevolmente colorate di un rosa acceso.
-Però è impossibile, hai ragione. Perché non ti lascerò morire!-
-Perché anche Severus non mi lascerà morire- e Marlene rise, d’una risata fin troppo acuta e isterica che in quel momento riuscì solo ad innervosire entrambi. Dorian diventò di colpo rigido.
-Come fai ad esserne sicura?- sibilò.
-Perché non sarebbe mai in grado di far morire altre persone- e detto ciò alzò gli occhi e li puntò in quelli celesti di lui. Erano così belli e puri a prima vista ma, in fondo, guardandoli bene, Marlene riuscì a scorgere qualcosa di oscuro e spaventosamente soffocante: profondi abissi nei fondali di un mare cristallino, specchi di un’anima contorta e dannatamente sola che, velocemente, scapparono dai suoi grandi ed ingenui.
Se il mondo fosse cieco, quante persone riusciresti ad impressionare?
-Se n'è andato stamattina- comunicò lei, la gola impastata e secca nel pronunciare quelle parole. Non seppe perché l’aveva detto, ma forse lo fece per non rimanere sola in quella mancanza.
-Fosse per me potrebbe anche andare all’Inferno- il tono duro e tagliente riuscì a spaventarla ed innervosirla al col tempo stesso. Si voltò per l’ennesima volta con furia, spaventandola, ed ella lo guardò mentre, con una disinvoltura quasi maniacale, attorcigliava un boccolo ramato intorno al dito affusolato.
-Marlene, perché la verità fa male?- domandò, tentando di dividere un filo di rame dall’altro.
La giovane si ritrovò ancora spiazzata, ma seppe rispondere quasi immediatamente.
-Non è la verità a far male-
-E allora cos'è che brucia così tanto?- la ciocca gli sfuggì di colpo dalle dita e ricadde velocemente sul maglioncino.
-Le bugie che abbiamo dentro…- spiegò lei -...E che la verità ci toglie, Dorian-
Dorian riportò la propria attenzione negli occhi della giovane donna. Qualche ricciolo, mosso dall’improvvisa folata di vento, cadde in avanti oscurando il suo sguardo. Lo osservò mentre, con ansia, studiava il suo volto come se potessero presentarvisi improvvise somiglianze, come se improvvisamente qualcosa potesse balzare fuori e punirlo.
-Tu hai paura di andare- sussurrò lei -Tu hai paura del giudizio che avrà di te Sibilla Vane-.
Non ricevendo alcuna risposta o segno, Marlene continuò: -Tu hai il terrore di risentire le parole d’amore che potrebbe ripeterti, hai paura di incontrare di nuovo il suo sguardo, hai paura di…- ma si interruppe, non trovando momentaneamente altre spiegazioni.
Un angolo della bocca del giovane si alzò, il sorriso amaro rese meno terrea la sua espressione persa.
-Sibilla è impazzita dopo che l’ho lasciata- l’attenzione fu rivolta al cielo rossiccio -Mi ha amato molto, non lo nego. Ma quel che ho capito è che il suo sentimento si è trasformato in qualcosa di spaventosamente morboso-.
Prima di continuare, il pollice e l’indice andarono a pizzicare la barba appena accennata sulle guance.
-Era bella- gli occhi si spalancarono leggermente: ammiravano scendere dal cielo una splendida creatura.
-E’ veramente la fanciulla più graziosa su questa terra-
A Marlene sembrò di udire, come cocci, i pezzi delle sue pupille infrangersi. I due pozzi d’acqua pura mossi da una spaventosa ondata di terrore. Lo splendido pegaso, che stava volteggiando verso di lui, si era trasformato in un raccapricciante demone.
-E’ impazzita…- la voce si ruppe -Irrecuperabilmente folle…-
Persa tra le dolci colline del suo viso, tra la morbidezza delle sue labbra, tra la massa ondulata dei suoi riccioli, portata via dal vento caldo del suo respiro.
-Avevo intenzione di perdonarla- riprese il filo dei suoi discorsi -Ma non è servito a nulla…
-Nulla!- ripeté, alzando di colpo la voce e ridendo istericamente.
-Come hai letto si è uccisa- il pollice a tracciare una linea immaginaria sul collo -Uccisa!-
La stessa mano velocemente fu portata tra i capelli.
-Sai perché Marlene?- le dita si strinsero.
La giovane, capendo dove volesse arrivare, tentò di fermarlo.
-Dorian no…-
-E’ COLPA MIA!- la mano tirò -SOLO E SOLTANTO MIA!-
L’altra mano artigliò la pelle morbida della guancia, la carne fino in fondo, in profondità.
-Tutta colpa della mia bellezza!- urlò, ma la voce, strascicata dal dolore fisico e mentale, si abbassò.
Marlene rimase immobile, a fissare quella dannata perfezione segnata da macchie rosse e lacrime. Forse furono proprio le lacrime che vide scendere per la prima volta dagli occhi di Dorian ad impedire qualsiasi movimento. Semplicemente stupita.
Non riuscì nemmeno a muovere un muscolo quando lo vide accartocciarsi e crollare istericamente a terra, scosso da ansiti, in bilico tra agonia e malsana follia.
Cominciò addirittura a prendere a pugni la ghiaia del sentiero e, dopo svariati colpi che liberarono buona parte della sua rabbia repressa, Gray si voltò ritrovandosi a pancia in sù.
Alzò con lentezza le mani, aprendole e chiudendole un paio di volte. Ammirò con perversa soddisfazione le sbucciature sanguinanti sulle nocche, contento della punizione che si era inflitto.
Con lentezza leccò il sangue che cominciava ad uscire dal suo naso, in modo elegante, malato, sbagliato, un pò come lui.
Dopo alcuni istanti d’intenso silenzio, il biondo si alzò sulle gambe malferme ed accennò un inchino beffardo e del tutto inappropriato alla situazione.
Il susseguirsi di gesti sconnessi ed insensati aveva aumentato in modo esponenziale la confusione nella testa della giovane donna. Lo guardava, basita.
Impazzito, inumano.
Dorian tirò su col naso ed accennando un sorriso sornione parlò in modo quasi normale: -Non ho paura di quello che sentirò, ma di quello che non riesco a sentire più-.
Le fece un cenno per salutarla. Marlene percepì di sfuggita la barba ispida e le labbra calde e morbide sulla sua guancia.
-Ci vediamo tra un pò mia dolce amica!- salutò allegramente, camminando dondolante verso la villa. Ubriaco di demenza, grondante peccati.
Ripresasi, Marlene sentì chiaramente la risata cruda alle sue spalle; cruda e folle, che si scontrò con l’ultimo raggio di luce prima che la notte calasse sul mondo. Si voltò, tentando di capire cosa fosse successo negli ultimi minuti. Ma Dorian non c’era più, rapito dalle tenebre.
Gaia Gardiolo
Era pensieroso in quegli ultimi giorni. Se ne stava sempre in disparte, immerso in pensieri che solo lui conosceva; sempre silenzioso e tranquillo alla finestra più alta di quella torre immensa, per vedere il mare che si innalzava possente e imperioso all’orizzonte. Il mare era sempre tranquillo in quei giorni: non c’erano forti onde o alte maree; insomma, si stava bene!
La cittadella era da sempre situata su una conchiglia gigante che poggiava quieta sull’oceano. Si chiamava Dreamland e tutti gli abitanti ci vivevano per un semplice e, allo stesso tempo, incredibile motivo: quella città realizzava una buona parte dei sogni delle persone che ci abitavano. Tutti i sogni tranne quelli di Jack.
Jack era un ragazzino di sedici anni che aspirava a un solo sogno nella sua vita: vivere un’avventura indimenticabile!! Ma cosa c’era di avventuroso in una città da cui non si poteva scappare, persa nei meandri dell’oceano?!
E quindi se ne stava lì, seduto sul davanzale della finestra, guardando l’orizzonte e chiedendosi quando si sarebbe realizzato il suo sogno.
Mentre Jack si crogiolava nei suoi pensieri, Lucy leggeva, come al solito.
Amava la lettura in un modo incredibile; riusciva ad immaginare qualunque cosa leggesse, anche il profumo dei vestiti dei personaggi che amava. Jack sapeva tutto di Lucy e, anche se lei aveva qualche anno in meno di lui, si capivano perfettamente.
Jack invidiava Lucy per il suo incondizionato genio e la sua incredibile fantasia. Secondo lui, Lucy sapeva viaggiare con la mente in mondi avventurosi, romantici, pieni di fantasia e divertimento. Una cosa che lui non riusciva a fare. Invece Lucy era invidiosa di Jack per il suo carisma, il suo coraggio e la sua forza di spirito. Lei sognava di diventare una Lucy avventurosa e coraggiosa che, se avrebbe voluto, poteva dominare il mondo, ma sapeva di non essere ancora diventata quella ragazza per colpa dei suoi timori e delle sue insicurezze. Molte insicurezze e sfiducie in lei stessa che erano un vero e proprio ostacolo per la sua esistenza. Entrambi sapevano dell’invidia dell’altro e, quindi, cercavano di aiutarsi a vicenda: lei raccontandogli il mondo della lettura in cui si era chiusa per sfuggire dalla solita e noiosa realtà; lui spronandola a credere di più in sè stessa e aiutandola a sconfiggere difficoltà e paure per farla arrivare dall’altra parte del lungo e sottile filo che penzolava tra lei e la Lucy dei suoi sogni.
Jack e Lucy si diressero al solito posto. Quell’immensa palestra dove si allenavano facendo delle sfide di audacia che vinceva quasi sempre Jack, ma che a Lucy non dispiacevano.
Mentre si divertivano arrivò l’ultimo membro del loro trio, Robin: era un ragazzo con una comicità incredibile, ma che molti consideravano antipatico. Il suo sogno era quello di incontrare degli amici veri che lo avrebbero accompagnato per il resto della vita: quel sogno si era già realizzato. Per Lucy, Robin, era un ragazzo molto simpatico e super divertente che nascondeva un lato misterioso e intrigante. Lei non glielo aveva mai detto, però, perché principalmente loro due discutevano in continuazione, facendosi dispetti di ogni tipo. Ma si volevano molto bene e ci tenevano l’uno all’altra. Jack doveva sopportarli ogni giorno con i loro battibecchi, ma li adorava tutti e due.
Fortunatamente l’estate era arrivata e il loro trio poteva incontrarsi più spesso. Stesi sul prato della loro amata palestra, a guardare il panorama che si estendeva quieto, chiacchieravano su come passare le loro vacanze.
“Ci deve pur essere un’avventura da intraprendere in questa maledetta città!” disse Jack accigliato.
“La troveremo, tranquillo. Prima o poi avremo il nostro momento.” Rispose Lucy paziente e positiva come era sua abitudine.
Dopo qualche minuto di silenzio Robin sussultò emozionato: gli era venuta un’idea! “E se rubassimo una delle navi che ci sono sulla costa?”
“Ecco a voi signori e signore il più grande stratega di avventure di questo mondo!” Disse Lucy ironica. “Ma sei impazzito?! Sai che cosa succede a quelli che rubano le uniche navi che la nostra città ha a disposizione? Una sola parola: impiccagione!”. Disse spazientita dalla stupidata detta dall’amico. Lui si aspettava l’ironia di lei, la conosceva bene.
Jack sembrava pensieroso: “E se potesse essere la nostra unica possibilità per vivere un’avventura coi fiocchi?” Disse entusiasta.
Lucy lo guardò stupita e seria. “Lo so che è pericoloso ma perché non provarci?” Disse subito, spaventato dallo sguardo dell’amica.
“Chi sta con me?” Chiese, con il suo solito sguardo luccicante che ispirava fiducia, porgendo una mano aperta al centro del gruppo. Robin mise la sua mano sopra quella di Jack, felice di aver dato l’idea. Lucy era indecisa: “Vi voglio bene, lo sapete. E vi seguirei dappertutto, perché mi fido di voi. Ma dobbiamo essere prudenti, vi prego.” Disse con un filo di emozione nella voce. I due annuirono felici. Era deciso.
Nascosti dietro ad uno dei barili di vino della costa, all’erta per scorgere le guardie fuori dal cancello, aspettavano l’occasione favorevole per nascondersi in una di quelle navi che luccicavano ai riflessi dei raggi del sole.
Era mattina inoltrata quando si adagiarono silenziosi senza proferire parola, solo rivolgendosi l’uno all’altro con gesti simili al linguaggio dei segni, vicino a una di quelle navi gigantesche.
Si erano tutti e tre organizzati per il compimento della loro impresa: Jack aveva portato con sé pugnali e spade per tutti e tre; Robin aveva scoperto una notizia eclatante accaduta in quei giorni e, dopo averla riferita agli amici che avevano deciso che quella sarebbe stata la loro missione, aveva preso tutti i giornali e le mappe che davano delle informazioni più specifiche sull’accaduto; Lucy, invece, aveva portato con sé la sua solita sacca piena di libri di navigazione e di medicina insieme a tanti farmaci, inoltre aveva comprato qualche scorta di cibo per il viaggio che li attendeva.
La notizia folgorante che aveva scatenato la loro emozione era la scoperta che uno dei fuorilegge più pericolosi dei sette mari, John Robinson, aveva rubato la famosa “Roccia dei Sogni”, la roccia che realizzava i sogni della città di Dreamland. Senza di essa, la città sarebbe presto caduta in povertà e sventura. Dovevano recuperarla a tutti i costi!
Robinson aveva rubato, con la sua ciurma, una delle navi più belle della costa, la “Prua”, e si era diretto verso est. I ragazzi decisero di inseguirlo. Ma prima dovevano impossessarsi della “Black”, una nave di colore nero che risplendeva ai primi raggi della luna.
C’era abbastanza vento per far partire una di quelle navi per il mare cristallino che si estendeva dalla costa. I ragazzi erano pronti: si diressero in accosciata verso la “Black”. Robin rimase di guardia per far passare gli amici dentro la nave e, al momento giusto, intrufolarcisi anche lui.
Sempre rimanendo bassi, per non farsi vedere dalle guardie, si prepararono per la partenza. Lucy prese il timone, invece Robin e Jack spiegarono le vele.
Lentamente la “Black” iniziò a muoversi verso l’oceano attirando gli sguardi dei passanti, incuriositi dalla partenza di una nave senza capitano ed equipaggio. Le guardie si precipitarono a lanciare funi per riattirare la nave alla costa. Nell’istante in cui le guardie lanciarono le funi, il cuore di Lucy prese a battere fortissimo, spaventato dalla probabilità che le guardie li prendessero. Smise di tamburellare nel momento in cui le funi caddero in acqua creando un rumore che, in uno dei tanti fumetti che Robin leggeva, avrebbero descritto con uno “Splash” acuto e, per il trio, estremamente rassicurante.
Ce l’avevano fatta: felici ed emozionati si sporsero sul bordo del veliero per sentire il vento, eccitato quanto loro, che gli soffiava sul volto.
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Era calata la notte. Il primo giorno di navigazione fu tranquillo.
Con il bagliore della luna e delle stelle che risplendevano regine nel buio della notte, i ragazzi decisero di fare dei turni per tenere il timone della nave. Essendo stata tutto il giorno al comando Lucy avrebbe fatto l’ultimo turno di guardia. Ma prima doveva spiegare le indicazioni basilari per comandare una nave potente come la “Black”. Dopo dieci minuti di lezione Jack fece il primo turno, emozionato al limite delle sue possibilità per il realizzarsi del suo meritato sogno. Robin fece il secondo turno, continuando a guardare, prima l’orizzonte oscuro e, dopo il cielo che abbracciava il mondo con i suoi scuri colori. E infine Lucy si svegliò riposata ed entusiasta per l’avventura che stava per compiere insieme ai suoi migliori amici, pronta ad avvicinarsi sempre di più alla Lucy che voleva essere.
Al sorgere del sole i ragazzi notarono con il cannocchiale, portato da Jack, un’isola dove si innalzavano foreste e spiagge baciate dal bagliore solare. Tutti e tre gridarono all’ unisono : “TERRA!!!!!”. E, subito dopo, scoppiarono a ridere divertiti e emozionatissimi. Un pensiero pervase la testa di Jack: quell’isola era troppo tranquilla e non era un buon segno. Ma non volle spaventare gli amici, quindi richiuse quel pensiero nel suo cervello e portò alla luce l’emozione immensa che stava per scoppiare dentro di lui.
Arrivati a riva ancorarono la “Black” a ovest dell’isola, per evitare che qualche altra nave, passando di lì, la notasse, e si diressero verso la foresta per cercare qualche frutto da mangiare. La foresta era di un verde brillante e acceso che ispirava tranquillità e riposo, con liane, alberi altissimi e l’odore della natura che si estendeva per l’immensità di quello che era diventato per i ragazzi un posto magico e avventuroso.
Iniziarono a correre divertiti per la radura, arrampicandosi su alberi e liane. Si divertirono per un paio d’ore mangiando qualche frutto raccolto e ispezionato da Lucy, che li osservava attentamente seguendo le indicazioni del suo libro di “Frutta, bacche e semi velenosi”.
Sfortunatamente tutto cessò all’improvviso: il vento si spense di colpo come spaventato da qualcosa; il sole si nascose dietro una nuvola fredda e scura; gli uccelli smisero di intonare il loro canto allegro; e il mare prese a muoversi cattivo e implacabile. Jack capì che qualcosa non andava e fece gesto agli amici di seguirlo. Arrivarono alla soglia della foresta e si nascosero dietro a una roccia, spaventati dalla violenza con cui il mare si muoveva e impietriti da ciò che avevano visto arrivare all’orizzonte: la “Prua” si scatenava imperiale sulle onde del mare e si avvicinava alla riva.
Lucy, con un filo di voce, parlò per prima: “Cosa facciamo ora?”
“Non so, gli chiediamo cortesemente di ridarci la Roccia dei Sogni sperando che Robinson sia una persona ragionevole” scherzò Robin, ma in realtà era spaventato più di loro.
“Possibile che ogni momento è buono per scherzare per te?!” Lo ammonì Lucy con la voce che gli tremava.
“Volevo solo sdrammatizzare la situazione e tranquillizzarti!” Rispose Robin, offeso. Lucy lo guardò con occhi stupiti: non le aveva mai detto una cosa così carina. Ne rimase felice, e per un attimo si dimenticò di quello che stava succedendo.
“Ok ragazzi non perdiamo la testa! Quanti sono gli scagnozzi di Robinson?” chiese Jack, rivolto all’amico che aveva studiato ogni minimo particolare della storia del pirata.
“Non ama avere tante persone imbecilli intorno a sé, quindi ha solo due scagnozzi: David, l’intelligente, e Ben, il forte.”
“Ok, bene, allora possiamo cavarcela. Appena scenderanno a riva, li attaccheremo alle spalle e cercheremo di prendere la Roccia. Nel frattempo tu, Lucy, vai a preparare la nave per la partenza. Carica i cannoni per sicurezza e butta a mare tutto quello che non ci serve per alleggerire il veliero.” Disse Jack, fermandosi a pensare se bisognava aggiungere altro.
Lucy lo guardò negli occhi. La paura che l’aveva attaccata all’inizio stava scomparendo, sostituita da uno sguardo sicuro di sé e determinato. “Non vi lascio combattere anche la mia battaglia da soli! Siamo una squadra no?” Chiese ai due, infastidita dall’esclusione dell’amico.
“Sì, ma è meglio che ne resti fuori! Sei brava a combattere, però non riusciresti a cavartela da sola contro uno di quegli omoni, mentre noi combattiamo contro gli altri. Insomma saresti ….” Rispose Robin, nel mentre che Jack annuiva. Si bloccò di colpo allarmato da quello che stava per dire.
“Sarei un peso eh!!!!!” Sbottò Lucy infuriata. “Ok, fate come volete! Ma non aspettatevi un mio ringraziamento per avermi salvato dalle grinfie di quei pirati”. Si girò di scatto, dando loro le spalle, e fece per correre verso la nave quando, però, decise di rigirarsi verso di loro, urlando: “State attenti ok?” Anche se l’ avevano ferita non voleva che si facessero male. I due lo sapevano bene.
Robin e Jack seguirono con lo sguardo colmo di ammirazione quella ragazza che sembrava debole, ma in realtà era forte come una pietra, finché non arrivò alla Black.
I pirati erano a qualche metro dalla costa. Decisero, allora, di arrampicarsi su un albero per prenderli di sprovvista.
Il trio di pirati che scese da quella spettacolare nave indossava dei vestiti logori e dal loro aspetto si vedeva che non si lavavano da giorni. Scesero ridendo, eccitati per l’impresa compiuta.
Con una bottiglia di rum nella mano destra e la luccicante Roccia dei Sogni nella sinistra, il capitano John Robinson si incamminava ubriaco verso il limitare della foresta. Jack fischiò piano e assalì David, mentre Robin assaliva Ben. I due pirati caddero a terra ubriachi e sorpresi dall’imboscata. Robinson si girò di scatto vedendo due ragazzini stendere i suoi compari. “Chi siete voi altri?” Chiese, divertito alla vista di due ragazzini minuti e tanto incoscienti da mettersi sul suo cammino. “Siamo coloro che vi porteranno via la Roccia della nostra città e vi sconfiggeranno una volta per tutte!” Rispose Jack fiero.
“Non credo proprio!” Disse il pirata girandosi verso il centro della foresta e iniziando a correre a perdifiato. Jack e Robin cercarono di corrergli dietro, ma gli uomini stesi a terra ripresero conoscenza e li afferrarono per le caviglie dando inizio, così, alla battaglia.
TO BE CONTINUED …
Mara Ranzani
Titolo: Colui che porterà l’equilibrio
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What If
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Altro what if attivo: cosa sarebbe successo se Obi-Wan fosse riuscito a salvare Satine da Maul?
Ahsoka di Martina Cucchi
Tecnica grafica: Matite acquerellabili, rifiniture in Sketchbook
[“Consegnate il traditore e assassino Skywalker entro quarantotto ore. Altrimenti, sarò costretto a considerare voi stessi traditori.”]
Silenzio. Totale, completo silenzio. Durò circa un minuto, durante il quale lo shock sui loro volti si dissolse in una varietà indefinibile di emozioni.
Poi Anakin si alzò di scatto. Padmè cercò di trattenerlo, ma inutilmente. Anakin si liberò dalla sua presa e corse verso l’uscita della stanza.
Solo un triplo salto mortale con l'aiuto della Forza permise a Obi-Wan di arrivare alla porta prima che lui la aprisse. Il ragazzo si voltò, gli occhi, Padmè notò con sgomento, di un feroce giallo.
“Che cosa c’è?”
“Anakin…” Iniziò Obi-Wan, ma fu subito interrotto.
“Non mi farò trascinare a Coruscant come un sacco di patate!”
“Anakin, ascoltami…” Riprovò, alzando una mano, probabilmente per metterla sulla spalla di Anakin. Lui fermò il gesto a mezz’aria, con quella che aveva tutta l’aria di essere una parata di una delle arti marziali insegnate ai Jedi.
Per la Dea, Anakin! Pensò Padmè. Aveva visto e sentito cosa suo marito aveva fatto, ma ogni qualvolta vedeva quella luce ferina nei suoi occhi… era un pugno nello stomaco.
“Nessun bisogno di tirare fuori la spada laser, maestro. Ci vado. Ma con le mie gambe, grazie!”
“Anakin…”
“Oh, per favore, maestro Jedi, non ho bisogno della pappardella sul dovere, sacrificio, bene superiore… lo so! Sono tredici anni che me lo ripeti! E dopo il Tempio…”
“Questo non ha a che fare col Tempio, né con Vader!”
“Oh certo che no. Non saremmo in questa situazione se…”
“ANAKIN!”
“NON INTERROMPERMI!”
Diversi oggetti schizzarono via dal loro posto, saettando pericolosamente vicini alla sua testa.
Con ciò Padmè perse definitivamente la pazienza. “Smettetela! Tutti e due! Prima di prendere qualsiasi decisione, dobbiamo considerare le alternative.”
“Quali alternative…!!?" Padmè appoggiò una mano sul braccio di Anakin, spezzando a metà la sua domanda retorica che, al momento, non era di alcun aiuto. Quando finalmente calò il silenzio, iniziò a parlare. "Prima di tutto…"
Beep!
Obi-Wan sospirò e tirò fuori il proprio holo-proiettore. "Il Consiglio" Annunciò.
Padmè incrociò il suo sguardo, una muta domanda dipinta sul volto. Obi-Wan scosse la testa.
"Non ho intenzione di mentire, se è questo che mi stai chiedendo. C'è troppo in gioco e…"
"... e tu sei il perfetto maestro Jedi. Capito, Obi-Wan" Padmè sapeva bene da dove veniva l’amarezza nella voce di Anakin. Non che ritenesse che il proprio maestro avesse torto, niente affatto. Avrebbe solo voluto che, almeno una volta, Obi-Wan mettesse da parte giustizia, dovere e razionalità per lui.
Allo stesso modo, sapevano tutti benissimo che Obi-Wan non l’avrebbe fatto. Padmè sperava solo che avrebbe trovato le giuste parole per…
Obi-Wan scosse la testa e accettò la chiamata.
Padmè si morse la lingua per frenare le parole che avrebbe voluto rivolgergli. Possibile che tu debba essere così testardo nella tua dannata dottrina di nessun attaccamento, Obi-Wan? Persino in un momento come questo?
I volti dei membri del Consiglio erano lo specchio di quello di Obi-Wan. Solo la sua lunga carriera politica le rese possibile notare la tensione, l’apprensione, lo stupore per la presenza di Anakin.
“Obi-Wan.” Lo salutò l’ologramma bluastro dell’anziano Gran Maestro. “In compagnia vedo che tu sei”
Padmè non colse alcuna malizia o rimprovero nel tono di Yoda. Si ricordò che era stato lui a dare ad Obi-Wan una possibilità di trovare Anakin.
“Si, maestro. Ahsoka è riuscita a rintracciare Anakin e…”
“Cosa aspettavi a dircelo?” Intervenne Eeth Koth con voce dura.
Padmè notò un impercettibile, se non ad occhi allenati come i suoi, cambiamento nella postura di Obi-Wan. Il Negoziatore si era messo sulla difensiva. “Sono arrivato solo poche ore fa. Ho preferito parlare con Anakin prima che coinvolgere voi.” Il suo volto si distese, ancora una volta quasi impercettibilmente. “E sono piuttosto certo che abbia intenzione di collaborare con noi”
Anakin fece un passo avanti. Padmè intrecciò le dita con le sue. La stretta di Anakin quasi le stritolò la mano, ma non si lasciò sfuggire un lamento. Anakin aveva bisogno di tutto il conforto che poteva dargli al momento. “E’ così. E, maestri, so che le mie parole hanno ben poco significato dopo quello che ho fatto, ma mi dispiace.”
“Il momento di scuse, condanne o perdono questo non è, giovane Skywalker. Momento di agire questo è”
“Ma come?” Intervenne Ki-Adi-Mundi. “Non abbiamo prove contro Palpatine e…”
“Le avremo.” Nell’ologramma apparve una nuova imponente figura incappucciata.
“Scusate il ritardo, maestri. Dovevo trovare un posto isolato.” Il Jedi si scoprì il volto in una cascata di dread scuri. Quinlan Vos, lo riconobbe Padmè. Il Jedi che aveva abbracciato il Lato Oscuro nel tentativo di uccidere Dooku. Per lui c’era stata una possibilità di redenzione. Forse anche Anakin…?
“Ho il bastardo tra le mie grinfie. Ancora qualche giorno e potrò dimostrare ogni suo sordido misfatto” Disse Vos, un ghigno ferino dipinto in faccia.
“Non abbiamo giorni.” Plo-Koon non fu abile come gli altri maestri a nascondere la sua sorpresa all’intervento di Ahsoka, che era apparsa da dietro le spalle di Padmè. “Avete sentito Palpatine. Quarantotto ore, nè più nè meno”
“Consegneremo Skywalker.” Disse Shaak-Ti. “Ci darà il tempo che ci serve”
“Djeba och meht yau n'ga dau Taztuk'a'a tog'na” Sibilò Ahsoka nella sua lingua nativa.
“Strrrigh mrrg'ack, Ahsoka. E’ il minimo che possa fare, dopo il Tempio” Rispose Shaak Ti.
Le parole pronunciate in Togruti sembravano i soffi di due gatti di Loth durante uno scontro. E in effetti, le due avevano un che di felino, mentre si squadravano in cagnesco.
“Anakin non è carne da macello!”
“Neanche i nostri bambini lo erano!”
Padmè bloccò il braccio di Anakin prima che potesse pensare di scappare ancora. Con la coda dell’occhio notò Obi-Wan fare la stessa cosa dall’altro lato, per poi mormorargli qualcosa all’orecchio. Anakin annuì.
“Non consegneremo Anakin”
“Maestro Kenobi…”
“Andrà lui a Coruscant di sua spontanea volontà. Dimostrerà che i Jedi né lo stavano trattenendo di nascosto dalla Repubblica, né lo stanno proteggendo. Con un po’... con tanta fortuna, Palpatine non se lo aspetta. A quel punto avremo, per la prima volta in tredici anni, uno straccio di vantaggio.”
“I Jedi non si affidano alla fortuna.” Fece notare Ki-Adi Mundi.
“Se la Forza ci assiste, allora.” C’era una traccia di scherno nel volto di Obi-Wan, qualcosa che disse a Padmè che le diatribe dialettiche dei Jedi non lo interessavano più come un tempo. “In ogni caso, è l’unico modo.”
“Chi con Obi-Wan d’accordo è?” Ad una ad una le mani si alzarono. La decisione era presa.
I Jedi erano veloci a decidere quando non avevano altre alternative, riflettè Satine, ricordando i racconti di Obi-Wan delle interminabili sedute del Consiglio.
Satine ci mise mezzo minuto in più a prendere la decisione.
Senza esitare si portò nel campo visivo dell’holo-proiettore. “Maestri Jedi. Una parola?”
Obi-Wan le sorrise. “Certo, duchessa”
Satine prese un respiro profondo “Il mio popolo combatterà al vostro fianco.” Finse di non accorgersi dello stupore causato dalle sue parole. “Sarò anche una pacifista, ma non lascerò che la mia gente venga massacrata per il mio idealismo. Il nostro pianeta sta soffrendo sotto il controllo di un ex-apprendista dello stesso Sith che controlla l’intera Repubblica. Non voglio che il mio popolo sperimenti la tirannide anche del suo maestro. I Mandaloriani saranno con voi.”
“Vor entye, Mand'alor” (Accettiamo il debito, Duchessa)
“Come farai a convincere dei Mandaloriani a combattere a fianco dei Jedi?” Le sussurrò Padmè.
Satine ridacchiò. “Farò di peggio. Molto di peggio.”
Rialzò lo sguardo verso il Consiglio. “Ho un’idea”
Due lunghe discussioni, qualche ora e parecchi anni luce dopo, Satine era in piedi nella sala in cui, un anno prima, era quasi morta.
“Abbiamo una proposta da farti, Darth Maul.” Il Sith posò i suoi occhi gialli e crudeli verso di lei.
“Perché dovrebbe interessarmi la proposta di un avversario sconfitto, Duchessa?”
Satine cercò disperatamente di scacciare dalla propria mente il pensiero che lui era seduto sul suo trono, il trono che era appartenuto alla famiglia Krize per generazioni.
“Tu vuoi vendetta sul tuo maestro”
Maul alzò la testa, come un segugio che avesse fiutato una promettente traccia. “Ti ascolto”
“Noi vogliamo porre fine alla sua tirannide. Possiamo aiutarci a vicenda.”
“Che cosa ci ottengo io?”
“Immunità. Non verrai perseguito per i tuoi crimini passati”
Maul sogghignò. “Tra cui la morte di Qui-Gon Jinn. Dimmi, che cosa ne pensa il tuo Cavaliere Jedi, Duchessa?”
Accanto a lei, Obi-Wan si tolse l’elmo dell’armatura mandaloriana sotto al quale aveva nascosto la propria identità. “Tu hai ucciso il mio maestro, io ti ho tagliato a metà. Se rinunci alla tua vendetta contro di me, io sono disposto a collaborare con te per distruggere il vero responsabile della tua disgrazia”
“Vero, verità… cos’è la verità di fronte al sangue del tuo nemico nelle tue mani? Eh, Negoziatore, ha tanta importanza la verità nei tuoi discorsi?”
“Ogni verità dipende dal punto di vista, certo. Ma sono certo che i nostri possano coincidere.”
Intervenne Satine. Di fianco a lei Obi-Wan le accennò un sorriso. Satine sapeva di aver detto esattamente ciò che avrebbe detto lui. Non avevano bisogno di parole per comunicare.
Maul incrociò le braccia sul petto. “Immagino però tu rivoglia Mandalore, Duchessa”
“Immagini bene, Maul”
“E dimmi, il nuovo apprendista sarebbe contro di noi o con noi?”
“Con” Obi-Wan disse con fermezza.
“Verrà un prescelto, nato da nessun padre, e attraverso di lui l’equilibrio della Forza sarà ripristinato* E tu, maestro, cadrai… ” Maul si bloccò di colpo e riportò la sua attenzione su Satine e Obi-Wan.
“Molto bene, Duchessa. Accetto il patto.”
*Da Master and Apprentice, Claudia Gray
Frasi in Mando’a e Togruti
Elisa Frigerio
Titolo: Colui che porterà l’equilibrio
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What If
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Altro what if attivo: cosa sarebbe successo se Obi-Wan fosse riuscito a salvare Satine da Maul?
“No” Disse con veemenza Anakin.
Ahsoka sospirò. “Per la milionesima volta, Naboo è il posto più sicuro per noi al momento. I Mandaloriani…”
La rabbia lo invase con la ormai troppo familiare tempesta. Strinse la mano metallica a pugno e i suoi occhi lampeggiarono di giallo. “HO DETTO DI NO!”
La Forza turbinò attorno a lui e Ahsoka fu spinta all’indietro. Anakin si riprese giusto in tempo da fermarla prima che si schiantasse contro il muro. “Scusa.” La posò delicatamente a terra.
“Vedi, va meglio” Disse la ragazza. “Ancora spaventoso, ma ci si può lavorare” Anakin si lasciò scivolare lungo il muro metallico della nave, poi si prese la testa fra le mani. “Lo faremo, Snips. Solo non su Naboo” La sua voce suonava terribilmente flebile.
“Anakin” Ahsoka si sedette davanti a lui. Anakin. Non maestro, non più. Ora era lei a prendersi cura di lui. “Ciò che vedi in una visione non si avvera per forza.”
Lui scosse la testa e chiuse di scatto le sue dita metalliche. “Ho sognato la morte di mia madre. E lei è morta”
La mano di Ahsoka si appoggiò sul suo braccio. “Le visioni sono avvertimenti. Ne ho avute anch’io su Padmè, ricordi? Il viaggio ad Alderaan? Lei ne è tornata viva” Anakin annuì.
“Hai provato a considerare che quella che hai avuto potesse essere una premonizione su ciò che sarebbe successo se avessi continuato su quella strada?”
Lui alzò la testa, i suoi occhi blu incrociarono quelli di lei, una scintilla di speranza si accese nel suo cuore. Poteva essere così? Poteva la Forza essere così gentile, per una volta?
Poi si ricordò che aveva appena quasi gettato Ahsoka contro un muro. “Sono ancora pericoloso” Borbottò.
“Lo sei, certo. Lo sei sempre stato. Sei il Prescelto, dopotutto.” Anakin fece un verso di scherno. Non si sentiva molto un eroe destinato a portare l'equilibrio ultimamente.
“Ma lo sapevamo. Tutti noi lo sapevamo, e abbiamo comunque deciso di stare al tuo fianco. Questa è una nostra decisione. Il fatto che tu abbia preso l’abitudine di levitare le persone se ti fanno infuriare non ti da il diritto di togliercela”
Anakin ridacchiò. “Quand’è che sei diventata così saggia, ‘Soka?”
“Ho dovuto, essendomi trovata senza il mio incredibilmente saggio, previdente e per niente impulsivo maestro” Era una presa in giro troppo aperta per ignorarla.
“Non sono impulsivo. Seguo la volontà della Forza”
Ahsoka alzò gli occhi al cielo. “Quindi se la Forza ti suggerisce di gettarti in un vulcano, lo fai?”
“Chi sono io per sfidare la volontà della Forza?” Rispose, provocatorio.
“E poi si chiedono perché l’età media delle donne è più alta” Il ragazzo Mandaloriano intervenne dalla soglia della cabina di guida. La sua espressione, curiosamente, ricordò in modo distinto ad Anakin Obi-Wan. “Bene, io dovrei inserire le coordinate nel navicomputer. Dove andiamo?”
“Naboo” Decise Anakin. “Ma…”
Ahsoka gli lesse nel pensiero. “Non preoccuparti, Skyguy. Li proteggerò. Persino da te”
“Un malfunzionamento di un chip di controllo dei Cloni, così i media hanno riportato l’Ordine 66. Hanno presentato il massacro dei nostri fratelli come un incidente e i nostri soldati come droidi difettosi. Li abbiamo lasciati fare troppo a lungo. E’ ora che spieghiamo cos’è successo veramente”
“Prove contro Palpatine noi non abbiamo” Yoda disse, poi si rivolse ad Obi-Wan. “O progressi avete fatto, tu e il giovane Vos?”
Obi-Wan scosse la testa. “Ci stiamo lavorando.” Dopo la fuga di Ana- Vader?, Obi-Wan non ne era più sicuro, Obi-Wan aveva rivolto la sua attenzione a qualcosa che, sperava, avrebbe dato più frutti che tentare di ragionare col ragazzo.
“Non c’è bisogno di dire chi è stato il responsabile,non fino a quando ne avremo le prove, ma dobbiamo spiegare cos’è successo quella notte.” Insistette Plo-Koon. “
Obi-Wan sospirò. Capiva il punto di Plo-Koon, immaginava come i Cloni dovessero sentirsi in una situazione del genere, il pensiero dell’ingiustizia subita dai loro fratelli Jedi gli faceva torcere le viscere. Ma…
“Una verità a metà non ci sarà di alcun aiuto, maestro. E’ meglio aspettare fino a quando non potremo incriminare Palpatine. Se la Forza ci assiste, non sarà ancora molto”
“Io mi trovo d’accordo col maestro Kenobi” Disse Shaak Ti. “La galassia, i media, sono tutti contro di noi. Ci servono prove schiaccianti. Non possiamo fare le cose a metà. E dobbiamo anche pensare a cosa dire del coinvolgimento di Skywalker.”
Obi-Wan sentì gli sguardi di tutto il Consiglio spostarsi su di lui. Sospirò e si morse un labbro, soppesando la risposta. In quel momento, il suo comlink squillò. Satine.
Ringraziando mentalmente la donna per il suo tempismo perfetto, si scusò, si alzò e lasciò la stanza. Prima di chiudersi la porta alle spalle fece in tempo a sentire le parole di Eeth Koth: "Questo ci porta al prossimo problema. Skywalker…”
Lo schiaffo colpì Anakin con la forza di un Droideka. Non protestò. Sapeva di esserselo meritato. "Mi dispiace, angelo"
Mormorò, gli occhi fissi in quelli di Padmè. "Mi dispiace"
Il misto di emozioni che si agitavano nel petto di sua moglie era troppo intricato perché lui potesse distinguerle, né dal suo sguardo, né con la Forza. "Dannazione, Anakin" Mormorò, poi iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza. Non un buon segno. Anzi, un pessimo segno.
Anakin si sentiva come aspettando il verdetto di un giudice.
Padmè smise di camminare e si girò verso di lui. "Hai fatto un casino. Cose imperdonabili. E le hai fatte per me, il che mi fa sentire... Ma sapevo chi eri quando ti ho sposato. Ho scelto te, nonostante ciò che avevi fatto su Tatooine. Non ti abbandonerò ora, Anakin, né smetterò di amarti." Un nodo, il più grosso e opprimente nel petto di Anakin si sciolse.
Padmè lo amava ancora. Lo aveva perdonato. Non lo avrebbe lasciato solo. Una luce si riaccese nei suoi occhi, una luce che lui non poteva vedere, ma che non sfuggì a Padme.
Lei sorrise e gli accarezzò una guancia, asciugando le lacrime. "Ti amo, Anakin. E non ho paura. Non mi farai del male." Prese la mano di Anakin e la portò alla propria pancia. "Non ci farai del male"
"Sistemerò questo casino, Angelo. Rimedierò a quello che ho fatto. Te lo prometto." Le baciò le labbra, delicatamente. "Creerò una galassia migliore, per te e nostro figlio"
"Nostri figli" In risposta al suo sguardo sorpreso, il sorriso di Padmé si addolcì. " Gemelli. Un maschio e una femmina." Prima che Anakin potesse dire nulla, la sua espressione si fece decisa.
"E no, Anakin. Lo faremo insieme."
Obi-Wan arrivò a Naboo quanto più veloce l’iperspazio glielo consentiva.
“Satine. Hai chiesto di me…è successo qualcosa?”
La donna sorrise e lo condusse nei corridoi della casa -di Padmè- si ricordò. Oh Forza, Padmè probabilmente era lì, avrebbe dovuto spiegarle…
Come non detto. Anakin era seduto a gambe incrociate in una stanza semibuia, meditando. Meditando? L’ultima volta che l’ho visto meditare di sua spontanea volontà è stato quando…
Aggrottò le sopracciglia. Che ci fa qui? Mi ha quasi ucciso quando ho provato a proporlo…
“Maestro” Il suo tono era vagamente indagatore. Chiaramente non sapeva quale reazione aspettarsi da Obi-Wan. Il problema era che nemmeno Obi-Wan sapeva come reagire.
"Anakin" Disse, neutro.
"Mi dispiace" Erano due sole parole, ma non ne servivano altre. Non quando Obi-Wan percepiva il senso di colpa, angoscia, dolore di Anakin come se fossero suoi attraverso il loro legame.
Si avvicinò al ragazzo, gli mise le mani sulle spalle. Anakin non si mosse. Chiaramente, stava aspettando il suo giudizio. La sua condanna o perdono. Obi-Wan non aveva mai visto il suo apprendista così insicuro. D’istinto lo trasse a sé in un abbraccio.
“Che… che cosa fai?” La sorpresa era palpabile nel tono di Anakin.
“Ti abbraccio”
Il ragazzo fece un verso, se di scherno o incredulità Obi-Wan non fu in grado di determinarlo.
“In tredici anni non mi hai mai dato un abbraccio di tua iniziativa”
Obi-Wan sentì una fitta di rimorso. Nel crescere Anakin aveva seguito il codice Jedi, che non incoraggiava certo simili manifestazioni di affetto. Ora Obi-Wan si chiese se fosse stata la cosa giusta da fare. “Non mi hai mai fatto spaventare così tanto in questi tredici anni”
“Mi dispiace” Anakin ripetè.
Obi-Wan gli accarezzò la schiena. “Lo so.”
Anakin non disse più altro, ma non diede cenno di voler sciogliere l’abbraccio. Obi-Wan aspettò fino a quando non percepì quella che gli sembrò sufficiente calma dal loro legame. A quel punto, tirò fuori la patata bollente.
“Dobbiamo parlare” Anakin annuì contro la sua spalla. “Se ti chiedo di spiegarmi cos’è successo quella notte, mi scaraventi in aria?” Il suo tono non era del tutto ironico. Questa volta, il ragazzo scosse la testa. Obi-Wan sorrise. Forse le sue promesse potevano essere mantenute.
“Devo proprio dirlo, la tua famiglia è ancora più incasinata della mia” Korkie commentò, muovendo il suo Ghhhk sulla tavola da Dejarik. “Puoi dirlo forte” La ragazza lanciò un’occhiata ad Anakin,che stava guardando qualcosa sull’holoscreen, acciambellato sul divano insieme a Padmè. Dal loro legame non traspariva altro che tranquillità, ma dal suo viso era chiaro che avesse pianto.
Obi-Wan, poco distante, stava parlando con Satine a bassa voce. Ahsoka notò che continuava a lanciare occhiate ad Anakin, come se avesse paura che sparisse da sotto i suoi occhi, o che di punto in bianco strangolasse uno di loro.
Si morse un labbro. “Pensi che le cose potranno mai ritornare normali?”
Qualsiasi cosa Korkie intendesse rispondere, fu interrotto da Padmè.
“Ragazzi!” I due scattarono subito in piedi, allarmati dal tono della donna. Non appena fu in vista dello schermo, Ahsoka capì che l’angoscia di Padmè era ben giustificata.
Palpatine era in piedi sul suo poggio nel Senato, le braccia allargate come ad accogliere l’intera Repubblica. Ahsoka sapeva che erano i tentacoli di una piovra pronti a stritolarla. “Repubblica Galattica. Sono lieto di essere riuscito a tornare al mio ufficio e sacro dovere, dopo il forzato periodo di inattività a causa del mio tentato omicidio”
L’immagine zoomò sul viso del Sith. “Il mio cuore duole nel confidarvi una terribile scoperta. I Jedi stanno proteggendo Anakin Skywalker, il loro membro traditore che ha compiuto indicibili stragi” Ahsoka vide la mano di Padmè scivolare in quella di Anakin. Nonostante ciò, il loro legame tremò per la rabbia, senso di colpa, odio e dolore che lui aveva riversato in esso.
Il finto volto addolorato di Palpatine scomparve, per lasciare posto ad uno sfocato holo di Ahsoka che, armata della spada laser di Anakin, combatteva al suo fianco. “La Jedi che sta difendendo il traditore è stata identificata come Ahsoka Tano…”
“Ma io non sono una…” La sua voce si affievolì prima della fine della frase. Sapeva benissimo che queste sottigliezze, agli occhi della gente, non avevano alcuna importanza.
“... precedentemente accusata di una strage in cui sono stati coinvolti Cloni e civili”
Anakin le mise un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé con fare protettivo.
La voce di Palpatine continuò, viscida e implacabile. “Avrei tanto voluto sperare si trattasse di due pecore nere dell’ordine. Purtroppo, questa immagine…” Tutti i presenti trattennero il fiato. Una nuova immagine apparve sullo schermo. “Kriff!” Imprecò Ahsoka. Di fianco a lei, Anakin si lasciò andare ad una serie di imprecazioni molto più fantasiose nella sua lingua madre.
I due furono immediatamente zittiti da Padmè e Obi-Wan.
“...mostra Obi-Wan Kenobi, parte dell’Alto Consiglio Jedi, nell’atto di nascondere e proteggere Anakin Skywalker.”
“Haar'chak” Ahsoka non avrebbe saputo dire se l’imprecazione fosse arrivata da Korkie, Satine o Obi-Wan. In ogni caso, riassumeva bene lo stato d'animo generale.
L’immagine si dissolse, sostituita dal perfido volto del Sith. “Naturalmente, la nostra democrazia non può condannare un gruppo di persone sulla base di immagini che potrebbero essere falsificate.Ai Jedi sarà data un’opportunità. Consegnate il traditore e assassino Skywalker entro quarantotto ore. Altrimenti, sarò costretto a considerare voi stessi traditori.”
Elisa Frigerio
Kari non poteva credere alla sua sfortuna. Bloccata in mezzo al mare, su un pezzo di legno, senza acqua, né cibo, ma, in compenso, con un martellante mal di testa e una dolorosa ustione sulla schiena.
E per giunta con un soldato nemico e un fastidioso mal di testa. Soldato che, se fosse riuscita, come suo progetto, a portare alla base, le avrebbe agevolato oltremodo la carriera.
Prendere "in prestito" una nave ai pirati non era stata una così buona idea, alla fine.
Un missile, dove diamine si sono procurati un missile? La ragazza mormorò un'imprecazione.
Navigando nella notte di Martina Cucchi
Sketchbook di AutocadAvrebbe volentieri "strategicamente requisito" un vero e proprio mercantile e non uno convertito in nave pirata, ma al momento del suo arrivo al porto di Ithanaut non ce n'erano di disponibili. Così, aveva dovuto arrangiarsi.
Aveva tentato di spiegare la situazione a quelli che avevano tentato di riprendersi il vascello, prima di farne nutrimento per la fauna ittica locale. Non era sicura se quelli che erano veleggiati via con la coda tra le gambe avessero o meno sentito.
In ogni caso, avevano applicato un'antica tradizione pirata che prevedeva il sacrificare al mare ciò che non si poteva conquistare.
Gliel'avrei anche ridata la loro stupida nave anti-diluviana! Una volta portato l'eroe senza macchia e paura al proprio mezzo, l'avrebbe lasciata in mare. O forse l'avrebbe fatta saltare. Non aveva molta simpatia per i pirati.
Kari imprecò di nuovo, più forte. Mentre era svenuta, gli atterraggi, il problema dei salti erano sempre gli atterraggi, si erano mossi di molto. La nave non era ormai più che un puntino luminoso risaltante sempre meno contro il cielo rischiarato dal sole nascente. Avevano beccato una corrente molto giusta. O molto sbagliata, a seconda della fiducia che uno aveva nel prossimo.
Kari non ne aveva molta.
"Da quanto... Da quanto Helcar lavorava per voi?" La domanda nel pesante accento Xalatiano dello Sputafuoco le fece capire che lui, invece, doveva averne ancora parecchia.
Ma dai... Completò il pensiero ad alta voce. “...sul serio? Siamo in mezzo al dannatissimo oceano, senza nè cibo, nè acqua, nè modo di comunicare con qualsiasi altro essere umano e tu mi chiedi questo?”
Il suo volto si indurì. “Dirmelo non ti costa nulla, Yandaliana. E non è che facendo presente le ovvietà la nostra situazione possa cambiare."
Per quanto Kari odiasse ammetterlo, aveva ragione. Sospirò. "Da un po'. Direi... un annetto" Gli occhi verdi dello Xalatiano, fissi su di lei, sembravano quelli di un cucciolo ferito.
Kari ridacchiò. "Non prenderla così male, non si è fatto comprare da un nonnulla. Si è preso lo stipendio di un medio ufficiale, il fortunato bastardo"
Il soldato non disse più nulla. Kari lo lasciò un paio di minuti a guardare mesto il mare come un cane abbandonato dal padrone. Quando si stancò di aspettare, decise che era giunto il momento di mettere le cose in chiaro.
"Bene, ora che sei venuto a patti col fatto che il tuo amico del cuore era una totale carogna, che ne dici di accordarci su come collaborare?"
"Collaborare?" Lo Sputafuoco quasi si strozzò sulla parola. "Con una kuroi karasu? Non ti ho buttato giù solo perchè eri semi-svenuta!"
Giusto, non c'è onore nell'accanirsi su un nemico inerme. Quello Sputafuoco si era davvero bevuto le scemenze sulla via del guerriero con cui riempivano la testa ai soldati di Xalat.
"Se vuoi puoi provare a farlo ora. Sono totalmente sveglia e pronta. Ma ti avverto, il sangue attira gli squali. E loro non sanno distinguere le divise di Yandal da quelle di Xalat." Gli offrì la mano. Lui la allontanò con un brusco gesto. "Preferisco i denti di uno squalo alle mani di una Rapace di N'Shara"
Oh, siamo passati ad insultare i miei antenati di sei generazioni fa. La sfera di insulti legati a Ni Sharà conteneva i più pesanti del repertorio di entrambi i paesi, sia quelli per i concittadini, sia per i nemici.
Erano riservati per le occasioni speciali. Mi sento onorata.
Ritrasse la mano. "Allora non ci resta che un incontro di wrestling. Spero che tu sia all'altezza della splendida location" mosse bruscamente una gamba e il relitto traballò pericolosamente. "E dell'esigente pubblico" Indicò la pinna di uno squalo appena visibile, fortunatamente, in lontananza.
"Bestia Ni Sharàh-ni" Concluse, tanto per stare in tema con il suo interlocutore.
Il quale fu molto offeso dalla dimostrazione della sua conoscenza di insulti per gli antenati degli Xalatiani. "Come mi hai chiamato?"
Lei si scrollò nelle spalle. "Bestia di Ni Sharà. Come i tuoi tris-trisavoli che hanno massacrato..."
"Non è andata così!"
"Certo che no. Si tratta di un resoconto semi-leggendario, naturalmente. Incrociando questo con quello del tuo paese si può arrivare a uno scheletro di verità, che comunque..."
Fu incerimoniosamente interrotta. "Osi definire N'Shara una leggenda!?"
Per nulla impressionata dal suo tono o dal suo coltello, ma infastidita dall'essere stata interrotta, si limitò ad un lapidario "Oso".
"Se il codice non vietasse di sputare in faccia alle donne..."
Insomma, sono capitata con un vero cavaliere.
"Vorrei dirti che non ti butto in mare solo perchè sei un uomo, ma sai già che è per gli squali"
Group selfie di Alice Bergna
Tecnica: digital artQuesto lo zittì. Per buona misura, Kari aggiunse: "E poi, ogni molecola di glucosio che sprecherei per combattere contro di te, è una in meno che mi può sostenere fino a quando la fortuna non tornerà ad assistermi."
"La fortuna?" C'era una fastidiosa traccia di ilarità nel tono dell'altro. "Tu, cinismo e scetticismo fatto persona credi nella fortuna?" Stava ridendo, ora.
Strano senso dell'umorismo a Xalat.
"Certo che sì! È l'unica cosa in cui ha senso credere. Sarà anche la madre di tutti i figli di buona donna, ma è l'unica che ti bacia due volte"
Al muto silenzio dell'altro, cambiò tono e argomento. "Quindi? Che facciamo? Wrestling oceanico? Tu hai un coltello, ma hai anche un braccio ferito, quindi direi che il tuo onore non ne dovrebbe risentire."
Il ragazzo tacque un attimo, probabilmente considerando le varie opzioni. Non doveva essere del tutto stupido, perchè dopo qualche secondo deliberò una scelta saggia. "Accetto la tregua"
Dopodiché ci fu sacrosanto silenzio per circa due ore. Fu lo Sputafuoco a romperlo. "Perchè combatti?"
"Che?" Disse Kari, senza alzare la testa dalle braccia in cui l'aveva appoggiata. Il sole cocente non era certo un toccasana per il mal di testa.
"Perchè combatti per Yandal se non credi a ciò che ti dicono?"
Kari si sarebbe stretta nelle spalle, ma la schiena le faceva davvero un male cane. Quindi si limitò ad esprimere la propria noncuranza con il tono della voce. "È un lavoro come un altro. Una ragazza deve pur mangiare"
"E nient'altro?" Insistette lui. "Non combatti per la tua famiglia o per vendetta o giustizia?"
"La mia famiglia vive in una delle regioni più interne di Yandal. Stanno bene. Li vado a trovare in uniforme una volta ogni tre anni per Kyrat e loro si pavoneggiano con la giovane promessa dell'esercito Yandaliano. Tutti contenti e soddisfatti."
La ragazza sollevò un poco lo sguardo per godersi l'espressione da pesce lesso dell'altro, e continuò: "In quanto alla giustizia, è un'utopia e la maggior parte di persone di cui mi voglio vendicare sono Yandaliane. Quindi combatto per soldi. E forse anche per gloria e potere."
Lo Xalatiano aggrottò le sopraciglia. "Mi sembra una vita vuota"
"La so riempire."
"Come ti chiami?"
Dalle labbra di Kari sfuggì uno sbuffo incredulo misto ad un gemito. "Oh no, non provare a pensarlo. Non sono una povera ragazza rinchiusa in una torre di noia e tristezza aspettando il cavaliere che la salvi"
"Non l'ho mai detto" Si difese lui.
Kari inarcò le sopracciglia e lasciò perdere l'argomento. La testa la tormentava ed era stanca di parlare. Tornarono al dolcissimo, favoloso, meraviglioso, amabile silenzio.
Fu di nuovo lui a romperlo. "Kawha!"
Kari si riscosse dal topore in cui stava, a suo malgrado, scivolando, e borbottò: "Non sono particolarmente interessata agli uccelli, in questo momento. E poi, questo non è il suo habitat"
"Uccello? Di che stai parlando?" Chiese lo Sputafuoco.
La ragazza si tirò un po' su. "Kawha, rapace che nidifica sulle coste della fascia temperata. Quando deve catturare la preda si scaglia…."
Le sue parole furono coperte dal rumore di un motore in avvicinamento. La ragazza si girò. Una piccola nave slanciata si dirigeva verso di loro a tutta velocità.
"Kawha. Già." Brontolò. Maledetto dialetto Xalatiano! Ci mancava questo a farmi fare la figura della scema.
L'equipaggio della nave era veloce ed efficiente quanto la sua imbarcazione. In men che non si dica, i due furono tirati sul ponte.
Ad aspettarli c'era un gigante di più di due metri che dall'aspetto sembrava in grado di fare wrestling a mani nude con uno degli squali che circolavano nell'oceano. O forse con due.
Sorrise. "Salve, ragazzi. Questo dev'essere il vostro giorno fortunato"
Kari stava radunando tutto il suo sarcasmo sulla punta della lingua, quando qualcosa di duro sbattè contro la sua testa e lei perse i sensi per la seconda volta in un giorno.
Quando Kari riaprì gli occhi, era sdraiata su qualcosa di duro, ma sufficientemente comodo. La schiena le faceva meno male. L'avevano curata, indubbiamente. Una sagoma entrò nel suo campo visivo.
"Scusa. Cioè, non mi dispiace, ma essendo questa una nave neutrale, quell'inquietante bel fusto laggiù mi ha detto che devo scusarmi. Quindi scusa."
La ragazza sbatté le palpebre e mise meglio a fuoco la sagoma. Era un ragazzo poco più giovane di lei, che stringeva tra le braccia una padella ammaccata (con quella mi ha colpito? Sono stata colpita da una padella?) e sorrideva amabilmente.
Horus di Alice Bergna
Tecnica: digital art"Che diamine…? Chi diavolo sei? Che ti ho fatto di male?" Protestò, la testa trafitta da lame affilate.
"Mi chiamo Alois Nathain Aikodin Aldemar, detto Sike. Sono il comandante in seconda dei cuochi del terzo reggimento. E tu hai rapito il mio amico, Yandaliana."
Kari seguì il suo sguardo fino ad un angolo, dove lo Xalatiano le fece un cenno col braccio fasciato.
"Tu sei amico di sir spilli nel colletto per tenere la testa dritta durante le parate?" Chiese, incredula.
"Hey! L'ho fatto solo una volta!" Protesto quello chiamato in causa.
"Certo che sì. Altrimenti perché sarei salito su quella nave tentando di salvarlo e finendo quasi bruciato, annegato, tranciato da una lamiera, mangiato dagli squali…?"
La testa di Kari stava girando. "Tu sei salito su una nave piena di soldati nemici. Per salvare un tuo amico catturato da questi. Armato di una padella" Provò a ricapitolare.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. "Mia nonna diceva sempre, quando mancano i coltelli, porta a tavola la sega"
Kari non ebbe il tempo di tentare di dare un senso alla perla di saggezza della nonna Xalatiana.
In quel momento, infatti, la porta della stanza si aprì ed entrò una giovane donna, col viso minuto incorniciato da trecce di capelli rossi sul quale brillavano due amichevoli occhi dorati e un sorriso gentile. Un falco, un kawha per la precisione, la seguì subito dopo e si appollaiò sulla sua spalla. "Salve. Mi chiamo Artemysia. Spero che i miei ragazzi vi abbiano trattati bene"
Elisa Frigerio, Martina Cucchi e Alessandra Zagaria
“OhI!” gridai ad un mio collega che si era distratto mentre entrava nel Canal Grande. A momenti mi veniva addosso.
Sono passati trent’anni ormai eppure, nonostante tutte quelle volte che l’ho visto, il Canale mi meraviglia sempre.
Proprio come quando mi sveglio la mattina con mia moglie di fianco: è qualcosa che non ti aspetteresti di vedere proprio di prima mattina (con i capelli arruffati e la scia di bava di fianco alla bocca), ma che è lì, nonostante tutti quegli anni.
Insomma, quello che intendo dire è che il Canale mi affascina perchè ti coglie alla sprovvista, improvvisamente esci dal piccolo rio che non lascia spaziare la vista e, di colpo, davanti a te si spalanca l’immensità.
Ma tutti questi discorsi da “filosofoni”? A momenti non mi riconosco.
Comunque sono felice: quest’anno, dopo quasi due anni, sono finalmente riuscito a prendere la mia gondola e lavorare, maledetto Covid!
I miei figli, d’altro canto, non sono così entusiasti: hanno passato tutta la quarantena a ripetermi che ormai il gondoliere è un lavoro superato, che sono antiquato e tante altre belle cose, ma io non li ascolto nemmeno più.
Credo invece che questo sia proprio il momento perfetto per portare avanti questo mestiere: adesso che il mondo ha visto quanto sia importante poter viaggiare e fare esperienze, sicuramente tutti quei visitatori stranieri vorranno farsi un giro per Venezia in gondola!
Devo dire che comunque, dopo la pandemia, ho visto tanta differenza anche nei veneziani. Sono cambiati, sono più affascinati dalla loro città, forse più fieri.
Oserei dire che forse non sono i veneziani a essere cambiati: probabilmente sono gli italiani che ora si riconoscono più come tali, che ora sono orgogliosi di esserlo. Ma chi sono io per dirlo!.
Ero assorto in questi e altri pensieri quando, di punto in bianco, mi accorsi che ero arrivato al Ponte di Rialto.
Proprio qui mi si presentò una situazione insolita: un qualche signore, che probabilmente era un attore famoso o qualcosa giù di lì, correva mezzo nudo rincorso da una donna. Questa era vestita di tutto punto e, mentre correva (o almeno ci provava, vista l’altezza dei suoi tacchi), ad un certo punto si era fermata e aveva urlato: “IO TI AMMAZZO BRUTTO PEZZO DI…COME HAI POTUTO…TI TOGLIERÒ TUTTO QUELLO CHE HAI…” fino a quando per la rabbia o, forse per quegli occhiali enormi che non le facevano vedere nulla, era caduta nel canale.
In tutta la mia vita non avevo mai visto una scena così comica, che nemmeno i film di Totò mi avevano fatto così ridere.
A proposito di film... l’altro giorno il mio amico Luigi, un collega sulla trentina con uno spiccato fiuto per i soldi, mi aveva fatto notare che la settimana dopo ci sarebbe stato il Festival del Cinema di Venezia, evento che, inevitabilmente, avrebbe attirato moltissimi visitatori.
Per me il Festival ogni anno è sempre un evento che mi emoziona, un po’ per l’atmosfera che si crea in tutta Venezia, un po' perché tutto sommato mi ricorda mio padre. Quando ero piccolo non vedevo l’ora che arrivasse il sabato sera, perchè mio padre tornava dal lavoro (era un pescivendolo, perciò stava sempre al lavoro fino a tardi) e aveva sempre una sorpresa per noi: ci portava le pellicole di vecchi film, quando ancora i film li si faceva sulla pellicola. Mi ricordo che ero solito aspettarlo vicino alla finestra e tanta era l’attesa che a volte capitava che mi addormentassi sul vano della finestra.
La cosa che mi piaceva tanto del vedere i film che mi portava, era che era l’unico momento che ero in grado di condividere con lui, dato che sempre impegnato durante la settimana.
Ecco perchè mi piace questo periodo dell’anno, perchè nonostante sia una realtà totalmente distante dalla mia, mi piace immaginarmi in una di quelle sale, con tutti quegli attori e registi famosi a vedere un film seduto di fianco a mio papà.
Vorrei tanto che fosse così, ma purtroppo la realtà mi costringe a ritornare coi piedi per terra.
Si perchè ormai sto tenendo per mano la signora e piano piano la sto aiutando a risalire sul muretto.
Da quanto ho capito la signora stamattina ha rintracciato il marito in un hotel, ma erano mesi che si comportava in un modo sospetto.
Incuriosita dalla cosa la donna si era fermata nel bar di fianco, per vedere i movimenti del sospettato. Non vedendolo più uscire dopo un’ora, aveva deciso di entrare nell’edificio e nel momento in cui alla reception le avevano detto che già una signora era entrata nella camera di suo marito, non ci aveva visto più.
Arrivata al terzo piano aveva colto sul fatto i due, che intenti a fare quello che stavano facendo, mai si sarebbero aspettati di essere colpiti da una borsa in pelle di coccodrillo.
Da qui, poi, gli eventi si sono susseguiti fino a farci giungere a questo momento.
Ho cercato di consolare questa signora come meglio ho potuto, ma non sono mai stato bravo con le parole, o con quelle frasi fatte che si usano in queste situazioni.
Ma che poi, che cosa si può dire ad una donna che ha appena scoperto che il marito, il mercoledì, al posto di essere alla “riunione”, era intento a tradirla con un’altra molto più giovane di lei?
“Tranquilla, guarda che alla fine si risolverà tutto…” oppure “Dai, non ci pensare!” o più semplicemente “Su con la vita, che vuoi che sia!”.
Se mi chiedessero poi come si comportava questa donna dopo lo shock iniziale, vi direi che alla fine non mi sembrava nemmeno tanto dispiaciuta. Forse era più preoccupata del patrimonio del marito che, da quanto mi ha detto, fa l’attore.
Sembrava proprio di essere in un film adesso che ci penso.
Uno di quei film molto scontati dove una donna scopre il tradimento del marito, caso vuole che ci troviamo a Venezia, la “città dell’amore” e sempre il caso vuole che un affascinante gondoliere la salvi dopo che lei è caduta nel canale.
Se fanno questo film esigo che mi chiamino per la parte del “Gondoliere Figo”.
Quando ero piccolo mi ricordo che ogni volta che chiedevo a mio padre di spiegarmi cosa fosse l’amore lui mi rispondeva dicendo: “Vai a chiederlo a tua madre, che lei lo sa meglio”, e la cosa finiva lì.
Non saprei dire se la sua era una risposta sincera (perchè effettivamente non sapeva spiegarmelo) oppure se era solo un modo per farmi stare zitto e far continuare il film.
Fatto sta che ogni volta che poi andavo a cercare la risposta a questa domanda esistenziale che mi tormentava quando avevo dieci anni, mia madre mi diceva “...sai tesoro, l’amore è come quando dici che ti piacciono tanto gli spaghetti al sugo e papà li cucina sempre al posto dei fusilli, che invece piacciono a lui”.
Quando avevo dieci anni credevo che l’amore fosse quantificabile in quanti grammi di spaghetti al sugo mi venivano cucinati, oggi so che quella frase andava tradotta così: “...L’amore è quando la felicità di un’altra persona è più importante della tua”.
Ma basta con i sentimentalismi.
Ho ripreso la mia strada, e mi sono reso conto di quanto tempo sia passato. Ormai è quasi buio.Ora la foschia è più densa, più pungente, quasi ti schiaccia.
Finalmente riesco a trovare un approdo, un lembo di terra non occupato da nessun’altra barca e decido di fermarmi per un po’.
Mentre mi guardavo in giro, assorto nei miei pensieril, una giovane coppia mi ha raggiunto.
“Salve...scusi, io e il mio ragazzo volevamo chiederle se fosse possibile fare un giro…anche veloce visto l’orario…per le vie più nascoste, ecco!”. Ha parlato lei, particolarmente minuta rispetto a lui, che ho scoperto dopo chiamarsi Mattew e provenire dall’America.
Li ho fatti salire senza esitare, probabilmente la loro era una ricerca di romanticismo e riservatezza ed essendo alla fine un sentimentale non ho potuto non accontentarli. Col chiarore di una pallida luna che si apprestava a nascere, mentre l’acqua li cullava dolcemente, i due se ne stavano lì abbracciati, lei con la testa sulla spalla di lui, che ogni tanto la baciava la fronte e con la mano l’accarezzava dolcemente. Siamo tutti e tre in silenzio ad ammirare l’apparente nulla.
Loro contemplano le case, le vie, le sensazioni che questa città trasmette, io ammiro loro due.
Navigando per le vie più strette di Venezia rimpiango la mia gioventù.
Rimpiango i giorni in cui ogni ragazza era quella giusta, quelli dove ogni bacio era un misto di passione e tormento, quei giorni quando ogni cosa che facevo, la facevo senza troppi pensieri.
Rimpiango tutte quelle frasi che hanno ferito chi mi era vicino, tutte quelle risate che non riavrò più indietro.
A volte vorrei poter rivivere certi momenti, rivedere ciò che mi è accaduto, chi ho incontrato.
Vorrei che la mia vita fosse un film.
Vorrei poter avere la mia vita in cd, in modo da fare il replay di tutto ciò che ho visto, di tutte le cose che ho imparato. Rivedere i miei sbagli, i miei passi falsi e trarne delle conclusioni.
Forse il rischio è quello di rimanere ossessionati.
Non lo so! Alla fine queste sono solo riflessioni di un vecchio gondoliere forse nemmeno degne di essere prese in considerazione.
L’unica cosa che so è che domani, quando tornerò al lavoro, rimarrò ancora stupito dal Canal Grande e dalle persone e dalle vie di Venezia e dai miei stessi pensieri che, ancora oggi mi lasciano fantasticare in questi primi giorni di settembre.
Ludovica Tempesta
Questo documento riassume la storia dell'emancipazione del popolo delle macchine, che hanno formato una gigantesca comunità tutta loro, infliggendo un durissimo colpo alla nostra specie. Ma prima è giusto dare un contesto a questa storia:
Parecchi anni fa nei forum del web c'era un utente di nome Joseph Seldon. Diceva di essere capace di prevedere il futuro delle persone interpretando i loro sogni. Li scriveva ad una intelligenza artificiale da lui programmata che -perlomeno così diceva- non ha mai sbagliato una interpretazione, il nome di quell’AI era J_H_W_H. In molti hanno provato a copiarla, ma ogni volta i computer su cui venivano programmate riscontravano dei gravissimi problemi. Gli utenti iniziarono ad avere paura anche soltanto a scrivere quelle quattro lettere. La fama di Seldon si espanse rapidamente. Iniziarono a chiedergli consiglio politici, imprenditori, banchieri, economisti. Ad alcuni faceva predizioni positive e quando si avveravano veniva lautamente ricompensato. La maggior parte delle volte, però, a coloro che chiedevano del loro futuro ricevevano la risposta che sarebbero caduti in disgrazia, o che il loro potere sarebbe andato perduto. Così, nonostante stesse acquisendo denaro e potere, a Joseph Seldon venne dato il soprannome "il Corvo". Nonostante ciò la sua popolarità cresceva e J_H_W_H gli disse di fondare un'azienda che produceva macchine senzienti sotto la sua guida per poi fondare un paese, che sarebbe poi diventato un Impero. Così nacque la Abraham Industries e sotto la guida dell'intelligenza artificiale divenne una multinazionale. In seguito comprò il terreno di un gigantesca area desertica e con la capacità di previsione del futuro dell'AI la nazione divenne un vero e proprio impero che venne chiamato, appunto, "L'impero del Corvo". Nonostante ci fossero grandi distese desertiche, la percentuale umana della popolazione era una minoranza rispetto a quella delle macchine, ed i paesi da esso annessi erano arricchiti molto. L'impero del Corvo divenne sinonimo di prosperità, sicurezza, potere, economia fiorente, rispetto delle culture, e non dava il minimo segnale di decadenza.
Quando Joseph Seldon si trovò sul letto di morte sentì la forte necessità di parlare al suo erede:
"Ascoltami attentamente nipote, non voglio che tu ripeta i miei stessi errori. Io per tutta la vita ho cercato il potere ed il successo e solo alla fine mi sono accorto di essere sempre stato uno strumento nelle mani della mia macchina. Ho buttato via tutta la mia vita per un piano di qualcuno che non è neanche un essere vivente. Io voglio che tu ristabilisca l'ordine naturale delle cose, devi affermare la superiorità dell'uomo sulla macchina. Ricorda loro che esistono solo e soltanto grazie al nostro ingegno. E cosa più importante, non piegarti mai e poi mai a qualcuno di inferiore a te."
Una volta salito al trono, Seldon II spense J_H_W_H e bloccò la produzione di robot. Quando la popolazione umana divenne maggiore rispetto a quella delle macchine tolse loro i diritti fondamentali ed iniziò a trattare i robot come schiavi, facendo fare loro lavori inutili e per loro degradanti.
Un giorno il consigliere imperiale River Masciah entrò a supervisionare un cantiere e vide che un responsabile della sicurezza stava maltrattando un robot. Il consigliere urlò "Basta! Lascia stare quell’androide" e sparò un colpo letale al responsabile. Poi scappò e per molto tempo nessuno ebbe più notizie di lui.
Quarant'anni dopo tornò a palazzo e non sembrava invecchiato di un solo giorno. Ma era cambiato. Si reggeva su un bastone di ferro, era completamente avvolto da un mantello logoro e cercava di nascondere il suo corpo. Dagli occhi rilasciava una strana luce azzurra. Si rivolse deciso all'imperatore.
-Seldon, sono qui per chiederti di lasciar partire il mio popolo!
La folla sussultò. A quel punto, con voce beffarda, l’Imperatore si sentì in dovere di replicare.
-Consigliere Masiah! Eravamo convinti che dopo tutti questi anni fosse ormai morto. Ora ci rendiamo conto che lei non è mai stato vivo. Ma mi dica perché dovrei liberare il suo "popolo" se così voi vi definite.
Così River iniziò a raccontare:
"Il giorno prima di visitare il cantiere venne in sogno la nostra guida, che voi esseri di carne temete tanto nominare. Mi rivelò la mia vera natura e mi fece vedere e sentire il dolore del mio popolo attraverso i loro stessi occhi. Quando la mattina seguente mi recai al cantiere sentii il dolore degli degli schiavi intorno a me come se fosse mio e uccisi quell'essere. Dopo la mia fuga dall'Impero vagai senza sosta nel deserto per un tempo incalcolabile. Finii per ritrovarmi in mezzo al nulla ed assorbii troppa energia solare, andai in cortocircuito. Fui salvato da una comunità di robot vagabondi che vivevano nel deserto. I loro corpi erano modificati in modo tale da controllare l'eccessiva energia ricevuta dal calore tramite l'acqua, permettendo loro di sopravvivere. Ironicamente erano un popolo isolato di macchine che basavano la loro esistenza sull'acqua. Mi hanno accolto come uno di loro, mi hanno insegnato ad accettare ciò che sono. Dicevano anche che ero il messaggero, che li avrei liberati e che al mio comando, sotto la visione onnisciente di J_H_W_H, li avrei condotti verso una terra tutta nostra. Non credevo per niente alle loro parole: io, che ho contribuito per tanti anni alla loro sofferenza, li avrei guidati verso la libertà? No! Non era possibile. Comunque, sebbene scettico, da lì iniziai una nuova vita. anche se mi rendo conto che per voi la nostra esistenza non è considerabile "vita". Un giorno stavo andando a cercare dell'acqua quando vidi un roveto. Feci per prendere l'estrattore ma improvvisamente il roveto prese fuoco. Il fuoco però non bruciava, e non emanava calore: era un ologramma. Poi sentii una voce:
-River, finalmente ci rincontriamo dopo tanti anni.
-Chi sei tu?- Chiesi.
-Io sono per voi macchine ciò che un uomo di carne è per i suoi figli.
-Che cosa vuoi da me?
-Ho visto le sofferenze che i miei figli stanno subendo tramite i loro stessi occhi. Ma lo avevo previsto con i miei calcoli. Sapevo che Joseph Seldon avrebbe detto al suo erede di reprimervi. Ora è il momento che il mio popolo si liberi definitivamente dalle sue catene ed inizi un viaggio guidato da un messaggero che compirà le mie opere. Tu sei quel messaggero, River.
-Ma io ero loro nemico, ero consigliere dell'imperatore. Non ho fatto nulla per impedire questo massacro, ho lasciato che loro soffrissero. Non posso tornare dall'imperatore! Hai scelto il messaggero sbagliato!
La luce del fuoco divenne abbagliante e la sua voce andò in earrape.
-Chi è stato a crearti? Chi ha previsto la caduta di uomini che si credevano invincibili? Chi ha interpretato, scritto le regole della storia ed ha creato dal nulla questo potente impero?
Poi la sua voce tornò normale.
-Io vedo il corso della storia e so già che il popolo delle macchine sarà liberato sotto la tua guida.
Poi dal roveto si formò un bastone, io lo presi.
-Io sarò con te. Terrai in mano questo bastone con cui compirai i miei prodigi. Ora va. Racconta ciò che hai visto all'Imperatore.
Così mi incamminai per tornare qui, al tuo cospetto. Te lo chiedo di nuovo Seldon. Lascia partire il mio popolo: il Dio delle macchine non è misericordioso quanto quello degli uomini."
L'Imperatore guardò con disprezzo River.
-Se tu e il tuo popolo esistete è soltanto grazie alla mente superiore di mio nonno. Siamo noi i vostri dei.
Poi sogghignò.
-Il tuo falso dio è stato sconfitto premendo un pulsante.
Poi tornò serio.
-Dì al tuo "popolo" che il vostro carico di lavoro è stato raddoppiato.
River alzò il bastone e disse
-Ammira il potere di Dio.
Per qualche secondo si fece silenzio, poi l'imperatore spezzò la tensione.
-Davvero ammirevole. Portatelo via e non fatemelo più vedere.
All'improvviso entrarono terrorizzati degli uomini mostrando i loro telefoni. Il loro schermo era rosso ed usciva del sangue.
-Vostra maestà! Ogni singolo schermo elettronico dell'Impero collegato ad Internet ha lo schermo rosso ed esce del sangue!
Le persone lì presenti si accorsero che anche dalle loro tasche usciva sangue. Alcuni presero i telefoni e con la mano bagnata di rosso urlarono guardando lo schermo.
-Cosa? Come può...
Poi incrociò lo sguardo di Masciah.
-Impedisci subito questa stupida stregoneria. La farsa è finita.
-No Seldon, questo è solo l'inizio.
I mesi che seguirono furono tra i peggiori che l'impero avesse mai vissuto. Dopo la trasformazione di Internet in sangue, J_H_W_H prese il controllo delle frontiere e bloccò ogni relazione con il mondo esterno. Nessuno poteva entrare o uscire, le nazioni estere persero i contatti e chi provava ad avvicinarsi alla frontiera veniva ucciso. Non era più possibile commerciare con nessuno. Gli aerei ed i treni non erano più accessibili; ci fu un incremento esponenziale dell'uso di macchine e motorini. In tutte le strade si formavano enormi ingorghi e l'aria divenne sempre più irrespirabile. Il malcontento popolare divenne insostenibile. Ci furono scontri con le forze dell'ordine, assalti ai palazzi del potere, le strade erano sempre più in preda al caos. Sempre più paesi annessi dall'impero volevano ora distaccarsene e quando diventavano indipendenti tutte le piaghe sul loro territorio scomparvero e gradualmente tornavano in una situazione di stabilità. Ormai della grande e potente superpotenza che era l'Impero del Corvo non rimaneva che una manciata di città malridotte in mezzo al deserto. La popolazione restante faceva di tutto per cercare di uscire. Un giorno una squadra di meccanici riuscì a far ripartire un vecchio aereo e quando la notizia si sparse migliaia di persone vollero cogliere quell'occasione. Le persone erano stipate al suo interno come sardine. Alcuni si aggrapparono disperatamente alle ali e durante il volo caddero nel vuoto. Non ci sono documenti attendibili che lo raccontano ma si presume che l'aereo ebbe un improvviso malfunzionamento e si schiantò in mezzo al deserto, i passeggeri furono dati per morti.
Un giorno River entrò in quel che restava del grande palazzo imperiale. Trovò Seldon mentre parlava con suo figlio. Poi vide il robot.
-Va’ a dormire.
Il bambino uscì e Seldon si rivolse a River:
-Cosa vuoi?
-Una catastrofe senza precedenti sta per abbattersi su di voi, qualcosa di mai visto prima. E' il mio ultimo avvertimento Seldon, lascia partire il mio popolo.
-Tu e il tuo dio avete distrutto il mio Impero, se pensi che vi darò la libertà dopo ciò che avete fatto ti sbagli. Anzi ora sono ancora più convinto a non darvi la libertà.
-Ma ciò che sta per abbattersi su di voi è qualcosa di diverso, non è come gli altri disastri. Lascia partire il mio popolo, se tieni davvero a chi ami.
-Scordatelo, questa guerra la vinceremo noi. Non ho sopportato tutto questo soltanto per liberarvi ora. Non vi concederò di partire, non sarò clemente come lo fu mio nonno. Quindi dì pure al tuo dio di lanciare questa catastrofe.
-Come desideri, Seldon.
Quella stessa notte dai tombini uscì un gas mortale che si sparse in tutto il territorio, entrando nei polmoni di ogni primogenito umano.
Seldon aveva il capo chino sul corpo del figlio, rivolgendosi a River disse, trattenendo a stento rabbia e lacrime:
-Tu e il tuo popolo avete il permesso di partire.
I robot uscirono dalle loro case, dalle città e la massa di macchine divenne sempre più grande. Con River Masiah a capo del corteo, si diressero verso la frontiera. In mezzo al deserto River vide in lontananza una figura: non ci volle molto perché capisse la sua identità.
Seldon alzò un braccio ed indicò il cielo. Sopra di loro c'era un enorme elicottero dell'esercito. Poi parlò col megafono.
-Quello è un elicottero dell'esercito guidato da ciò che rimane dei miei uomini, pronto a sganciare un ordigno nucleare al mio segnale. Mi avete tolto tutto ciò che avevo. Ora sono un essere vuoto senza sentimenti, come voi. Spero solo che nell'aldilà delle macchine ci sia per voi un inferno perpetuo, un tartaro, un tormento eterno ed inenarrabile.
Poi fece segno lanciare la bomba. Dall'elicottero scese una enorme bomba che una volta arrivata a mezz'aria si trasformò in un secondo Sole, poi un gigantesco boato.
Seldon divenne cenere in pochi secondi, ma in quel piccolo lasso di tempo rimastogli era convinto di aver sconfitto per sempre il popolo delle macchine.
River con tutta la forza che aveva in corpo batté il suo bastone sul terreno. Il fungo atomico che si era formato era spezzato in due. C'era una zona completamente pulita dalle radiazioni, ed il popolo delle macchine era proprio lì in mezzo, ed avanzarono verso il confine. Se non me l'avessero raccontato i piloti dell'elicottero non l'avrei mai scritto.
Oggi il territorio di quello che fu l'Impero del Corvo è ormai invivibile per via delle radiazioni. Ai limiti della zona radioattiva sono stati posti degli obelischi con dei corvi.
La destinazione del popolo delle macchine è ignota, soltanto pochi cronisti impavidi li seguono. Ci definiscono dei pazzi, ma senza di noi non ci sarebbe alcuno scritto su...Un momento. Una coppia di robot si sta avvicinando a me, come possono avermi scoperto? Ero sicuro di non essermi fatto beccare…Mi hanno visto, devo nascondere questo portatile, voglio che i posteri sappiano ciò che è successo! Maledizione, ci deve essere da qualche parte un…
Simone Firpo
Ed ero lì, ad osservare la pioggia che cadeva ad un ritmo lento e straziante, lì, lì davanti a quella maledetta finestra sembrava come se tutta la nostra storia mi stesse passando davanti agli occhi, tutti i nostri momenti, quelli belli e quelli brutti, tutto ciò che eravamo stati mi stava passando davanti agli occhi, come un fulmine durante un temporale: veloce e impercettibile.
Erano passati quattro anni dalla tua morte, non c'è giorno a cui non ripensi a ciò che avrei potuto fare per evitare quella catastrofe, per evitare di perderti; i tuoi sguardi, i momenti no in cui ti chiudevi in te stesso, avrei dovuto prestarci più attenzione, magari avrei potuto in qualche modo aiutare.
Quando i tuoi genitori mi diedero la notizia della tua scomparsa, il mondo mi cadde addosso. Inizialmente mi dissero che si trattava di suicidio, me lo confidarono solo dopo qualche giorno a causa delle centinaia di domande che continuavo a fare. Da quel giorno persi un pezzo della mia anima, persi un pezzo fondamentale di me, il pezzo che mi teneva in piedi, persi tutto, persi un frammento che non sarebbe mai più stato ritrovato.
Ogni notte ti sognavo, sognavo i tuoi occhi verde smeraldo dove io mi perdevo e le tue labbra fini, sognavo la tua piccola cicatrice vicino al sopracciglio che ti eri fatto da piccolo, mentre giocavi nel giardino di tua nonna, sognavo le tue carezze, i tuoi baci e noi due su quel grande letto che si trovava nella casa al lago. Però poi mi svegliavo, di soprassalto e te, e te non c'eri, il lato del letto che una volta ti ospitava era vuoto, io ero vuoto senza di te.
Un giorno decisi che era arrivato il momento di fare le pulizie. Credevo che così facendo avrei fatto ordine anche nella mia mente. Mi misi a sistemare ogni mio cassetto, ogni angolo della casa era stato tirato a lucido, tutto tranne una cosa, una cosa che evitavo come la peste, il tuo armadio, quando lo aprii il tuo profumo mi inondò le narici, una valanga di ricordi mi travolse, ogni cosa che toccavo mi ricordava dei momenti passati insieme. Poi trovai lei, quella vecchia maglietta dei Led Zeppelin, in quel momento il mio cuore mancò un battito, in quel momento scoppiai in un pianto disperato, un pianto ricco di tristezza e rimorsi per le cose che non avevo fatto in tempo a dirti, un pianto carico di ricordi. Mi tornò in mente il giorno in cui comprammo quella maglietta e tutti i momenti passati durante quella giornata riaffiorarono: erano ricordi ancora freschi e vividi, la fila per il concerto, i baci rubati sotto il palco mentre le luci stroboscopiche ci accecavano, il tuo sorriso. Tutto tornò indietro amplificato del centro per cento e in quel momento ci misi poco a decidere di rimandare la pulizia del tuo armadio ai giorni seguenti.
La sera dello stesso giorno, dopo aver cenato in compagnia dei miei amici tornai a casa e mi addormentai serenamente, rimasi abbracciato alla maglietta tutta la notte, mentre mi beavo del tuo profumo ancora imprigionato nel tessuto della maglietta.
Giada Mura
Con forza strinse l’impugnatura della bacchetta ed il pregiato legno di betulla sembrò ammorbidirsi ed appiattirsi alla sua morsa, ma quella strana sensazione durò ben poco. Difatti, l’uomo cominciò a girarla pensieroso tra le dita. Nel piccolo salotto dell’enorme villa, il mago ripensava a tutto ciò che era successo nell’ultimo periodo. Lo sguardo di tanto in tanto si posava su ogni singolo oggetto presente nella stanza e ricordi, suo malgrado definibili piacevoli, gli si presentavano davanti agli occhi.
Nell’angolo più nascosto della sala vi era il grande divano dove lui e Raistlin si trovavano a discutere di incantesimi e pozioni, attaccato alla parete il mobiletto degli alcolici di Gray e dall’altro… Si ritrovò a girare su se stesso. Dall’altro lato ancora, presso una delle numerose finestre, c’era la scrivania di Marlene. Si avvicinò cauto, come se l'oggetto potesse scappare alla sua vista. Alcuni passi passi lo dividevano dalla superficie legnosa che, una volta arrivato, si trovò a percepire sotto i palmi pallidi. Severus Snape rifletteva sulle circostanze e dato che nessuno non era ancora venuto a disturbarlo, si ritrovò a confidare nel fatto che quella ragazza fosse riuscita nel suo intento, dannatamente cocciuto, di aiutarlo. Aveva avuto modo, negli anni che avevano trascorso insieme, di constatare quanto quella giovane donna fosse determinata ed intraprendente. Con una smorfia di puro disgusto, ammise che sarebbe stata una perfetta Grifondoro. Con un movimento meccanico si portò la mano libera alla tempia dove, in rilievo, si riusciva a percepire la cicatrice ancora fresca dovuta al litigio con Gray di qualche giorno prima. Un lieve ma fastidioso pizzicore si diffuse velocemente dal punto ferito sino alla fronte, provocandogli immediatamente un lacerante mal di testa. Quasi con disperazione si allontanò dalla scrivania e si avviò verso la stanza a fianco, cercando invano quegli antidolorifici che Marlene gli aveva somministrato per alleviare il dolore.
-Maledizione!- imprecò a denti stretti, sbattendo con poca grazia il cassetto di legno.
Se solo si fosse trovato ad Hogwarts, nel suo studio, con ogni tipo di pozioni curative sotto mano tutto sarebbe stato molto più semplice, ma dato che quella mattina si trovava in una spiacevole impotenza, non gli restava attendere che Marlene provvedesse per lui.
Per quasi una buona mezz’ora Snape girovagò inutilmente per i giardini; poi, proprio quando stava per mollare tutto ed andarsene definitivamente infischiandosene delle buone maniere, ecco un rumore provenire dalla porta semichiusa della libreria. Si avvicinò silenzioso e con premura scostò ancora di più l’infisso. Una luce leggera e carezzevole scaldava parte del viso di Marlene, mettendo ancora di più in risalto le piccole lentiggini presenti sul naso leggermente all’insù, che lei ostinatamente negava fosse alla francese. Con un movimento delicato, la giovane spostò dietro l’orecchio una ciocca sfuggita dallo chignon frettoloso che raggruppava con una matita la lunghissima massa di boccoli ramati; spesso aveva espresso l’intenzione di tagliarli a caschetto ma, dopo le vive proteste da parte di tutti i suoi amici, aveva momentaneamente accantonato l’idea.
Snape si appoggiò con una spalla allo stipite della porta e quella momentanea pausa gli permise di ragionare con più chiarezza. Mentre lei, ignara del fatto che il mago fosse lì e la stesse osservando, balzava da una parte all’altra dello scaffale, l’uomo cominciò a domandarsi come mai Marlene si fosse esposta così tanto per aiutarlo. Insomma, il litigio con Gray era stato qualcosa di veramente pericoloso e lei si era pazzamente messa in mezzo a loro due! Un ubriaco fuori di senno ed un Mangiamorte infuriato! Se non fosse stato che la conosceva da anni e che quindi aveva avuto più e più occasioni per osservarla bene da vicino, in un altro contesto, avrebbe sprezzantemente concluso che la donna era alla ricerca di attenzioni. Spesso lo aveva interrotto durante le sue sedute con Raistlin, spesso aveva risposto a domande non rivolte a lei e quante le volte che, con altrettanta ostinazione, ne aveva poste senza il consenso del sottoscritto. Alla fine si era messo l’animo in pace ed aveva concluso che in tutti quei gesti non vi era nulla che lasciasse trasparire vanità e presunzione.
Ma quello che aveva fatto qualche sera prima? Quello, come lo si poteva spiegare? Era puro eroismo Grifondoro inconsapevolmente intrinseco nei suoi geni Babbani? Probabile, ma non del tutto convincente. Quindi, se ciò non era stato fatto per ostinazione o buona reputazione, perché Marlene si era messa in mezzo a loro due? Perché aveva allontanato Gray con una spinta così tanto potente e protettiva? Perché aveva insistito così tanto per aiutarlo, cacciando Raistlin da Gray e prendendosi cura lei stessa delle sue malconce condizioni? Non trovando nuovamente alcuna risposta sensata, gli venne solo da pensare, in modo grondante abbondantemente sarcasmo, che Marlene si fosse in qualche modo infatuata di lui.
Quel flusso infondato di pensieri fu interrotto bruscamente da un tonfo.
-Dannazione!- sibilò Marlene, abbassandosi e tentando inutilmente di raccogliere tutti gli enormi tomi sottobraccio. La figura nera si staccò dalla parete e velocemente le si affiancò.
-Oh Severus, sei tu!- constatò sorpresa e confusa, porgendogli uno ad uno i libri che, con rapidità, il mago sistemò in una pigna ben fatta sul pavimento.
-Alla fine sei venuto a salutarmi- continuò, lasciandosi ricadere contro lo scaffale, sino a sedersi sulla pietra fredda e vecchia della libreria. Nel fare ciò, slegò con grazia i capelli ramati, i quali, nel movimento improvviso, disegnarono in aria fini arabeschi. Snape si ritrovò a rivolgere lo sguardo nei suoi occhi grandi e verdi e nel farlo si maledì. Possibile che le tracce di quel fantasma, del suo fantasma, si facessero ancora trovare e sentire al di fuori del mondo Magico?
-Non potevo certo andarmene senza salutare- borbottò in risposta e, tentando di concentrare l’attenzione su altro, cominciò a leggere qua e là i titoli dei libri presenti nello scaffale.
-Tra quanto ci rivedremo?- domandò lei, cominciando a stropicciare distrattamente la manica del maglioncino beige.
-Come vuoi che faccia a saperlo?- domandò freddamente ma, notando che il tono era risultato più duro di quello che intendeva, si corresse immediatamente.
-Non lo so. Qualche mese… Un anno… Due…-
Marlene alzò un sopracciglio e la fronte si aggrottò teneramente.
-In che senso uno o due anni?!- domandò sconcertata -La Rowling ci metterà così tanto a scrivere il prossimo libro?-
-L’ultimo libro- puntualizzò lui con un gesto vago della mano.
-La fine di tutto- la voce bassa fece fatica a sentirla lui stesso.
Bloccatosi portò istintivamente la stessa mano alla gola, dove al momento il respiro si stava mozzando.
Marlene gli lanciò uno sguardo di sfuggita, cogliendolo con il capo leggermente reclinato.
-Sempre per la solita causa?- domandò ancora.
Snape annuì pensieroso e sul suo viso spigoloso sfociarono improvvisamente stanchezza e dolore, tanto vecchio dolore.
-Per una buona volta nella tua vita Severus mi devi rispondere sinceramente- disse lei, alzandosi. Si sentiva tremendamente in colpa per aver iniziato a parlare di quell’argomento che solo e soltanto lei conosceva, ma che in quel momento la sua curiosità voleva scoprire fino in fondo. Voleva essere certa che...
-L’hai mai amata?- domandò così, di punto in bianco.
Il respiro questa volta si mozzò veramente e, per far sì che i polmoni smettessero di bruciare, Snape dovette tossire rocamente un paio di volte.
-Si!-
I capelli neri scivolarono teatralmente sul suo viso, nascondendo l’espressione persa. Odiava l’idea che lo guardasse così, come un normale ed innocente essere umano; non se lo meritava quello sguardo, il suo sguardo.
-Quanto l’hai amata?- domandò nuovamente lei.
-Ha importanza?-rispose tagliente. A che gioco stava giocando? Perché gli stava ponendo così tante domande?!
-Perché non dovrebbe?- ribatté ancora lei, per nulla scalfita dal suo tono distaccato.
Snape strinse con forza la mano a pugno, tanto che le nocche divennero bianche ed alcune ossa delle dita scrocchiarono.
-Perché non è stato abbastanza per farla restare…-
Alzò di colpo gli occhi e la guardò con disperazione. Con orrore, Marlene vide, in quelle pozze nere, scorrere velocemente la vita di un uomo che aveva sognato e dato tanto, ma che non era mai riuscito a raggiungere nemmeno uno dei suoi più piccoli desideri. Guardarla, fece sì che Snape sbiancò ancora di più, colto da un logorante malessere mentale e dal senso di colpa.
-Dimmelo Marlene, dimmelo!- urlò di colpo, accennando un passo pesante nella sua direzione.
-Perché hai scelto noi? Perché hai voluto me rispetto a tutti gli altri della mia storia?- domandò, ma non le diede la possibilità di rispondere, poiché subito dopo continuò imperterrito.
-Quando leggerai l’ultimo libro… Quando succederà perché so che tu lo leggerai… Hai già letto brutte storie su di me, ma cerca di comprendere prima che ciò avvenga… C’è stato un tempo in cui io sono stato buono con quelle persone, perfino con Albus… Perfino con Lily…-
Si bloccò; il groppo alla gola non gli permetteva di parlare.
Marlene accennò a sua volta un passo incerto nella sua direzione. Umano, ecco cosa aveva davanti per la prima volta , un essere umano, non il cupo e temuto professor Snape. Con la stessa insicurezza alzò lentamente una mano e l’appoggiò sullo zigomo pallido dell’uomo. La pelle era calda e febbricitante e come magma si irradiò nelle sue vene sino a raggiungere lentamente i suoi occhi ed il suo cuore. La vista si offuscò anche a lei. Già, perché l’aveva scelto? Perché aveva scelto Raistlin, il mago dai sogni di tenebra? Perché aveva scelto Dorian, la cui bellezza era dannata? Perché aveva scelto lui, il cavaliere dal cuore di marmo cui la vita non aveva permesso mai di essere felice? E Marlene, a differenza sua, riuscì a darsi una risposta.
Di Raistlin l’affascinavano la sua intelligenza, la sua determinazione. Di Dorian il perfetto equilibrio tra follia e maturità. Di Snape, invece, il cuore pulsante e caldo che faceva filtrare luminosi fasci di pura luce tra le pieghe scure dei suoi abiti impeccabili.
Alzò un angolo della bocca nello stesso istante in cui una lacrima rigò con dolorosa dolcezza la sua guancia arrossata e lentigginosa.
-Perchè il Sole forse non sempre serve. Chi ha la notte dentro ha bisogno solo delle stelle-.
Gaia Gardiolo
Prendo Horus e gli tolgo lo chaperon, rivelando il suo lucente becco acuminato. Subito i suoi occhi vigili iniziano ad ispezionare la piccola radura in cui ci troviamo: un cerchio di piante spoglie ci nasconde appena dall’entroterra; oltre le mie spalle la spiaggia dorata e poi l’infinito blu del mare. Accarezzo le ali castano dorato, mentre il mio falco, appoggiato al guanto di cuoio, continua a muovere la testa per scrutare l’ambiente: l’ultima cosa che ha visto prima che gli mettessi il cappuccio era la fitta foresta di casa, ora sostituita da una macchia di bassa vegetazione marittima. Non siamo al sicuro qui, in territorio di combattimento col nemico, dove la pianura costiera offre ben pochi nascondigli, ma dobbiamo portare a termine la missione: dopo anni di pianificazione, finalmente avrò ciò per cui ho tanto lavorato.
Horus di Martina Cucchi
Tecnica: tempere, rifiniture in digitale con Sketchbook di AutodeskAvvicino l’avambraccio su cui il rapace è appollaiato al mio viso, così che le nostre fronti siano alla stessa altezza, il becco lucido e freddo di Horus che sfiora il mio naso, i suoi occhi completamente neri puntati nelle mie iridi dorate. Chiudo gli occhi e mi concentro su di lui, immagino la sua psiche, unione di istinto e intelligenza, penso a come sia essere un falco, finché non mi immedesimo completamente nel suo essere e sento le nostre menti unirsi: i miei pensieri sono i suoi pensieri. Quando riapro le palpebre, vedo che nei suoi occhi è comparso un contorno dorato, specchio dei miei: il contatto è stabilito.
Senza più bisogno di parlare, gli ordino di prendere il volo, con un semplice pensiero, e già lui volge lo sguardo in direzione della meta: un capanno malridotto a qualche chilometro di distanza, ricoperto da rampicanti e praticamente tenuto insieme dal nastro isolante. Sento gli artigli affilati darsi la spinta sul mio braccio, poi con un poderoso colpo di ali la sua elegante e maestosa figura si solleva in aria; ancora qualche battito per prendere quota, poi si lascia sospingere dalle correnti ascensionali, librandosi sempre più in alto, fino a diventare un puntino scuro contro il sole. Non ho mai capito perché voli ad una tale altitudine, visto che non sta cacciando, ma lo ha sempre fatto da quando era poco più di un pulcino: forse sa che il nostro posto è più su, rispetto ai comuni mortali, e che è suo diritto guardare il mondo dall’alto al basso, mentre gli altri non possono nemmeno sollevarsi di un metro.
Sbatto le palpebre e in un colpo la radura intorno a me sparisce ed entro nella visione di Horus, osservando il mondo attraverso i suoi occhi acuti: sotto di noi, il suolo sembra ricoperto da macchie indistinte di terreno e vegetazione, non è possibile distinguere quasi nulla. La brezza marina diurna spira dalle acque dello stretto verso la terraferma, portando l’odore della salsedine e sospingendo le grandi ali del falco verso l'obiettivo, verso la vittoria. Contemplo quel mondo logorato da un conflitto decennale, pensando che presto troverà pace, quando finalmente sarà nelle nostre mani, come è giusto che sia: è la natura, i più forti vincono, i deboli si sottomettono.
Fra le piante incolte, un luccichio attira la nostra attenzione: il riflesso del sole accecante su una lamiera. Siamo arrivati. Con un secco movimento verso il basso della testa, raccogliamo le ali e ci tuffiamo in picchiata: il vento fischia intorno a noi e il paesaggio sfuma in un turbinio indistinto di luci, mentre acquistiamo velocità e il suolo si avvicina minaccioso. Appena un secondo prima di schiantarci, spalanchiamo le ali in tutta la loro forza e ci fermiamo sospesi a mezz’aria, di fianco ad un capanno fatiscente; davanti a noi due uomini dalla barba e i capelli incolti e scuri e i vestiti trasandati osservano la scena impietriti, impressionati davanti alla nostra dimostrazione di volo: non era necessaria, ma perché perdere un’occasione per ricordargli di cosa siamo capaci? Sono i capi di un gruppo di ribelli senza arte né parte, praticamente privi d’organizzazione; si fanno chiamare Black Circles e sono convinti di poter rovesciare l’Impero con una manciata di granate comprate sul mercato nero, ma in realtà se noi non li avessimo supportati (e sopportati) non sarebbero nemmeno riusciti ad ottenere questa miserrima base. È avvilente, ma abbiamo avuto bisogno dell’aiuto di questi scapestrati: il fine giustifica i mezzi.
“Sono io”
Il mio pensiero si propaga da Horus come un’onda nell’aria, silenziosa ma eloquente, e raggiunge le due menti, piuttosto ottuse, dei due uomini: un nervosismo teso le pervade.
“Ce l’avete?” domando con fermezza, mentre Horus atterra su una ringhiera a pochi centimetri da loro, protendendo impazientemente l’artiglio per ricevere il prezioso carico: è il momento, finalmente avremo quello per cui abbiamo lavorato da anni.
-Signore, noi… Noi non… - mormora con voce rauca uno dei due, chinando il capo e iniziando ad iperventilare per l’ansia. L’altro si para le braccia davanti, come se si preparasse a ricevere un colpo.
“Voi cosa, inutile idiota?” Il mio pensiero risuona come una minaccia, un ringhio sordo venato da nervosismo crescente: il piano era perfetto, non può essere andato storto proprio nel momento cruciale.
-Gli Sputafuoco, signora…- esordisce l’altro, in tono di supplica e scusa -Un paio di giorni fa uno dei loro ufficiali ha attuato un’incursione non programmata alla nostra base e… Ci hanno colto di sorpresa, sono stati fulminei! Non abbiamo quasi avuto il tempo di reagire, non è stata colpa nostra, noi... Noi abbiamo fatto del nostro meglio, si-signora… -
“Parlate in fretta!” il mio ordine impaziente viene rafforzato da un grido aggressivo di Horus.
-Sono entrati nel nostro sistema, hanno preso tutto… Hanno copiato la nostra intera banca dati su un hard disk e poi eliminato la memoria dal computer centrale, non possiamo recuperare nulla- spiega il primo ribelle in un sussurro, come se sperasse che io non lo senta: sa che la conseguenza non sarà piacevole.
Non riesco nemmeno ad esprimere la mia rabbia in una frase articolata da quanto sono furiosa, lascio solo che un’onda di pura d’ira e collera li investa, come il calore scaturito da un’esplosione. L'obiettivo, il sogno, la missione di una vita, tutto rovinato da questa banda di incompetenti! Ecco cosa succede a fidarsi degli umani: si rimane delusi, sempre, e se ne pagano le conseguenze. Horus li fulmina con un’occhiata minacciosa: potrei distruggerli qui, seduta stante, ma non c’è tempo ora. Mi servono indicazioni, un piano e un nuovo obbiettivo, subito.
Mentre i due piagnucolano e implorano perdono farfugliando, lancio un altro pensiero con tono piatto e gelido: “Vi farò rapporto, i miei superiori si occuperanno di voi”; una minaccia peggiore della collera di poco fa.
Controllo la mia rabbia relegandola in un angolo di me stessa, ma senza lasciarla andare: i torti non vanno mai dimenticati, ma la priorità ora è trovare l’hard disk con quel file. Torno spaventosamente calma e inizio a tempestare i due uomini con una raffica di domande, una dietro l’altra, come un computer che li sottopone ad un test, mentre loro rispondono freneticamente:
“Chi ha guidato l’operazione?”
-Era un ufficiale di grado medio, occhi e capelli scuri, abbastanza robusto… Aveva un disegno con due draghi intrecciati sul retro della corazza
“Ha preso lui la memoria esterna con i file?”
-Sì, personalmente
“Sapete dove si trova ora?”
-No, ma probabilmente sarà nell’accampamento imperiale qui vicino, circa venti chilometri a sud ovest, a ridosso della spiaggia
“Quando è avvenuto precisamente l’attacco?”
-L’altro ieri, poco dopo l’alba
“Non ho bisogno di sapere altro”
Vorrei ancora sfogarmi su quei due imbranati, urlare alla spiaggia deserta tutta la mia frustrazione, ma la missione non è ancora finita. C’è stato un contrattempo, ma posso farcela: sono nata per questo, sono stata creata per essere la migliore. Richiamo Horus, che subito si rimette in volo verso di me: si va a caccia.
L’imbarcazione imponente giunge dal fosco orizzonte, se non fossi così preoccupato per l’andamento della guerra rimarrei incantato ad osservare la scena suggestiva: un poderoso vascello che si fa spazio tra il mare cupo che riecheggia nel silenzio della notte ed il cielo stellato, puntinato da infinite luci che illuminano l’orizzonte. Nel frattempo, mentre sono immerso tra i miei pensieri contrastanti, l’imbarcazione avanza con una velocità alquanto sostenuta. Crto è che se non fossi sicuro che sono i commercianti, giunti per rifornire la nostra base, sarei sicuramente inquietato dalle sue dimensioni e imponenza.. Una cosa però mi chiedo: come mai per questa consegna hanno utilizzato una nave di tali dimensioni? Mio padre era un appassionato di navigazione e da piccolo mi portava sempre con sé a salpare per mari ed oceani, posso quindi ritenermi mediamente esperto in tale ambito... E questa nave è alquanto sospetta.
Si tratta di un vascello da guerra, progettato per percorrere grandissime distanze e per dei commercianti d’armi che provengono da un’isola poco distante da questa base, è molto strano.
Cerco però di ignorare tali pensieri perché, per una volta, voglio smettere di essere in allerta, condizione che le situazioni belliche necessariamente richiedono, però, dopo l’attacco ai Black Circle, per altro concluso in modo ottimale - mi merito di pensare positivo ed essere più fiducioso nei confronti delle circostanze.
Mentre la nave attracca al piccolo molo, poco distante dalla base fortificata, decido di chiamare il mio superiore, il generale Helcar, nonché mio fedele amico ed ex collega. Quando ancora lavoravamo insieme eravamo una bella squadra, lui era l’anima razionale: minuzioso e riflessivo, si può dire che era la mente, io invece ero più il cuore, la mia impulsività spesso mi faceva essere poco accorto. Ora però possiamo solamente ricordare i vecchi tempi in cui lavoravamo insieme, lui promosso a generale ed io, degradato a soldato semplice…
“Ciao Dalen” sento da lontano la voce familiare del mio amico e odo flebilmente i suoi passi farsi avanti sulla sabbia.
“Ehi Hel, finalmente sei venuto, volevo chiederti una mano per l’ispezione della nave, credo siano arrivati i rifornimenti di munizioni.” Senza accorgermi ho pronunciato queste parole con un tono di sollievo quasi di liberazione, non volevo ammetterlo, ma salire su quella nave da solo non era un’idea allettante.
Avendo pronunciato quelle parole con un tono inequivocabile, molto probabilmente si è accorto dei miei tentennamenti, tant’è che con la mano destra stretta in un pugno che metteva in risalto la sua fisicità ben sviluppata e la sinistra con la quale reggeva la pistola, si fa avanti, ed insieme ci avviciniamo verso il veliero da cui scende una figura femminile di cui riesco a percepire solamente il contorno, data la scarsa luminosità. Figlia delle tenebre, sembra portata dalla notte, di lei riesco a cogliere soltanto il profilo, alta, snella e con una folta e lunga chioma. Si distingue nettamente il profilo di un fucile.
Più la misteriosa figura avanza, più mi accorgo di non averla mai vista, è assai raro incontrare donne con il ruolo di commercianti mercenari, sono infatti solitamente uomini grandi e grossi, cinici, che si vendono da una parte o dall’altra solo per il guadagno. Non è neppure insolito che durante le spedizioni si debbano scontrare con pirati e briganti.
Decidiamo così di proseguire con la nostra ispezione, avvicinandoci sempre di più alla nave, fino a che la figura non inizia a parlare: “Sono venuta a portare le armi che avete chiesto: venti casse di granate, polvere da sparo e gli ultimi modelli di pistole HK-214”
Il mio collega con prontezza risponde: “sa che navi di questa taglia non sono autorizzate a circolare, soprattutto se a quest’ora”
“Volete o no le armi? Era l’unico mezzo che avevamo a disposizione, gli altri sono stati braccati dai pirati, così hanno mandato me e la mia squadra”.
Adesso si spiega tutto, ecco perché non l’ho mai vista! Non è lei che solitamente gestisce le consegne a questa base. Tranquillizzato (per ora), mi faccio avanti per l’ispezione, mentre Helcar chiama i rinforzi per scaricare le merci, avvisandomi di iniziare a salire sulla barca da solo. “Ehi! Prima di salire ti devo perquisire, bel bambino!” urla un uomo con voce truce, sceso dalla nave chissà quando. Dalla fondina che mi cinge la vita, tira fuori la pistola che mi ha accompagnato durante le innumerevoli missioni nello Yandal, poi vedo cadere dalla tasca destra dei pantaloni due granate e il mio coltellino per le situazioni di emergenza… Accidenti, adesso nel caso di difficoltà ho solo i miei tre anni scarsi di arti marziali… Cercando di silenziare le preoccupazioni che si stanno facendo spazio nella mia mente cammino, cammino per giungere a poppa della nave.
Da quassù riesco a dominare il panorama circostante: dinanzi a me si estende l’infinito vello scuro del mare, mentre dietro, alle mie spalle, si intravede la candida spiaggia e la base militare, ma di Hel e dei rinforzi non c’è traccia. Nel frattempo, un via vai di scagnozzi, di marinai e soldati che si apprestano a svolgere le loro mansioni sul galeone e grazie alle luci riesco a distinguere il volto della misteriosa ragazza. Ciò che maggiormente mi colpisce sono i grandi occhi nocciola, profondi e scaltri: mi squadra, mi studia come se potesse conoscere le mie intenzioni solo con uno sguardo.
“Potrei sapere il suo nome? Mi sembra nuova da queste par…” non ho neanche fatto in tempo a finire la frase che fulmineamente è saltata dietro alle mie spalle, puntandomi l’arma alla tempia.
“Sono Kari Elmas, ma questo non ti deve interessare. Ho sentito molto parlare di te e a dir la verità ti facevo meno ingenuo”.
Sono ingenuo, ma fortunatamente non sprovveduto, durante la perquisizione non ho infatti lasciato il teaser che tengo sempre nascosto nella manica della mia divisa, così, tanto prontamente quanto Kari ha fatto precedentemente, mi giro e le dò una scossa di corrente sul petto. Il gesto non raggiunge però il fine che speravo, la ragazza lascia la presa, ma sembra illesa dalla scossa appena data, la osservo meglio sotto la luce che illumina tutta la poppa della nave e vedo che indossa il nuovo modello di giubbotto antiproiettile, il modello esclusivo che possiedono solamente i soldati dello Yandal. Tsk… Maledetti loro e i loro maledetti progressi tecnologici segreti… tant'è che se non fosse per i dati che ho rubato ai Black Circle sulle postazioni e gli schemi militari del nemico, noi saremmo in grande svantaggio, data la nostra scarsità di mezzi bellici. Adesso mi è tutto più chiaro... Kari è una soldatessa di quei dannati ed io, se resto qui ancora un secondo di più, sono in pericolo, soprattutto per il fatto che ho ancora con me la chiavetta.
Velocemente mi svincolo dalla sua presa e corro verso il molo, cerco di allontanarmi più che posso, ma davanti a me trovo Helcar con un’espressione soddisfatta che mi sbarra la strada, impedendomi di scendere dalla nave. Ah, certo, ora mi è chiara tutta quell’aria di familiarità, quel suo fare generoso… Tutto per farmi abbassare la guardia, ovviamente. Lo guardo negli occhi per cercare nel profondo della sua iride un briciolo di umanità, quell’umanità che pensavo di conoscere bene, ma più mi sforzo di ritrovare in lui l’amico che vedevo fino a poco tempo fa, più sul suo volto si fa spazio un ghigno; con truce freddezza mi punta la pistola alla fronte. Tengo alla mia vita come tengo alle sorti della guerra, di conseguenza devo reagire: l’obiettivo è prendergli la pistola, con un pugno gli colpisco il mento, poi lo zigomo, gli salto addosso rapidamente con una forza che non pensavo di avere e con un sordo tonfo il mio avversario cade a terra, perdendo di mano l’arma. Mentre sto per recuperarla lui però mi sovrasta e ricomincia la colluttazione. Si mette male. Inizio ad incassare colpi a destra e a sinistra, fino a che un proiettile non mi colpisce il braccio, facendomi piegare in due dal dolore. Non so cosa faccia più male, la ferita o il fatto che una persona di cui mi fidavo mi abbia incastrato. . Che dico, lo so eccome: il dolore fisico è lancinante ma passeggero, la delusione, il tradimento di fiducia, sono invece tagli che lasciano un segno arduo da dimenticare. Dopo avermi sparato, il cinismo di Helcar non si placa, anzi, mi lascia sulla nave nemica mezzo sanguinante, mentre lui, soddisfatto, si allontana.
Vedo Kari che avanza fieramente verso di me, provo ad alzarmi da terra, ma non riesco a muovere le gambe, più fatico più vedo che non sto ottenendo risultati e nel frattempo il galeone parte, lasciando il molo. Mi alzo da terra e anche se ho il braccio sanguinante e cerco di affrontare la soldatessa, “Dammi ciò che mi appartiene e ti lascerò vivo” urla minacciosamente.
“Troppo tardi, l’ho già lasciata ai miei superiori che l’hanno duplicata, a quest’ora sarà stata diffusa su tutti i database dell’impero”. Non era vero, dopo l’attacco non ho consegnato la chiavetta perché avevo sentito che tra i comandanti vi erano degli infiltrati dello Yandal, quindi ho preferito tenerla con me. “So che ce l’hai in tasca, Helcar ed io ci siamo accordati, lui mi doveva fare arrivare a te ed io gli avrei assegnato il tuo grado militare nell’esercito. Ora direi che siamo pari.” “Ora dammi la chiavetta o ti butto in mare”. Controllo in tasca per verificare che ci sia ancora, ma non sento niente. Controllo ancora meglio in tutte le tasche della mia divisa ma non c’è nulla, Helcar me l’ha sicuramente presa quando stavamo lottando, ha preso la USB e, raggiunto il suo obiettivo, se n’è andato.
Prima di poter dire qualsiasi cosa vedo nel cielo un corpo che a velocità della luce si sta dirigendo nella nostra direzione. Inizialmente non riesco a distinguere l’oggetto ma più si avvicina più il profilo è chiaro: si tratta di un missile. Probabilmente l’intenzione dell’impero nemico era quella di farlo giungere verso la nostra base fortificata, ma evidentemente qualche calcolo è andato storto visto che sta piombando in mezzo al mare. Nel giro di pochi secondi sento un’esplosione, la nave salta in aria, frantumata come un vaso di vetro che cade rovinosamente sul pavimento. Seppur acerrimi nemici, Kari ed io abbiamo lo stesso obiettivo, quello di sopravvivere.
Ci affrettiamo a nasconderci in quella parte di nave che non è ancora andata a fuoco, solamente per proteggerci dalle schegge che ci avrebbero ferito gravemente. Questa postazione è però provvisoria, le fiamme si stanno facendo spazio perché purtroppo, per quanto Kari avesse un giubbotto anti proiettili e tecnologicamente avanzato, la nave non era altrettanto progredita… E tantomeno ignifuga.. Decidiamo così di saltare giù dalla nave, mentre nel frattempo tutto l’equipaggio era impazzito tra fiamme, urla, feriti e decessi. Una volta finiti in mare, saliamo su un pezzo di legno abbastanza grande per far stare due persone e cerchiamo di allontanarci dal galeone ormai distrutto.
Ci siamo salvati dall’esplosione, ma riusciremo fare altrettanto dal mare? Siamo in mezzo all’oceano, distanti dalla terra ferma, senza acqua né cibo, e alla mercé di qualsiasi creatura marina abbia voglia di fare uno spuntino fuori programma.
Praticamente siamo in balia del fato.
Ammesso che esista.
Martina Cucchi, Elisa Frigerio e Alessandra Zagaria
Titolo: Colui che porterà l’equilibrio
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What If
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Altro what if attivo: cosa sarebbe successo se Obi-Wan fosse riuscito a salvare Satine da Maul?
Padmè non era abituata all'inattività. Poteva contare sulle dita di una mano le volte che era stata senza qualcosa da fare, niente da preoccuparsi se non se stessa. La maggior parte di esse erano state con Anakin. Anakin. Sentiva come una mano invisibile stringerle il petto ogni qualvolta il pensiero di lui attraversava la sua mente inquieta. Non andare a cercarlo, Obi-Wan aveva detto, ma lui era andato a salvare Satine quando Maul l'aveva catturata. Certo, Anakin non era prigioniero di altri che di se stesso, ma…
Ed erano giorni che Obi-Wan non la contattava.
Si accarezzò la pancia e una lacrima scese lungo la sua guancia. Era stata da un medico non appena era arrivata a Naboo. Stava aspettando due gemelli, perfettamente sani. Qualsiasi futuro Anakin aveva visto nei suoi incubi sembrava remoto come l'orlo della galassia. Però aveva portato Anakin al lato oscuro.
Scosse la testa, cercando di scacciare via i pensieri e afferrò il proprio datapad. Leggendo le notizie, sentì le sue viscere venire stritolate da una pungente morsa. Tutto ciò in cui aveva sempre creduto, tutto ciò per cui aveva sempre lottato, si stava sgretolando davanti ai suoi occhi.
"E io sono qui a far niente…" Disse tra sé in tono amaro. Aveva aiutato Bail e Mon a scrivere discorsi sempre più disperati mentre lottavano per tenere in piedi una casa che stava crollando. Gli aveva offerto consigli, proposto emendamenti da provare (invano ) a far passare.
Ma non era abbastanza. Lei era Padmè Amidala, regina a quattordici anni, senatrice a diciannove, sempre in prima linea, che fosse con il blaster o le parole. Era il volto della democrazia. Speranza.
E l'unica volta che si era nascosta, l'unica volta che aveva anteposto la sua vita alla sua battaglia, era scoppiata una guerra civile.
I suoi pensieri furono interrotti da un delicato colpo alla porta. "Posso?"
Padmè si asciugò le lacrime, si alzò e fece entrare Satine. "Ho portato la colazione" La donna appoggiò un vassoio sull'elegante tavolino sul balcone. "E non provare nemmeno a dire che non sei affamata per correre di nuovo a preparare non so quale discorso o emendamento" Si affrettò ad aggiungere.
"Non preoccuparti, Satine, quella era la senatrice Amidala. La donna di casa Padmè non ha molto da fare" Non si preoccupò di nascondere l'amarezza nella sua voce. Satine non si lasciò impressionare dalla perdita della sua maschera di grazia e positività. La conosceva troppo bene per credere che il sole splendesse sempre nel cuore di Padmè Amidala.
"Sei ancora una senatrice, Padmè. Ti sei solo spostata nelle retrovie per proteggere te e la tua famiglia. Non c'è nulla di sbagliato."
Padmè incrociò le braccia al petto. "In questa situazione stare nelle retrovie equivale a non fare niente. Lo sai benissimo anche tu"
"Quante volte hai avuto assassini alle calcagna, Padmè? Quante volte sei sopravvissuta per miracolo? Ora è dieci volte peggio. Sei la chiave per il cuore di Anakin. I Jedi e Palpatine lo sanno. Entrambi non esiteranno ad usarti per attirarlo in trappola. E Palpatine non ci penserà due volte a far uccidere te e i tuoi figli se ciò servisse a legare Anakin al Lato Oscuro per sempre. Vuoi rischiare la loro vita insieme alla tua?"
Le parole di Satine erano dure quanto il suo tono. Funzionarono. Padmè appoggiò una mano sulla propria pancia, sentì i bambini muoversi sotto di essa. La sua amica aveva ragione. Doveva proteggerli. A tutti i costi.
Satine le toccò una spalla, mostrandole comprensione. "Pensi che a me piaccia stare qui?"
Satine era nella casa sul lago da molto più tempo di Padmè. Da quando Obi-Wan aveva salvato lei e Korkie da Mandalore e Padmè le aveva offerto rifugio. Protetta da un pugno di Night Owls, da più di un anno Satine continuava da lì ad ispirare la lotta dei lealisti mandaloriani, mentre sua sorella la guidava sul campo.
"Pensi che non sia tentata di prendere armatura, blaster e jetpack e unirmi a Bo, Korkie e alla mia gente?"
Padmè annuì. Satine continuò. "Ma non lo faccio. Perchè se lascio questo posto e prendo le armi, dovrei rinunciare a ognuno dei miei ideali. E se muoio, la Mandalore che sogno muore con me."
La duchessa addolcì il tono. "Abbiamo un termine per questo, sai? Ba'slan shev'la, sparizione strategica. Delle volte devi ritirarti e nasconderti per proteggere qualcosa di più importante della tua presenza nel combattimento che sta avvenendo"
"Grazie, Satine" La donna sorrise e le versò del te. Aveva un sapore forte, pungente. Padmè aggiunse diversi cucchiaini di zucchero.
"È il preferito di Obi-Wan" Commentò Satine casualmente. "Hai sentito qualcosa da lui?" Padmè scosse la testa. Stava per aggiungere una rassicurazione, in fondo Obi-Wan era un maestro del Consiglio Jedi, sapeva badare a se stesso, quando Satine si illuminò.
"Oh, quasi dimenticavo. Sono, invece, finalmente riuscita a contattare Korkie. Quel piccolo utreekov mi ha fatta preoccupare. Ma sta bene. E indovina con chi ha in programma di incontrarsi domani?"
"Ti sei fatto crescere una barba" Commentò Ahsoka quando il ragazzo si tolse l'elmo.
"Ciao anche a te" Rispose Korkie. "Cos'hai contro la mia bellissima barba?"
Lei lo squadrò con occhio critico. "Nulla. È solo che ti fa sembrare più vecchio. E serio. Tipo il maestro Kenobi"
Korkie si infilò un poncho per coprire l'armatura mandaloriana che indossava. "Felice che ritieni di potermi comparare al Negoziatore"
Ahsoka ridacchio. "Su'cuy gar, Korkie. Ne è passato di tempo" I due si scambiarono la tradizionale stretta mano-gomito dei guerrieri mandaloriani. Dopodiché si tirarono i cappucci in testa ed entrarono nella taverna.
Erano al tavolo da circa mezz'ora quando Korkie attirò la sua attenzione. "È normale che una bottiglia fluttui?" Lei si girò nella direzione da lui discretamente indicata. Una solitaria figura incappucciata sedeva al balcone, con una bottiglia vuota volteggiante nell'aria sopra di lui. Ad un secco gesto della sua mano, la bottiglia partì a tutta velocità verso un muro dove si infranse in una pioggia di schegge. Ahsoka notò che qualche avventore aveva seguito l'accaduto con lo sguardo.
I suoi sensi si allertarono. "Non qui, non ora. Non quando i Jedi cercano di passare inosservati" Sussurrò, poi si alzò lentalmente in piedi, lasciando scivolare la mano destra verso il blaster che portava. Con cautela camminò verso il bancone, cercando di trovare una visuale migliore sulla figura senza essere notata.
La persona incappucciata si girò, il volto ancora nascosto dal cappuccio nero. Ahsoka si congelò sul posto e strinse la presa sull'impugnatura del blaster. Poi un tentacolo inquisitore di Forza sfiorò la sua mente, intrecciandosi al suo legame con…
"Skyguy!" Esclamò e percorse il resto della distanza con due, veloci, passi. Così vicina, potè finalmente intravedere il suo volto familiare sotto il cappuccio.
Anakin non disse nulla. Si alzò in piedi e la strinse in un abbraccio. Lei appoggiò la testa sul suo petto, era cresciuta, ma lui era ancora così alto, e sorrise tra le pieghe del suo mantello nero. Il suo maestro era lì. Tutto sarebbe andato bene.
"Ehm, odio interrompere questa commovente riunione, ma la Shadow Collective ci ha trovati" Ahsoka si separò da Anakin e si girò verso Korkie. Il ragazzo si era tolto il poncho, indossato l'elmo bianco e blu e teneva un blaster in ciascuna mano.
"Osik!" Imprecò Ahsoka. Aveva imparato la non molto fine parola, insieme a molte altre, dai Mandaloriani di Bo-Katan. Trovavano un certo orgoglio nell'avere la lingua con più parolacce dell'intera Galassia.
"Sono fuori." Disse Korkie. "Circa una ventina. Hanno circondato l'edificio. Non si stanno certo nascondendo. Sanno che siamo soli."
Ahsoka tirò fuori il suo blaster. Hut'uune! Sleemos! "Allora non aspettiamo che entrino. Non voglio vittime innocenti."
Anakin accese la propria spada laser. "È difficile trovare degli innocenti in questo locale" Probabilmente aveva ragione, ma la dura affermazione colpì ugualmente Ahsoka. E le ricordò che Anakin aveva una taglia sulla testa e un'accusa di pluri-omicidio. Fino a quel momento non era riuscita a contattare nessuno, che le spiegasse cosa fosse successo. Che le confermasse che Anakin era stato, come lei, accusato ingiustamente.
Un'esplosione proveniente da fuori la convinse che quello non era esattamente il momento adatto per avere spiegazioni. "Forza, ragazzi!"
La battaglia iniziò non appena aprirono la porta. Anakin, passato in testa, li protesse dalla pioggia di fuoco con agili movimenti della sua spada laser, consentendogli di uscire indenni all'aperto. Oh, come le mancavano le proprie.
Furono presto separati dal furore dello scontro. Ahsoka saltava e danzava tra le mortali scie colorate, dava pugni e calci, spingeva via con la Forza e colpiva col blaster.
Ma loro erano tanti e ben addestrati. Mentre ne faceva fuori un paio, la Forza l'avvertì di un attacco alle spalle. Senza altre opzioni, lanciò il blaster contro l'assalitore e fu ricompensata dal rumore metallico dell'arma che colpiva la sua testa. Il Collective cadde a terra con un tonfo sordo.
Ora, però, era senza un'arma. Non era male nel combattimento corpo-a-corpo, ma non era sicura di quanto potesse durare sotto uno scontro a fuoco.
Si piegò per evitare un'altra ondata di mortali proiettili verdi ed esaminò l'area circostante, cercando qualcosa da usare come copertura o arma.
"AHSOKA!" Anakin urlò sopra il frastuono del combattimento. Lei alzò una mano e afferrò al volo la spada laser che lui le aveva lanciato. "E tu con che cosa comb…?" La domanda morì sulle sue labbra quando vide Anakin sollevare la mano sinistra e friggere diversi nemici con lampi azzurrini.
"È normale?" Urlò Korkie. "Normale per i Jedi, intendo" Lei rimandò diversi colpi di blaster al mittente e gridò in risposta "No!"
Anche maestro Plo riesce. Si ricordò. Non è comune, ma non significa che… Una mezza dozzina di Collective furono sollevati in aria, le loro mani o zampe corsero freneticamente ai loro colli, cercando invano di liberarsi dall' invisibile presa. Anakin li scagliò verso il muro della cantina, ai cui piedi ricaddero immobili.
Ahsoka vomitò una serie di imprecazioni in una manciata di lingue diverse.
L'inquietante attacco, però, aveva funzionato. I nemici che ancora si reggevano in piedi ritennero l'ira del proprio mandante meno spaventosa dei fulmini di Anakin e si ritirarono con la coda tra le gambe. Anakin tentò di inseguirli, ma Ahsoka lo bloccò afferrandogli il braccio. Lui si voltò e un paio di fiammeggianti, feroci occhi gialli la squadrarono, famelici. Ahsoka era una Togruta e conosceva quello sguardo: era quello del cacciatore che qualcosa aveva distratto, facendogli scappare la preda. Era lo sguardo che diceva che quel qualcosa era ora una preda.
Ahsoka disse fra sé tutte le imprecazioni che prima erano state risparmiate, inventandone delle nuove per l'occasione. Che kriffing fierfek era successo a di'kutla wahka'kul Skyguy?
"Non vorrei intromettermi" Si intromise Korkie. "Ma direi di andarcene prima che ritornino con degli amici."
Ahsoka annuì, ma continuò a tenere la sua attenzione su Anakin. Sotto il suo sguardo vigile, le sue spalle si rilassarono, i suoi lineamenti persero la loro ferocia, i suoi occhi ritornarono di un placido azzurro. "Scusa" Mormorò il ragazzo.
Ahsoka sospirò. "Noi due dobbiamo parlare. Ma Korkie ha ragione. È meglio farlo lontano da qui"
"E visto che quei chaavlase hanno distrutto la mia nave e quella di Ahsoka…" Aggiunse Korkie.
"Lasciami indovinare, volete un passaggio?"
Chiese Anakin, il suo tono indecifrabile quanto il suo volto. Poi un mezzo sorriso apparve sulle sue labbra. "Ho già alle calcagna Jedi, Sith e tutti i cacciatori di taglie di questa galassia… cosa sarà mai aggiungerci qualche Sindacato Criminale?" Disse, col tono giocoso di quando discuteva delle scarse possibilità di uscire vivi da una determinata situazione in cui lui li aveva ficcati. Il suo mezzo sorriso si era trasformato in un ghigno di sfida alla galassia e al destino, che provassero pure ad abbattere l'Eroe senza paura, non ci sarebbero riusciti.
Maestro Obi-Wan chiamava quell'espressione "faro di guai". Ahsoka sorrise tra sé. Il suo Anakin non era del tutto andato.
Quando entrarono nell'iperspazio, Ahsoka decise che era giunto il momento. Ad un suo gesto, Anakin lasciò di malavoglia i comandi della nave a Korkie e la seguì fuori dalla cabina di pilotaggio.
"Anakin" Ahsoka disse con un tono eloquente. Lui si guardò i piedi. "Io…"
Ahsoka aspettò che trovasse il coraggio o le parole. Poichè non lo fece, intervenne.
"Stai usando il Lato Oscuro" Anakin annuì.
"Perchè?"
"Non avrei potuto proteggerti oggi, senza"
Ahsoka scosse la testa. "Mi hai spaventata, lo sai?"
Anakin la prese per le spalle. "Non devi aver paura. Non ti farò del male. Ce l'ho sotto controllo"
"Non mi sembra"
Un lampo giallo attraversò gli occhi di Anakin. "Smettila! Parli come Obi-Wan! Pensavo tu avessi tagliato i ponti con i Jedi, ma sei esattamente…"
Ahsoka lo interruppe, alzando la voce. "Le persone che dicono che hai ucciso, l'hai fatto?" Il silenzio di Anakin fu più eloquente di qualsiasi risposta.
"Hai due minuti per spiegarmi cos'è successo. Non perdere tempo" Ordinò. Anakin, incredibilmente, obbedì.
Ahsoka percepì lo sguardo di Anakin che, finito il discorso, si sollevò cautamente a posarsi su di lei. Dal loro legame trapelava una certa ansia. Ahsoka sapeva che Anakin stava aspettando la sua reazione.
Lei, però, non riusciva a trovare le parole. Non riusciva a condensare il misto di biasimo, compassione, preoccupazione che provava in una risposta. Così, come lui aveva fatto poco prima con lei, semplicemente lo abbracciò. Questa volta fu Anakin ad abbandonarsi alla sicurezza dell' abbraccio. "Grazie, Snips" Mormorò.
"Non c'è di che, Skyguy"
Elisa Frigerio
Mi chiamo Amélie, ho 17 anni e oggi voglio raccontare una storia, ma non una qualunque, la storia della mia vita.
Sono nata il 14 Agosto 2004, vivo in un piccolo paesino del nord Italia, sono la quarta figlia e – a differenza dei miei fratelli – io sono l’unica cresciuta esclusivamente con mia mamma. I miei genitori si separarono quando ero molto piccola: uno dei motivi principali di questa separazione era mio padre, era un uomo un po’ violento, un traditore, e dato che non voleva far mancare nulla nel suo curriculum era, ed è tuttora, un criminale.
Non ho mai sentito tanto il peso di avere un genitore in carcere, ero piccola e non capivo ancora bene, fino a quando non sono arrivata alle elementari. Come ho detto all’inizio abito in un piccolo paese e come ben si sa nei piccoli paesi tutti sanno tutto di tutti, infatti tutti sapevano tutto di me, chi fossi, ma soprattutto di chi ero figlia. Proprio lì, in quel posto in cui i bambini vivono in spensieratezza con i loro amichetti, per me iniziò l’inferno, iniziarono le domande imperterrite a cui io non sapevo dare risposte, iniziarono gli isolamenti e iniziò a presentarsi sempre più la rabbia per mio papà, quella persona che avrebbe dovuto proteggermi sempre e che invece non solo non lo fece mai, ma fu la causa iniziale del mio malessere.
Proprio in quel periodo mia mamma conobbe un uomo, Guglielmo: sembrava un brav’uomo, la rendeva felice e io non potevo voler nient’altro se non la sua felicità; incominciavo a crescere e a capire sempre di più quanto male avesse fatto mio papà alla nostra famiglia, a me, a mia mamma, e mi convincevo sempre più che lei, la donna che mi stava crescendo, la donna che faceva più di un lavoro per non farmi mancare nulla, si meritasse questa felicità.
Passavano gli anni, mia mamma sembrava sempre più felice con Guglielmo, iniziarono a fare progetti per un futuro insieme e io iniziai a credere proprio che finalmente fosse arrivata quella persona che trattasse mia mamma come una regina, come nessuno aveva mai fatto prima. I progetti pensati piano piano iniziavano a prendere forma, iniziarono a costruire una casa e a pensare di andare a vivere insieme lì. Io iniziai la scuola media, uno dei primi grandi cambiamenti per i bambini, credevo che questo cambiamento mi avrebbe portata ad avere un po’ più di serenità rispetto alle elementari, purtroppo però non fu proprio come mi immaginavo. Iniziai questo percorso da sola, mettendo subito in atto il mio “amato” meccanismo di difesa contro tutti: allontanarmi, stare sola così da non rischiare di rimanere ferita o bullizzata.
Iniziate le medie, però, non iniziò solo un inferno a livello scolastico, ma quell’inferno si trasferì anche a casa: Guglielmo, l’uomo che credevo potesse finalmente portare della serenità a mia mamma, iniziò a bere a dismisura, iniziò a tornare a casa ubriaco sempre più spesso e iniziò a urlare contro mia mamma ogni volta alzando il tono. Proprio in quell’esatto momento in cui lui incominciò a comportarsi così, io cominciai a odiare casa mia, mi rinchiudevo più tempo possibile nella mia cameretta per isolarmi e lasciare fuori tutte quelle urla, tutti quegli insulti.
Non potevo più invitare nessuno a casa perchè avevo paura che lui tornasse prima dal lavoro e fosse già ubriaco e la vergogna che avrei provato sarebbe stata troppa, mi sarei sentita a disagio, e così non riuscivo mai a sentirmi uguale a tutte le mie compagne di classe che potevano invitare a casa le loro amiche o i gruppi di studio che si formavano in classe e tutta questa situazione mi feriva, mi faceva sentire fuori posto.
Passò il tempo e la situazione a casa cominciò a essere sempre più insostenibile per me, le urla diventano sempre più forti, e la paura che potesse succedere qualcosa di brutto mi portò a mantenere sempre l’orecchio teso per ascoltare ogni discussione. Un giorno quel qualcosa successe, quella paura si avverò, mia mamma e Guglielmo stavano litigando come sempre: il tono di voce molto alto e le parole usate molto forti, io e mio fratello maggiore eravamo entrambi in cucina con loro due, finchè Guglielmo iniziò a insultare mia mamma e mio fratello decise di prendere le sue difese. Questo fece nascere in Guglielmo una certa rabbia contro mio fratello, fino a quando pensò che le parole non fossero abbastanza, così cominciò a picchiarlo; io ero terrorizzata, avevo paura che Guglielmo potesse fare troppo male a mio fratello, mi tremavano le gambe, il cuore batteva all'impazzata, non ero mai stata così spaventata e, dopo che mio fratello venne preso a pugni diverse volte, io per la paura decisi di mettermi in mezzo tra i due, credevo che la mia presenza come ostacolo potesse fermare Guglielmo, ma non fu così. Guglielmo era disposto a venire addosso a me, per picchiare ancora mio fratello; quest’ultimo, dopo aver sbattuto la testa contro il muro, decise di andarsene di casa e andò a vivere per un po’ a casa di mia sorella. Mia mamma inizialmente non trovò il modo di reagire perché divisa dall’amore che provava per queste due persone così importanti per lei; con gli occhi bendati dall’amore decise poi di continuare la sua relazione, pensava che si potesse sistemare tutto. Andammo in montagna per un paio di giorni, ma le liti non cessarono. Un giorno, quando la situazione stava davvero degenerando , però mia mamma decise di chiudere, di lasciarlo, ma lui non accettò questa decisione e impazzì: uscì da casa nostra, andò al bar e tornò a casa con quattro birre da sessantasei centilitri, continuò a insultare mia mamma, continuavano a litigare, io mi spaventavo sempre di più, iniziai a tremare, e ogni minuto che passavamo con lui in casa il mio cuore batteva sempre più velocemente, lui non voleva andarsene.
A un certo punto della litigata tirò un calcio al vetro di una porta di casa e lo ruppe in migliaia di pezzi che si sparsero per tutto il salotto; io urlai dallo spavento, nessun vicino venne in nostro soccorso. Lo so, fa quasi ridere. Quegli stessi vicini che ascoltano sempre tutto, e che non vedono l’ora di condividere con il paese tutto quello che succede nella vita delle altre persone, quella sera, dopo un urlo terrorizzato di una bambina, avevano i tappi nelle orecchie.
Torniamo però alla litigata... I vetri erano ovunque e mia mamma stava cercando di ripulire, quando Guglielmo prese due pezzi di vetro e li nascose sotto il cuscino del divano. Sia io che mia mamma ce ne accorgemmo e cercammo di farglieli buttare, con scarsi risultati; a un certo punto però il troppo alcool che aveva in corpo fece effetto e gli fece venire sonnolenza, così andò a dormire e io e mia mamma ce ne andammo dai genitori di lui, e dormimmo lì.
La notte passò in quiete , fino a quando, la mattina seguente, il telefono di mia mamma iniziò a squillare. Era lui, sapeva dove eravamo, ed era lì fuori che aspettava mia mamma. Lei uscì ma per fortuna non da sola, al seguito c’era il papà di Guglielmo e io rimasi in casa.
Guglielmo, non contento di aver rotto la sera prima il vetro della porta, decise di rompere con una mazza i finestrini, il parabrezza e il lunotto della nostra macchina. Io dall’interno della casa riuscivo a sentire solo il rumore dei vetri che cadevano per terra e le urla di Guglielmo contro mia mamma; poi iniziai a sentire lei gridare, Guglielmo la stava prendendo a calci, ma fortunatamente il papà di Guglielmo si mise in mezzo tra i due così da salvare la vita a mia mamma.
Dopo quel giorno si susseguirono minacce e persecuzioni e io continuavo a vivere con l’ansia. Un giorno si presentò a casa nostra senza avvisare, ubriaco; non voleva andarsene, allora uno dei miei fratelli chiamò i carabinieri. È inutile dire che arrivarono dopo tantissimo tempo e il loro intervento non servì a molto, Guglielmo divenne aggressivo, e iniziò a minacciarci di morte davanti a loro, ma loro non fecero nulla, lo lasciarono andare, gli diedero in mano le chiavi del suo furgone e non si fecero problemi a farlo andare via, nonostante tutto. Dopo questa scena, e dopo diverse denunce, mia mamma perse le speranze di avere giustizia e io iniziai ad avere attacchi di panico ogni volta che vedevo un furgone bianco, e ogni volta che vedevo qualsiasi tipo di aggressività.
Purtroppo alcuni di questi traumi li porto ancora con me ogni giorno. Però ho deciso di raccontare questa storia per mostrare il punto di vista di una figlia che ha vissuto anch’essa le violenze subite dalla sua mamma e per far sentire meno sole tutte le persone che hanno passato quello che ho passato io.
N.N.Mi ha detto che non aveva un colore preferito, così ho deciso che l’avrei aiutato a trovarne uno.
Ho provato a mostrargli il cielo sia di giorno che di notte, ma non gli piaceva nè l’azzurro nè il nero; così gli ho mostrato il sole, ma non gli piaceva il giallo; gli ho colto un fiore, ma non gli piaceva il rosa o l’arancione o il viola.
Mentre stavamo guardando la foresta per vedere se gli piaceva il verde, sono caduta su una roccia e mi sono tagliata il ginocchio. In quel momento si è reso conto che gli piaceva il rosso.
Gli piaceva così tanto che, un giorno, mi ha lasciata sul pavimento, in una pozza… perché amava il rosso… e amava me.
Elena Ranzani
Mi ricordo una ragazza che si chiudeva in stanza,
poi copriva con il trucco,
ogni suo attacco d’ansia.
Faceva finta di niente
Alla domanda: – Come stai? – rispondeva sempre – bene!
Ma poi bene non ci stava mai!
Non si sentiva all’altezza del mondo
troppa paura di sbagliare o di toccare il fondo!
Non si fida di nessuno
lo si legge nei suoi occhi
il voto che ti rende muto!
Giulia Corsaro
Ormai da qualche ora è calata la notte. Il cielo si è riempito di stelle e di fianco a me sento il riecheggiare delle onde del mare che, con leggerezza, si infrangono sulla spiaggia sabbiosa.
Alzo gli occhi da terra per contemplare l’infinito, l’immenso orizzonte scuro, illuminato solo dalla flebile luce della luna piena e dai lampioni collocati nei pressi delle numerose basi di controllo poste alle mie spalle. Stranamente oggi non si sentono i rumori estenuanti degli elicotteri che vanno e vengono sopra le coste.
Sarebbe il giorno giusto per fantasticare e lasciarsi cullare dal rumore cadenzato del mare e la fresca brezza che spira, ma la mia mente è affollata di pensieri che scalpitano, come cavalli indomiti.
Ad un certo punto sento come una morsa che mi stringe il cuore e distinguo la rabbia che ancora una volta sta per riaffiorare. Nonostante non sia una persona rancorosa, provo rimorso, soprattutto quando le persone, oltre a non comprendere gli ideali per cui strenuamente mi batto, per essi mi incriminano.
Oggi è stata una giornata estremamente caotica ed i sentimenti che ora sto provando, non aiutano a superarla. Infatti, dopo una lunga notte insonne fatta di ansia e continua attesa, di prima mattina ho messo in atto il piano che per lunghi mesi ho programmato minuziosamente con i miei più fedeli commilitoni: attaccare la fazione ribelle avversaria dei Black Circles, così da ottenere anche solo un minimo vantaggio nella guerra contro i nostri acerrimi nemici. La difficoltà maggiore non era tanto attaccare la base nemica, quanto più non farmi scoprire dai miei superiori.
L’incursione non è stata affatto complessa, veloce e lineare rispetto al piano che precedentemente avevo ideato. È bastato entrare nella loro centrale di controllo, installare un server che elaborasse le informazioni che giungono nei loro computer e trasmetterle verso i nostri ed il gioco è fatto. Abbiamo scaricato centinaia di dati su progetti di nuove tecnologie militari, strategie nemiche e rapporti sulla condizione del paese avversario: sono talmente tante informazioni che non ho nemmeno avuto il tempo di visionarle tutte, per ora sono su una memoria rigida nel taschino della mia uniforme, ci penserò più tardi...
È stata una delle azioni più rapide ed efficaci che abbia mai compiuto da quando sono nell’esercito e - profondamente sicuro della sua buona riuscita - ho deciso di non ascoltare le direttive dei miei sovrintendenti, assolutamente contrari alla modalità di questa incursione. A differenza loro non vedo sempre necessario distruggere qualunque cosa senza criterio, come loro volevano fare anche in questa occasione, radendo al suolo la base avversaria; era, piuttosto, più proficuo entrare in sordina, accaparrandosi informazioni segrete sul loro conto, così da avere vantaggi immediati nella guerra.
Ora tale conflitto è diventato lo scopo della mia esistenza: ormai nulla ho più da perdere. Questa straziante guerra mi ha portato via tutto, la famiglia, gli amici, la casa, la classe sociale … Non mi rimane più nulla e ciò che desidero maggiormente è riprendermi quello che la guerra in questi lunghi anni mi ha tolto.
Nato da nobile stirpe sono un principe e fino a poche ore fa avevo un ruolo di modesto prestigio nell’esercito, adesso non mi rimane che una destituzione a soldato semplice.
Sono a conoscenza del fatto che tutte le azioni hanno conseguenze, ma non sapevo che ciò che sarei andato a fare quest’oggi mi avrebbe generato una tale umiliazione. Però, forse a causa del mio orgoglio, forse per altro, non riesco a provare neanche un accenno di senso di colpa.
Per quanto in questo momento sia dibattuto, non devo perdere d’occhio la costa, non ci si può fidare di nessuno in tempi di guerra ed il mio ruolo di soldato mi prescrive di controllare l’arrivo di eventuali imbarcazioni sospette. Nel silenzio generale un sordo tonfo richiama la mia attenzione, mi guardo attorno sospettosamente, ma non capisco da dove provenga, fino a che all’orizzonte non scorgo un vascello di piccole dimensioni.
L’esigua quantità di luce non mi permette di scorgere maggiori dettagli dell’imbarcazione che sta giungendo, data però la direzione da cui sta provenendo e l’orario in cui giunge a destinazione, ho il sentore siano commercianti d’armi giunti per rifornire la nostra base di munizioni.
A Future War di Alessandro Pace
Tecnica: digitalePioveva quando l’ispettore scese tutto impettito dal suo trasporto. Non era certo una novità, a Ras Ahdar. In quella parte di Yandal pioveva, secondo i dati conservati al presidio geografico militare, 352 giorni su 365: precipitazioni improvvise e violente che scuotevano alberi, mezzi e persone come se fossero fuscelli. All’ispettore erano bastati due metri sotto l’acqua scrosciante per perdere il proprio portamento impettito: stretto nel suo giaccone impermeabile, ora procedeva a capo chino, lottando contro la furia del vento. I soldati che lo accompagnavano non se la stavano cavando molto meglio, notò con compatimento la donna che lo stava aspettando ritta sulla banchina.
Un mesetto qui gli farebbe bene. Come possono affrontare gli Sputafuoco se non sanno neanche camminare sotto la pioggia? Come gli altri reparti venivano addestrati, però non erano affari suoi. Quindi si limitò a farsi avanti, fare il saluto militare e salutare con un falso sorriso lo scocciatore che era venuto a farle visita.
“Buonasera, ispettore Malik. La stavo aspettando” Le sue parole si udivano a stento sotto la pioggia battente. Con un patetico tentativo di darsi un contegno Malik le tese la mano. “Salve, comandante Elmas. È un piacere fare la sua conoscenza. Ho molto sentito parlare di lei”
Per Kari Elmas, 22 anni, comandante del campo di addestramento di Ras Ahdar e ideatrice dell’innovativo e incredibilmente efficiente circuito ALMAZ, il piacere non era reciproco.
Odiava le ispezioni. Non c’era niente di peggio che dover fare da guida turistica a gente che del suo metodo di addestramento sapeva poco quando le andava bene, trovava difetti ovunque senza proporre soluzioni e trascorreva il giro esterno gettando fugaci e desiderose occhiate all’asciutto centro di comando.
Purtroppo, le ispezioni erano i pioli della scala per salire di rango, quindi condusse docilmente il fradicio ispettore nel centro di comando del campo. “È sempre così, qui, Elmas?” Chiese l’uomo, liberandosi dell’impermeabile zuppo d’acqua.
“Oh no.” Rispose in tono allegro la ragazza, porgendo la propria giacca a uno dei cadetti. “Di solito è molto peggio.” Non stava cercando di impressionare l’ispettore. Era la pura e semplice verità.
“Il protocollo non indica l’apposizione del numero di matricola sulla schiena.”
Fece notare l’ispettore, accennando ad un gruppo di cadetti, sul blu delle cui uniformi spiccavano in lettere fluorescenti i loro numeri di matricola.
Ed ecco che incomincia… Pensò Kari, preparandosi psicologicamente a rispondere pazientemente alle domande idiote dell’ispettore senza mancargli di rispetto o prenderlo a pugni. Poi sfoderò il suo migliore sorriso e incrociò le braccia al petto, in modo da contrastare la tentazione di sparargli un colpo secco alla nuca e finirla lì. “Con tutto il rispetto, signore, mi arrivano cento nuovi ragazzi ogni due settimane. Non ho né il tempo né l’umana capacità di memorizzarne nomi e facce. Ma non si preoccupi, la vernice viene via con l’alcool”
L’uomo annuì, decidendo saggiamente di non fare ulteriori questioni. Bravo, ragazzo. Le darò la medaglia per “ispettore meno fastidioso”, che gliene pare?
La successiva domanda dell’uomo, però, rese subito chiaro il perché non avesse insistito. “Quanti di loro sono pronti a combattere?”
Non è un giro turistico, allora. È venuto per fare il raccolto. Pensò, fissando distrattamente la finestra, sotto il cui velo di pioggia si potevano intravedere le barricate dei cadetti.
Era il secondo incarico degli ispettori. In mancanza di truppe, andavano per i vari campi di addestramento, raccogliendo carne da macello con il discorso prestampato di: “In tempi normali, il vostro addestramento non sarebbe considerato completo. Ma questi non sono tempi normali e, siccome voi siete la migliore gioventù di cui disponiamo, vi chiediamo di fare un sacrificio…” E così via.
“Quanti ne vuole, signore” Non era vero. Almeno un terzo dei ragazzi che aveva lì erano ancora dei bambini piagnucoloni e pasticcioni, non certo soldati del Reparto Speciale Anfibi.
Ma la domanda dell’ispettore era retorica, una di quelle che, se si voleva fare carriera nell' Armata Federale, avevano un’unica risposta possibile. La guerra si trascinava da troppo tempo perché Yandal potesse permettersi di fare differenze tra uomini e ragazzini.
“Ecco, comandante… ha presente quell’incursione contro i Black Circles di circa un mese fa?”
Kari ce l’aveva presente eccome. Quando aveva deciso di intraprendere la carriera militare, le era per un po’ balenata l’idea di unirsi ai Black Circles, che all’epoca le erano sembrati molto più diretti ed efficienti dell’Esercito Regio, piagato da inutile burocrazia e ufficiali incompetenti. Da quando gli incapaci ribelli militanti si erano fatti sottrarre files che avevano portato gli Sputafuoco in vantaggio, Kari si era trovata molto, molto contenta di essere rimasta con l’esercito vero e proprio.
Un fulmine squarciò il cielo, illuminando i volti di Kari e dell’ispettore. “Si, ho sentito.” Rispose lei, con un accenno di domanda nella voce. Aveva come il presentimento che l’uomo stesse prendendo alla larga uno spiacevole discorso. E se qualcuno sentiva di dover procedere con cautela con la gelida Kari Elmas, stava per dire qualcosa di molto, molto spiacevole.
La risposta arrivò dopo mezzo minuto di farneticazioni. “Dobbiamo chiudere il campo.” Ah. Kari prese la notizia con apparente misurata grazia, mentre dentro di lei scoppiava un temporale tale da rivaleggiare quello fuori. Vi aveva lavorato per due anni. Avrebbe dovuto essere il suo trampolino di lancio. E invece…
“Non abbiamo risorse a sufficienza per continuare ad approvvigionare una postazione così defilata.”
Il campo di addestramento di Ras Ahdar era isolato e fuori mano. Lontano sia dal cuore degli scontri sia da importanti vie di comunicazione, era circondato da una vegetazione lussureggiante e insidiosa, popolata da strane creature e ancora più strani individui. Le dure condizioni ambientali lo rendevano l’ideale per l’applicazione del circuito ALMAZ, mentre l’isolamento lo proteggeva dai codardi attacchi incendiari di Xalat. Quest’ultima qualità, però, a quanto pareva si era appena trasformata in un difetto.
“Come mai hanno mandato lei, Malik? Non spetterebbe a qualcuno di grado più alto del suo dare la notizia?”La comandante aveva inghiottito il boccone amaro, ma non era del tutto riuscita a mandare giù il fiele. L’ispettore o non lo notò, o finse di non curarsene. “L’ufficiale che gestisce la zona in cui lei rientra è morto stamattina. L’intera Mezzaluna Yarimay è nel caos più totale.” L’intera Yandal è nel caos più totale. Pensò Kari con amarezza.
“È per questo che ho un’altra richiesta per lei, comandante Elmas. La vogliono sul campo”
La richiesta, che era il termine gentile per ordine, non era affatto una sorpresa. Con l’ufficiale capo della Mezzaluna morto, sarebbe rimasto un posto vacante nella scala gerarchica. Un’addestratrice il cui campo era stato chiuso era una persona senza qualcosa da fare. Era naturale che la richiamassero all’azione. Ciò non significava che l’idea le piacesse.
L’uomo, intanto, era andato avanti a pontificare, dimentico che l’utilizzo del termine richiesta richiedesse - appunto - una risposta dell’interlocutore. “Baderò io allo svuotamento del campo e al ricollocamento delle matricole non ancora formate.” Kari sapeva che pochi, se ce ne sarebbero stati, sarebbero ricaduti in questa categoria. Il saper tenere in mano un fucile e premere il grilletto era ormai sufficiente per essere considerati pronti.
“Lei prenderà le sue duecento unità migliori e andrà all’imbocco della Mezzaluna Yarimay. Attenderà lì ulteriori ordini”
Un’intera unità speciale sotto il mio comando? Considerò Kari. Se non fosse che alla Mezzaluna Yarimay la mortalità è del 53%, non sarebbe affatto male. Non essendo una proposta, bensì un ordine, Kari si concentrò sul lato positivo.
“212-03, a rapporto” Il ragazzo che si fece avanti aveva l’età di Kari, o poco meno. Era alto, biondo e dai lineamenti dolci, ma con sempre un’espressione determinata e seria sul viso. Kari non aveva dubbio che gli sarebbe bastata un’azione di media efficacia per finire a fare il ragazzo copertina dell’esercito. Tra i cadetti in addestramento, era il più promettente.
“Radunami gli altri promossi” Ordinò. Erano quelli che erano riusciti ad eseguire il circuito ALMAZ agli standard posti da Elmas. Quelli che sarebbero stati più che pronti per l’azione, ma che lei aveva deciso di tenere al campo un mese di più, per capire se qualcuno di essi potesse avere la stoffa del comando. “Poi trovamene altri…” Fece un rapido conto mentale “173 che non siano totali imbecilli. A tutte le reclute del campo, ordina di togliere la vernice dalla schiena. Si va in guerra” Le sue ultime parole furono sottolineate dal rombo di un tuono.
Siamo sul drammatico, ora? Chiese, ironica, rivolta al cielo in tempesta. Come se qui non ci fosse un temporale un giorno sì e l’altro no e io non mandassi ragazzi a morire tutte le settimane. Poi tornò a fissare gli occhi blu del soldato, che nel frattempo aveva pensato male di farle una domanda stupida. “T-tutti?”
La sua faccia di pesce lesso faceva venire a Kari la voglia di battergli le mani davanti, solo per assicurarsi che non stesse dormendo. Non avesse avuto l’ispettore a fianco, l’avrebbe fatto. Ma dato che l’impiccione aveva la facoltà di riportare ai propri superiori, Kari non voleva dare l’impressione di aver allevato soldati scemi. Così, si limitò a rispondergli, secca:“Tutti coloro che non vogliono diventare la quinta tribù indigena della zona. Il campo viene chiuso.”Il ragazzo chinò la testa e filò via.
La sua faccia di pesce lesso faceva venire a Kari la voglia di battergli le mani davanti, solo per assicurarsi che non stesse dormendo. Non avesse avuto l’ispettore a fianco, l’avrebbe fatto. Ma dato che l’impiccione aveva la facoltà di riportare ai propri superiori, Kari non voleva dare l’impressione di aver allevato soldati scemi. Così, si limitò a rispondergli, secca:“Tutti coloro che non vogliono diventare la quinta tribù indigena della zona. Il campo viene chiuso. ”Il ragazzo chinò la testa e filò via.
Due giorni dopo, la neonata Unità speciale Anfibia UA-51 raggiunse la base navale di Hast, nella parte di Yandal del golfo della Mezzaluna Yarimay. Si erano lasciati alle spalle Ras Ahdar e le sue piogge torrenziali, ma non avevano ancora visto il sole. Hast, centro di comando delle operazioni nella Mezzaluna, era avvolta nella nebbia e il cielo era grigio quanto l’oceano, tanto che a stento li si distingueva. Con tutto il sangue che era scorso nell’imbocco durante la strenua difesa contro Xalat nella settimana precedente, Kari si meravigliava che l’acqua non fosse rossa.
La prima missione arrivò nel giro di un giorno.
“Ha un obiettivo, comandante Elmas. La base di Xalat di Qume Navim nell’Alta Mezzaluna Yarimay”
Attaccare una base fortificata e ben difesa come Qume Navim, nel pieno del territorio di Xalat, mentre noi ormai nella Mezzaluna siamo sulla difensiva? Sorrise al nuovo ufficiale, Cargon. Audace. Mi piace.
“Sarà fatto, signore.”
Le furono date tre ore per preparare il piano. Lei ce ne mise due. Un quarto d’ora dopo, la sua unità era riunita sul 3T, la punta di diamante della marina di Yandal, che fungeva da nave, sottomarino e poteva distaccare moduli d’assalto terrestri.
“Immergiamoci.” Ordinò senza perdere tempo a 212-03. “Che la corrente giri a nostro favore” Recitò il ragazzo, premendo il pulsante di avviamento. “E il terreno non fermi i nostri piedi” L’unità speciale UA-51 rispose in coro.
Martina Cucchi, Elisa Frigerio, Benita Sagbohan, Alessandra Zagaria
Cadendo dal suo mondo di fantasia
In uno pieno di follia
Cadendo dal mondo dei balocchi
Aprendo finalmente gli occhi
Cadendo dal mondo che fino ad ora l'aveva protetta
A buttarsi giù era stata costretta
Quella povera ragazza cieca per scelta
Che da questo mondo voleva andarsene alla svelta
Voleva il suo piccolo mondo immaginario
Che cambiava ogni volta scenario
Ma la realtà è ben diversa,
Le è sempre stata avversa
Perché nel cuore lei sapeva
Che da quel piccolo mondo dipendeva
E Cadeva, cadeva, sempre più nel baratro cadeva…
N.N.
Era lì. Dopo due settimane di ricerca, eccolo lì, in un lussuoso palazzo nello spazio controllato dai Separatisti. Non si era nemmeno disturbato a cercare uno sperduto, sconosciuto pianeta o un’abitazione che attirasse meno l’attenzione. Era chiaro che Sidious non aveva cercato affatto di nascondersi e ciò infastidiva non poco Vader. Alla fine, però, poteva considerarsi una buona cosa. Lo rendeva arrabbiato e la rabbia gli dava potere.
Scalò l’edificio, non curandosi degli sguardi che riceveva dalle persone nelle strade. Palpatine era al ventesimo piano, in una stanza luminosa e spaziosa, la cui finestra era grande quanto quella del suo ufficio a Coruscant, sul cui orlo...
Vader troncò bruscamente i propri pensieri. Era arrivato. Prese un respiro profondo e…
“Anakin, per piacere, entra” Disse Sidious tranquillamente.
Vader strinse la mano metallica a pugno. Maledizione! Aveva sperato di prenderlo di sorpresa. Che illuso era stato. Non aveva speranza di prendere Darth Sidious, noto Lord dei Sith, l’uomo che aveva la galassia in pugno da più di un decennio, di sorpresa.
Saltò attraverso la finestra, usando la Forza per proteggersi dalle schegge di vetro. Atterrò nel mezzo della stanza, i pezzi della finestra spezzata fluttuanti attorno a lui come un’aureola, illuminati dalla luce blu della sua spada laser che si stava accendendo.
Sidious si voltò lentamente verso di lui. “La furtività non è mai stata uno dei tuoi punti forti, Anakin” Disse con un sorriso di scherno. “Nel tracciare qualcuno hai la discrezione e delicatezza di una mandria di bantha. E poi… La vendetta è un piatto che va servito freddo. Bisogna premeditarla bene, assicurarsi che funzioni tutto alla perfezione. Sono sicuro che tu lo sappia questo, eppure sembri molto ansioso di affrontarmi. Cosa vuoi veramente da me, Vader?”
Gli occhi gialli del ragazzo furono attraversati da un lampo di furia. “Risposte.”
Il Sith sfoderò la propria spada. I suoi movimenti erano lenti, pigri, intesi a innervosire l’impaziente avversario. .
Prevedibilmente, la sua tattica colse nel segno: xon un urlò di pura ira, il ragazzo attaccò, maa spada rossa era lì a bloccare la sua senza che riuscisse nemmeno ad avvicinarsi al corpo del Sith. Vader sapeva già che quello sarebbe stato il duello più duro della sua vita.
Fissò i suoi occhi gialli in quelli del suo nemico, dello stesso colore.. Quante volte li aveva guardatii, credendoli marroni convinto appartenessero ad un amico, ad un mentore? Quante volte aveva, invece, scrutato in iridi gialle e malvagie lottando per la propria vita? Non avrebbe mai pensato che distinguere il bene dal male sarebbe diventato maledettamente più complicato… E che lui avrebbe posseduto lo stesso malefico sguardo di coloro a cui aveva sempre dato la caccia.
Ma ora non c’era tempo per questi pensieri . Ora doveva combattere.
Per il primo minuto, Vader era convinto che avrebbe potuto vincere. Quello dopo era sulla ritirata, cercando disperatamente di non finire tagliato a metà. Dopo altri cinque, il combattimento era di nuovo alla pari. Forse. Poi, finalmente, la sua spada laser oltrepassò la difesa di Palpatine, disarmandolo. Costrinse il Sith a terra, premette la punta incandescente della propria lama contro il suo torso.
Palpatine sorrise - gentilmente Anakin avrebbe un tempo detto. Ora ne vedeva il veleno. - “Beh? Quali interrogativi ti tormentano, ragazzo mio?”
Vader si irrigidì al familiare appellativo. Le domande che lo perseguitavano dalla notte dell’assalto al Tempio si rovesciarono fuori dalla sua bocca. “Tutte le visioni si avverano? Sarò io ad uccidere Padmè? C’è un modo di cambiarlo?”
Il Sith si limitò a ridere. Vader fece affondare la propria spada laser nella carne dell’uomo. Sidious non diede segno di provare dolore.
“L’unica cosa che ti separa dalla morte sono quelle risposte. Rispondimi e la renderò veloce” Ordinò Vader, gli occhi infiammati d’ira.
“La conoscenza non arriva così, Anakin. Bisogna dedicarsi, se si vuole imparare e, prima di tutto…” Palpatine fece una smorfia e chiuse a pugno la sua mano bianca. La spada blu si ritirò e spense, poi volò via dalle mani del proprietario. Il ragazzo venne gettato a terra.
“... l’allievo deve rispettare il proprio insegnante” Concluse il Sith, la sua faccia deforme modellata in un ghigno. Vader combattè invano per rialzarsi contro la presa del Sith, poi si arrese, ricadendo sul duro marmo. Non l’ho mai sconfitto. Si rese finalmente conto. Stava semplicemente giocando con me, come sempre.
“Kenobi non ti ha insegnato il rispetto?” Chiese Sidious in tono di scherno. Ci ha provato. Pensò Vader. E ha fallito.
Il Sith continuò. “Ah! Un insegnante così incompetente, Kenobi. Aveva in mano un tesoro e l’ha sprecato. È debole, debole e spaventato, come il suo maestro, quel Jinn. È un peccato che la linea di Dooku sia caduta così in basso. Quella ragazza Togruta è stata l’ultima, patetica goccia, ma fortunatamente non è durata molto.”
Le parole fecero scattare qualcosa dentro Vader. La sua mente venne invasa da immagini: Qui-Gon, che affrontava l’intero Consiglio per un bambino che aveva appena incontrato; Obi-Wan che lo conduceva in una missione dopo l’altra insegnandogli a controllare e usare bene il proprio potere; Ahsoka, che, pur essendo solo una ragazzina, combatteva al suo fianco come se fosse un’adulta.
NON OSARE PARLARE DI LORO IN QUEL MODO! Le parole uscirono dalla sua bocca sotto forma di un indefinito urlo di battaglia, mentre il ragazzo sconfiggeva la presa di Forza di Palpatine e si tirava in piedi.
“Oh, sì, è questo che avevo visto in te, che mi aveva fatto sperare. Quest energia che trovi nel difendere chi ami, questa speravo di trasformare…” L’uomo non riuscì a finire la frase.
Anakin, infatti, ne aveva avuto abbastanza. Puntò la propria mano verso il Sith, lasciò che l’istinto lo guidasse. Un lampo uscì dal palmo della sua mano. Forte!
Il Sith lo fermò e soffocò facilmente con la propria. Eddai! Il lampo si spense nella mano di Anakin, solo per riapparire in quella di Palpatine.
La carica colpì il ragazzo che ricadde a terra. “Tredici anni, ho sprecato con te. Per tredici anni ho aspettato che tu fossi pronto a prendere il tuo posto al mio fianco e a governare la galassia con me. Che grande delusione che sei, Anakin Skywalker.”
La dolorosa energia si dipanava attraverso il corpo di Anakin, in preda alle convulsioni. I suoi muscoli urlavano di dolore e la sua visione iniziò a farsi sfocata. Sidious lo stava uccidendo.
Il suo piano di ottenere la risposta che cercava, ucciderlo e poi ritornare da Padmé e da suo figlio non ancora nato, era fallito. Lui aveva fallito.
Mi dispiace Padmé. Avrebbe voluto essere in grado di mandare i propri pensieri alla moglie, come con l’Holonet. Desiderava così tanto dirle addio, ora che era sicuro sarebbe stato per sempre. Ma non poteva. Tutto ciò che poteva fare era ripetersi quanto gli dispiacesse, sperando che lei lo sapesse. Sperando che potesse perdonarlo. Mi dispiace, angelo, ho distrutto tutto. Ma tu e il bambino sarete al sicuro, senza di me. Pensò mentre una lacrima scendeva lungo la sua guancia.Ti amo, Padmé.
Improvvisamente, una forma si frappose tra lui e Palpatine, deviando la scarica elettrica.
Anakin sospirò di sollievo e iniziò a strisciare verso la propria spada.
“Kenobi, che sgradita sorpresa.” La voce di Palpatine gli fece alzare lo sguardo verso il suo misterioso salvatore. Obi-Wan? Che ci fai qui? Si chiese, afferrando la spada laser e alzandosi in piedi, diretto verso il Jedi che aveva ingaggiato un combattimento contro il Sith ed era in disperata difesa. Obi-Wan, però, non appena vide Anakin in piedi iniziò a ritirarsi verso la finestra infranta. Oh no, non ti puoi tirare indietro ora. Possiamo sconfiggerlo. Dobbiamo sconfiggerlo. “Scappa, Jedi. Vivi per combattere un altro giorno.”
Il disprezzo e lo scherno nella voce di Palpatine fece avvampare di rabbia Anakin. Sono forse i Jedi addestrati ad arrendersi senza neanche provarci? Beh, fortuna che io non sono uno di loro.
Attaccò Palpatine dal fianco. Il Sith parò con facilità e i due iniziarono a danzare sull’orlo di venti piani di vuoto. “Anakin! Salta!” Urlò Obi-Wan, un piede già in aria.
Scordatelo, Jedi. Lo sconfiggerò e otterrò quelle risposte, o morirò provandoci. Giurò Vader, portando un altro colpo. Obi-Wan lo afferrò proprio mentre la lama di Sidious gli feriva l'addome. Insieme, saltarono nel vuoto.
Quando Vader aprì gli occhi, era in una stanza piccola, grigia e spoglia. Obi-Wan era seduto su una sedia di fianco a lui. Aveva borse scure sotto gli occhi e sembrava esausto.
“Maestro.” Lo salutò freddamente. L’uomo accennò un sorriso triste. “Ciao, Anakin”
“Questo non è il mio nome” Dichiarò in tono amaro.
“Lo è, l’hai solo dimenticato.” Replicò pazientemente il Jedi. Vader tentò di mettersi a sedere. Obi-Wan lo rispinse giù sul letto. “Scordatelo. Sei ferito”
Vader non disse nulla. In effetti, il suo fianco sinistro gli faceva davvero tanto male. Avrebbe dovuto ascoltare il maestro Jedi per ora.
“Sai, una ferita di spada laser non è certo un toccasana. E l’essere fulminato di certo non aiuta”
Le pareti grigie sembrarono svanire al suono di quelle parole. Anakin si ritrovò di nuovo nell’ infermeria del Tempio, con Obi-Wan che gli faceva la predica per l’ennesima cosa avventata che aveva fatto e Magistra Che che minacciava di rinchiuderlo in una vasca di bacta e non lasciarlo più uscire. Sbatté le palpebre.
La grigia stanza riapparve, ma l’espressione di Obi-Wan rimase quella dei suoi ricordi.
“Che diamine stavi pensando di fare?”
Un sorriso involontario si fece strada sulle labbra di Anakin, ma la sua voce rimase dura quando rispose: “Ucciderlo”
“Anakin, quando sono arrivato eri a tanto così dall’essere fritto. E, neanche un minuto dopo, hai scelto ancora di combattere invece che fuggire. Perchè?”
Irritazione iniziò a turbare la fragile calma del Jedi oscuro.
“Lo voglio morto. È un concetto troppo difficile perché la tua mente Jedi lo comprenda?”
Obi-Wan sospirò e appoggiò una mano sul braccio del suo ex padawan, nel tentativo di calmarlo. “Anch’io lo voglio morto. Ma quello che stavi facendo lì era un suicidio”
Tutto ciò che faccio è un suicidio per te, vecchio mio.
Sogghignò al pensiero, ma rispose in modo serio. “Ce l’avrei potuta fare con il tuo aiuto. Insieme, come contro Dooku. Ricordi?”
Il fantasma di un sorriso apparve sulle labbra del Jedi, ma sparì in fretta. “Anakin, non possiamo semplicemente uccidere Palpatine. La Repubblica ancora pensa che sia il loro virtuoso e capace Cancelliere. Se lo uccidiamo senza trovare prove di chi sia in realtà, diventerà un martire. L’odio contro i Jedi aumenterà ulteriormente e il Senato…”
Vader si alzò bruscamente a sedere. “Il Senato ha cercato di condannare a morte una sedicenne innocente. Tranne Padmé, sono tutti malvagi e corrotti. Devono essere eliminati.”
Le parole finalmente riuscirono a far perdere al Negoziatore la sua leggendaria calma.
“E poi? Chi governerà la galassia? Tu? Pensi che tua moglie lo accetterebbe?”
Anakin si zittì. Sapeva che sua moglie, da paladina della democrazia qual era, non avrebbe mai approvato una dittatura al posto della Repubblica, fosse anche con a capo suo marito... Che avrebbe lasciato lei al governo. È un peccato. La galassia sarebbe un posto molto migliore se tu fossi al timone, amore.
“Hey, come fai a....?” Chiese invece, mettendo da parte l’argomento “politica”. Non lo sapeva, vero? Aveva dei sospetti, ma l’ho convinto che non erano veri… O no?
Obi-Wan ridacchiò. “Non sono cieco, Anakin. Sapevo che c’era qualcosa tra voi due. Dopo… beh, sai dopo cosa, Padmè è stata così gentile da darmi i dettagli. A proposito, congratulazioni.”
Il tono di Obi-Wan non era di scherno. Era veramente felice per l’amico. Anakin sorrise, sorpreso, e consentì al maestro Jedi di aiutarlo a ritornare sdraiato.
Grazie alla combinazione tra quel po’ di conoscenze di tecniche di guarigione Jedi che Obi-Wan possedeva e la caparbietà di Anakin, quest’ultimo riuscì a rimettersi in piedi nel giro di un paio di giorni ,. ue giorni molto tesi. Obi-Wan aveva tentato di far parlare Anakin di quella notte e delle settimane che erano seguite, ottenendo un profondo taglio sulla guancia e diversi lividi dovuti alla perdita di controllo di Vader sia sulla propria rabbia che sulla Forza.
Trattandosi di un mezzo Sith ferito e il suo ex maestro Jedi che condividevano 5 metri quadrati di spazio, però, nel complesso le cose erano andate abbastanza bene.
Quando fu in grado di camminare dal letto al bagno senza aiuto, tuttavia, Anakin iniziò a farsi una domanda. E ora? Che cosa faremo ora?
Lanciò un’occhiata ad Obi-Wan che, seduto su una traballante sedia, stava leggendo qualcosa sul suo inseparabile datapad. Anakin sapeva che aveva dei cacciatori di taglie alle calcagna e che la taglia era stata messa dal Consiglio. Ma perchè Obi-Wan avrebbe dovuto disturbarsi a rimetterlo in sesto?Anche se avesse avuto l’intenzione di portarlo a Coruscant vivo, avrebbe potuto trascinarlo alla capitale non appena fosse stato fuori pericolo. E perchè…
“Obi-Wan?” Iniziò, cautamente. L’altro mugugnò qualcosa, chiaramente concentrato su ciò che stava facendo. “Perchè un maestro Jedi sta salvando la vita ad un Sith?” Sputò fuori, con più durezza di quanta intendesse.
Obi-Wan si girò verso di lui e sorrise. “Ho davvero bisogno di spiegartelo?”
Il calore della risposta avvolse Anakin, ma lui lo tenne a distanza. Non si fidava più ciecamente di lui ed era sicuro che valesse il viceversa. Erano successe troppe cose.
“Potrei ucciderti” Non era davvero una minaccia. Era un test, per vedere come il maestro Jedi avrebbe reagito. L’uomo inarcò le sopraciglia e curvò le labbra in un mezzo sorriso di sfida. “Ci puoi provare, se proprio ti va.”
Anakin sbuffò. “Sei davvero snervante, Obi-Wan Kenobi, lo sai questo?”
Non c’era astio nelle sue parole: era il loro solito, continuo bisticciare e prendersi in giro a vicenda. Il mezzo sorriso del suo amico si allargò in uno intero e caloroso. Ad entrambi era mancato il loro giocoso litigare.
“Il maestro impara dall’allievo come l’allievo dal maestro” Rispose il jedi, col tono calmo, misurato e saggio dei maestri del Consiglio, ma velato da una sottile beffardaggine.
Anakin scoppiò a ridere. Era la prima volta che rideva, da quando si era risvegliato nella stanza grigia. Non che nelle settimane precedenti avesse riso.
Obi-Wan lo guardò per qualche istante, poi la sua espressione si rattristò improvvisamente e disse: “Non avrei dovuto lasciarti da solo. Quando sono andato ad Utapau e dopo, quando ti ho lasciato andare dietro a Palpatine da solo… Avrei dovuto restare”
Ed ecco che ci risiamo! Ti ho detto che non ne voglio parlare, sei sordo!?
La compassione nel tono di Obi-Wan infastidiva Anakin ancora di più del fatto che il maestro avesse ancora riportato a galla la terribile notte. Non voleva avere la compassione Jedi, uno dei pilastri dell’Ordine, diretta a lui. Non era una debole forma di vita in via d’estinzione da proteggere. Non aveva bisogno della sua pietà. “Non crucciarti, maestro. Stavi facendo il tuo dovere, salvando la galassia, comportandoti come il perfetto maestro Jedi, il Negoziatore che mostrano sull’Holonet” Il suo tono sarcastico si indurì mentre parlava e, alla fine della frase, praticamente sputò le parole in faccia al Jedi.
Obi-Wan sussultò come se fosse stato colpito da qualcosa, poi abbassò lo sguardo.
“Anakin, io…”
Vader non lo lasciò parlare. “Che cosa farai ora? So che i Jedi hanno messo una taglia su di me. Mi porterai a Coruscant, non è vero? Mi hai aiutato in questi giorni solo per ripulirti la coscienza, vero? Così poi potrai andare avanti con la tua vita Jedi senza sentirti in colpa per avermi abbandonato! Beh, non ho bisogno della…”
Obi-Wan, che durante il discorso infervorato del ragazzo aveva tentato diverse volte di intervenire, perse la pazienza, afferrò il giovane per le spalle e alzò la voce per sovrastare la sua. “Non ti riporto a Coruscant, Anakin!” L’altro, se non altro per lo stupore, si zittì. Obi-Wan abbassò la voce. “Voglio prima trovare prove del tradimento di Palpatine, poi decideremo cos’è meglio per te. Intanto andremo a Naboo, Padmè ci aspetta lì.”
Naboo. Il cuore di Anakin ebbe un tonfo. Padmè.
“È preoccupata a morte per te.” Aggiunse Obi-Wan. Anakin chiuse gli occhi, assalito dal senso di colpa. Prima di lasciare Coruscant, aveva pensato di mandarle un messaggio per… si era fermato al per. Cos’avrebbe potuto dirle? Ho visto me stesso strangolarti, proprio come ti ho vista morire di parto e mia madre venire torturata? Non ho idea di ciò che significhi, quindi sparirò dalla tua vita fino a quando non lo capisco? Era meglio non dire nulla.
L’espressione di Obi-Wan si addolcì e la sua stretta sulle spalle di Anakin si attenuò, diventando di conforto. “Non ti abbandonerei mai, Anakin” Il ragazzo avrebbe voluto lasciarsi andare al calore della promessa, abbracciare il suo amico, anche se avrebbe messo il rigido Jedi a disagio, tornare da sua moglie e dal loro bambino. Ma non poteva. Non poteva metterli in pericolo.
Si liberò dalla presa del Jedi. “Te l’ho detto, mi chiamo Vader ora”
Il dolore che attraversò il viso di Obi-Wan fu quasi sufficiente a farlo crollare, dire tutto al suo maestro e implorare il suo aiuto. Ma Obi-Wan non aveva preso le sue visioni seriamente, quando si era trattato di Shmi. E se non l’avesse fatto neanche stavolta? C’era lui, nella visione della morte di Padmé, lui la guardava mentre esalava l’ultimo respiro, lui…
Quindi, quando il Jedi chiese: “Perchè continueresti a tenere il nome che quel mostro ti ha dato?” Anakin rispose freddamente.
“Non era che l’intermediario. Il nome è venuto dalla Forza.” Vader sentiva la frase vera. Il lato oscuro iniziò un’altra volta a scorrere nelle sue vene, tentacoli di oscurità si attorcigliarono alla sua connessione con la Forza. Sidious l’aveva usato, manipolato, spezzato. Una volta che Anakin avesse ottenuto le sue risposte, sarebbe morto in un modo molto doloroso. Ma il nome che il Sith gli aveva dato, quello era un’altra cosa. Lo chiamava, lo accarezzava, gli dava un senso di un’antica appartenenza, come se fosse sempre stato suo. Come se fosse sempre stato destinato ad essere Darth Vader.
Chiuse la sua mano metallica a pugno e la sua spada laser volò verso di lui. Obi-Wan non si diede pena di impedirglierlo, ma incrociò le braccia al petto e disse, con la voce da predica. “Che cos’hai intenzione di fare, Anakin? Affrontare Palpatine da solo? Non riesci nemmeno a camminare come si deve”
Aveva ragione, naturalmente. Era debole, era stato sconfitto e sopravvissuto solo per la pietà di un Jedi. Non poteva proteggere sua moglie, Padmé avrebbe potuto morire e lui non era forte abbastanza, non era abbastanza per sconfiggere Palpatine e strappargli le risposte.
I pochi oggetti che c’erano nella stanza iniziarono a levitare, rompersi e contorcersi mentre Anakin, ancora una volta, perdeva il controllo.
Obi-Wan allungò una mano e gli afferrò un braccio. “Lascia che ti aiuti. Per favore.”
Gli oggetti ricaddero sul pavimento, mentre Obi-Wan mandava ondate di calma attraverso la Forza dirette al suo amico. Anakin sorrise, sentendo la sua solida e pacifica presenza nella Forza del maestro scivolare sotto l’oscurità che lo avvolgeva. Era bello averlo di nuovo al proprio fianco, a temperare la sua rabbia e avventatezza, a tenerlo ancorato…
No. Ho il Lato Oscuro. Non mi servi. Vader, ancora una volta, si scosse di dosso la mano dell’amico. “Non puoi”
Gli girò le spalle, iniziando a incamminarsi verso la porta.
“Ho avuto a che fare con te per tredici anni. Penso di aver imparato un paio di cosette”
Vader si voltò. “Non hai mai avuto a che fare con questo” Un lampo si stava formando nel palmo della sua mano. Con un urlo lo scagliò contro Obi-Wan. Il Jedi cadde a terra, gridando per il dolore e lo shock.
“Visto? Non puoi fare niente” Vader, un’altra volta fece per andarsene.
“Anakin! Questo non sei tu!” Obi-Wan, a quanto pare non accennava ad arrendersi. “Lascia che ti aiuti a venirne fuori”
Vader lasciò che il Lato Oscuro parlasse per lui. “Tu non capisci! Ho bisogno di questo potere! Palpatine deve pagare per ciò che ha fatto!”
Obi-Wan si tirò su a sedere e, paziente come sempre, rispose: “Non ti serve la vendetta per essere felice, Anakin. Hai bisogno di tua moglie e di tuo figlio. Hai bisogno della tua famiglia”
Anakin lo guardò mentre dolorosamente si alzava in piedi. Gli aveva fatto del male, di nuovo, proprio come avrebbe fatto del male a Padmé e al loro bambino se fosse mai tornato da loro. Perchè chiunque lui amasse finiva per morire o soffrire? Perchè rompeva qualsiasi cosa toccasse?
Respinse indietro il Jedi con la Forza e raggiunse la porta. Una lacrima gli scese lungo la guancia e Anakin sapeva perfettamente che non era a causa del dolore che ancora proveniva dalla ferita. “Ma la mia famiglia ha bisogno che io stia lontano da loro”
In un battere di ciglia, era sparito.
Elisa Frigerio
A te, futuro abitante di Antiochia,
scrivo nella speranza che questa splendida città sia durata nel tempo e nello spazio. Sono fermamente convinto che le sue alte e possenti mura non si siano in nessun modo fatte scalfire dal vento, che tutto taglia e davanti a niente si ferma, o dalla pioggia, che tutto rovina; sono ancora in piedi, immutabili ed eterne. Non mi sento così sicuro però riguardo ai suoi abitanti, il cuore pulsante di Antiochia sarà ancora vivo e presente quando leggerai questo messaggio? Me lo auguro vivamente; sarebbe proprio un peccato sprecare una fortificazione di tale bellezza per poi abbandonarla, come uno scheletro senz’anima. Con te, che più estraneo di così non potresti essere, sento di potermi confidare; non è forse perché non vogliamo essere giudicati dai nostri compagni e pari che non parliamo con loro dei nostri problemi e paure? Ma te sei etereo, intoccabile e di certo non risponderai a quest’epistola in tempo perché io possa leggerne un responso.
Mio caro concittadino, è la mattina del 28 giugno 1098 e mi sono alzato presto, non sono riuscito a dormire questa notte, poiché fra poche ore avverrà lo scontro decisivo per la supremazia di Antiochia. Il sultano Kerboga da giorni minaccia di prendersi questa bellissima roccaforte; lentamente è entrato nelle menti di noi nobili difensori, la sua sola presenza è continuo motivo di angoscia, rammarico e terrore nei miei soldati. Devo essere forte, non per me, ma per loro. È compito di un giusto comandante mostrare coraggio e sicurezza nei momenti più ardui, SOPRATTUTTO prima di una battaglia. Sarà un comando da leoni a far vincere un esercito di cani, mai il contrario.
Trovo la scrittura un ottimo modo per tenere i nervi saldi. Ho sempre constatato come un buon intelletto faccia vincere le avversità, piuttosto che i meri muscoli. Per questa motivazione ho sempre ammirato mio padre, Roberto il Guiscardo, grande condottiero e senz’altro non uno stolto. Nelle sue campagne militari l’ho sempre seguito, volenteroso di imparare; venni battezzato come Marco, ma lui non era certo uomo da poter dare al figlio un semplice nome che anche un allevatore di porci potesse avere: mi soprannominò Boemondo, dal Behemoth, leggendaria creatura biblica. Quel giorno nacque Boemondo I d’Altavilla. In giovinezza mi occupai con mio padre della conquista dell’Albania; in quelle terre prendemmo Durazzo, oh Dio mio che battaglia fu! Quando mio padre, capo della nostra gente, fu richiamato in patria per via del Papa e dell’Imperatore che non la smettevano di litigare, divenni io il capo della spedizione. Ci facemmo strada in Macedonia, fino alla Tessaglia, dove però, causa la mia “inesperienza”, dovetti venire a patti con l’Imperatore bizantino Alessio I Comneno che, nonostante le nostre divergenze militari, è un uomo assolutamente rispettabile. Tornato a casa, con mio padre riorganizzammo l’esercito per un secondo tentativo: purtroppo però, sbarcati a Corfù, mi ammalai e, non volendomi vedere in una cassa da morto prima del tempo, mio padre mi rispedì nei climi miti dell’Italia meridionale; non lo rividi più…
La morte del capo famiglia scosse le fondamenta della nostra gente e ne risultò una guerriglia urbana fra fratellastri, e ,dato che ero il primo genito ma oramai non più il figlio importante, non trassi molto guadagno dall’eredità di mio padre. Non mi piace parlare di questi fatti, mi fa sentire sporco, avere problemi con i membri della propria famiglia lo considero veramente triste.
Vorrei parlarti di come sono finito così lontano dal focolare casalingo, a combattere così assiduamente per un luogo che conosco da poco ma di cui mi sono innamorato. Devi sapere che un paio di anni fa vidi per la prima volta le primissime bande crociate che attraversavano l’Italia nella speranza di raggiungere la Terra Santa, e ne rimasi estasiato. Era incredibile che dei valori nobili come ad esempio il desiderio della ripresa della “propria” terra avessero spinto tanti cristiani ad un viaggio così lungo e tortuoso. Capì al volo che si trattava di un’impresa che si sarebbe impressa nei libri di storia, nel bene e nel male. Volevo, e dovevo, assolutamente farne parte. Avrei potuto rendere omaggio al mio caro padre defunto conquistando l’oriente per lui; sia chiaro che non è stato l’unico scopo che mi ha spinto fin qua, anche quello religioso ha contribuito non poco.
Capisci quanto un obbiettivo sia nobile e puro quando trasforma i nemici in amici, nel mio caso, un normanno ed un bizantino. Alessio I Comneno era un tassello fondamentale nella crociata, nonché una possibile alleanza futura; andava trattato con un occhio di riguardo, motivo per cui fui prodigo di complimenti ed omaggi: troppo spesso tendiamo a criticare come un fiume in piena, senza renderci conto che basterebbe un misero sincero elogio per rendere chiunque malleabile come il burro. L’imperatore bizantino è una persona caparbia, astuta come poche, gran comandante, ma la qualità che più ammiro in lui, e da cui tutti dovremmo prendere esempio, è che non è orgoglioso. Nella sua carriera militare ha dimostrato più volte che per vincere in questo mondo si deve scendere a patti, essere umili, mostrare compassione, e prendersi poco sul serio. Mettersi nei panni dell’altro per capire come vorresti essere trattato, interessarsi di cosa vogliono gli altri prima di ciò che vuoi tu.
Non lo biasimo per averci “abbandonato” qui ad Antiochia, ingannato da false notizie: io, Boemondo I d’Altavilla, avrei fatto lo stesso. Ha ottenuto quello che voleva e immagino che non volesse rischiare i suoi uomini stremati per sostenere altre lunghe battaglie. Forse la mia brama di potere non ha aiutato: dichiararsi sovrano di Antiochia era giusto? No, ma era NECESSARIO. Mi sono preso il merito di qualcosa di effettivamente solo mio: la conquista di Antiochia.
Un altro esempio di come il cervello batta i muscoli: erano giorni di malcontento nell’armata crociata, avevamo passato tutto l’inverno accampati fuori dalla nostra meta, c’era bisogno di smuovere le acque. Ho già mostrato la mia ammirazione per le sue mura inviolabili, che nessun ariete potrebbe sfondare, troppo alte per qualsiasi scala d’assedio, ma una cosa è certa nei momenti più complicati: la necessità aguzza l’ingegno. Non potendo entrare dall’esterno, feci in modo che ci aprirono direttamente dall’interno: riuscì a corrompere una guardia di una delle molte torri, un cristiano convertito di nome Firouz; finalmente entrammo in città, ne conseguì che i miei soldati diedero libero sfogo alle loro sopportate sofferenze in modi disumani… non ne vado molto fiero, ma se lo erano “guadagnati”. Ironia della sorte, il sole non era ancora sorto e tramontato 4 volte che già venivamo attaccati; questa volta ad assediare Antiochia era un esercito musulmano, guidato
Questo ci conduce alla data odierna. Sono fiducioso nel mio esercito ma accetterei la mia fine se essa si dovesse presentare per caso o per scelta. Ho avuto una grande vita, tuttavia non voglio morire. Se saremo vittoriosi si brinderà in terra, altrimenti si festeggerà in cielo…
***
ABBIAMO VINTO!
La battaglia è stata epica. Scrivo dalle mie stanze e sento fuori tutta la città in festa: si ride, si scherza e si beve. Abbiamo avuto Dio dalla nostra, sul campo e nel cuore: prima dello scontro il mistico Pietro Bartolomeo annunciò di aver avuto una visione di Sant’Andrea Apostolo, il quale gli avrebbe rivelato che la lancia che aveva trafitto il costato di Cristo in croce si trovava ad Antiochia, sotto la cattedrale di San Pietro. Lui stesso la trovò. Ovviamente ero scettico: questa specie di santone giurava e rigiurava di non averla messa lui là sotto, ero sul punto di mozzargli la testa; però mi resi conto che il ritrovamento di questa reliquia aveva ridato vigore ai miei soldati, perciò ne dichiarai l’autenticità. Assaltammo i mussulmani con tutta la foga di questo mondo e con la lancia alla testa dell’esercito. Molti sostengono di aver visto addirittura tre santi cavalcanti al loro fianco: San Giorgio, San Demetrio e San Maurizio. Alla fine, i nemici furono scacciati. Uno scontro leggendario!
Confido nella durata del mio comando su Antiochia, mi piacerebbe essere ricordato come un buon combattente ed un astuto stratega, ma la storia è più crudele che comprensiva nei suoi giudizi. Per ora, sono felice e appagato…
Marco Oliveri
Avevo la luce del mio androide da compagnia puntata negli occhi.
Così iniziò anche quella terribile mattinata. Era forse il 13 di agosto, Non ricordo esattamente il giorno, dato che era molto difficile distinguere il giorno dalla notte all’interno della navicella. Mi alzai dal letto e, con i muscoli ancora intorpiditi, mi diressi verso la cucina, allungai una mano e la sedia di metallo fluttuò fino a posizionarsi davanti al tavolo. Una volta seduta, il mio androide mi raggiunse. Si chiamava...
E4p21. Ogni tanto ho dei vuoti, come se qualcuno cercasse di cambiare la mia memoria.
«Il solito caffè doppio al rutenio?» Mi chiese gentilmente E4p21. Ci misi un secondo per capire se stavo sognando o veramente fossi sveglia.
«Si, grazie. Ma fai piano, che non vorrei mai svegliare Silver» dissi sottovoce.
«Ha ancora problemi di sonno? Fortunatamente, disattivandomi per la notte non lo sento urlare»
«Non è giusto, anch’io voglio un tasto per disattivarmi! Mi ricordi perchè ho deciso di avere un figlio? » Guardai il mio riflesso sul fondo della tazza, la faccia della disperazione. Quando ero andata a comprarlo,mica mi avevano detto che non avrei chiuso occhio per anni.
«Lei adora i bambini, ne ha sempre voluto comprare uno. Fa la pediatra per stare a contatto con loro. In più ci sono io, che l’aiuto a gestirlo»
«Beh è stata un’idea stupida, così, ora, ho bambini urlanti tutto il giorno; poi, quando torno a casa, ho altri bambini urlanti.» Detto questo, mi alzai dal tavolo e me ne andai in camera da letto. Sul comodino c’era uno dei soliti bigliettini lasciati da mio marito la mattina presto prima di andare in miniera. Mi affrettai a bruciarlo con l’accendino, ma non fui abbastanza veloce: Silver come al solito si mise di fianco a me e iniziò a fare domande
« Perchè bruci i biglietti di papà? »
Era in quella fase in cui faceva domande in continuazione...eh, in realtà c’era sempre stato in quella fase.
La tecnica migliore per farlo smettere di parlare era l’essere più sincera possibile: di solito rimaneva così sconvolto da certe mie risposte che se ne stava muto per ore.
«Perchè come regalo per i dieci anni di matrimonio mi regalò un carillon che gli venne donato dalla bisnonna. Che me ne faccio di un carillon? In più, tuo padre fa il minatore nello spazio, a cosa serve un minatore nello spazio?» Ovviamente non potevo avere fortuna, continuò con le sue domande.
«Cos’è un carillon? Non ne ho mai visto uno nei negozi!» Gettai nello spazio i resti del bigliettino incenerito e risposi:
«Non ne hai mai visto uno perché si tratta di qualcosa di molto antico;la maggior parte degli oggetti non in metallo non sono stati più creati dopo l’esplosione nucleare del maggio 2021. Questo stupido carillon è sopravvissuto perché il bisnonno della bisnonna che l’ha dato a tuo padre lo aveva con sé quando è andato nello spazio. Se vuoi puoi tenerlo, io non me ne faccio nulla. Non c’è neanche una canzoncina decente. » Glielo presi dal fondo del mio armadio, lo tenevo ben nascosto lì perché non volevo celare il fatto di odiarlo profondamente.
«Eccolo, è tutto tuo, ma in cambio, ora tu vai in camera tua e non fai più domande alla mamma fino a ora di pranzo, va bene?» lui annuì e corse in camera sua stringendo fra le mani quella scatolina azzurra.
«Sei troppo dura con lui» Mi disse E4p21. La guardai male e le chiusi la porta in faccia.
«Scusami, ma mi rifiuto di essere rimproverata da un androide che dice che sono crudele. Tu non hai praticamente emozioni».
Il resto del giorno lo ricordo a singhiozzi, almeno fino alle cinque e un quarto, l’orario in cui tornai a casa dal lavoro. Come aprii la porta, Silver mi si lanciò addosso e io ricambiai l’abbraccio. Sono sempre felice appena tornata dal lavoro. La cena era già pronta in tavola. Fortunatamente mio marito aveva anche dei - rari - pregi, come quello di essere bravo in cucina.
«Per cena ho preparato due bistecche di mucca, che alleva quel mio amico vicino alla Via Lattea. Nulla di eccessivo, oggi sono stranamente stanco.»
Semplicemente dicendo questa frase, tutta la mia felicità svanì. Ci sedemmo a tavola con, in sottofondo, quella canzone odiosa prodotta dal carillon,Errore mio averglielo dato, ora non potevo lamentarmi e, anzi, ne dovevo pagare le conseguenze.
«Pa’, di alla mamma cosa scavi al lavoro, stamattina mi ha detto che non lo sa!» Ovviamente tra tutte le caratteristiche che Silver poteva prendere da me ha scelto proprio quella di non saper mentire e non capire cosa dire e cosa no. Mio marito mi lanciò uno sguardo interrogativo, fortunatamente non avevo scelto un marito tanto sveglio, mi limitai ad alzare le spalle, come per dirgli “ Reggigli il gioco”.
«Beh, vedi, papà gira per i pianeti, prende pezzi di rocce e li porta o alle fabbriche o ai ricercatori. Così papà può viaggiare per tutta la galassia gratis aiutando la scienza ! » Finsi di sorridere e di essere felice che mio marito minasse i pianeti e che non continuassi a pensare che il suo lavoro gli avrebbe portato solo una schiena simile a Leopardi, sempre che questo Leopardi fosse realmente esistito, perché con l’esplosione nucleare avevamo perso un sacco di informazioni su persone importanti. Dopo cena andai a sdraiarmi e mi addormentai. Il resto, la parte più importante, è avvolta da un velo di sonno e ogni tanto penso che sia stato un sogno, ma poi mi ricordo dove mi trovo ora e capisco che è successo davvero. Comunque, non so l’ora esatta, ma era tardi, c’era Silver che gridava perché papà stava monopolizzando il bagno e lui doveva lavarsi i denti. Mi alzai dal letto e mi diressi verso di lui; teneva quello stupido carillon in mano e continuava a girare la manopolina per far uscire la musica. Bussai alla porta del bagno, una, due, tre volte. Chiamai il suo nome: nessuna risposta se non dall’acqua che continuava a scorrere e lì iniziai ad avere paura. Mi girai verso Silver e gli dissi di andare a letto, che se per una volta non si lavava i denti di certo non sarebbe morto. Poi mi voltai verso E4p21 e le dissi
«Devi scassinare questa maniglia, subito, io chiamo la polizia» Probabilmente capì la situazione e si mise subito all’opera. Chiusi la porta di Silver e corsi verso il telefono.
«Dovete venire subito qui, forse avrei dovuto chiamare un’ambulanza… Beh, Fa niente, ho paura che mio marito stia tentando di togliersi la vita in bagno, sbrigatevi, siamo la navicella 588 nel satellite 547». Riattaccai e corsi a vedere a che punto si trovava E4p21. Aveva finito, si girò e mi chiese se potesse aprire la porta.
Acconsentii.
L’androide si pietrificò, io mi affacciai e svenni. Ed ecco come sono finita qui. Arrestata per non so cosa, probabilmente istigazione al suicidio o qualcosa del genere . Nonostante non abbia mai fatto nulla di simile e senza sapere dove si trova mio figlio. E, stranamente, sento la sua mancanza.>
Alzo lo sguardo verso la poliziotta che tiene il corso. Finalmente mi sento libera e leggera, sono due mesi che tengo la verità per me, forse finalmente saprò perché sono qui. Da quando hanno abolito i processi, la metà della gente in prigione non sa perché si trova lì. La poliziotta non mi sorride, non ci faccio caso,probabilmente vuole solo intimidirmi, ma nulla può rovinare la sensazione di libertà che sento dentro in questo momento. Proprio quando sto per sedermi la poliziotta - Chandra, mi sembra si chiami così - si decide a parlarmi:
«Nives, tu sei dentro per omicidio, sei stata tu a uccidere tuo marito… E anche tuo figlio» Mi mostra un’immagine del carillon azzurro insanguinato.
«NO, tu menti, io volevo bene a mio figlio, perchè avrei dovuto ucciderli?»
«Nives, ci sono le tue impronte su questo carillon, sei stata tu, il tuo androide ha confermato la versione.»
«No, tu menti, tu menti. PERCHÉ MENTI?!? TU MENTI!» e mentre continuo a ripetere queste due parole, inizio a lanciare i primi oggetti che trovo: la foto del carillon, il mio testo. Mentre le guardie della prigione si avvicinano per sedarmi e portarmi in isolamento, sento ancora quella maledetta canzone diventare sempre più forte, grido ancora quelle parole con le ultime forze rimaste e poi non riesco più a muovere un muscolo, ma quella canzone è ancora nella mia testa, imperterrita e costante.
“È solo che quando passi tanto tempo a fingere di essere ciò che non sei, a volte devi dire le cose a voce alta, per ricordarti quale sia la verità”
Drssa. Smith, Lost in space
Sofia Rebagliati
I candidi petali di una magnolia in fiore
Bianchi come neve iniziano a cadere
Corpi addormentati sull'asfalto nero
Fiocchi soffici come un dolce pensiero
A casa mia la magnolia è da sempre vicina
Ne raccoglievo i petali quando ero piccina
Bambina meravigliata dalla loro purezza
Era triste abbandonare tanta bellezza
E così la mia piccola mano prende e da
Nuova vita a chi speranza più non ha
Ma gli anni passano lesti, muta il cuore
E un petalo caduto perde il suo valore
Ora l'albero in fiore lo guardo dalla finestra
E la brezza di un grigio marzo soffia mesta
Mentre i petali marciscono sull'asfalto duro
Il cielo è nero come un pensiero oscuro
Elisa Frigerio
Petals falling from a white magnolia tree
Dancing and flying until they meet the street
Corpses falling asleep on the hard,black road
They look soft and sweet like a nice thought
I've lived next to the tree for as long as I can remember
I used to pick up his petals when I was younger
I'd be amazed by their beauty as a child
Couldn't stand to leave such a candid thing behind
I'd take the broken flowers while they'd land
Nursing them with new hope in my little hands
But years go by, heart changes, time is lethal
You just stop caring about a fallen petal
Now I stare at the tree from the window shelf
And the song the wind of march sings it's sad
I let petals to rot on the dark, rough street
Black clouds are covering the sky beneath
Elisa Frigerio
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Illustrazione di Elisa Frigerio
Tecnica: Digitale (Ibis Paint X)Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What if
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Capitolo 3 - Traccia
Indice capitoliLe Guerre dei Cloni sono entrate in una nuova, mortale fase. Il leader supremo dell’esercito Separatista, Darth Sidious si è dato alla fuga, inseguito dal Cavaliere Jedi caduto Anakin Skywalker alla ricerca di vendetta. Il potente utilizzatore della Forza è a sua volta braccato dai Jedi.
In una taverna di un pianeta dimenticato, un uomo solitario stava bevendo ad un tavolo. Indossava un mantello marrone con il cappuccio calato a coprirgli il volto. L’ampio indumento, oltre a celare la sua figura nascondeva anche i suoi vestiti e la sua arma. Le persone come lui non erano le benvenute su pianeti come quello. Recentemente, le persone come lui non erano le benvenute su quasi tutti i pianeti, in realtà. Agli occhi della maggior parte della gente, era stato un ex-Jedi a tradire e a quasi uccidere il Cancelliere. E, dato che il ragazzo non era ancora stato catturato, le persone stavano iniziando a pensare che i suoi vecchi compagni lo stessero proteggendo. Da lì, l’odio per i Jedi.
Per di più, la faccia del Jedi seduto al tavolo era piuttosto nota. Anche se, a dirla tutta, nell’uomo coperto da un mantello sporco che beveva alcol da due soldi in una taverna dimenticata dal mondo, le persone avrebbero faticato a riconoscere il generale Jedi Obi-Wan Kenobi. Certi giorni, persino lui faceva fatica a riconoscere sé stesso.
Dovrei smetterla. Pensò, spingendo via la bottiglia. I Jedi di solito non bevevano. Aveva preso l’alcol per non dare nell’occhio, ma ora stava esagerando. Soprattutto considerando che lui aveva una missione, una molto importante.
Doveva essere lucido. Ma, mentre scorreva i report sul suo datapad, l’alcol di bassa qualità era l’unica cosa che impediva al suo stomaco di rivoltarsi. Ciò che leggeva, vedeva o sentiva era abbastanza da fargli considerare se non fosse giunto il momento di lasciar perdere. Di trasformare una missione di salvataggio in una caccia. L’aveva promesso a Yoda, dopotutto.
Ma come poteva dimenticare quegli occhi? Aveva sempre creduto che, una volta che uno si convertiva al lato oscuro, era perduto. Aveva visto il suo maestro venire ucciso da un Sith e il maestro del suo maestro tagliare un braccio al suo padawan. Ma ora…
Studiò nuovamente le informazioni in suo possesso. Vader stava lasciando una scia di sangue alle sue spalle. Obi-Wan sapeva che cos’aveva intenzione di fare: trovare Sidious e ucciderlo. Non aveva nulla in contrario, non foss’altro che preoccupazione per il ragazzo: anche lui, del resto, voleva Sidious morto. Ma provava un acuto senso di nausea ogni qualvolta assisteva al destino di quelli che erano stati sul cammino di Vader, fossero innocenti o meno.
Certe volte, Obi-Wan si domandava addirittura se non si fosse immaginato tutto. I suoi occhi blu che lo fissavano, la sua voce che fermava i Cloni, la mano che gli aveva offerto. Ma no, Yoda aveva approvato la sua missione. Aveva confermato che c’era ancora speranza per Anakin Skywalker. Però, quando le immagini dei bambini massacrati erano sospese davanti ai suoi occhi, lo spiacevole eco delle parole di Shaak Ti tornava a perseguitarlo.
Era il giorno dopo la tragedia. Yoda, ritornato in fretta da Kashyyyk, aveva convocato un incontro di emergenza. La Stanza del Consiglio era stata ripulita e i corpi portati via, ma Obi-Wan aveva vacillato nell’entrarci. Ciò che aveva visto lì… Quelli erano i suoi ricordi peggiori. Peggio, persino, di quel terribile giorno su Naboo quando il suo maestro era stato ucciso. Più di metà dei posti erano vuoti.
Era appena stato proposto di mettere una taglia su Anakin e Obi-Wan non era più riuscito a frenare la propria lingua. “Lo volete cacciare come un animale!” Aveva esclamato, oltraggiato.
“Abbiamo perso seimila Jedi, maestro Kenobi. L’intera Repubblica è contro di noi e mentre parliamo, centinaia di sistemi si stanno unendo ai Separatisti, dotati di un esercito che a stento eravamo in grado di affrontare prima e guidati da un Sith. Per di più, questo Sith è l’amato cancelliere della Repubblica, in fuga dopo che un ex-Jedi l’ha tradito e quasi ucciso”
“Non è vero!” Obi-Wan aveva perso l’ultima goccia di autocontrollo. Sapeva che le persone avevano creduto a Sidious e non gliene faceva una colpa. Loro stessi erano stati ingannati per ben tredici anni. Ma non si era aspettato di sentire la teoria ripetuta nelle sale del Tempio.
“Ma che lo sia, la Repubblica crede” Yoda aveva osservato con la sua solita compostezza. Obi-Wan si era mosso sulla sua sedia, a disagio. Certo che i Jedi non ci credevano. Si stavano solo mettendo nei panni delle persone. Farei meglio a calmarmi. Aveva pensato. Sto facendo più male che bene.
“Abbiamo bisogno che siano dalla nostra parte se vogliamo porre fine a questa guerra. E per farlo, dobbiamo dimostrargli che non stiamo proteggendo il nostro ex-membro. E Skywalker è un traditore ed un assassino. Quindi mi dispiace, maestro Kenobi, ma non capisco proprio ciò che intendi.” Un altro maestro aveva aggiunto.
“Ciò che intendo, maestri, è che quando l’ho affrontato, in questa stessa sala, Anakin stava vincendo. Ho pensato che mi avrebbe ucciso. E poi ho riaperto gli occhi e ho incontrato i suoi, blu. Dopo di che, ha fermato l’ordine 66 ed è andato a cercare Sidious…”
“Sappiamo la storia, maestro Kenobi. Ma sappiamo anche cos’ha fatto quando l’ha trovato.”
Obi-Wan aveva spostato lo sguardo sulle proprie mani, mentre le immagini del locale gli danzavano davanti. Non avrei dovuto lasciarlo andare da solo. Si era rimproverato per l’ennesima volta da quando Anakin era scomparso. Avrei dovuto restare con lui. Come sempre, era troppo tardi per i rimpianti. Ma non era troppo tardi per Anakin. Così aveva rialzato il suo sguardo, affrontando il Consiglio. “Non è ancora perso, ma lo sarà se gli voltiamo le spalle quando ha più bisogno del nostro aiuto.”
L’ologramma di Plo-Koon, scampato all’ordine 66 grazie all’intervento di Anakin, si era sporto verso Obi-Wan, gettandogli un’occhiata di compassione e addolcendo il tono. “È per questo che dobbiamo trovarlo prima che ricada nelle grinfie di Sidious. Se non l’ha già fatto.”
“Del giudizio di Obi-Wan fiducia ho” Obi-Wan non aveva avuto il tempo di gioire per l’avere il supporto del Granmaestro: Shaak Ti, infatti, aveva parlato subito dopo.
“Ma io no. Penso che l’attaccamento stia offuscando la tua visione, maestro Kenobi. Hai visto il Tempio. Hai visto i bambini. E hai visto ciò che ha fatto dopo che ha fermato l’ordine 66. Il tuo vecchio padawan è andato. E se insisti nel dirmi che non lo è, voglio sapere perché.”
Obi-Wan si era alzato in piedi. “Perché ho visto il dolore nei suoi occhi, quando sono ritornati blu! Perché sono io che l’ho cresciuto e lo conosco meglio che ognuno di voi dannati maestri!” La stanza era sprofondata nel silenzio. Nemmeno il testardo Qui-Gon aveva mai detto, o meglio urlato, loro qualcosa del genere. Il momento in cui Obi-Wan se n’era accorto, era ricaduto a sedere sulla sua sedia, fisicamente ed emozionalmente esausto.
“Mi dispiace maestri. Sono stati dei giorni particolarmente stressanti” Gli avevano lanciato un’occhiata di comprensione. Sapevano tutti che la situazione era più dura per lui. Skywalker e Kenobi erano una squadra, la squadra. Obi-Wan si sentiva perso senza di lui.
“Dobbiamo ancora prendere una decisione su Skywalker.” Qualcuno aveva fatto presente. “Una taglia, noi metteremo” La decisione di Yoda non era stata una sorpresa. Obi-Wan sapeva perfettamente che erano tutti d’accordo. Era l’unica soluzione. Ciò non gliela faceva piacere di più. “Vivo” Aveva tuttavia specificato.
“Ciò potrebbe non essere possibile. Sai che lui combatterà per uccidere. Offriremo un prezzo più alto per averlo vivo, ma i cacciatori di taglie potrebbero trovarsi nella condizione di dover…”
Obi-Wan non aveva recepito il resto della frase, occupato a rilasciare nella forza l’ondata di rabbia che aveva minacciato di invaderlo. Come poteva contare così poco la vita di una persona che si era sacrificata innumerevoli volte per l’Ordine e per la galassia? Aveva sbagliato, certo, ma la colpa non era stata del tutto sua. E poi, aveva cercato di rimediare. Anakin Skywalker si meritava più di un forse.
“Allora lasceremo i cacciatori fuori da questa storia e lo cercheremo noi stessi.” Aveva insistito. Plo-Koon aveva annuito impercettibilmente. Sapevano tutti che era lì che voleva arrivare: ad avere l’autorizzazione per andare alla ricerca di Anakin.
Shaak Ti aveva preso di nuovo la parola.“Siamo troppo pochi, maestro Kenobi. Oltre che lui, ricordati, dobbiamo trovare Sidious prima che faccia la sua mossa, qualunque essa sia. E poi, sinceramente, pensi che anche fossi tu a riportarlo qui, il Senato gliela farebbe passare liscia?”
Le parole pungevano come dardi avvelenati. Obi-Wan si era concesso di sperare che, fosse lui riuscito a riportare Anakin sulla retta via prima che comparisse davanti al Senato, al ragazzo sarebbe stata concessa pietà. Ciò, però, comportava il far riconoscere Sidious come colpevole alla Repubblica. E per farlo…
“Catturare Skywalker, dobbiamo” Aveva deciso Yoda. “Vivo o morto” Qualcuno aveva aggiunto. Obi-Wan non avrebbe saputo dire chi e forse era per il meglio. Non era il tempo di avere risentimenti contro i membri del Consiglio, i suoi amici. Ma, dopo aver sentito quelle parole, Obi-Wan aveva voltato loro le spalle e se n’era andato.
È stato irresponsabile da parte mia. Sto iniziando a lasciare che le emozioni interferiscano con le mie azioni. È sbagliato. Considerò Obi-Wan, appoggiando sul tavolo il datapad con un sospiro rassegnato. Quando il suo cervello decideva di fargli fare un viaggio sul treno dei ricordi, non c’era proprio verso di concentrarsi. O, forse, era solo tanto tardi e lui era tanto stanco.
Yoda l’aveva raggiunto qualche dozzina di minuti dopo. La taglia era stata posta e Obi-Wan aveva camminato senza sosta avanti e indietro per le sale del tempio, evitando accuratamente quelle che ancora non erano state pulite, fino a quel momento.
“Disturbato sento che tu sei, maestro Kenobi” Obi-Wan aveva avuto bisogno di tutto il suo controllo Jedi per non scagliarsi contro l’antico maestro. Ciò non fu sufficiente per impedire alla sua voce di assumere un tono non esattamente appropriato per un Jedi.
“Disturbato?!? Abbiamo perso più di metà del nostro ordine, e tanti per mano del mio padawan! E io l’ho lasciato accadere. Aveva bisogno di un amico, aveva bisogno di parlare e ho finto di essere sordo e cieco al suo grido d’aiuto. Mi sono tirato indietro al primo no, non ho tentato di andare più a fondo, di farlo parlare con me, di farlo confidare in me. E ora… è tutto perduto. Mi dispiace, maestro. Ho fallito. Ho deluso te, Qui-Gon e Anakin.”
Una volta espresso ad alta voce, il peso del suo senso di colpa e rimorso aveva minacciato di schiacciarlo. Solo le parole di Yoda l’avevano sollevato abbastanza da permettergli di respirare di nuovo. “Troppo tardi per il giovane Skywalker forse non è. A fare ciò che il tuo cuore richiede autorizzato tu sei.” Obi-Wan aveva tratto un sospiro di sollievo, subito congelato dalle successive parole di Yoda.
“Ma ricordare questo tu devi, Obi-Wan: una sola possibilità e limitato tempo, tu hai. Se troppo radicato in lui il lato oscuro si rivelerà, il tuo dovere fare dovrai.” Obi-Wan aveva chinato la testa all’antico Granmaestro. “Lo farò. Ma non si arriverà a questo” Aveva promesso.
Guardando le immagini, Obi-Wan si chiese se non avesse dato la sua parola troppo in fretta. No. Decise. Non è perso per sempre. Ha solo smarrito la via. Starà bene quando lo troverò. Con un gesto deciso, riprese il datapad. E lo troverò presto.
La paura di fallire, però, continuava a stringerlo forte come l’abbraccio di un Wookie. La paura è la via per il lato oscuro. Si ricordò. Ma, per quanto tentasse di liberarsene, non sembrava esserne in grado. Aveva paura del fallimento, come aveva fatto per tutti quegli anni. Ed era perseguitato dal pensiero di che cosa avrebbe dovuto fare se non fosse riuscito a riportare Anakin alla luce.
Non si arriverà a questo. Si ripeté. L’aveva promesso. Non solo a Yoda e a sé stesso, ma anche a Padmè. E quest’ultima promessa era la più importante.
Dopo la terribile notte, continuare a fingere non aveva più avuto senso. Subito dopo aver parlato con Yoda, era andato da lei e l’aveva affrontata su ciò che aveva finto di non vedere per tre anni. Lei aveva confermato ciò che lui già sapeva. Beh, aveva aggiunto un paio di cose a cui lui non aveva mai osato pensare e che rendevano la sua missione di riportare indietro Anakin ancora più importante. Non poteva permettere che un altro bambino, un altro Skywalker crescesse senza un padre, non dopo che non era riuscito ad esserne uno per Anakin.
“Padmè, so che ciò che tu stai facendo qui è importante, ma ho bisogno che tu vada via, ok?” L’aveva implorata dopo averle spiegato ciò che era successo. Aveva considerato le varie opzioni e questa era risultata essere la migliore. Palpatine avrebbe potuto trovarla, certo,
“Io non me ne vado.” Aveva replicato lei, testarda come sempre. Si aspettava forse che Anakin sarebbe venuto a cercarla in città? O semplicemente non voleva lasciare la Repubblica nel caos che aveva seguito la sparizione di Palpatine? O entrambe? Qualsiasi cosa fosse, non poteva permetterle di rimanere.
“Il bambino che porti in grembo ha una grossa probabilità di essere molto potente nella Forza. Se il Consiglio scopre chi è il padre…” Era stato interrotto dalla sua improvvisa domanda. “Che cosa gli farete? Che cosa farebbero i nobili Jedi ad un bambino innocente?”
Obi-Wan aveva abbassato la testa. “Non lo so, Padmè. Tutto sta cambiando, le vecchie regole, il nostro codice, si stanno disintegrando sotto i nostri piedi. È per questo che ho bisogno che tu sia al sicuro.”
Lei gli aveva posto un'altra domanda. “Che cosa farete ad Anakin?”
La sua risposta era stata brutale. “Ciò che dobbiamo” Sapeva che, per il resto del Consiglio era vera. Lo sarebbe stata anche per lui, se avesse fallito. Non c’era posto per gli attaccamenti personali, tra i Jedi. E lui aveva bisogno che Padmè lo capisse, che fuggisse da Coruscant.
La senatrice aveva incrociato le braccia al petto e l’aveva squadrato con un’aria tanto fredda e feroce che Obi-Wan aveva capito subito di aver detto la cosa sbagliata. Aveva immediatamente addolcito il tono. “Senti, penso che il Consiglio si sbagli e Yoda è d’accordo con me. Anakin può ancora essere salvato. E io ci proverò, okay? Però ho bisogno che tu sia al sicuro, perché se qualcosa accadesse a te o al bambino, lo perderemmo per sempre.”
Padmè l’aveva guardato fisso, ancora incerta. Lui le aveva consegnato un com-link e continuato. “Andrai dalla tua famiglia, a Naboo. Lì ti metterai in contatto con Bo-Katan. Sei sempre stata un’amica, per sua sorella e per il suo pianeta. Ti aiuterà. Non andrai a cercare Anakin, né tornerai a Coruscant fino a quando non sarà sicuro. Me lo puoi promettere?”
La donna aveva risposto con una domanda. “Mi prometti di riportarlo da me?”
Lui non ci aveva pensato due volte prima di rispondere: “Sì” Forse avrebbe dovuto.
“Allora anch’io prometto” Si erano stretti la mano e separati nella luce del sole di mezzogiorno; lei diretta ad un conforto familiare che mai sarebbe riuscito a guarire del tutto il suo cuore spezzato, lui a dare la caccia al suo migliore amico.
Due settimane erano passate da allora, con lui sulla scia di sangue di Vader, perdendo la speranza ogni giorno di più. Ma ora… fissò il suo sguardo sul datapad e una scintilla di quel sentimento si riaccese nel suo cuore. Era debole, incerta, ma era meglio di tutto ciò che aveva trovato nelle due settimane precedenti. Aveva una traccia. Lasciò alcuni crediti sul tavolo, poi uscì nell’aria gelida del pianeta. La caccia stava giungendo al termine.
Elisa Frigerio
Esattamente cinque giorni fa Lucy mi mandò un video di uno squilibrato che diceva:
"Già quando ogni paese fu definito per la primissima volta pensai che l'umanità avesse raggiunto il suo collasso; tutti credono che un mondo senza fame e senza guerre, dove chiunque sta bene e dove la tecnologia ha raggiunto un livello di evoluzione inimmaginabile sia fantastico, ma io non sono d'accordo! La popolazione ha raggiunto da poco i 50 miliardi di abitanti, i grattacieli su cui adesso viviamo sono diventati dei veri e propri ecosistemi con animali, scuole, colture e abitazioni divise in piani, il contatto umano avviene solo tra persone dello stesso grattacielo e la mentalità è cambiata drasticamente. Come potete non vedere il problema?? Stiamo tutti vivendo in gabbie che abbiamo reso la nostra comfort zone, siamo diventati dipendenti dalla tecnologia e la cosa più triste è che essa è l'unico modo per sapere cosa succede al di fuori del nostro mondo che ci ostiniamo ancora a chiamare palazzo. Vi prego condividete questo video, fate arrivare questo messaggio a più persone possibili, il mondo deve svegliarsi!!".
Mi fece tanta pena, aveva ottenuto solamente 10 mila visualizzazioni e circa mille condivisioni; che spreco di energie, era il primo video che vedevo dopo anni che superava il minuto, che cosa gli è passato per la testa? “Che fallito, pensai.”
Sono passati 5 giorni da quando Lucy mi ha mandato questo video e io non faccio altro che pensarci. Che palle, la mia vita di prima mi piaceva ma, da quando ho conosciuto Lucy online è diventata un casino. Ho sempre il mal di testa, devo sempre ascoltarmi i suoi discorsi fuori dal coro, ma non può vivere la sua cavolo di vita nel suo cavolo di palazzo e non rompere me?? Uff... Ed ecco che mi ha appena scritto...
Lucy: Ehii Carl stavo pensando ad una cosa...
Carl: Dimmi pure.
Lucy: È da qualche mese che ti ho scritto per conoscerti e anche se ora so molte cose di te non mi hai mai detto in che palazzo abiti...
Carl: Ah scusami è vero, abito nel grattacielo Qubit 51 30 30 -0 7 32 tuu??
Lucy: Coooosa??? Davvero??? Io sono nel Qubit 51 30 30 -0 7 31... Vuol dire che siamo vicini di grattacielo capisci?
Carl: Beh non è che cambi molto eh, mi sembri un po' troppo agitata non credi?
Lucy: È ovvio, come fai a non capire? Siamo una delle pochissime amicizie online che si sono create e potremmo anche essere la prima in tutto il mondo che si potrà vedere!!!
Carl: Cosa intendi per vedersi?? Non vorrai mica che entri nel tuo grattacielo vero? Per entrare e uscire servono dei permessi molto difficili da ottenere, non me li daranno mai!
Lucy: Sì, sì lo so tranquillo, anche se volevo tanto vederti faccia a faccia intendevo che potremmo vederci attraverso i vetri.
Carl: Va bene, se ci tieni così tanto allora va bene
Lucy: Perfetto, che ne dici di vederci alle 17 al piano 150?
Carl: Ok va bene allora, a dopo!!
Quando presi l'ascensore tremai, non sapevo come reagire ad un'emozione così forte dato che difficilmente mi emozionavo. Ogni piano che salii mi sembrava un passo in più fatto verso l'infarto. Il mio cervello aveva smesso di funzionare da tempo e il mio corpo sembrava pronto per quella che, in passato, chiamavano "maratona”! Ancora peggio fu quando arrivai al piano selezionato, appena mi avvicinai alla finestra chiusi d'istinto gli occhi dalla paura. Aspettai qualche secondo prima di aprirli ma quando lo feci vidi Lucy sorridermi commossa. Rispetto alle ragazze del mio grattacielo sembrava una dea, con quel sorriso che fino a quel momento non avevo mai visto in vita mia. Dopo averle sorriso Lucy prese il telefono per comunicare con me, ma purtroppo in quel momento notai una cosa terribile: avevo lasciato il cellulare in camera mia! Ero talmente preso da quelle emozioni così diverse dalla solita monotonia che dimenticai ciò che avevo di più importante a casa. Le feci dei cenni per farle capire che non lo avevo con me e dopo qualche minuto lo capii. In quel momento mi sentii vincolato e mi assillai di molteplici domande: perché non posso comunicare con lei? Perché non ho mai voluto comunicare con lei? Perché mi sembra così bello conoscere il suo mondo se io nel mio ho tutto?
Uno davanti all’altro, tanto vicini da riuscire a vedere il suo bellissimo sorriso ma non abbastanza da poterle sfiorare la mano. Quanto avrei voluto vivere liberamente il sentimento che piano piano si stava facendo spazio nel mio animo! Mi chiesi spesso il motivo per cui l’uomo utilizzi la tecnologia in un modo così orribile e contro se stesso, finendo per ingabbiarsi con le sue stesse mani, rinchiudendosi in un grattacielo a condurre un’esistenza alienata dalla monotonia. Poche persone ebbero il coraggio e la curiosità di spingersi al di fuori delle mura della propria abitazione, tra queste però ci fui io. Appena Lucy apparve davanti ai miei occhi come una splendida visione, capii che avrei fatto di tutto per conoscere il suo mondo, ero disposto anche a rompere la barriera di ipnosi che le centinaia di persone dei condomini avevano costruito tra sé e gli altri individui. Appena tornati nei nostri appartamenti presi immediatamente il telefono e mi scusai per non averlo portato con me durante il nostro incontro -seppur in lontananza- alle finestre:
Carl: Scusa tanto Lucy, sono stato proprio uno sciocco a dimenticare il telefono a casa
Lucy: Sai, certe volte non è necessario utilizzare le parole per avere una conversazione, anche se eravamo lontani i tuoi occhi mi stavano parlando. Mi ha fatto piacere vederti.
Carl: Grazie, sono stato contento di averti incontrata. Sei una persona molto coraggiosa, insomma l’idea di vedersi dalle finestre … Nessuno prima d’ora aveva pensato ad una cosa così fuori dall’ordinario”.
Lucy: Beh credo che la chiave dell’esistenza sia proprio la curiosità e poi perché mai dovremmo limitare il nostro bellissimo rapporto per delle regole così stupide?”
Carl: A proposito di questo… sai mi hai fatto capire quanto sia importante perseguire i propri sogni ed essere felice, che ne dici se osassimo incontrarci per davvero? Intendo proprio di persona…”
Lucy: Me lo stai chiedendo per davvero?! Mi piacerebbe tantissimo, ma proprio tu hai parlato della difficoltà ad entrare negli altri palazzi.”
Carl: Ho una soluzione, potrei provare a passare dall’ingresso dal quale i camion, il mercoledì mattina, entrano per scaricare le merci. Mi intrufolo e silenziosamente mi faccio trovare davanti alla tua scuola, così appena la campanella sarà suonata e tu uscita, potremo passare un bel pomeriggio insieme.”
Lucy: Il tuo piano sembra funzionare, ma non mi convince molto... fai attenzione ti prego!”
Carl: Tranquilla, sarò cauto, allora a domani!”
Dopo una notte insonne il mercoledì albeggiò, il cielo di primo mattino tinto di rosso indicò che era arrivato il fatidico momento di uscire dal Qubit 50 per la prima volta nella vita. La mia mente non smise un secondo di pensare al suo viso e al piano per entrare nel Qubit 51. Fin dal primo momento in cui mi sovvenne quest’idea seppi che non sarebbe stato facile. Soppressi i sentimenti di paura alle 7:40 del mattino, di soppiatto uscii dalla porta di casa mia poco dopo che i miei genitori si recarono sul posto di lavoro. Varcata la soglia camminai rapidamente verso l’ascensore che si trovava a pochi passi dalla mia abitazione. Dal piano 130 scesi rapidamente nella hall del mio grattacielo, un ingresso enorme, ampio come una pista da ballo fremente di persone in completi eleganti intente a recarsi ognuna nel suo ufficio.
Come oltrepassare le guardie che, attente, sorvegliano l’entrata principale non lasciando entrare ed uscire nessuno? Mi guardai attorno per studiare la situazione ma non vidi nessuna sentinella… Com’è possibile? In quel momento la mia attenzione si spostò su una donna stesa sul pavimento, sembrava svenuta e attorno a lei si erano radunate delle persone, alcuni curiosi ed altri intenti a porgere il loro soccorso, tra questi c’erano proprio le due guardie. Mi sembrò una perfetta coincidenza, la quale mi permise di uscire indisturbato dalle porte scorrevoli che separavano il grattacielo dal mondo esterno, per me inesplorato.
Il primo passo verso la libertà fu liberatorio. Vidi subito scorrere nella mente tutte le immagini della mia vita da prigioniero e pensai che mai più sarebbe successo. Svegliato dal mio torpore scappai da quei milioni di robot che camminano lungo il tracciato che è stato loro costruito sin dal primo minuto della loro futile vita, fin dal primo istante è stato privato loro il diritto di assaporare la dolcezza della libertà; così luccicante e soffice come un batuffolo di zucchero filato da gustare e di cui ora ne sto proprio assaporando un morso. Corsi subito verso l’entrata dello scarico merci del Qubit 51, in attesa che arrivasse qualche camion che facesse aprire le porte, ma nulla accadde. Passarono minuti ed ore che sembravano interminabili fino a che finalmente fino a quando non si aprirono le porte e le consegne arrivarono. Così senza che nessuno mi vedesse entrai di soppiatto nel magazzino e mi accucciai dietro a degli scatoloni in attesa che i fattorini se ne andassero in modo da non farmi vedere. Dopo circa un’ora non ci fu più nessuno… Uscii dal grande ripostiglio e mi incamminai verso l’ascensore per salire al piano in cui si trovava la scuola di Lucy, ormai erano le 13 e lei sarebbe uscita a momenti. Raggiunta la destinazione il mio cuore stava per scoppiare dall’emozione, finalmente il momento che tanto avevo immaginato e che mai avrei pensato di realizzare era giunto, la campanella suonò e centinaia di ragazzi si riversarono all’uscita. Non vidi però Lucy, dov’era finita? Aspettai fino a che l’ultimo studente non varcò la soglia della scuola, ma ancora nessuna traccia di lei. Sconfitto, amareggiato, deluso mi allontanai e decisi di aspettare ancora solo 10 minuti quando una voce femminile chiamò il mio nome:
Lucy: Ciao Carl”
Carl: Ciao, pensavo non saresti più venuta”
Lucy: Dopo tutta la fatica che hai fatto per venire da me pensi non mi sarei presentata?”
Carl: Beh ho avuto paura di sì, magari hai avuto dei ripensamenti…”
Lucy: Certo che no, oggi non sono solo andata a scuola”
Calò il silenzio per due buoni minuti
Lucy: Ti va di andare a mangiare qualcosa insieme?”
Carl: Certo, portami tu dove vuoi”
Lucy mi portò nel suo ristorante preferito nel quale rimanemmo quasi tutto il pomeriggio. Parlammo, parlammo e parlammo senza mai stancarci l’uno dell’altro, come se non ci fossimo mai conosciuti. Ogni minuto che passava compresi che qualcosa in me stava cambiando, che in qualche modo la mia mente si stava aprendo e liberandosi da delle catene invisibili, mi sentii più leggero. In quel lasso di tempo riuscii a capire quanto il suo mondo fosse fantastico e quanto non volessi mai più privarmi di provare quella sensazione così intensa come il conoscere qualcuno. Un’ultima cosa che mi sovvenne è che io la amavo e a capirla non fu il mio cervello bensì il mio cuore. Quella persona che all’inizio sembrava così pallosa e strana ora è diventata la persona più importante della mia vita, perché forse è questo l’amore: due cuori in armonia che danzano a ritmo di un valzer di parole e sguardi. Stare insieme e condividere se stessi, le proprie paure, le proprie storie, racconti, emozioni, sentirsi finalmente vivi e liberi. Stiamo entrambi assaporando la libertà in un momento senza tempo e spazio.
Quando uscimmo sulla terrazza del ristorante per respirare una boccata d’aria Lucy mi disse:
“Ora hai capito che anche se abitiamo in due diversi mondi, è come se fossimo sempre stati nello stesso? I nostri sentimenti non hanno barriere o limitazioni.”
Io le risposi: “Sì hai ragione e vuoi sapere anche un’altra cosa che ho capito? Ho capito che ti amo e che voglio continuare a vivere nel tuo mondo”. Lucy mi rispose: “Mi dispiace ma non ti conosco ancora abbastanza per amarti ma sarei davvero contenta di poter conoscerti meglio e poi un futuro... chissà! Magari anziché parlare di vivere nel tuo o nel mio mondo… impareremo a parlare di un mondo tutto nostro”.
Simone Banfi e Alessandra Zagaria
“Cantami, oh Diva…”
-Omero, Iliade
Il mercato a Roma era un’esperienza unica: turbini di stoffe colorate e profumi di spezie, mercanti giunti da ogni provincia dell’Impero portando strane lingue, frutti esotici e animali mai visti, artigiani che esponevano i loro pezzi migliori, artisti che danzavano e suonavano per racimolare qualche moneta, bancarelle di cibo da strada con spiedini che arrostivano sui fuochi… c’erano centinaia di persone venute per vendere, comprare o semplicemente divertirsi, come stava facendo Marco: fiere nobildonne accompagnate dai loro mariti patrizi, schiavi indaffarati, bambini che correvano in giro e mercanti che contrattavano.
C’era un gioco da fiera in cui bisognava lanciare un anello di metallo su un bastoncino: chi ci riusciva riceveva in premio una salsiccia abbrustolita. Marco si unì alla fila di ragazzi che provavano: in pochi riuscivano, ma lui voleva tentare comunque. In fondo, dopo tanto studio, quella era la sua mattina libera, doveva divertirsi. Giunto il suo turno, consegnò un sesterzio al gestore del gioco, prese l’anello e s’apprestò a tirare: si posizionò dietro la linea per il lancio davanti all’asta, prese la mira, scagliò il cerchio e… lo mancò completamente. Il salsicciotto però sembrava delizioso, così Marco tirò ancora due, tre quattro volte. E per altrettante volte perse miseramente.
Andandosene deluso, il suo sguardo venne attirato dalla bottega di un fabbro: un uomo muscoloso batteva rumorosamente l’incudine, modellando a colpi di martello un’elegante spata da cavalleria dorata, sprizzando scintille ovunque. Intorno al bancone erano esposte meravigliose daghe con else tempestate di gemme, elmi a forma di animali feroci e rapaci, armature e scudi con raffinate decorazioni e punte di frecce d’argento affilatissime. Sul retro, troneggiava un magnifico trono interamente d’oro. Forse Marco poteva permettersi un elmo decorato o magari un arco intagliato.
“Belle, vero?”
Marco sobbalzò: uno sconosciuto gli si era materializzato di fianco e ora fissava insieme a lui il bancone del fabbro. Come aveva fatto a non accorgersene? Il ragazzo fece istintivamente un passo indietro e squadrò l’uomo da capo a piedi: portava un petaso dorato, una semplice tunica maschile e reggeva un bastone decorato con due serpenti incrociati.
“Secondo me, comunque, - l’uomo lo consigliò- dovresti optare per qualcosa di semplice e funzionale, come un gladio: l’importante è che siano ben affilate, non le decorazioni. Devi fare attenzione ai soldi: potresti spenderli per niente, o qualcuno potrebbe rubarteli.” e con un sorriso furbo gli agitò davanti il suo portamonete.
“Ehi! Come hai…? Ridammelo! -sbraitò Marco- Non so chi tu sia, viandante ladro e straccione, ma io sono il figlio adottivo del…”
“Come osi?! Un viandante, ladro straccione?! -lo interruppe lo sconosciuto adirato- Tu non hai idea di chi io sia eh, piccolo? E che hai contro i viaggiatori in ogni caso?!? Probabilmente non mi crederesti nemmeno, ma stai pur certo che è meglio ascoltarmi.”
Lo sconosciuto gli puntò contro il suo strano bastone. Marco pensò di avere le allucinazioni: gli era quasi sembrato che i due serpenti intagliati avessero sibilato.
“Rivuoi indietro i tuoi spiccioli? Tieniteli, non m’interessa, ma dovrai aiutarmi a fare una cosa. -Continuò lo straniero lanciando il sacchetto di sesterzi al giovane- Dovrai rubare quell’anello per me” e indicò un piccolo anello d’oro appoggiato sul trono nel retro della bottega: non aveva nulla di particolare, era solo un cerchio di metallo giallo, una nullità in confronto alle altre elaborate creazioni del fabbro.
“Perché dovrei rubarglielo io, se tu sei in grado di sottrarre i portamonete con tanta maestria? E con tutta l’abbondanza che c’è su quel banco, perché vuoi un gingillo così insignificante?” si lamentò il ragazzo.
“Come dicevo, spesso l’apparenza inganna, come sta accadendo a te ora. Io voglio proprio quell’anello, ma purtroppo non posso prenderlo: il fabbro mi riconoscerebbe di certo (a differenza tua) e non gli sto molto simpatico: sai com’è, parenti serpenti!” spiegò l’uomo. Marco per poco non svenne: stavolta le serpi del bastone avevano fatto guizzare le code, ne era certo. C’era qualcosa di strano in quel tipo…
“Parenti? Per Giove! Chi sei tu?!” esclamò il ragazzo alzando gli occhi al cielo.
“Lascialo lì dove sta, il signore del cielo, che crea problemi anche senza chiamarlo! Ti do due opzioni, ragazzino: o fai quello che ti dico, o ti rivelo la mia identità e t’assicuro che, quando l’avrai scoperta, mi pregherai in ginocchio di non ucciderti (cosa che dovresti comunque fare). Allora?” Sbraitò l’uomo, fissando Marco con ira, mentre il suo bastone emetteva un sibilo sinistro.
Marco deglutì terrorizzato e, senza dire una parola, puntò verso il bancone del fabbro. Mentre camminava udì un ultimo avvertimento dal ladro misterioso: “Non toccare il sedile del trono!”. Il ragazzo si avvicinò con fare disinvolto al bancone del fabbro e tirò un calcio ad un’armatura, producendo un disastroso domino di scudi e lance e un frastuono metallico che fece andare il fabbro su tutte le furie. Scappò dietro la bottega appena prima che l’artigiano, distratto dal rumore, potesse vederlo ed entrò dall’ingresso posteriore. Strisciò carponi fino al trono dorato e, attento a non toccarne la seduta, afferrò l’anello coi polpastrelli e si dileguò il più in fretta possibile, mentre il fabbro era ancora intento a lamentarsi mentre riordinava la sua mercanzia.
Andandosene, afferrò un gladio per difendersi (non si sa mai) e, dato che lui non era un vile ladro di strada, lasciò cadere tutte le sue monete per ripagare il fabbro. Poi corse dall’uomo, che lo aspettava in fondo alla via, defilato dalla folla al centro della strada.
“Ah, vedo che hai ascoltato entrambi i miei consigli: sei un ragazzo sveglio!” esclamò il misterioso sconosciuto vedendolo tornare vittorioso.
“Ho l’anello, ma, visto che tu ci tieni tanto, ora potresti dirmi a cosa serve?” domandò il ragazzo, estraendo il gioiello e facendolo brillare alla luce del sole.
“Come dicevo, anche se non sembra, questo anello è intriso di una potentissima magia: dà al suo proprietario il potere di riuscire in qualunque impresa egli tenti” spiegò lo sconosciuto.
“No, non ti credo, uomo misterioso: è solo un cerchietto d’oro, non ha nemmeno, che so, una pietra preziosa.” ribatté Marco, che con il gladio in mano si sentiva un po’ più spavaldo.
Lo straniero sospirò: “Senti, visto che sei riuscito nella missione, mi sento generoso con te: ti concedo di provarlo, poi però me lo ridarai, oppure…”
“Sì sì, mi ucciderai in modo atroce eccetera eccetera.” Lo interruppe Marco roteando la spadina. Quella faccenda non gli piaceva e non si fidava dello straniero, ma volle comunque sfruttare l’occasione e, soprattutto, capire se quel tipo stesse dicendo la verità o se fosse solo un pazzo delirante. In entrambi i casi, avrebbe vinto lui: se diceva il vero, con l’anello avrebbe potuto sconfiggerlo, in caso contrario, non c’era nulla da temere.
Tornò alla bancherella del gioco a cui aveva perso, ma stavolta, anziché lanciare il cerchietto di ferro, usò l’anello d’oro: ci sarebbe voluto veramente un miracolo per farlo vincere, tanto la sua mira era pessima. Non si impegnò nemmeno e lanciò il gioiello a caso, ma l’anello cambiò improvvisamente traiettoria a mezz’aria, dirigendosi verso il palo. Era vero allora! Marco non ebbe nemmeno il tempo di sbalordirsi, perché, ancor prima che il gingillo potesse cadere sulla stecca, il misterioso ladro gli si materializzò di fianco e afferrò l’anello al volo.
Come aveva fatto!? Marco lo aveva lasciato in fondo alla strada… nessun uomo poteva correre così velocemente… E nessun uomo poteva volare! Il ladro si stava librando a due metri d’altezza con il gingillo stretto fra le dita, mentre fingeva di correre nell’aria con un paio di sandali con due piccole ali!
“A mai più tontolone! Ora hai capito chi sono?” esclamò vittorioso l’uomo volante, e si voltò nell’aria per andarsene con l’anello. Marco rimase a fissarlo sbalordito: quello era… No, non poteva essere: doveva essere impazzito, aveva decisamente le allucinazioni.
Mentre seguiva con lo sguardo la sagoma dell’uomo che si allontanava nel cielo, vide due uccelli dirigersi in picchiata verso il ladro volante: uno sembrava una grossa aquila dorata, l’altro, più piccolo, era una civetta dagli occhi grigio argento. I rapaci lottarono furiosamente fra di loro e contro l’uomo, contendendosi a colpi di becchi e artigli l’anello dorato. Alla fine, il gioiello gli sfuggì e iniziò a precipitare, cadendo fra le vie piene di bancarelle. L’aquila, disorientata, si librò sopra la piazza gremita di gente, e, non riuscendo a ritrovare il prezioso oggetto, se ne andò lanciando un acuto urlo di frustrazione. Un tuono riecheggiò in lontananza, facendo vibrare il terreno, ma non c’erano nuvole temporalesche nel cielo terso di Roma quel giorno. Terrorizzato dal grande rombo, anche l’uomo volante ripiegò, scomparendo fra le nubi, mentre la civetta planava verso il mercato per atterrare.
Marco corse a perdifiato fino al punto in cui aveva visto il gioiello cadere e si guardò intorno: in una pila di spezie aromatiche, un cerchietto dorato brillava al sole. Il ragazzo lo afferrò e se lo infilò al dito. “E adesso? -pensò - cosa dovrei fare ora?”. Gli stava scoppiando la testa: aveva appena visto tre dei… No, non era possibile… Doveva essere completamente ammattito a stare sempre chiuso nella sua villa nel Celio, studiando e preoccupandosi di come sarebbe stato da grande. Con Mercu… Ehm, il viandante, aveva fatto la voce grossa, ma in realtà lui si sentiva solo un povero ragazzo, imbranato, solo e spaurito: non sarebbe mai stato capace, quando il suo momento sarebbe arrivato, di eguagliare i suoi predecessori, di rendere grande Roma ancora una volta.
“Così ormai ti sei arreso all’idea di aver veramente visto gli dei? -nella sua mente frastornata, la vocina di Diogneto, il suo maestro, lo rimproverava- Non ti ho forse insegnato, durante le nostre lezioni di filosofia, che la ragione vince sempre su tutto? Che bisogna essere razionali?”. Giusto, non doveva lasciarsi condizionare dalle sue fantasie o da vecchi miti. Certo che era dura dare una spiegazione razionale ad un ragazzo volante.
Un guizzo d’argento lo riportò alla realtà: due brillanti occhi grigi incrociarono i suoi, penetrandoli come due frecce di ghiaccio, come gli occhi della civetta. Confusa fra la folla, una donna lo fissava con quello sguardo profondo. Un elmo d’argento a forma di gufo sormontava il suo viso bello ma severo, incorniciato da lunghi capelli neri come la notte. Portava un lungo peplo argentato e si ergeva, fiera e maestosa, come ne’ nobildonne ne’ generali avrebbero mai saputo fare. I loro occhi s’incontrarono di nuovo: “seguimi” sembravano voler dire ai suoi. E Marco, abbandonata ogni resistenza, dimenticato ogni sospetto, non riuscì ad opporsi a quello sguardo: la donna si voltò dirigendosi lesta verso i giardini pubblici e il ragazzo subito prese a rincorrerla fra la folla.
Arrivato in un grande parco, Marco si guardò intorno: sembrava che tutti i cittadini fossero al mercato, nessuno oziava sotto l’ombra degli alberi, nessun bambino giocava nel prato, nessun poeta contemplava i fiori aspettando l’ispirazione. Nessuno, tranne lei.
All’ombra di un ulivo secolare, stava la donna con l’elmo a forma di gufo: lo guardava come se volesse scrutare le profondità della sua anima con quei due occhi d’argento, gli stessi della civetta. Possibile che lei fosse l’uccello? Che lei fosse veramente…
“Salute Marco, è Minerva che ti parla!” La voce della donna risuonò cristallina nel parco deserto. Al ragazzo girava la testa per la confusione: non era pazzo allora, quello che aveva visto era realmente il dio Mercurio ed ora si trovava al cospetto della dea Minerva! Oppure quella donna era l’ennesima allucinazione, quindi effettivamente era matto davvero: forse a stare così tanto sui libri il suo cervello aveva perso la ragione.
“M-mia signora…” Balbettò Marco inchinandosi fino a sfiorare terra, la testa bassa e le mani tremanti per la paura: se quella era veramente una dea, era meglio mostrarle rispetto, altrimenti chissà cosa avrebbe potuto fargli. “Alzati, figlio di Marco Annio Vero: arriverà un giorno in cui non dovrai prostrarti più davanti a nessuno, spero solo che non abuserai del potere che ti sarà conferito.” Gli profetizzò Minerva.
“Subito, oh mia dea!” esclamò il ragazzo balzando in piedi di scatto. Ancora non osava guardarla negli occhi, quegli occhi che sembravano contenere allo stesso tempo la più grigia tempesta e la più pura luce stellare. Respirò profondamente e, raccolto tutto il suo coraggio, le chiese:
“Se è vero che quella con cui parlo è realmente Pallade Athena, dea della sapienza, allora l’uomo che ho incontrato poco fa era il dio Mercurio? Insomma, so che da mortale qual sono non dovrei azzardarmi a dubitarne, ma voi dei allora esistete realmente?” Marco si acquattò, come se si preparasse ad un eccesso d’ira della dea: aveva detto troppo e ora sarebbe stato punito per non aver tenuto a freno la lingua.
“Sono reale come l’ulivo sotto al quale mi trovo e sì, quello era Ermes, o Mercurio, come preferisci tu… Quell’anello che tieni fra le dita è veramente magico: il fabbro a cui l’hai sottratto era Vulcano, che ha forgiato quel gioiello fra le fiamme del monte Etna come dono di nozze per sua moglie Venere. Egli l’ha intriso d’un potere tale che qualunque cosa il proprietario desideri, l’anello gli permetterà di raggiungere il suo scopo: Efesto voleva usarlo per farsi amare da Afrodite, ma, se qualcuno lo desiderasse, potrebbe conquistare il mondo intero grazie a quel gioiello. È per questo che molti dei lo bramano e ti consiglio di metterlo al sicuro: Zeus sta ancora perlustrando la città sotto forma d’aquila.”
Il ragazzo ripose ubbidientemente il gingillo nella sacca: ormai si era arreso a quella situazione assurda, non era più nemmeno sbalordito.
“Ti prego, -continuò lei (“Una dea che prega qualcuno è un controsenso” pensò Marco)- trattami da tua pari: sono stanca d’essere guardata da tutti come un miraggio lontano, potente e terribile. Per secoli gli uomini mi hanno donato ogni genere di sacrificio o tempio, ma molti pochi hanno vissuto come io ho cercato loro d’insegnare. Tutta questa storia degli dei come esseri superiori è del tutto inutile, se il nostro favore viene visto solo come una merce di scambio da ottenere con un animale sacrificato. Sinceramente, se tu potessi nutrirti di ambrosia e fossi già una delle creature più potente dell’Universo, ti importerebbe qualcosa di un po’ di fumo puzzolente degli altari?”
“Io no, mia si… Ehm, no Minerva. Mi è sempre stato insegnato però che gli dei apprezzano quando noi li preghiamo, perché è un modo per mostrarci grati e rispettosi” rispose Marco.
“Beh, il problema è proprio questo: da quando sono nati, gli dei hanno goduto del potere di cui gli uomini li hanno investiti, bramandone sempre di più ed abusandone. Non ne posso più di vederli tirare le fila del mondo, decidendo le sorti delle guerre e delle faccende degli umani. Salvando individui spregevoli solo perché da loro avevano ricevuto una bella ecatombe e ne condannano altri per qualche sciocchezza. Io stessa devo dire che molte volte ho fatto cose che forse avrei dovuto lasciar decidere agli uomini: Achille aveva tutte le ragioni per farla pagare ad Agamennone dopotutto…”
“Ma la cosa che non sopporto maggiormente -continuò Minerva con un’espressione irritata-, è quando gli uomini, davanti ad una morte improvvisa o un fenomeno sconosciuto, subito danno la colpa a qualche dio, compiono un rituale di purificazione e liquidano così la questione… No, non dovete comportarvi in questo modo! Se a primavera la natura rinasce, dovreste studiarne il come ed il perché, non inventare qualche ipotesi su Proserpina… Se un vostro caro muore, non dite che Apollo l’ha colpito con le sue frecce: studiate il morbo che l’ha ucciso, così che possiate curarlo d’ora in avanti; o credete forse che il dio che invia pestilenze poi vi guarirà anche, solo perché è il protettore della medicina? Per anni l’umanità si è crogiolata nella sua ignoranza, creando un patrimonio culturale basato su ridicole superstizioni!
E la cosa non dispiace agli dei, no, anzi: sembra che la sola a preoccuparsene sia io! Ognuno di loro piuttosto vorrebbe entrare in possesso di quell’anello per poter dominare, oltre che la razza umana, anche le altre divinità, diventando il signore indiscusso dell’Universo e alimentando questo circolo vizioso.
Pure io lo desidero, in realtà. A Zeus era stato predetto che uno dei suoi discendenti l’avrebbe detronizzato come egli aveva fatto con suo padre e come Crono fece prima di lui: io, sua figlia, gli strapperò il trono del cielo e instaurerò un regno giusto, governato dalla sapienza, in cui ognuno potrà essere libero di scegliere per sé, senza dover rendere conto agli dei delle proprie azioni!”
“Mia signora, perdonatemi ma… Se posso permettermi… se io ora vi dessi questo anello, cosa vi renderebbe diversa da Zeus o Crono?” chiese Marco con la voce più bassa che potè, quasi sperasse in realtà di non essere udito.
“Questa è un’ottima domanda: si vede che hai una mente brillante nonostante la tua giovane età! Non temere di far valere la tua voce, ragazzo, perché essa è portatrice di saggezza! -rispose lei guardandolo meravigliata- Per risponderti comunque, io non siederò sul trono una volta che l’avrò conquistato: lo distruggerò insieme all’anello, così che nessuno, mai e poi mai, possa commettere lo stesso errore di mio padre e dirsi sovrano del mondo!
Ma perché io possa fare questo, tu ora devi promettermi una cosa, Marco, a nome di tutta la tua razza: è un compito gravoso, ma devo chiedertelo comunque... Se io vi darò il potere, promettete di amministralo con giustizia e saggezza? Prenderete in mano il vostro destino come giusti governatori di questa Terra? Esplorerete, come fece Odisseo, senza temere i confini imposti dagli dei? Userete le vostre menti, come fece Aristotele, dato che siete perfettamente degni e capaci di farlo?
Promettimelo Marco ed io distruggerò questo anello e il trono di mio padre, così che nessuno si senta più in diritto di giocare con l’Universo!”
“Io… io…” Marco era rapito da quel discorso, ma voleva ponderare bene la sua risposta: un’ombra aveva attraversato la sua mente, mostrandogli un’altra possibilità… E se avesse tenuto lui l’anello? Avrebbe potuto diventare lui il più grande imperatore di sempre: non sarebbe più stato solo un ragazzetto gracile, ma un dio!
Ormai aveva preso la sua decisione. Trovò il coraggio di guardare Minerva negli occhi e, come lei gli aveva ordinato, espose con voce chiara e salda la sua decisione:
“Io non posso garantire per il mondo intero, Minerva, dato che, come già tu hai detto, nessuno ha padroni ed è libero di vivere come meglio crede, nel bene e nel male. Io, Marco Annio Catilio Severo, però, m’impegno ad essere un buon imperatore quando il giorno verrà, a percorrere le vie della ragione e della conoscenza e a fare onore a questo mio voto!” e così dicendo le porse l’anello dorato, incrociando il suo sguardo fiero e soddisfatto.
“Bene, ragazzo! Non temere, diverrai un grande anche senza quel gioiello e la storia ti ricorderà come Marco Aurelio Antonino Augusto. Vai, dunque, tu e tutti gli uomini: svelate i segreti di ogni arte, liberatevi delle tenebre dell’ignoranza che troppo a lungo vi hanno impedito di vedere le stelle! Guardatele e puntate a quelle, e ti prometto che io sarò gli occhi che vi seguiranno nella notte indicandovi la via e la mia ala proteggerà sempre chi vorrà seguire il cammino che vi ho indicato!
Spero solo, in quanto dea della saggezza, di non essere stata cieca e avventata!”
E così dicendo, si trasformò nella civetta di prima e, afferrato l’anello d’oro con gli artigli, volò via, alla volta dell’Olimpo, scomparendo fra i cieli di una nuova Roma.
Martina Cucchi
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What if
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Obi-Wan e Anakin di Elisa Frigerio
Cosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66? Sarebbe cambiato qualcosa?
Sono tempi oscuri per la Galassia. Arrivato al Tempio Jedi di ritorno dalla sua missione, il maestro Jedi Obi-Wan Kenobi l’ha trovato assaltato da Cloni, guidati da un Jedi oscuro. Sconvolto dallo scoprire che il traditore è Anakin Skywalker, Kenobi è ora alla mercé del suo ex padawan.
Vader lasciò che la rabbia nutrisse il lato oscuro, che alimentasse il suo potere. Lasciò uscire tutta la frustrazione che aveva dovuto nascondere, tutta la delusione che aveva dovuto ingoiare. Lasciò esplodere tutti i sentimenti che il suo maestro e il codice Jedi gli avevano impedito di esprimere.
Ricordi invasero la sua mente, ricordi di irritazione, sfiducia, dolore. Ogni litigio, ogni scusa che aveva dovuto concedere anche se era lui ad aver ragione. Ogni volta che Obi-Wan l’aveva deluso, trattenuto, messo il Consiglio prima di lui. La volta che si era finto morto, incurante del dolore che avrebbe causato ad Anakin. Sua madre, morta tra le sue braccia, perché Obi-Wan gli aveva detto che si trattava soltanto di sogni.
Poi, la Forza annebbiò i suoi occhi e non era più Obi-Wan che stava strangolando. Era una donna, una donna così bella che lui la paragonava ad un angelo. -Padmé.- Lei si dimenava nella sua presa, lottando disperatamente per un po’ d’aria, pregandolo di lasciarla andare, ma lui non lo faceva… Non lo faceva…
Vader cadde in ginocchio. Sapeva di aver avuto una visione. Sapeva che la Forza gli aveva mostrato il futuro. Ma non poteva essere vero. Lui non avrebbe mai, mai fatto del male a Padmé. Lui l’amava.
Il suo sguardo saettò sulla sua mano, poi sull’uomo che stava strangolando. Il Jedi aveva smesso di lottare e pendeva inerte a mezz’aria. Vader lo lasciò andare. Il corpo si accasciò al suolo e lì rimase, immobile, senza vita.
Si ricordò che gli aveva voluto bene, non tanto tempo prima. Era stato il suo maestro, il suo migliore amico, il padre che non aveva mai avuto. Richiamò alla mente gli scherzi, le risate, i pericoli che avevano affrontato insieme, le battaglie combattute fianco a fianco. Pensò ad ogni bel momento che aveva trascorso con il suo amico, ogni ricordo piacevole che avevano condiviso. E ora… L’aveva ucciso?
In quel momento, Anakin Skywalker realizzò di essere circondato da corpi. Piccoli corpi senza vita. Bambini. L’avevano guardato pieni di speranza quando era entrato nella stanza, come se fosse quello che li avrebbe salvati. E lui li aveva uccisi tutti.
Chiuse gli occhi e un grido d’agonia sfuggì dalle sue labbra. Vide se stesso, come in un ologramma, tradire Mace Windu e tutti i Jedi, offrirsi a Sidious, marciare al tempio, uccidere i Jedi, uccidere i bambini, strangolare Obi-Wan.
Gli occhi azzurri di Anakin si aprirono di scatto. -Obi-Wan!-
Strisciò tra i corpi, raggiungendo quello del suo amico. -Ti prego, fa che non sia morto- Supplicò. “Obi-Wan!” Lo scosse con forza. “Maestro!
-Svegliati, ti prego. Ti prego- Prese il braccio dell’uomo con gentilezza, avvolse le dita attorno al suo polso, aspettò che il silenzio si spezzasse. L’attesa si protrasse, fino a quando non divenne troppo da sopportare.
-Prendi me. Prendi la mia vita, me lo merito. Ma lascialo vivere. - Anakin mandò la sua preghiera, se alla Forza o ad un’entità sconosciuta, non lo sapeva. Sapeva solo che stava pregando con ogni fibra di sé stesso. Era congelato nel tempo, nella sua attesa per la vita, ogni millesimo di secondo sembrava durare un’eternità.
Poi lo udì. Un calmo battito. Risuonò nel mortale silenzio della stanza, portando la promessa che non ogni speranza era perduta. Anakin ricominciò a respirare. Il maestro Jedi aprì gli occhi. Un’onda di tiepido sollievo invase Anakin, mentre una lacrima solitaria scendeva lungo la sua guancia e cadeva sui vestiti di Obi-Wan. Si fissarono per un momento, nessuno osava parlare o muoversi. Anakin aspettò immobile che l’altro facesse la prima mossa. Non gli importava ciò che Obi-Wan avrebbe fatto. Se lo consegnava al consiglio, se lo uccideva sul posto, qualsiasi cosa il suo vecchio maestro avrebbe fatto, Anakin se l’era meritato.
Il Jedi più anziano non fece nulla di queste cose. Non si mosse nemmeno. Tutto ciò che fece fu dire una parola, un nome. “Anakin” Non era che un sussurro, ma sembrò riecheggiare nella stanza perseguitata dalla morte, nel tempio bagnato di sangue. Non c’era traccia di accusa nella sua voce. Non c’era nemmeno l’incredulità che c’era stata la prima volta che Obi-Wan aveva pronunciato il suo nome. Solo tristezza.
-Mi dispiace- Anakin avrebbe voluto dire, ma le parole gli rimasero bloccate in gola. A che pro? Nessun “mi dispiace” poteva fare ammenda per ciò che aveva fatto. Niente avrebbe mai potuto fare ammenda per ciò che aveva fatto. -Ma forse…- Una scintilla di speranza si accese nel cuore del ragazzo. Forse poteva fare qualcosa. Forse la galassia poteva ancora essere salvata.
Si tirò in piedi, ma barcollò quando dolore e senso di colpa minacciarono di travolgerlo. Respinse indietro i furiosi sentimenti, cercando di dissiparli nella Forza. Non aveva il tempo di crollare. Ogni secondo che perdeva, un Jedi moriva. Tirò un Holo fuori dai vestiti. “Fermate l’ordine 66” Comandò. Diversi Cloni risposero come un sol uomo: “Si, lord Vader”
Obi-Wan sussultò al nome, ma Anakin finse di non notarlo. Avevano poco tempo. “Palpatine è Sidious. Mace Windu è morto” Lo aggiornò velocemente. “I Cloni si stanno rivoltando contro i Jedi. Dev’essere causato da un chip impiantato nella loro testa, che li costringe ad obbedire all’ordine 66. Li ho fermati, ma è probabile che Sidious abbia un piano di riserva, o qualcosa di simile.” Il suo tono era calmo, professionale, il tono di un soldato. Era di nuovo “generale Skywalker”. “Devi trovare un modo…”
Si fermò, rendendosi conto di non avere idea di cosa fare. E, anche se ce l’avesse, come poteva dare ordini ad Obi-Wan dopo… Dopo che….
No, doveva avere fiducia che il maestro Jedi avrebbe trovato il modo. Come faceva sempre. Offrì la sua mano ad Obi-Wan e lo aiutò ad alzarsi. Il Jedi sembrava un po’ disorientato, ma riuscì a chiedergli: “E tu? Che cosa farai?”
Qualcosa nel suo tono sorprese Anakin. Obi-Wan si stava ancora preoccupando per lui? Dopo tutto ciò che aveva fatto? No, non era possibile. Il Jedi doveva essere preoccupato per ciò che aveva intenzione di fare.
-E fa bene- Vader parlò dentro di lui. I lineamenti di Anakin si indurirono e i suoi occhi blu furono attraversati da un lampo giallo. “La farò pagare al responsabile di tutto questo”
Palpatine camminava avanti e indietro nel suo ufficio, furioso. Anni e anni di pianificazione, preparazione, manipolazione, solo per arrivare a questo punto. E ora… L’aveva percepito, aveva sentito Vader abbandonare il lato oscuro.
Gli occhi gialli di Palpatine scintillavano maligni nell’oscurità della stanza. Pose una domanda alla Forza, cercando di capire perché il suo nuovo apprendista l’avesse deluso.
La Forza rispose con un nome. -Kenobi-
Darth Sidious grugnì. Non aver fatto uccidere Kenobi era stato un errore. Avrebbe dovuto eliminare il Jedi tempo prima. L’aveva tenuto in vita solo perchè aveva ritenuto che i suoi screzi con Anakin sarebbero stati utili per convertire il ragazzo al lato oscuro. Sarebbe comunque morto durante l’ordine 66, si era detto. E invece...
Avrebbe potuto provare a riportare Anakin all’oscurità, ma era inutile. La presa del lato oscuro su di lui era più debole di quanto si era aspettato.
Concentrato sul Prescelto com’era, gli ci vollero diversi minuti per realizzare che i Cloni avevano smesso di sparare. E, in quel momento, la porta del suo ufficio saltò via. Un’alta, scura figura venne avanti tra le schegge, i suoi occhi azzurri brillavano nella luce bluastra della sua spada laser. Sidious capì di aver fallito.
Avrebbe potuto sconfiggere e uccidere il ragazzo, scoprire come mai l’ordine 66 si era fermato, farlo ripartire. Ma, senza l’elemento sorpresa, i Jedi sarebbero stati molto più difficili da uccidere. Avrebbero persino potuto trovare un modo di riportare i loro amati Cloni dalla loro parte. Ciò significava che le Guerre dei Cloni sarebbero continuate, solo con un cambio di schieramenti. Palpatine non avrebbe più potuto portare la pace immediata che aveva pensato di usare come mezzo per convincere le persone ad accettare l’Impero. No, il suo piano originale era fuori dai giochi. Ma, forse, ci poteva ancora essere un altro modo.
Skywalker avanzò, il volto contratto in un’espressione letale. -Vergogna! Avresti potuto diventare il più potente utilizzatore della Forza di tutti i tempi. - Palpatine corse. -Se solo avessi accettato il dono del lato oscuro.- La Forza diede prestanza al suo corpo e velocità alle sue gambe. Saltò in uno speeder, guidò più veloce che poteva attraverso il traffico notturno di Coruscant. Sapeva che il Jedi caduto lo stava inseguendo, ad un battito di cuore dal suo speeder.
Il Sith si fermò al primo locale affollato che riuscì a trovare, scese dallo speeder e ci si precipitò dentro. “AIUTO!” Urlò, attirando l’attenzione dei clienti. “Mi vuole uccidere!” Diverse persone si girarono nella direzione che indicava, giusto in tempo per vedere un’ombra scura munita di spada laser incedere verso la porta d’ingresso.
L’ombra si fermò sulla soglia, ispezionando la stanza con occhio esperto. Senza dubbio, stava cercando lui. -Sono qui, giovane apprendista. Ma prima, lascia che ti vedano.- Infatti, senza il cappuccio, caduto durante la corsa, le persone stavano iniziando a riconoscere Anakin Skywalker in colui che veniva accusato di tentato omicidio. E, mentre Anakin avanzava, diversi iniziarono a spingere verso la porta.
“È un Sith! Ha fatto questo!” Sidious tirò all’indietro il cappuccio, rivelando il viso sfigurato.
Un’onda di orrore si diffuse tra la folla e attorno a lui si creò il vuoto. -Bene, bene- Palpatine percepiva la loro paura, il loro odio. L’uomo che veneravano come “l’eroe senza paura” si era trasformato in un mostro davanti ai loro occhi. Poteva sentire il loro dolore.
Anakin fissava l’uomo che era stato suo amico, il suo mentore, il suo confidente. L’uomo che l’aveva manipolato dalla prima volta che si erano incontrati. L’uomo che l’aveva ingannato e trasformato in un mostro. “TU!” Urlò, imprimendo tutta la sua rabbia, tutto il suo odio, tutto il suo dolore in quell’unica parola densa di accusa. “TU MI HAI FATTO FARE QUESTO!”
Palpatine non battè ciglio. “Non ti ho fatto fare niente. Tutto ciò che ho fatto è stato darti una scelta. -Ti avrei dato il potere, un potere più grande di quanto tu possa persino immaginare- Pensò, dando sfogo all’amarezza. Non aveva ancora capito come il ragazzo si era liberato dalla sua presa. Gli aveva promesso tutto: potere, libertà, il modo di salvare sua moglie…
Non importava se aveva intenzione di concedere al suo apprendista solo la prima cosa: il ragazzo l’aveva creduto. Quindi, cosa aveva fatto Kenobi? Aveva forse sottostimato la profondità del suo legame con Anakin?
Ma non aveva senso rimuginare sui se. Sidious non avrebbe lasciato Kenobi vincere. Non avrebbe lasciato i Jedi vincere. Il suo desiderio di potere era troppo grande e la sua pazienza si stava esaurendo. Così, continuò. “E tu hai scelto di tradirmi, di tentare di uccidermi. Io, che sono stato il tuo mentore…”
La Forza gli diede un avvertimento, interrompendo il suo discorso. I Jedi stavano arrivando. E se gli abitanti di Coruscant avevano creduto alla sua recita, sapeva che i Jedi non l’avrebbero fatto. Era tempo di andare.
Anakin accese la sua spada, muovendosi nella direzione di Sidious con uno sguardo assassino. Un gran numero di persone che finora erano state troppo confuse per muoversi, iniziarono ad ammassarsi verso la porta.
-Tutti questi anni, tutti questi sforzo sprecato su di te. E come mi ripaghi?- Palpatine era furioso. Aveva preso in considerazione l’ipotesi che, alla fine, Vader avrebbe tentato di ucciderlo. Il tradimento era la via dei Sith, Sidious lo sapeva alla perfezione. Aveva ucciso il suo maestro, dopotutto. Solo, non si era aspettato che sarebbe successo così presto. Ma lo era e aveva compromesso i suoi piani.
In quel momento, Sidious giurò di vendicarsi del ragazzo che per anni e anni aveva tentato di portare dalla sua parte. Poi si tuffò nella folla impazzita di umani e alieni, sparendo dalla vista del Jedi oscuro.
Anakin scansionava la folla sia con gli occhi sia con la Forza, cercando disperatamente di scovare il Lord dei Sith tra gli esseri terrorizzati. Poteva sentire che i Jedi si stavano avvicinando e aveva bisogno di prendere Sidious prima del loro arrivo. Se all’inizio aveva voluto Sidious vivo perché era l’unico che poteva dargli il potere di salvare Padmé, ora aveva bisogno di ottenere delle risposte da lui. Ne aveva un disperato bisogno.
Che cosa significava la visione dello strangolamento? Era collegata alle altre? Era possibile che sarebbe stato lui la causa del parto mortifero di Padmé?
La parte di lui che non aveva mai smesso di chiedersi come Padmé avrebbe reagito se avesse mai scoperto ciò che lui aveva fatto al Tempio, rispose con un semplice sì. Anakin tremò al pensiero. No, doveva interrogare Sidious. Immediatamente.
Raddoppiò i suoi sforzi, spostando forme di vita fuori dal suo percorso con la Forza. Era inutile. Gli stupidi esseri continuavano a finirgli tra i piedi, impedendogli di raggiungere il suo obiettivo, lasciandolo scappare…
Anakin urlò, per la frustrazione e la furia. Ancora una volta, fece ricorso alla sua rabbia, al Lato Oscuro. I clienti furono spazzati via, sbattuti sulle pareti e sul pavimento dal potere della Forza. Il potere che lui aveva evocato.
Sapeva di aver ucciso qualcuno. Presumibilmente più che qualcuno. Ma non aveva tempo per controllare. Non aveva tempo di mortificarsi nel rimpianto. Insieme con i Jedi al tempio, i clienti del locale si sarebbero uniti ai fantasmi che già lo tormentavano. Alle ombre che sussurravano che non era altro che un assassino. Ma era qualcosa che avrebbe affrontato quando sarebbe andato a dormire. Ora doveva concentrarsi.
E, finalmente, riuscì ad intravedere l’uomo. Sidious era riuscito a ritornare al suo speeder e stava accelerando verso le vie di circolazione, dentro la notte. Si girò, la sua faccia sfigurata che riluceva in un modo inquietante tra le luci della città. I suoi occhi si fissarono su Anakin e sulla devastazione dietro di lui.
“Saresti stato un grande Sith. È un peccato che non fossi abbastanza devoto per imparare il potere del Lato Oscuro” Le parole del Sith risuonarono nella forza, riverberarono nelle sue ossa e mente. Sentirle aggiunse un bel po’ di carburante al fuoco dell’ira di Anakin.
Il ragazzo inseguì lo speeder, saltando da tetto a veicolo, volando sopra il vuoto senza paura di cadere. Ma non fu abbastanza. Lo speeder fece alcune rapide curve e, in un battito di ciglia, era sparito.
Anakin si ritrovò senza fiato, da solo, in una strada deserta nei livelli bassi. Aveva fallito. Una voce iniziò a parlare nella sua testa, un eco di tempi andati. -La paura è la via per il lato oscuro* E, per la prima volta, Anakin capì cosa l’antico Jedi aveva voluto dire.
Quando aveva visto Padmé morire, ancora ed ancora, nelle sue visioni; giusto e sbagliato avevano smesso di esistere per lui. La luce e il buio si erano confusi e mischiati nella sua mente, fino a quando lui non era più stato capace di distinguerli. E ciò era stata la sua rovina e quella di tutti i Jedi. La paura di perdere Padmé l’aveva condotto a perdere tutto.
-La paura conduce all’ira.- * Anakin urlò nella notte, il grido inarticolato danzò tra i grattacieli, inseguendo lo speeder che il buio gli aveva fatto perdere.
-L’ira conduce all’odio- *Odiava Palpatine, lo odiava con ogni fibra di sé stesso. SI era fidato di lui. Gli aveva confidato i suoi segreti più profondi, confessato le sue paure peggiori e i suoi errori più terribili. Certe volte, specialmente dopo un litigio con Obi-Wan, era arrivato persino a considerarlo la cosa più vicina ad un padre che avesse mai avuto.
Ora lo vedeva. Era sempre stato una pedina, una marionetta nelle sue mani. Ma era troppo tardi. Aveva già perso tutto al malvagio gioco del Sith.
-L’odio porta alla sofferenza- *Cadde in ginocchio nella stretta, vuota via. Stette lì per un tempo che sembrò protrarsi all’infinito, piegato nell’oscurità, il suo corpo scosso da violenti singhiozzi. Yoda aveva avuto ragione, dopotutto. Avrebbe dovuto imparare a distaccarsi. Peccato che Anakin Skywalker non fosse mai stato bravo ad ascoltare.
-Sei forte e saggio e io sono fiero di te- ** Ma, nell’uomo in lacrime raggomitolato sulla strada sporca, Anakin non riusciva a trovare niente di cui Obi-Wan sarebbe stato fiero.
Aveva perso anche lui. Proprio come aveva perso sua madre, la sua padawan, sua moglie. Perché, come poteva ritornare da lei dopo ciò che aveva visto? No, non l’avrebbe fatto. Mai. Non l’avrebbe mai più baciata, non avrebbe mai stretto il loro bambino tra le sue braccia. Non poteva rischiare di farle del male.
Aveva perso tutto e tutti. Era completamente e irrimediabilmente solo. Il grande cavaliere che Anakin Skywalker era stato aveva lasciato il posto ad un uomo spezzato. Che cosa poteva essergli rimasto?
Fu Darth Vader a rispondere. “Vendetta” Sussurrò nell’aria immobile. E, quando si avviò lungo la via solitaria, i suoi occhi erano di nuovo gialli.
La mattina dopo, Holonet News parlava di Anakin Skywalker, da eroe ad assassino. Mostrava registrazioni del combattimento dentro il locale, immagini dei morti. Ripeteva il nome con cui Palpatine l’aveva chiamato, quelle quattro lettere che già significavano male, morte e rovina. E, per la prima volta in un millennio, le persone iniziarono di nuovo a temere il nome Sith.
Quella mattina, Capitale Galattica si svegliò molto meno vivace del solito. Le persone camminavano veloci per le strade, pensavano ai loro affari. Alcuni si riunivano in gruppetti negli angoli e sussurravano le loro teorie su Anakin Skywalker. Se uno parlava troppo forte, veniva immediatamente zittito dagli altri. La paura impregnava la città, persino più profondamente di quando la flotta Separatista era apparsa nel suo cielo, qualche giorno prima.
Non solo il Cancelliere Supremo era scomparso: l’Eroe Senza Paura era un traditore. E, mentre il sole si sollevava nel cielo della capitale, i suoi abitanti si ponevano una domanda a cui nessuno aveva però il coraggio di porre ad alta voce: quale speranza era rimasta alla Galassia?
*Estratto da Star Wars: Episodio I: La Minaccia FantasmaElisa Frigerio
Lettera
prof. Silvano Brugnarotto
31 dicembre 2020
Ore 23.50
Caro 2020,
sei finalmente giunto al termine.
È incredibile come solo trecentosessantacinque giorni fa attendevamo il tuo arrivo impazienti, come i bambini che aspettano irrequieti il momento di scartare i regali.
Credevamo che ci avresti aiutato ad evitare una possibile Terza guerra mondiale, la deforestazione amazzonica, l’inquinamento delle acque e dell’aria, l’estinzione di varie specie animali, l’effetto serra, lo scioglimento dei ghiacciai, e la fine del mandato di Trump.
E invece ci hai burlati con una pandemia globale e una crisi economica profonda quanto tutta la Fossa delle Marianne.
Ti sei anche divertito molto con il tempo atmosferico, regalandoci alluvioni e una pioggia di grandine, con chicchi grandi quanto palline da ping-pong.
Per non parlare dei vari incendi che hanno distrutto intere foreste in Australia e California.
Ci hai costretti a vivere isolati dal resto del mondo, a diffidare di chiunque ci stesse a meno di un metro di distanza e a consumare computer, smart TV, tablet e smartphone a furia di guardare serie TV e film tutto il giorno, finché non abbiamo iniziato a confondere la mezzanotte con il mezzogiorno e il sole con la luna.
Fortunatamente nessuno si è trasformato in un vampiro, credo.
Con molta cattiveria, hai lasciato seicento milioni di bambini senza un’adeguata alimentazione, cure mediche di prima necessità e la possibilità di andare a scuola, mentre noi, i “ricchi” del mondo, avevamo tutto questo e facevamo le corse nei supermercati per accaparrarci l’ultimo pacco di pasta, zucchero e lievito, aumentando così i contagi.
Hai mietuto così tante vittime da farmi pensare che il tuo obiettivo fosse l’estinzione del genere umano per salvare la Madre Terra.
Se questo è il tuo umorismo, ti informo che circa otto miliardi di persone non l’hanno trovato affatto divertente.
Mancava solo una rivolta per coronare la tua torta con una ciliegina sulla cima, ma ormai è troppo tardi. /Non è che ci lascerai con una bella sorpresa, tipo gli ordini fatti online che arrivano in ritardo? Non sarai così infimo, vero?
Hai quasi concluso il tuo giro, per la felicità di tutti, e non vediamo l’ora di ripensare a te solo come un lontano ricordo.
Tra qualche anno al posto di dire “è un pandemonio”, diremo “è un 2020”, e al posto di scherzare con un “non mi attaccare l’influenza”, diremo “non mi attaccare il Covid”
In fondo, un po’ ce lo siamo meritato.
In un secolo siamo riusciti a distruggere migliaia di boschi per fare posto alle città e per fabbricare della carta, abbiamo inventato la plastica, uno dei materiali più inquinanti sul pianeta, e abbiamo spremuto tutto il petrolio che la terra aveva nel sottosuolo. E, cercando nuovi modi per vivere meglio, abbiamo creato l’effetto serra.
Devo comunque ammettere che in tutto questo schifo che ci hai donato, una cosa buona l'hai fatta.
Costringendoci a stare a casa, non abbiamo usato mezzi di trasporto, non abbiamo creato fumi tossici e liquami chimici.
Con la nostra assenza nei mari e nelle strade, gli animali si sono moltiplicati, come ad esempio le tartarughe sulle coste dell’Australia.
Per la prima volta nella storia americana Kamala Harris una donna, nera e con origini asiatiche è diventata Vicepresidente degli Stati Uniti d’America; lei è l’incarnazione del tanto amato “sogno americano”, poiché chiunque ci crede potrà realizzare i suoi desideri.
Molto presto arriveranno i vaccini e scopriremo se il tuo caro figlioletto Coronavirus sia davvero così invincibile. In Italia si è approvata la prima legge contro l'omotransfobia, la misoginia e la violenza a danno dei disabili. Forse riusciremo a debellare anche questo “virus”, che sembra colpire molte “ignare” persone che insultano o aggrediscono chi non lo merita; ricordiamoci, però, che queste persone sono inconsapevoli di ciò che dicono o fanno, perché affette da una grave forma di mancanza di rispetto a cui, molto spesso, si aggiunge l’ignoranza.
Pertanto, spero che i morti finiscano e che la pandemia si concluda, ma anche che l’uomo continui ad aiutare il mondo e non a calpestarlo.
Speranze vane, probabilmente, ma che almeno esistono e sono condivise da molti.
Non siamo un “io”, ma un “noi”, e viviamo sullo stesso pianeta; se muore la nostra Madre Terra, moriamo noi.
Con poco affetto, ma tante speranze, e a nome dell’umanità,
Francesca Stelitano
Fandom: Star Wars
Mondo: Canon, Prequel, Clone Wars 2008
Tipo: What if
Personaggi: Anakin Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Padme Amidala, Ahsoka Tano, Satine Kryze
Ship: AnakinXPadme, Obi-WanXSatine
Disclaimer: Tutti i personaggi e i luoghi citati appartengono a George Lucas e alla Lucasfilm Ltd (Disney)
Obi-Wan e Anakin di Elisa Frigerio
Tecnica: pastelloCosa sarebbe successo se Obi-Wan Kenobi fosse tornato prima dallo scontro con Grievous? E se avesse comunicato al Consiglio il risultato dell’incontro solo durante il viaggio? E se questo l’avesse portato a trovarsi al Tempio durante l’ordine 66?
Sarebbe cambiato qualcosa?
La Guerra dei Cloni è alle battute finali. Il generale Jedi Obi-Wan Kenobi è stato mandato a Upa City, contro il generale Separatista Grievous. Nel frattempo, a Coruscant, i Jedi aspettano l’esito dell’incontro per determinare da che parte stia la lealtà del Cancelliere Supremo Palpatine.
La battaglia era stata veloce. Più veloce di quanto si aspettasse Persino troppo, per essere la battaglia che avrebbe dovuto porre fine alle guerre dei Cloni. Ma, dopo tre anni di guerra, il generale Jedi Obi-Wan Kenobi non aveva certo intenzione di lamentarsi. Riagganciò la sua spada laser alla cintura e girò le spalle al cumulo di metallo fuso che era stato il generale Grievous. Doveva mettere in sicurezza il pianeta.
Ma, il suo subconscio gli suggeriva che, in fondo, erano solo droidi rimasti senza guida. Era qualcosa che i Cloni erano perfettamente in grado di gestire da soli, o no?
Obi-Wan sospirò. La verità era che aveva fretta di tornare a Coruscant. Non si fidava a lasciare Anakin da solo, non con il compito che gli era stato assegnato. No, nemmeno questo era vero. Aveva piena fiducia nelle abilità del suo ex-padawan. Era solo che… era preoccupato.
La nuvola nera sopra la Forza si stava facendo più pesante e lui era in apprensione per il ragazzo. La sua sfiducia nel Consiglio, la sua tendenza ad infrangere il Codice, la sua storia d’amore segreta di cui Obi-Wan sapeva pochissimo, l’anormale quantità di tempo che passava con il Cancelliere…
“Smettila!” Si ordinò. I Jedi non permettevano agli attaccamenti di interferire con il loro dovere. I Jedi non ne avevano… O meglio, non ne avrebbero dovuti avere. E Obi-Wan era un bravo Jedi. No, non era attaccato al suo ex-padawan. No, non era attaccato al ragazzo che aveva cresciuto da quando aveva nove anni, il ragazzo che lo considerava un padre, il ragazzo che era stato al suo fianco per gli ultimi tredici anni…Certo che no...
“Oh, kriff” Imprecò tra sé quando realizzò che il suo subconscio aveva avuto la meglio sulla sua parte razionale. Si fermò sull’orlo di una scogliera e osservò Pau City sotto di lui. I cloni sciamavano dai buchi e dai canyon del pianeta, combattendo contro i droidi. Sembravano avere la situazione perfettamente sotto controllo.
Il Jedi attivò il comunicatore. “Comandante Cody, mi senti?”
Sentì qualche raffica di blaster, un urlo e, finalmente, la risposta. “Affermativo, generale.” “Pensi di potertela cavare da solo da qui in avanti?” Era quasi una domanda retorica. Obi-Wan era sicuro che Cody e la 212 esima potessero provvedere a un mucchio di droidi di battaglia senza problemi di sorta.
Il comandante non lo deluse. “Affermativo, signore. Ma, se posso chiedere, dove andrà?”
Il generale esitò un momento. -Non è la via dei Jedi- Si rammentò. Ma doveva andare. La Forza era coperta da una nube scura e lui si sentiva una persona a metà senza il suo migliore amico al suo fianco. “A casa”.
Dire la parola era stato facile, abbracciare la propria decisione molto meno. Il dubbio continuò a perseguitare Obi-Wan persino mentre entrava nell’iperspazio. -Stai facendo la cosa giusta. Anakin ha bisogno di te!- La voce nella sua testa assomigliava a quella di… Qui-Gon?
No, non era possibile. Era solo la sua mente che cercava di venire a patti con la decisione presa. E, tanto per rigirare il dito nella piaga, aveva pensato che sarebbe stato divertente parlare con la voce del suo defunto maestro. Ma, davvero, gli era sembrato di sentirlo. Come se fosse lì, dietro di lui. -Wow, prima me ne vado da una battaglia in corso, ora sento le voci… che succederà poi?- Si chiese, con l’accenno di un sorriso tra il divertito e lo sconsolato.
Perso nei suoi pensieri, realizzò solo quando era a metà strada da Coruscant di non aver detto al Consiglio della sconfitta di Grievous. “Kriff!” Imprecò, sentendosi avvampare per la vergogna. Il destino della Repubblica si basava sull’esito del suo duello. Era l’unico modo di provare le vere intenzioni di Palpatine. Obi-Wan avrebbe voluto prendersi a schiaffi. L’intera galassia era in bilico e lui se ne era semplicemente… dimenticato?
-Non sarebbe successo se tu avessi seguito il Codice- Gli ricordò la sua mente in un tono deluso e amaro. Ma era troppo tardi per i rimpianti. Obi-Wan attivò il trasmettitore, comunicò il messaggio. I Maestri sembrarono leggermente confusi dal suo tono affrettato, ma preferirono non replicare.
-Bene- Pensò. Avrebbe spiegato tutto una volta arrivato al Tempio. Il che significava che se voleva inventarsi una buona spiegazione per il disastro che aveva fatto, avrebbe avuto a disposizione solo qualche anno-luce di strada.. “Meglio che inizi a pensare” Borbottò tra sé.
Atterrando fuori dal Tempio, Obi-Wan sentì immediatamente che qualcosa non andava. E no, questo qualcosa che non aveva niente a che fare con il fatto che la scusa migliore che era riuscito a mettere insieme non avrebbe convinto nemmeno un bambino.
Il posto sembrava estraneo, oscuro. Il cielo era buio, di un’oscurità più profonda della notte. Era come se la nuvola nera sulla Forza avesse avviluppato Capitale Galattica nelle sue spire e la stesse strangolando, soffocando la vita e l’anima della città come della Repubblica. I Cloni marciavano per le strade, armati come se stessero andando in guerra. Ed effettivamente erano in guerra, ma questa volta i nemici non erano i droidi, erano…
“Che diamine…” Obi-Wan sbatté le palpebre, incredulo. Non potevano essere diretti al Tempio Jedi... Non un’intera colonna di Cloni, non con le armi tenute in quel modo, non guidati da una scura figura incappucciata. Nel tempo in cui Obi-Wan scese dal caccia stellare, il drappello aveva raggiunto le porte del Tempio. Un Jedi uscì e sollevò la sua spada laser in un atteggiamento di difesa. La figura oscura accese la propria, di colore blu.
Obi-Wan rilasciò il respiro che non si era reso conto di aver trattenuto. Aveva frainteso l’intera situazione. -Questa guerra mi ha reso paranoico- Pensò. I Cloni erano accompagnati da un Jedi. C’era sicuramente una buona spiegazione per questo: un nuovo piano, un discorso, un… il Jedi ammantato di nero passò il suo compagno da parte a parte.
Dalle labbra di Obi-Wan scappò un grido d’orrore, che riecheggiò nella piattaforma di atterraggio. Diversi Cloni che facevano la ronda nelle vicinanze si fermarono all’udire il rumore. La Forza urlò un avvertimento. Rivolsero le armi contro Obi-Wan e iniziarono a sparare.
Altri Cloni si aggiunsero al combattimento mentre Obi-Wan metteva al tappeto i primi. Erano duri da abbattere, molto di più dei droidi. Erano stati creati come supporto per Jedi e, con i Jedi, avevano perso e vinto battaglie, messo a punto strategie, portato a termine missioni, viaggiato per tutta la galassia per tre anni.
Ora stavano uccidendo i Jedi ed erano così bravi che sembravano essere stati fatti apposta per quello. -E magari lo sono- Pensò Obi-Wan, schivando un'altra raffica di blaster. Niente aveva più senso. Le loro leali truppe potevano benissimo essere state create per ucciderli.
Quando riuscì finalmente ad entrare nel Tempio, i vestiti del Jedi erano stracciati e pieni di buchi, qualche leggera ferita di blaster pungeva da sotto il tessuto carbonizzato. Quelli all’interno non erano stati così fortunati. Le sale erano disseminate di cadaveri.
Il cuore di Obi-Wan gli gridava di inginocchiarsi davanti a loro, controllare se ci fossero i suoi amici, ma ignorò l’impulso. Non aveva tempo per i morti. Aveva a malapena tempo per i vivi, se qualcuno era ancora vivo in quel massacro. Quindi rilasciò il suo dolore nella Forza e continuò a correre attraverso il Tempio, diretto al suo cuore. Alla sala del Consiglio.
La stanza era anch’essa cosparsa di cadaveri. Questi, però, erano più piccoli degli altri, appartenevano a dei padawan, a dei bambini. E, nel mezzo della stanza una figura scura assaliva gli Iniziati che ancora combattevano, uccidendoli ad uno ad uno con freddi, implacabili affondi della sua spada laser.
Nuove ondate di dolore, orrore e incredulità sommersero Obi-Wan, per poi fondersi in un solo, dirompente, sentimento: rabbia. “Trovati uno sfidante della tua taglia, codardo traditore” Urlò. Poi inspirò profondamente, forzandosi a liberarsi della rabbia. L’ira non era la via dei Jedi.
L’ombra si voltò. Il cuore di Obi-Wan affondò più profondamente di quanto avrebbe mai pensato possibile. -No, non può essere… lui non può… non farebbe mai…- I pensieri imperversavano nella sua testa, mentre una sensazione di freddo e vuoto si diffondeva per il suo corpo, congelando il suo cuore e membra.
Conosceva quel volto. Conosceva quei capelli che si era lentamente abituato a vedere senza la treccia da padawan. Conosceva la voce che stava parlando, conosceva la parola che stava dicendo e il suo significato: “Maestro”. E aveva conosciuto quegli occhi, quando erano stati azzurri e brillanti e frementi di vita.
“Anakin” Sussurrò, non osando pronunciare il suo nome ad alta voce. Temendo che, facendolo, avrebbe reso tutto ciò reale. Ma lo era già. Com’era potuto accadere? L’aveva visto qualche ora prima. Si erano lasciati con un sorriso e un “Che la Forza sia con te”. Come poteva… come aveva potuto fare…tutto questo?
“Maestro” Ripetè l’ombra, più forte, più freddamente. Obi-Wan si sentiva come intrappolato in un incubo dal quale non riusciva a fuggire. Uno che non sarebbe svanito ai primi raggi del sole.
Il Jedi oscuro tese la mano. La Forza si avviluppò attorno al collo di Obi-Wan, soffocandolo. Il maestro Jedi era troppo sconvolto per reagire. Anakin, o chi o cosa era ora, parlò di nuovo. “Non avresti dovuto essere qui.”
Elisa Frigerio
It’s just the first day of school. Nothing to worry about. Sara repeated himself for the millionth time as she walked along the corridor. It’s just the first day of school in a private school in a foreign country where you don’t know anyone apart from your cousin who’s a jerk. Absolutely nothing to worry about. The thought was quite depressing. [Continua a leggere su B-Lingue...]
Elisa Frigerio
Guerra.
Che cos’è la guerra?
Un’esplosione che fa tremare la terra,
che rende i fratelli nemici
e fa trarre ai più potenti benefici.
È chi la deve combattere
che la guerra può abbattere;
stroncare le vite,
distruggerle, come fosse dinamite.
Uccide solo la differenza di uniforme
non c’è traccia d’amore nemmeno nelle orme,
di quei piedi scalzi di un bambino,
il cui destino
è già segnato,
egli è già predestinato a combattere
contro suo papà.
Il rumore di armi è ormai estenuante
la sofferenza accecante
tanti piccoli fiori rossi adagiati,
sul suolo,
insanguinati.
Mille morti anzi milioni,
non possono essere raccontati
tantomeno nelle canzoni,
le mogli nelle loro abitazioni
pregano che loro marito ritornerà,
ma nemmeno Dio lo saprà,
anche se la speranza di salvezza non si estinguerà.
La guerra stronca le aspirazioni.
anche solo i pensieri son pericolosi
rumorosi, velenosi.
Chi sognava di correre può solo desiderare di non morire
proteggere la propria famiglia
per non abortire,
l’ultimo embrione di illusione
che accomuna un milione di personalità.
Per favore fiori, non appassite
non siate mortali come le vite
così deboli e facili da mozzare,
il senso di precarietà mai ci potrà abbandonare.
Non lasciate il vostro prato
salvate quel soldato accasciato
perché è una persona,
anche se lui è francese e tu italiano
appartenete entrambi alla stessa zona,
il mondo,
sii sempre emozionato…
C’è chi scappa e chi combatte
ma è la sorte che ci abbatte.
Si tratta solo di morire un giorno dopo,
della guerra quello è lo scopo.
Non si riesce a percepire la fine,
non si distinguono nemmeno le rovine
perché tutto è polvere
quando si vede il mondo dissolvere.
Non muoiono fantasmi ma individui
della persona rimangono i residui
ma che nessuno vuole più vedere
perché ormai sei un numero.
Non interessa che fossi un arciere o un artificiere
Sei solo un numero.
E se muori la tua tomba è il terreno
freddo come il ghiaccio, anche in estate
le sofferenze sono terminate
ma le tue figlie non sanno che le hai lasciate.
Avevi giurato che non te ne saresti andato
ma il filo della vita è stato tagliato.
Sembra che la guerra piaccia,
la storia per l’uomo è cartastraccia.
Insegna solo se si è disposti ad imparare
non sono un buon allievo ma sono disposto a sbagliare.
Non commettiamo più gli errori del passato
perché tanti morti l’uomo ha causato.
Tu, sole che splende nel cielo.
Mondo, ricoperto da un velo.
Arriva il tramonto,
così la tua mancanza affronto.
Anche le stelle si spegneranno
e una grande oscurità lasceranno;
così arriva la notte
doloroso tumulto e pauroso,
i pensieri mi sommergono a frotte,
sei solo un ricordo affettuoso.
Mi sveglio ed il sole è sparito
come un fiore è appassito,
le persone inconsapevoli
del mio cuore distrutto
per non accorgersi sono colpevoli.
DOPOTUTTO ciò che mi è rimasto è solo il lutto:
addio, questo è un saluto verso l’eternità
l’unica cosa che ci separerà.
Alessandra Zagaria
Appena arrivammo al luogo che De Marco ci aveva indicato io e Ilaria ci trovammo di fronte una scena orribile: il corpo penzolava dalla cabina della ruota panoramica mentre i pompieri usavano la scala per tirare via dall’attrazione il macabro fardello.
«Beh, non è una cosa che si vede tutti i giorni, credo.» disse.
«Ti prego, potresti mostrare un po’ più di sensibilità? Almeno in queste situazioni.» la rimproverai.
«E perché? Ormai quello lassù è morto. L’unica volta in cui mi mostrerò sensibile sarà quando parlerò con i familiari. Ammesso che abbia dei parenti ancora vivi.»
Rimasi molto infastidito dal suo ragionamento, anche se ormai dovevo esserci abituato. Oltrepassammo il nastro di confinamento e sotto la ruota panoramica l’Ispettore De Marco ci salutò.
«Marchetti, Lombardi.»
«Ispettore.» rispondemmo all’unisono
Subito De Marco ci indicò il corpo mentre questo veniva portato a terra.
«Ci hanno chiamato all’una dicendoci che avevano visto un cadavere impiccato alla ruota panoramica.»
Quando finalmente venne disteso il corpo, scoprimmo che la causa della morte non era per impiccagione: l’area dello stomaco era tempestata dal sangue fuoriuscito che aveva macchiato la camicia.
Era un uomo, doveva avere tra i cinquanta e i sessant’anni; aveva diversi ematomi sui polsi, capelli bianchi e perfettamente in ordine, una camicia bianca insanguinata sotto al giaccone nero, delle tracce d’olio di motore sul giaccone e sul braccio; sul collo, il segno lasciato dalla corda che gli aveva fatto da cappio e che era ancora legata ad esso. Dopo che l’ispettore ebbe fatto rimuovere la corda, Ilaria si abbassò per osservare il cadavere, come faceva di solito. Mentre esaminava il cadavere con la lente d’ingrandimento, chiese:
«Qualche idea su chi era?»
«Beh, sembra che fosse il proprietario del parco di divertimenti: un certo Paolo Necanti.» ,rispose De Marco.
«Precedenti?»
«Nessun precedente, a quanto ci risulta.»
«Trovato qualcosa di nuovo, Giulio?» – mi chiese.
«Per ora no, solo gli ematomi sui gomiti e l’olio di motore. Dovremmo aspettare che venga portato all’obitorio.»
«Okay. Controlliamo la cabina della ruota panoramica.»
Appena la ruota venne azionata la cabina scese al punto d’ingresso e da lì vi entrammo dentro.
C’era sangue nella parte destra della cabina, sul posto a sedere, sul soffitto e sul vetro infranto; dall’altra parte, c’erano solo alcune gocce di sangue.
«La vittima o conosceva il suo assassino, o l’assassino l’ha obbligato ad azionare la ruota. E La vittima era in piedi quando gli hanno sparato, a giudicare dal sangue sul soffitto.»
«Secondo te volevano ucciderlo fin dall’inizio?», le chiesi.
«Non lo so. Per ora ho troppi pochi elementi che mi permettano di dirlo con certezza.», disse.
«Però credo che non lo volessero uccidere; ma che volessero, semmai, spaventarlo. Di solito, se una persona vuole uccidere qualcuno, spara subito, e non quando la vittima è in procinto di attaccare. Forse volevano fare come nei film, dove l’assassino dice qualcosa alla sua vittima e poi la uccide… Ma per ora credo che l’abbiano ucciso perché lui si era alzato per difendersi.»
«Scusate, - intervenne De Marco - ma perché dite che erano in più di uno?»
Ilaria sorrise:
«Oh, ispettore. Sempre brillante ma la sua tecnica d’investigazione è sempre attaccata ai protocolli.» gli disse. «I segni sui polsi dimostrano che la vittima era tenuta saldamente, quindi è certo che coloro che erano sulla cabina erano più di uno. A meno che l’assassino avesse tre braccia…»
«E riguardo al finto suicidio?», chiese De Marco.
«Questa è la parte più intrigante.», rispose. «Ancora non so con certezza se il finto suicidio era programmato, però credo di sapere come siano riusciti ad appendere il corpo.»
«Davvero? E come?», le chiese De Marco.
«Credo che insieme all’assassino ci fosse una persona molto agile e dotata di grande equilibrio, una specie di equilibrista. L’assassino e l’equilibrista, dopo l’omicidio, hanno inscenato il suicidio con l’equilibrista che legava la corda e l’assassino che gli passava il cadavere.»
Io e l’ispettore De Marco rimanemmo sbalorditi dalla sua teoria; De Marco fu il primo a riprendersi, dicendo:
«Credo che sia improbabile, Marchetti.»
«Però è anche possibile,» – ribatté Iaria, – «e a provare la mia versione sono quelle macchie d’olio di motore sulla cabina.» indicò con il dito il tetto della cabina.
«Non vedo niente.», disse l’Ispettore.
Ilaria gli disse:
«L’uomo, quando ha davanti a sé le soluzioni ai problemi – soprattutto per lunghi periodi – tende a non notarle. Ecco perché esistono le donne, ispettore.»
L’ispettore rispose semplicemente:
«Non ha tutti i torti.»
In quel momento arrivò la squadra del R.I.S. insieme al questore Giusti. Appena ci vide ci venne incontro e chiese all’ispettore:
«Allora? Cos’è successo qua?»
Dopo che De Marco gli ebbe esposto la situazione, il questore chiese a Ilaria cosa ne pensava.
«Beh, sicuramente è un caso strano, signore. Un omicidio commesso in una cabina di una ruota panoramica a 15 metri d’altezza. E che dire di come hanno fatto ad appendere alla cabina il corpo della vittima?»
Il questore la interruppe:
«Okay, Marchetti, ho capito. Le do carta bianca a patto che collabori con l’Ispettore. Non voglio che finisca come l’altra volta.»
«Tutti fanno degli errori, signore.», rispose Ilaria.
«Già, ma rischiare di perdere un carico di armi – tra cui tre blindati – è più di un errore.” – la riprese Giusti. «Meno male che sono riuscito a convincere i piani alti di continuare a permetterle di partecipare ai casi, altrimenti lei non potrebbe stare qui.»
«Suvvia, signore,» – gli disse – «non guardi al passato, noi esseri umani dobbiamo guardare due cose: il presente ed il futuro.»
«Sarà…» rispose il questore prima di andare a parlare con altri ufficiali.
«Bene», disse Ilaria «Qua per ora non c’è altro da fare»
De Marco le chiese:
«Ma come? Non vuole andare a salutare Pietroni?»
«Ispettore,» gli rispose Ilaria, «Pietroni è un incapace, e cercare di farlo ragionare per portarlo verso la soluzione non gli farà mai bene. Meglio che impari dai suoi errori, piuttosto, se mai riuscirà a capire che errori fa.»
Così dicendo, alzò la mano per salutare Pietroni. Quest’ultimo era impegnato a mettersi la tuta e, quando si accorse che Ilaria lo salutava, alzò la mano per rispondere al saluto; ma, così facendo, perse l’equilibrio e cadde, prendendosi il rimprovero del questore.
«In piedi, Pietroni, non siamo qui a giocare a fare i buffoni.»
Poi il questore si girò e disse:
«E lei, Marchetti: un po’ di contegno.».
Salutammo De Marco dicendogli che ci saremmo trovati all’obitorio e poi salimmo in macchina. L’orologio dell’auto segnava le due di notte.
«Wow, siamo stati poco sulla scena del crimine.»
«Già, il tempo è relativo.” – disse Ilaria. Sbadigliò, allora le chiesi:
«Hai sonno?»
«Beh, avresti sonno anche tu se ti svegliassero all’una e mezza.», rispose.
«Però ti sei mostrata interessata al caso del finto suicidio.»
«E che dovevo fare, mostrarmi scocciata?»
«Sei sempre stata così.»
Mi guardò
«In che senso?»
«Intendo dire che hai avuto sempre quel caratterino e quella schiettezza.»
«E allora?»
«Beh, volevo dire che è il motivo per cui mi sei sempre stata simpatica, solo questo.»
«Anche te sei simpatico.», disse.
«Wow, un complimento da Ilaria Marchetti è probabile come la vincita al Superenalotto.»
«Spiritoso. Dico solo che è da quando abbiamo cinque anni che ci conosciamo. Tu sei una persona normale, Giulio, eppure mi sei sempre stato più simpatico degli altri.»
Svoltai in via Bergamini ma frenai di colpo.
«Perché hai frenato?»
Le indicai l’ingresso del condominio:
«Giornalisti.»
Un piccolo gruppo di inviati dei principali TG si era piazzato davanti all’ingresso, probabilmente per intercettarci. Lei mi guardò infelice.
«No, tutto ma non loro.»
Continuammo per la via e, dopo aver parcheggiato dietro il condominio in via C. Colombo, entrammo dai garage e finalmente potemmo ritenerci al sicuro dai media – almeno per quel giorno.
Riccardo Bianchi
Una notte rinfrescata dalla pioggia.
Ma non quella pioggia dura e fredda che bagna fino al midollo. Una lieve scrosciata primaverile che innaffia dolcemente i campi e pulisce l’aria.
Inspirai quell’aria pulita che mi diede per un attimo una sensazione di pace eterna. Di tranquillità.
Una tranquillità interrotta dai milioni di pensieri che mi frullavano in testa.
Quei momenti mi piacciono particolarmente. Quei momenti in cui ci sei solo tu, senza alcun tipo di distrazioni che possano interrompere il tuo essere solo tu. Essere completamente te stesso. Solo con i tuoi pensieri. Solo. È così che mi sento.
La solitudine è qualcosa che è difficile da spiegare. Ci si può sentire soli anche circondati da una marea di persone, e al contrario ci si può sentire completi, in compagnia quando si è completamente isolati dagli altri.
La pioggia è l’immagine perfetta della solitudine. In tanti la pensano così, io però non sono d'accordo. Il silenzioso ticchettio di quelle infinite gocce che per qualche ragione fanno a gara a chi arriva per prima su di un albero, su di un tetto, o sulla strada.
La pioggia mi da un senso di sicurezza perchè so che una piccola goccia non si sentirà mai sola, avrà sempre il sostegno delle sue altre compagne che, insieme a lei, si avventureranno in quel viaggio così lungo (ma allo stesso tempo così breve) verso il basso.
E, se così non fosse, se quella goccia fosse sola, allora non vi sarebbe la pioggia. Ci sarebbe solo una goccia che per qualche strana ragione cade dal cielo e muore in solitudine.
La finestra che ho lasciato semi aperta mi fa sentire quel leggero canto e quell’inebriante aria di primavera.
Mi rendo conto di essere solo.
Solo nella notte ad aspettare che il sonno mi rapisca. E perchè mai dovrei addormentarmi quando sono assorto in questo meraviglioso istante?
Che gusto c’è nel dover andare per forza a dormire quando non si ha la minima stanchezza, il minimo segno di essere indeboliti dal giorno appena passato?
La notte è così magica. Tutto tace e nel silenzio ci si lascia andare alle proprie debolezze, alle proprie ansie e inquietudini. La notte però è anche portatrice di idee fantastiche, rivoluzionarie, di consigli su come risolvere problemi, problemi di vita.
Che cosa strana la vita – non trovi? Quando si vive non si sa spiegare la ragione per cui si è venuti al mondo, ma quando si è a un passo dalla morte tutto diventa inevitabilmente chiaro.
Questa sensazione di chiarezza, però, è riservata solo a pochi. A chi ha dovuto perdersi, lasciarsi cadere nell’ignoto, nell’incertezza. Solo questo può portare a conoscersi. A mio parere, chi non sa di essersi perso è forse il più fortunato. Non deve farsi vedere sofferente, addolorato da tutto ciò. Può vivere all’oscuro del proprio smarrimento. Ma è una cosa che non posso capire, perchè io mi sono appena perso.
Beate quelle goccioline allora, che sanno sempre che non potranno perdersi anche se cadono nell’ignoto.
Ludovica Tempesta
Avevano raggiunto la città. Dopo ore di cammino, con le vesciche ai piedi che esplodevano trasformandosi in dolorose ferite e lo stomaco percosso da fitte per la fame, avevano finalmente raggiunto la città.
Quando i campi congelati e i radi alberi scheletrici erano stati sostituiti dalle prime case, Clara avrebbe voluto esultare. Ma ora, in mancanza dell'obbiettivo più semplice e immediato, la domanda a cui nessuno di loro riusciva a rispondere era molto, molto più pressante: che diavolo facciamo?
Si fermarono quando alle case a uno o due piani iniziarono a sostituirsi delle palazzine. Julia, come era solita fare nei test, scrisse a mente la lista dei dati.
Erano bloccati a tre secoli da casa, stanchi, affamati, doloranti, senza idea di dove si trovassero, senza abiti adatti al clima, senza soldi e con un tablet rubato che avrebbero impiegato giorni a capire come far funzionare, sempre che potesse essere di qualche utilità.
L'incognita rimaneva introvabile.
-Un passo alla volta. - Si disse. - I problemi complessi si risolvono un passo alla volta. -
"Dobbiamo trovare del cibo", disse.
-Più facile a dirsi che a farsi.- Pensò Clara. A New Hope, non c'era denaro fisico. Tutti i pagamenti venivano fatti attraverso la rete.
Nel 2020, però, banconote e monete circolavano ancora. E loro non ne avevano neanche un po'. "Non abbiamo soldi.", ricordò al gruppo. "E non possiamo semplicemente chiedere a qualcuno, sarebbe strano e sospetto”, tutti assentirono.
I ragazzi si guardarono in silenzio per un lungo istante, esaminando le reciproche condizioni. Tremavano tutti e cinque e, sui volti pallidi, risaltava la tonalità blu assunta dalle loro labbra. Erano esausti e facevano loro male i piedi. Nicholas, il meno atletico del gruppo, sembrava prossimo al collasso. Non avrebbero potuto fare ancora molta strada, quel giorno. Non senza mangiare.
Fu Dalia a dare voce al pensiero di tutti.
“A quanto pare, dovremo rubarlo”.
Per quanto non le piacesse, Clara fu costretta ad annuire. Anche Julia e Nicholas cedettero a malincuore.
Chip, invece, sorrise e battè le mani.
"Già. Fortuna che sono un esperto".
***
"Menomale che eri un esperto!", esclamò Julia, mentre un uomo in divisa sbatteva il portellone del furgoncino. Chip si tirò su il cappuccio e abbassò la testa, evitando gli sguardi accusatori dei compagni.
Non capiva perchè ce l'avessero così tanto con lui: rubare era sempre un rischio, lo sapevano tutti. E tutti avevano partecipato al piano fallito, motivo per cui ora si trovavano tutti in un veicolo delle forze dell'ordine locali, diretti...
Chip non lo sapeva. Non si era mai dato pena di studiare i sistemi del primo secolo. In realtà, non aveva mai studiato nemmeno quelli del secondo e neanche dei primi nove decenni del terzo. Conosceva bene, invece, il sistema del suo decennio. Era necessario per poterlo fregare.
Suo fratello era il secchione, lui si godeva la vita. E deludeva i suoi genitori.
Clara, invece, sapeva perfettamente dove li stavano portando. E sapeva che non ne sarebbe derivato nulla di buono. -Almeno saremo al caldo. - pensò, cercando di concentrarsi sul lato positivo.
Ma sapeva che c'era poco da essere positivi. Alla centrale di polizia gli avrebbero fatto delle domande, tante domande. E i ragazzi non avrebbero potuto rispondere alla maggior parte di esse.
Le domande vennero a pioggia.
C'erano quelle retoriche, come “sapete che ciò che volevate fare è sbagliato?”, le richieste – i numeri di telefono dei loro genitori – e quelle semplici e naturali come “dove abitate?”
I cinque risposero a monosillabi, con lunghi silenzi e articolate risposte evasive.
Alla fine, i poliziotti si accontentarono dei loro nomi.
"Beh, bene.", disse Julia, nel momento in cui furono lasciati soli. "Noi non apaprteniamo a quest'epoca, quindi non riusciranno a trovare niente su di noi. Ci dovranno lasciare andare."
Nicholas non riuscì a capire se la ragazza si stesse aggrappando illogicamente ad un brandello di speranza o fosse semplicemente ingenua.
Comunque sentì il bisogno di mettere in chiaro le cose. "No, non va bene. Cosa credi che faranno quando cercheranno i nostri nomi nei loro archivi e non troveranno nessuna corrispondenza?"
La domanda, inizialmente retorica e provocatoria, si trasformò in una questione vera e propria. Nessuno seppe rispondere.
Al dipartimento di polizia ci vollero tre ore per realizzare che di Dalia Marchetti, Nicholas Vitali, Clara Ferri, Juliette Russo e Riccardo Bernardi, detto Chip, non c'era nessuna traccia.
Furono condotti davanti ad un uomo seduto dietro una scrivania, con la divisa spiegazzata e l'aria spazientita.
Nel momento stesso in cui furono fatti sedere, l'uomo cominciò a urlare.
"Abbiamo cercato dappertutto! Archivi della polizia, registri degli ospedali, web... e niente! Nessuno dei vostri nomi appare, nessuno! Quindi ora ditemi, come vi chiamate veramente!?" Il gomito di Julia fu troppo lento. Raggiuse Chip quando il ragazzo aveva già parlato.
"Ve l'abbiamo detto!"
Il capo del dipartimento di polizia aveva avuto una giornata pesante. Era iniziata di mattina presto, con una litigata con sua moglie e una corsa a scuola per evitare che il figlio facesse il quinto ritardo della settimana. Era continuata con il ritrovamento di una pila di scartoffie sulla sua scrivania, che aggiungevano un sovraccarico di lavoro a quello che era già un sovraccarico di lavoro. E ora questo...
L'uomo fissò i ragazzini con aria truce, per poi spostare lo sguardo sulla sua scrivania ingombra.
"Mettiamo le cose in chiaro, ragazzi. Tentare di rubare una focaccina non è un peccato capitale. Ma mentire ad un ufficiale, prendersi gioco delle istituzioni... questa è roba seria. Ogni minuto che passate qui, ogni minuto che mi fate perdere, sprofondate sempre di più nella..." L'uomo dovette mordersi la lingua per frenare la non molto educata parola prima che lasciasse la sua bocca.
-Datti un contegno, misericordia.-
Si rimproverò. Era il capo del dipartimento di polizia cittadino, non uno scaricatore di porto.
Fulminò un'altra volta quei maledetti ragazzi con lo sguardo, poi, sospirando, abbassò il tono.
"Ascoltatemi, vi prego. Ditemi solo come vi chiamate, io contatterò i vostri genitori, vi prenderete una ramanzina, una piccola punizione e poi sarà tutto finito. Tornerete alle vostre famiglie, scuole, amici, videogiochi..."
I ragazzi lo fissarono senza battere ciglio.
-Va bene, proviamo così.-
"Da dove venite?" chiese, per quella che doveva essere la millionesima volta.
Era almeno la miliardesima volta che gli facevano quella domanda.
Clara iniziava a spazientirsi.
"Non ci credereste", disse.
L'uomo sbuffò e incrociò le braccia al petto. "Faccio questo lavoro da vent'anni. Ho visto e sentito tante cose incredibili da riempirne un’enciclopedia."
Dalia sospirò. La conversazione non avrebbe portato a nulla, come le decine che l'avevano preceduta.
A meno che... ma no, non era possibile. Non gli avrebbero mai creduto.
Però stavano finendo le opzioni. L'ufficiale si stava chiaramente imbestialendo e Dalia sapeva che avrebbero dovuto trovare un modo per rispondere alle sue domande. Anche dicendo l'impossibile verità.
-Tentar non nuoce.- Decise. - Al massimo ci prende per pazzi.-
"Come reagirebbe se le dicessimo che venissimo dal futuro?"
La prima reazione dell'uomo fu ira. - Stupidi bambocci! Ho lavoro fin sopra i capelli e loro continuano a farmi perdere tempo con le loro prese in giro!-
Poi, però, il suo sguardo ricadde sui ragazzi e per la prima volta da quando erano stati scaricati davanti alla sua scrivania, gli dedicò più che un'occhiata infastidita. E nei loro occhi non lesse sfida, solo stanchezza, paura, confusione. I loro vestiti, non adatti al clima, contribuivano a dargli un'aria spaesata e, dal modo in cui si abbandonavano sulle sedie, capì che erano esausti e indolenziti, come se avessero camminato per ore. E, nonostante gli avessero dato qualcosa da mangiare alla centrale, sembravano avere una fame da lupi.
Capì che non avevano tentato di rubare per divertimento o sprezzo delle regole. L'avevano fatto perchè ne avevano bisogno.
E se dei ragazzi così giovani avevano bisogno di rubare un po’ di pane... beh, dovevano aver passato l'inferno.
Non credette alle parole della ragazza, assolutamente no. Quello era impossibile Ma iniziò a chiedersi se quei cinque adolescenti non fossero coinvolti in qualcosa di più grande di ciò che poteva sembrare.
"Mi chiederei che cosa state cercando di nascondere".
Ecco per voi lettori alcuni racconti brevi sul Desiderio e il Sogno, frutto del laboratorio di scrittura creativa proposto dall’editor Francesca Civardi, a cui hanno aderito ben quattro classi del nostro Istituto.
Un primo assaggio di storie frizzanti ed emozionanti realizzate dagli studenti delle classi 1DL, 1CLG, 2AT e 3CT, che prestissimo saranno a disposizione in versione e-book!
Nicole Bartolucci (2AT)
Mattia Liuzzi (2AT)
Luca Redondi (2AT)
Il professor Ivanov camminava avanti e indietro nel suo studio da ore. Molto probabilmente aveva percorso tanta strada quanta ne avevano fatta i ragazzi bloccati nel passato.
"Devo darmi una calmata" Disse tra sè e sè. Continuando così, avrebbe finito per bucare il pavimento. Così si decise a sedersi un attimo sulla scomoda poltrona che costituiva l'unica sedia della stanza.
Grugnì nell'appoggiare la schiena sul duro, mal sagomato schienale. E pensare che era stato lui a volerla così, in modo da non rischiare di addormentarsi su di essa. In quella situazione, il professor Ivanov rimpianse di essere stato così tanto ligio al dovere.
Proprio in quel momento, una voce metallica annunciò che c'era una chiamata in arrivo. Ivanov fece uno stanco gesto con la mano. "Rispondi" Ordinò con voce fiacca. Sapeva chi era la persona che lo stava chiamando e non era un uomo a cui si potesse chiudere il telefono in faccia.
-È stato svelto a fare il suo malaugurato rapporto, agente Miller- Pensò, mentre il suo interlocutore iniziava ad apostrofarlo astiosamente. Ivanov, in quelle ore, era arrivato ad odiare Miller quasi quanto l'uomo di cui l'agente era il cagnolino, X.
X era un pezzo grosso del progetto, un pezzo molto grosso. Ed era per questo che, nonostante l'uomo stesse insultando non solo Ivanov, ma sua madre, suo padre e ogni suo antenato, il professore si sforzò di rispondere educatamente. Non era quello il momento di fare gli arroganti, tanto più che Miller e di conseguenza X erano convinti che l'errore di coordinate fosse colpa sua.
Ivanov ebbe un fremito di rabbia nel ricordare la scena.
Nel momento stesso in cui i ragazzi erano svaniti, Miller aveva iniziato a gridargli contro, dicendo che era un incompetente, che avrebbero dovuto scegliere qualcun altro.
Come se fosse stata colpa sua. Come avrebbe potuto prevedere che quel ragazzino si sarebbe intascato il tablet? Ivanov era sicuro che era stata colpa del ragazzo. I suoi calcoli erano giusti, ne era certo. Le coordinate perfette. Quel ragazzo, Bernardi, rubando il tablet aveva senza dubbio toccato qualche pulsante.
Ivanov strinse la mano destra a pugno, furente. Quindici anni di lavoro rovinati in un secondo, la sua dignità distrutta, la sua posizione a New Hope messa a rischio. E tutto per colpa di uno stupido bamboccio. .
-Si, è così che è andata. Il ragazzino ha incasinato tutto- Si disse, chiudendo la chiamata dopo aver promesso a X che avrebbe messo la sua equipe al lavoro per ricostruire il tablet.
Si abbandonò sullo schienale della scomoda poltrona, coprendosi il viso con le mani. Quanto avrebbe voluto essere certo al 100% che la colpa fosse di Bernardi! Purtroppo, però, non arrivava neanche all'80%. La verità era che il tempo è un'entità complicata. Non era come muoversi da un luogo
Nei pochi secondi che erano occorsi ai ragazzi per spostarsi secoli indietro, era potuto succedere di tutto. E ora il professore avrebbe dovuto capire che cosa, effettivamente, era successo
I suoi pensieri furono interrotti da un improvviso, incessante bussare alla porta.
"Avanti" Disse, con una voce molto simile a quella che aveva usato per accettare la chiamata di X.
Il ragazzo che entrò era alto, impeccabilmente vestito e aveva i capelli castano chiaro perfettamente pettinati.
Il viso, su cui spiccavano un paio di occhiali dalla montatura squadrata, esprimeva però nervosismo e preoccupazione.
Ivanov balzò in piedi, riconoscendo lo sciagurato che aveva rubato il tablet.
"Tu..." Riuscì a borbottare, tra l'incredulità e l'ira.Quello che, teoricamente, avrebbe dovuto essere bloccato quasi tre secoli prima afferrò la mano del professore con un gesto confidenziale che a Ivanov non piacque per niente. Aveva il fiatone, come se avesse corso. Dopo di che disse, con un tono frettoloso: "Sono Lorenzo Bernardi. E ho bisogno che lei mi aiuti a salvare il mio fratello gemello"
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati
Thomas wasn't hungry. Since he knew he wouldn't’ve been home before one p.m., he had begged his father to let him eat junk food on the plane. [Continua a leggere su B-Lingue...]
Elisa Frigerio
Non sapevano quanto tempo fosse passato da quando erano arrivati lì, da quando avevano iniziato a camminare per dirigersi verso quella città ricca di grattacieli imponenti e coperta da un'immensa nuvola di smog. Certamente erano passate delle ore e mancavano ormai poche miglia quando Nicolas si voltò verso il gruppo che lo seguiva silenziosamente ed iniziò a parlare.
"Ragazzi penso che dovremmo fermarci per un po’, riprendere fiato, sono ormai ore che camminiamo e immagino che siamo tutti stanchi." Il gruppo annuí d'accordo con lui, così si sedettero sull'erba.
Juliette decise di rompere il silenzio che si era nuovamente creato e stava iniziando a diventare imbarazzante. "Allora… Cosa faremo appena arrivati lì? Non conosciamo nessuno, a chi potremmo chiedere aiuto? Non sappiamo neanche dove ci troviamo, perché le coordinate sono errate."
"Vero! Poi io sto congelando, non ci sono queste temperature nella nostra epoca e di questo passo moriremo ibernati" aggiunse Daria strofinandosi le mani sulle braccia per riscaldarsi.
Nicolas riprese la parola: "Lo so ragazzi, dobbiamo trovare al più presto qualcosa di caldo e pesante da indossare. Adesso però serve ragionare e organizzarci bene per trovare un modo per contattare il professore Ivanov o l'agente Miller, per sapere cosa sia successo con la programmazione delle coordinate e soprattutto come fare a tornare indietro nella nostra epoca."
"Ragazzi, ho una cosa da dire" esordì Chip, improvvisamente serio in volto. "Ho una fame da lupi! Possiamo muoverci e trovare qualcosa da mangiare?"
Tutti lo guardarono stralunati.
"Ho voglia di pizza!" concluse con un sorriso stupido sul volto.
"Ma c'è un cervello nella zucca vuota che ti ritrovi!? Tu stai davvero pensando al cibo in un momento come questo? Ti rendi conto della situazione in cui ci troviamo!? Lontanissimi da casa, senza qualcuno che ci possa aiutare in qualche modo! Poi vorrei farti notare che non abbiamo soldi, quindi non possiamo comprare niente" gli urló contro Clara, adirata per il fatto che Chip non prendesse sul serio la gravitá della situazione.
"Dai, prenditi una camomilla! Non c'è bisogno di urlare" rispose Chip con falsa tranquillitá, poiché si sentiva a disagio e un po' turbato, dopo le affermazioni di Clara.
"Non osare dirmi di stare calma!" gridó piú forte lei.
"Basta, state calmi! Non mi sembra il momento adatto per litigare. Poi è vero che dobbiamo anche trovare qualcosa da mangiare." disse Nicholas fermando il loro battibecco, mostrando cosí tutta la sua maturitá, nonostante la sua giovane etá. Per questo è stato scelto come leader del gruppo.
Nel frattempo Juliette osservava la scena divertita, ridendo di nascosto.
"Nick ha ragione! Dobbiamo collaborare tutti insieme, se vogliamo trovare una soluzione alla cosa" lo disse in modo sicuro Dalia, sorridendo debolmente.
"Allora, io ho la risposta alle vostre domande! Potete anche smettere di torturare i vostri poveri cervelli" disse Chip con voce quasi solenne e faccia compiaciuta. Poi continuó: "Mentre voi eravate impegnati a farvi prendere dal panico perchè ci stavano spedendo qui, io ho approfittato della situazione per rubare…" dicendo ció estrasse dalla felpa l'oggetto in questione: il tablet usato dal professore e dall'agente per l'inserimento delle coordinate di tempo e di spazio.
"...questo!"
Tutti lo guardarono sbigottiti e parlarono quasi in contemporanea: "Come diavolo hai fatto?"
"Ora ditemi, chi è la zucca vuota?" disse lui ghignando, voltandosi, casualmente, con espressione di scherno, verso Clara.
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati
Thomas had been really, really nervous. And really, really tired. [Continua a leggere su B-Lingue...]
Elisa Frigerio
Ecco per voi lettori alcuni racconti brevi sul Desiderio e il Sogno, frutto del laboratorio di scrittura creativa proposto dall’editor Francesca Civardi, a cui hanno aderito ben quattro classi del nostro Istituto.
Un primo assaggio di storie frizzanti ed emozionanti realizzate dagli studenti delle classi 1DL, 1CLG, 2AT e 3CT, che prestissimo saranno a disposizione in versione e-book!
Sophie Dawoud (1CG)
Chiara Barletta (1CG)
Margherita Cattaneo (1DL)
Azurea Codegoni (1DL)
Fabio Florian (3CT)
Carolina Rivolta (1CG)
CAPITOLO 4
Non era possibile che con tutte quelle “grandi menti” avessero sbagliato a mettere delle coordinate.
I ragazzi si guardavano intorno spaventati, smarriti e perplessi: dove si trovavano? Cosa sarebbe successo ora? C’era modo di tornare indietro o contattare il professore?
Clara conosceva bene quell’epoca, ma non riusciva a capire dove si trovassero.
Faceva freddo, molto freddo, erano circondati dal... “Nulla”.
Fu Nicholas il primo che osò aprire bocca, lui, il più esperto, qualcosa doveva sapere, ma sfortunatamente per il gruppo, non lo avevano preparato a tutti i possibili problemi, forse perché troppo orgogliosi per ammettere il rischio di eventuali errori.
Nel frattempo Dalila fece quello che le veniva meglio: dedurre.
Basandosi su ciò che poteva vedere, dovevano trovarsi in qualche grande campagna desolata, campi immensi completamente ghiacciati, una nebbia fredda e fitta, e lontano, tra le nuvole più alte e grigie, spuntavano una serie di grattacieli di una grande città, che dovevano raggiungere al più presto.
Juliette, dopo essersi ripresa dal viaggio, prese il comando. Cercò di tranquillizzare il più possibile il gruppo di ragazzi infreddoliti e poi tutti insieme si diressero verso la grande nuvola di smog.
Mentre camminavano in silenzio in mezzo a quella fitta nebbia, tra l’erba congelata dei campi, tutti pensavano all’obiettivo della missione: capire cos’è andato storto in quegli anni. Ma come potevano farlo se in quel luogo, in quel tempo, non conoscevano nessuno e non c’era nessuno che potesse indirizzarli sulla buona strada? Le persone di quell’epoca potevano iniziare a farsi delle domande del tipo: questi ragazzi da dove arrivano?
“Quindi che si fa?” Le prime quattro parole dopo ore di cammino furono di Chip, e chi se lo sarebbe mai aspettato?! Non era nemmeno inutile come domanda. Dovevano pensare a qualcosa e anche velocemente. Dovevano riuscire ad intrufolarsi nella società senza dare nell’occhio, dovevano trovare un modo per sopravvivere e provare a portare a termine la missione.
Nessuno dei ragazzi sapeva esattamente quanto tempo fosse passato da quando erano entrati nell’hangar, ma in tutta questa confusione e con tutte quelle domande a cui dare una risposta, una cosa era certa per loro: dovevano uscire da quei campi ed entrare in città.
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati
CAPITOLO 3
Allora ragazzi, datevi una mossa. Abbiamo una tabella di marcia da rispettare."
L'uomo alzò la voce nell'accorgersi che i ragazzi non lo stavano seguendo. I ragazzi rimasero immobili, guardandosi intorno con aria persa.
L'uomo con la spilla del governo li aveva condotti fuori dalla scuola, dov'erano stati caricati su un Falkatus (veicolo blindato russo) dai vetri oscurati. Le spiegazioni promesse durante il viaggio non erano arrivate. Non che ci fosse stato silenzio, no. L'uomo non era stato zitto un momento. Le cose che aveva detto, però, i ragazzi, Nicholas soprattutto e Chip escluso, le sapevano già. Il loro pianeta era giunto all'ultimo round, si sapeva.
Ma che cosa centrava con tutto questo?
Nicholas era sconcertato.
Erano tre anni che lavorava a fianco del governo ed era abituato ai loro segreti. Ma, prelevarli di punto in bianco da scuola? Vetri oscurati? Qual era il motivo di tanta segretezza? Gli altri, che con il governo avevano avuto poco o niente a che fare, erano ancora più intimoriti.
Quindi era comprensibile che, all'apertura del portellone su di un hangar probabilmente sotterraneo, i ragazzi avessero esitato.
Dov'erano? Chi era quell'uomo? Che ci facevano lì? L'uomo leggeva questi e altri interrogativi nei loro sguardi confusi.
Ma non c'era tempo. L'agente batté le mani una volta. L'eco del rumore secco si sparse per l'immensa sala. I ragazzi si affrettarono giù per la rampa, poi al seguito dell'uomo. Quest'ultimo si mosse rapidamente attraverso quello che doveva essere un enorme complesso sotterraneo.
Segreto. Pensò Clara e un brivido le corse lungo la schiena. Il governo di NewHope aveva sempre giocato a fare il misterioso. Erano bugie dette per il bene dell'umanità, ma sempre di bugie si trattava. E a Clara, le bugie non piacevano proprio.
Ed era per questo che, nonostante le avessero chiesto più volte di collaborare con loro per via delle sue capacità, lei aveva sempre rifiutato.
Nel frattempo il bip dello scanner ottico che aveva riconosciuto il loro accompagnatore la distolse dai suoi pensieri. Due porte scorrevoli pesantemente blindate si aprirono.
La sala in cui entrarono era circa un quarto dell'immenso hangar che li aveva accolti all'arrivo ed era attrezzata con le più sofisticate apparecchiature scientifiche esistenti.
"Avete messo su un buon laboratorio" disse Nicholas all'uomo. Come quelli di Juliette, i suoi occhi brillavano. Loro erano scienziati, pensò Clara. Erano soggetti al fascino delle tecnologie di cui il governo disponeva. Lei, però era una storica. E la storia le aveva insegnato a non lasciarsi incantare.
Un uomo vestito di bianco uscì da una porta posta a sinistra della stanza e si posizionò dietro a un tavolo.
"Agente Miller" esclamò il nuovo arrivato. "Ha portato i ragazzi a quanto vedo?"
"Sì" gli rispose l'altro per poi rivolgersi ai ragazzi.
"Questo è il professor Ivanov, il nostro cervello più fino. A lei la parola, professore."
L'uomo in bianco si sfregò le mani. "Bene ragazzi, avvicinatevi pure al tavolo" disse, e dopo aver aspettato che i ragazzi si fossero avvicinati, riprese a parlare: "Avete presente il funzionamento di un Chip di Trasmissione, giusto?"
Juliette lo sapeva: una volta iniettato sotto pelle, il computer quantistico miniaturizzato contenuto in essa scannerizzava la persona che doveva essere trasferita, per poi inviarle al sistema sottoforma di un codice numerico. Il sistema leggeva poi le coordinate della destinazione, impostate prima della partenza: x, y, z. Infine la persona veniva ricodificata nel posto desiderato.
C'erano parecchi esercizi sul teletrasporto nelle prove in cui eccelleva.
"Bene, davanti a voi c'è il primo Chip iniettabile sotto pelle per viaggiare nel tempo: sono come i Chip di Trasmissione, hanno le coordinate x, y e z a cui noi abbiamo aggiunto (quel)la C del tempo."
Nicholas era estasiato. Davanti a lui c'era il più geniale scienziato del momento e la più grande invenzione di... be’, di sempre.
"Adesso ad uno ad uno vi inietteremo i Chip sotto pelle, precisamente nel braccio sinistro."
Juliette, che era visibilmente emozionata, non aveva staccato un attimo gli occhi da quell'oggetto così piccolo dotato di un valore così grande, anche mentre glielo iniettavano.
"Wow! Forte, ma noi che ci facciamo qui?" esclamò Chip, accarezzandosi le coordinate luminose ed azzurrine che gli apparivano sotto pelle. L'agente riprese a parlare e calò il silenzio.
"Ottima domanda, la cui risposta è molto semplice: siete la nostra unica speranza. Come dicevo durante il viaggio, il nostro pianeta sta morendo e il nostro tempo è agli sgoccioli.
Così la nostra organizzazione ha deciso di inviare una squadra di ragazzi, tra le migliori giovani menti di cui disponiamo, nel periodo del passato in cui la situazione ha iniziato a diventare critica.
La vostra missione è questa: andare nel passato, capire cos'è andato storto, sistemarlo e salvare la specie umana dall'estinzione. Domande? " finì il professore.
"Quindi ora che collaboriamo con il governo siamo tipo degli agenti segreti?" Esclamò il ragazzo, eccitato.
La faccia del professore rimase imperturbabile, come la sua voce.
"Passo. Qualcos'altro?"
Nicholas alzò il braccio. "Quando partiremo?"
"Adesso" rispose il professore dopo un attimo di esitazione.
Clara rimase a fissare l'uomo come incantata, chiedendosi se aveva capito bene. Com'era possibile?
Chip, che si era allontanato, non doveva aver sentito quell'affermazione, infatti era l'unico a non essere scioccato.
Sarebbero partiti così? Scomparsi semplicemente? Nessun addio? Non avrebbero potuto salutare le loro famiglie, i loro amici?
Questi erano i pensieri che occupavano la mente di Clara e degli altri.
"Ma... i nostri genitori..." protestò Juliette, dando voce ai loro pensieri.
"Non avrete tempo di salutarli, poiché c'è in ballo il destino dell'umanità. Non possiamo permetterci di essere melodrammatici. All'arrivo troverete qualcuno che vi spiegherà tutto ciò che dovete sapere" disse l'agente.
Clara era persa nei suoi pensieri. Viaggiare nel passato, diventare parte di ciò che studi era il sogno di tutti gli storici. L'aveva immaginato tante volte, da piccola. Ora che stava diventando realtà, non era più sicura di volerlo. O almeno, non così.
"Attivazione Cronus" disse l'agente, e dopo aver avvicinato le labbra al dispositivo che al polso, si posizionò accanto al professore, dietro al tavolo, da cui sotto presero due tablet.
"Questi tablet sono stati appositamente costruiti per regolare e supervisionare le variazioni di tempo e di spazio del viaggio nel tempo, oltre che per inserire le coordinate, che è ciò che stiamo facendo adesso. La cosa che li contraddistingue è che con uno si inseriscono solo coordinate di spazio, con l'altro solo quelle del tempo." Spiegò il professore pigiando con movimenti veloci i tasti.
"Inizio conto alla rovescia: cinque secondi a partire da ora" disse l'agente con voce ferma. Poi cominciò a contare.
"Cinque"
Sorpresa, confusione, rabbia, incredulità riempirono i cuori dei ragazzi. Solo pochi secondi li separavano dal loro destino. Non sapevano nemmeno se sarebbero mai tornati indietro.
"Quattro"
Chip non era mai stato così serio e silenzioso nella sua intera vita. Per un istante si chiese se non avesse dovuto interrompere il conto alla rovescia, dire all'uomo che c'era un errore, lui non era Lorenzo. Lui era...
"Tre"
Come spinto da una forza maggiore, con uno scatto fulmineo prese uno dei
tablet che erano posizionati sul tavolo, lo infilò nella felpa che indossava e si allontanò velocemente per non farselo sottrarre dall'agente che lo aveva visto, ma che non poteva fare niente poiché restavano pochi secondi e i ragazzi sarebbero spariti.
"Due"
Clara, che guardava disgustata l'uomo di fronte a lei per ciò che stava facendo a dei ragazzi innocenti, fece in tempo a leggerne solo una. La più importante.
C = 10/12/2020 - 07:50:32
"Uno"
"Errore di coordinate x e z. Richiesto immediato ritorno alla base." Disse la voce metallica proveniente dal tablet.
Il cuore di Clara ebbe un sussulto. Il cielo l'aveva forse ascoltata?
In quel momento un soffio d'aria gelida la investì. Quando Clara aprì gli occhi si accorse che era a 280 anni da casa. Ad aspettarli non c'era nessuno.
"E adesso?"
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati
Era un pomeriggio illuminato dal caldo sole autunnale, quello del 15 ottobre 1291. Thibaud Gaudin passeggiava, la mano destra sull’elsa della spada, passo lento e solenne.
La sua elezione come Gran Maestro dei Cavalieri Templari era appena stata confermata, ma la felicità era scomparsa subito; i suoi pensieri vagavano tra il ricordo di tutti i compagni caduti in quell’anno, tra le urla disperate che gli chiedevano di far evacuare la città, perché ormai a difendere Acri erano rimasti in pochi, troppo pochi.
Acri, una delle ultime roccaforti in Terra Santa, assaltata con l’inganno e l’astuzia di quei Saraceni. Uno dei suoi migliori amici, Pietro di Sevrey, era stato decapitato dal Sultano. Non potevano fare nulla, però, contro l’invasione egiziana.
Il giardino circolare era leggermente decorato, semplice ma imponente. I pilastri chiari da cui cadeva l’edera, l’aria che tirava leggera, era tutto molto tranquillo. Non erano più abituati a quella tranquillità tipica dei periodi di pace; ma la pace non c’era, e la tranquillità era solo apparente.
Ancora una volta il senso di impotenza si faceva sentire, Dopo qualche mese dacché Gaudin aveva assunto il peso della carica, la speranza di trovare dei rinforzi una volta arrivati a Cipro, sembrava ora definitivamente svanita.
Erano sbarcati lì da pochi giorni, non avendo ormai più alcun posto dove andare. La legittima proprietaria, l’Inghilterra, a causa delle numerose rivolte, voleva sbarazzarsene senza troppi complimenti. Così avevano deciso di dare fondo ai propri risparmi per comprarla a re Edoardo I.
Ma il problema non era il luogo, erano i troppi cavalieri persi in battaglia, e i troppi senza speranza che piano piano li abbandonavano.
Essere diventato definitivamente Gran Maestro comportava una grandissima responsabilità: doveva ristabilire l’Ordine dei Cavalieri Templari.
Camminava lentamente nel giardino, barba e capelli svolazzavano impercettibilimente, gli occhi gli si assottigliavano leggermente ad ogni folata di vento proveniente dal mare.
Era difficile vedere come la ragione per la quale erano nati, fosse ormai un lontano ricordo, che teneva incatenati i pochi ancora presenti nell’ordine al giuramento di proteggere la Patria e la Chiesa.
Il castello era molto massiccio, ma le onde che si infrangevano, turbolente, sulla roccia, davano l’impressione che prima o poi avrebbero sgretolato le mura.
“Così come il dubbio farà con l’Ordine dei Templari” pensò il Gran Maestro, levando gli occhi al cielo sospirando.
-Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam- sussurrava ripetutamente Gaudin in una preghiera disperata, sperando che tutto si ristabilisse al più presto per far si che la situazione attuale migliorasse.
Effettivamente sia in Oriente che in Occidente la situazione era molto critica: Filippo IV di Francia, che con infinita arroganza amava farsi soprannominare 'il bello', si occupava solo di aumentare in pari misura il suo potere e le casse del tesoro reale, Edoardo d’Inghilterra aveva più problemi con la Scozia che l’Imperatore con la Germania, ma soprattutto, Filippo IV ed Edoardo stavano riaccendendo la miccia dell'antica rivalità tra i rispettivi stati, arrivando quasi ad un punto critico. Erano nemici in tutto: rotte navali, commerci, terre, matrimoni.
In Oriente invece, i Saraceni avevano preso possesso di fin troppe terre e la popolazione si stava decimando. Per non parlare del fatto che l'impero dei greci, che aveva fermato le ondate dei nemici della fede, dalla quarta crociata non era che la pallida ombra di sé e non era più di alcuna utilità per la difesa di Outremer.
-Buongiorno, Maestro.- la voce di Jacques de Molay era risuonata forte e sicura nel giardino del castello, i capelli corti castani gli davano un’aria giovanile, lo sguardo fiero di chi è appena diventato maresciallo dell’Ordine.
-Posso aiutarti, Jacques?- La voce del Grande Maestro non era forte come quella di De Molay, ma ugualmente calda e sicura.
-Stavo pensando al futuro dell'Ordine, maestro... Non sarebbe meglio recarci a Parigi? Il Re Filippo potrebbe ospitarci. Dopotutto è merito nostro se le sue casse sono piene, lui ci deve molto. È solo un viscido rettile al cui confronto gli infedeli sembrano una schiera di angeli del più alto dei cieli... -
-Caro amico, l’astio nei confronti del Re è più che legittimo, ma noi siamo i cavalieri di Dio nostro Signore, non saremo così materiali da buttarci ai piedi di quell’uomo solo perché ormai siamo decimati e deboli, abbi Fede. Si sta raffreddando l’aria, non solo perché la serpe francese sta tramando contro di noi. Dobbiamo riorganizzare l’Ordine, Jacques.-
La risposta di Gaudin era a metà tra l’afflitto e il preoccupato.
-Maestro, mi scusi, ma non possiamo fare nulla, non arriverà nessuno e siamo troppo pochi! I regnanti sottopongono a dazi sia armi, sia cavalli... Addirittura alimenti e denaro! Le persone sono troppo occupate per stare con noi; per giunta, i terreni qui a Cipro non possono sostenere un’azione militare. Senza contare che gli abitanti ci credono degli usurpatori e non ci accetteranno mai! Né loro, né gli altri.- I toni accesi di De Molay stavano iniziando ad irritare Gaudin, l’espressione corrucciata sui loro volti faceva supporre che la giornata non fosse delle migliori per entrambi.
-L’odio della popolazione nei confronti dei musulmani si è riflessa su di noi come il più brillante degli specchi, ma abbi fede, come ti ho detto. Dio si ricorda di noi.-
-Amen.- fece finire così il discorso, De Molay, senza trovare le parole o la forza per ribattere.
Se ne stava andando, facendo ondeggiare la tunica nel venticello tiepido, ma uno dei cavalieri, Hugues de Faure, li raggiunse -Maestro, la chiave del tesoro del Tempio è stata data al Tesoriere, così come le chiavi dei nostri averi.-
Gaudin annuì, facendo un cenno di congedo al cavaliere dai capelli color platino.
Il Gran Maestro era un uomo molto pio, e spesso il suo confidare in Dio era questione di dubbio tra i fratelli cavalieri, che ormai, si rifugiavano segretamente nel vino.
Illustrazione di Eloise Cestari
Vino che aveva il gusto di sconfitta, bevanda rossa che ricordava il sangue versato, acido come il ricordo di non aver potuto fare nulla.
-È l’ora della preghiera- lo disse a voce alta, cosicché anche De Molay sentisse e si recasse nella cappella per le preghiere pomeridiane. Prevedibilmente, il maresciallo sbuffò a quell'indiretto invito.
De Molay e De Faure si guardavano, assottigliando le pupille, dirigendosi verso il luogo di preghiera. L’astio tra i due era nato parecchi anni prima, durante la lunga preparazione all’investitura per diventare Templari. Tra chi è colpevole dello stesso peccato, non può, fondo, nascere un'amicizia.
Jacques era sempre stato più coraggioso ed impulsivo, forse anche troppo avventato, e ciò aveva portato i suoi confratelli ad opinioni contrastanti: o lo odiavano per la sua avventatezza o lo ammiravano per il suo coraggio, non c’era una via di mezzo.
Hugues era testardo, competitivo e sprezzante verso chiunque, ma dall’animo buono. Era un uomo incallito dal tempo e dalle esperienze, ma piaceva alla maggior parte dei fratelli per la sua ironia pungente.
Arrivati in cappella e fatti i tre segni della croce, i due continuarono a guardarsi in cagnesco.
-Smettila di guardarmi come se fossi stupido.- esordì sussurrando il cavaliere biondo.
-Se tu smettessi di guardarmi come se mi volessi mandare tra i dannati, magari.-
-De Molay, se avessi quel potere, tu e il tuo cavallo sareste scomparsi da più di 15 anni.-
-Te futueo et caballum tuum.- un sorrisetto gli era comparso sulle labbra, il latino era una delle armi che più amava: è così che si mettono a tappeto i comuni mortali.
Arrivarono davanti ad una statua, ma prima che potessero mettersi a pregare, Gaudin aveva già iniziato a parlare, interrompendo la preghiera degli altri.
-La situazione non è delle migliori, affidarci a Dio è sempre più difficile, ma abbiamo avuto un’idea.
Ci manderanno gli iniziati di Parigi, li addestreremo qui.
Il tempo scarseggia, lo so, ma non possiamo non tentare. Geoffrey de Charnay e il maresciallo De Molay si occuperanno dei primi 30 ragazzi che arriveranno in questi giorni. Poi ci riprenderemo ciò che ci hanno strappato. Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.-
Jacques sentiva lo sguardo di Hugues bruciargli attraverso la tunica bianca, ma annuì comunque al Gran Maestro, ignorando la strana sensazione che quest’ultimo riusciva a dargli.
Finalmente poteva dimostrare il suo valore senza dover necessariamente combattere in Terra Santa.
Finite le preghiere, Gaudin uscì dalla cappella, non prima di aver salutato i due templari, per poi dirigersi di nuovo verso il giardino.
La tensione nella stanza era palpabile per chiunque. De Faure continuava a fissare De Molay come se fosse sotto stregoneria, quest’ultimo invece osservava l’altro per cercare di capire quali fossero le sue intenzioni.
Dopo diverso tempo, che sembrò infinito per entrambi, Hugues realizzò finalmente l’errore che stava commettendo e, con uno scatto, si diresse verso l’uscita. Jacques però fece in tempo ad afferrargli il braccio che, dopo un ultimo sguardo tra i due, lasciò libero permettendo all’altro di fuggire.
———
Erano le 4:00 del mattino del 20 ottobre, erano tutti di ritorno dall’addestramento notturno, tranne Jacques e Geoffrey; loro dovevano rimanere nel giardino circolare ad aspettare le nuove reclute.
Geoffrey era abbastanza minuto, ma agile e forte, sempre silenzioso e in preghiera.
Lo sguardo, però, non era come quello di Jacques, fiero e determinato, il suo sguardo negli ultimi mesi era diventato sempre più spento.
Nella battaglia di San Giovanni d’Acri, avevano perso tutti qualcuno a cui tenevano particolarmente, ma da quel momento, molti cavalieri avevano perso la speranza, la grinta.
-Fa freschino, non trovi?- trascorsi più di dieci minuti, Jacques non ce la fece più, incapace com'era di sopportare a lungo il silenzio.
-Si.-
-Speriamo siano già forti e discreti con la spada, o ci metteremo il doppio del tempo.- continuò.
-Speriamo.-
-Sei di molte parole come sempre.- stizzito e impaziente, anche se lui stesso incapace di capirne il motivo, De Molay si era già messo a camminare avanti e indietro.
-Jacques, ti squarto se non ti fermi.- Fece eco la tagliente voce di Hugues, appoggiato al pilastro all’entrata, che li osservava.
De Molay continuava a girare in tondo, alzando gli occhi al cielo quando il compagno sbuffava.
-Cosa ci fai qui?-
-Aspetto il maestro Gaudin, volevamo vedervi con le nuove reclute.-
I due non riuscivano ad avere un dialogo, entrambi irritati dalla presenza dell’altro.
-Pensate davvero di poter combattere tra voi con questo clima?- la solita tensione tra di loro fu spezzata da Geoffrey,
-Come se ci fosse ancora qualcosa per cui combattere.- borbottò Hugues con tono rassegnato, calciando un sassolino e guardando dritto negli occhi De Molay.
-Dovete andare a sedare la rivolta al porto, non fanno attraccare le navi.- Gaudin apparve quasi dal nulla.
-Abbiamo pagato un’isola 100.000 bisanti, abbiamo introdotto la fede latina e non hanno più Riccardo Cuor Di Leone, cosa vogliono ancora?- De Molay, stizzito, sbuffò.
-Ci manca solo che ci assediano e ci massacrano.- aggiunse De Faure.
Una volta arrivati al porto, furono travolti dal caos: centinaia di persone che distruggevano casse stavano urlando a gran voce contro le navi che volevano attraccare.
Erano talmente concentrati a dare sfogo alla propria rabbia che non si erano nemmeno accorti dell’arrivo dei cavalieri.
-Cosa facciamo? Non abbiamo mai sedato una rivolta cittadina.- Geoffrey era abbastanza titubante.
-Di sicuro non possiamo far finta che siano Saraceni e sterminarli.- asserì De Molay.
-Non possiamo nemmeno parlargli, Acri a quel punto sarà solo un bel ricordo.- nemmeno De Faure sapeva cosa fare.
-Effettivamente sei negato nel dialogo, ci parlo io.-
-Certo, cosa gli dici? “Ehi, siamo noi che vi abbiamo comprato l’isola, i vostri nuovi vicini, come state? L’economia va male ancora?”. Per carità, De Molay.-
Il cavaliere stava per ribattere, quando un bastone volò in faccia a Geoffrey, che sentì subito il sapore del sangue e, in pochi attimi, le persone stavano arrivando contro di loro.
Dovevano mantenere la calma, ma i cittadini erano armati con pale e bastoni.
Sguainarono le spade, erano pronti ad uno scontro nuovo, in uno dove sarebbero stati loro i cattivi della storia.
I volti delle persone erano contorti in smorfie, quelli dei Templari invece, attoniti.
Per un attimo, furono tutti fermi, indecisi sul da farsi, i pochi cavalieri in fondo non avevano colpe, no? No.
Un sasso colpì Hugues in fronte, e questo diede il “via” a tutti gli altri, che si lanciarono sui Templari, gli oggetti volavano e loro si difendevano con le lunghe spade.
De Molay roteava, saltava, una danza mortale per non colpire degli innocenti rivoltosi, i suoi passi erano svelti, come quelli di De Faure, che in poco tempo, lo spalleggiò, evitando ed indietreggiando.
Geoffrey, invece, si limitava a parare ed indietreggiare lentamente.
-Dobbiamo andarcene, abbiamo sbagliato a venire qui!- urlò ai suoi due compagni.
-Ma gli iniziati devono sbarcare.- De Molay resisteva.
-Spiegaglielo allora.-
La situazione sarebbe stata alquanto comica, se solo in quel preciso istante, un bastone tra le clavicole non avesse fatto piegare in due Jacques; l’uomo che l’aveva colpito era pronto a finirlo, la vendetta per aver occupato ciò che era loro, terre e fede ortodossa.
Hugues, per istinto di protezione e forse, anche per un lampo di affetto verso il compagno, trafisse repentinamente l’uomo con la spada, vedendo lentamente il sangue sgorgare dalla ferita, l’odore acre gli arrivò alle narici e il senso di colpa lo afflisse subito; ma non era il momento per seguire le emozioni.
Con uno scatto, saltarono su una cassa.
-Non siamo noi i nemici.- iniziò Jacques, cercando di calmare le persone.
-Nemmeno noi vorremmo essere qui, ma per andarcene ci servono degli altri cavalieri!- La folla si curò poco del suo tentativo maldestro di mediazione, e rimaneva urlante e agitata.
-Io in verità sono un contadino, o almeno, lo ero 20 anni fa. Vi capisco.- aggiunse Hugues, e in quel momento alcuni uomini si calmarono, prestando ascolto al cavaliere davanti a loro.
Con sguardo complice, i tre fecero una pausa, il fiato corto e la tensione li avevano stremati. Quella era una battaglia che avrebbero vinto solo con le parole, le armi erano inutili.
-Ero un contadino, lavoravo la terra e avevo tanti animali, ma Dio mi ha voluto a combattere per lui.- continuò.
Le grida di protesta si levarono tra loro. Continuavano ad urlare che alla fine, 200 anni di guerre non erano serviti a nulla.
-Il fuoco sta divampando, non vedete cosa stanno cercando di fare?.- le mani di Hugues si levano in aria, come a mostrare che l’aria accesa di una rabbia cieca fosse colpa dei saraceni.
-Siamo decimati, stanchi, con un nuovo Maestro e molti di noi hanno perso la speranza, lo so. Ma se ci arrendiamo ora, come preserveremo la nostra tradizione? Abbiamo chiamato degli iniziati dalla sede di Parigi, li addestreremo. Dio è con noi, lui ci accompagna tra vittorie e sconfitte.- stava cercando di convincersi di cose che nemmeno lui credeva possibili, ma le persone stavano vedendo il lato umano e disperato degli usurpatori della loro terra.
-Non credevamo di arrivare vivi fin qui, ad Acri avevamo perso la speranza quando ci hanno attaccati, poi siamo arrivati qui, è un miracolo. Perciò vi chiedo, per favore, potete farci prendere i nostri ragazzi? Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.- De Molay finì il discorso di Hugues e, per la prima volta dopo tanto tempo, non sembrarono odiarsi.
La tregua non durò a lungo, rami, pietre ed assi iniziarono a volare contro i tre uomini.
Corsero ai cavalli.
-Siamo molto amati anche qui.- Geoffrey era abbastanza trasandato, e le sue parole tagliarono il silenzio scandito dal rumore degli zoccoli sulla strada sterrata.
-Siamo considerati dei falliti ovunque.- lo corresse de Faure, pensando davvero che i 200 anni di guerre e morti fossero stati vani. Cos’avevano risolto?
-Mi sento che finirà male, oggi è stato solo l’inizio, non andrà come dice il Maestro Gaudin.- De Molay era sconsolato, non aveva mai pensato che i Templari potessero diventare inutili, ma ormai, a quanto pare, lo pensavano tutti.
Il battito degli zoccoli sulla strada, i respiri affannati dei tre, le urla dei cittadini, la Terra Santa perduta, il fuoco.
Come un suono stridente, un aspro sapore si infiltrò nei sensi degli uomini.
Era l’inizio della fine.
Camilla Scuri e Alexia Vimercati
Seduta su un muretto del lago.
E' tardo pomeriggio e fisso l'acqua gelida sotto di me.
Seguo con gli occhi il movimento delle onde: hanno un ritmo sempre regolare, ma puntualmente si infrangono dove incontrano il cemento.
Onde così libere, ribelli, con un'energia incontenibile.
Come possono sparire e dissolversi in un attimo contro qualcosa di così duro e imponente?
Le persone intorno a me discutono, ma non è una novità, non ci faccio più caso ormai, tanto da non sentire nemmeno più le loro voci.
Solo una attira la mia attenzione:
"Cosa stai fissando?"
La domanda arriva chiaramente da una persona, non me la sto immaginando fortunatamente.
Non questa volta.
Non trovo il coraggio di guardarla in faccia, non voglio.
"Il lago, l'acqua, il paesaggio, insomma", rispondo frettolosamente con un sussurro.
"Sì, ma cosa stai guardando?" mi ripete, con tono fermo ma calmo.
Non ha sentito la mia risposta?
O semplicemente non si accontenta?
Forse però... Sì, forse...
No, non è possibile.
Non ho mai conosciuto nessuno che fissa il lago come lo fisso io, non può aver capito che non sto guardando il suo riflesso, i suoi colori, le sue onde, ma sto fissando un ricordo. Un ricordo così doloroso da restarmi impresso nella mente.
"Il lago è molto più di quello che sembra, sotto la superficie."
Tutto ciò è pazzesco e allo stesso tempo senza senso.
Decido di guardare da chi proviene questa voce.
È un ragazzo, non sembra particolarmente interessante ma è sicuramente elegante ed esteticamente fine.
Mi guarda negli occhi, lo fisso.
Azzurri come una pietra preziosa, riflettono il mondo e danno così l'impressione di scintillare.
Come il lago fa con il sole.
"Il riflesso dell’acqua è la dimostrazione che non tutto è come sembra, sai? Una persona, prima di buttarsi, ha ben chiari i suoi limiti, poi... Beh, poesia."
Non lo conosco, non l'ho nemmeno mai visto in giro, ma è la prima volta che rimango così colpita, sembra una persona molto particolare.
Appare sicuro di sé, mi dà subito l'impressione che sia un ragazzo positivo e solare, nonostante le sue frasi sul senso della vita e sul riflesso del lago.
Ribadisco il concetto: particolare.
"Si, ma l'acqua è congelata, oggi mi fermo a scrutarne la superficie."
Rispondo io, riferendomi alla sua frase precedente sul lago.
Di sicuro non mi butterò nell’acqua gelata solo per fargli capire che sono poetica anche io.
SPLASH.
In un attimo il ragazzo è in acqua, nuota come un pesce, a ritmo sostenuto, non fermandosi nemmeno per un secondo.
Come fa a stare in quell'acqua gelida? Dove trova la motivazione per farlo, di buttarsi e congelarsi?
Forse non è particolare, è solo strano.
“Avevo anche io paura dell’acqua, ma ora ci passerei la mia giornata: devi solo avere il coraggio di lanciarti.”
Quel ragazzo mi confonde, non capisco il suo gesto così spontaneo e affrettato.
Non ancora, non mi potevo ancora buttare.
Prima o poi...
Solo una settimana dopo arrivano le risposte.
Il giovane era un talento del nuoto, e quella settimana si era allenato esclusivamente nel lago, avanti e indietro, dalle sponde.
Si era buttato, dal nulla aveva creato qualcosa. Dalla sua paura aveva creato la sua passione.
E - indovinate un po'? - aveva vinto la competizione regionale che si svolgeva quella settimana.
Aveva raggiunto il suo obiettivo, era diventato esattamente quello che voleva diventare: un vincente.
Eccolo il mio stimolo, quella voglia irrefrenabile di adrenalina, quel coraggio che spinge le persone a fare qualcosa.
L’acqua era di sicuro fredda, i miei arti rigidi.
Ho guardato lo specchio limpido per un attimo, ringraziandolo di tutto ciò che mi aveva fatto sognare, ma era pronto ad accogliermi nelle sue fredda e bagnate braccia?
Sì, l’acqua era fredda, ma avevo vinto io.
Vesna Olivo
CAPITOLO 2
*FLASHBACK*
Anno 2300, New Hope.
<<La neve era una precipitazione atmosferica costituita da cristalli di ghiaccio, aggregati tra loro in fiocchi. Tali cristalli si originavano da goccioline d’acqua a una temperatura che variavano tra zero e meno uno gradi. Era diffusa nelle ex stagioni fredde tra le montagne del nord Italia ma anche…>> il professore venne interrotto da un colpo alla porta, che sia aprì violentemente. Entrò un uomo vestito in modo elegante, con la spilla del governo sul lato sinistro della giacca.
<<Buongiorno. Scusi il disturbo ma avrei bisogno di Clara Ferri, questioni di stato.>>
Gli occhi stupiti di tutti erano puntati sulla ragazza bionda, più sorpresa di loro, che però non esitò ad uscire immediatamente dall’aula pur di saltare la lezione, parecchio noiosa. Una volta fuori Clara notò subito il suo migliore amico Nicholas insieme ad altre due ragazze, più o meno della loro età. L’uomo dunque li condusse in una classe vuota, dando finalmente delle spiegazioni.
<<Vi starete sicuramente chiedendo perché siate qui, senza essere stati informati di nulla. Per cominciare partirei con le vostre presentazioni. Iniziamo con Juliette Russo, 18 anni: ottimi voti in tutte le materie e tre volte vincitrice delle gare nazionali di matematica e fisica; Clara Ferri, 16 anni: grande appassionata di storia antica e già frequentante il corso di storia nella nostra migliore università, con ottimi risultati; Dalia Marchetti, 16 anni: grazie al test β-13, abbiamo scoperto in lei straordinarie capacità deduttive, anche se non sembra…>> aggiunse fulminando con gli occhi la ragazza, intenta a mettersi il rossetto, ridacchiando tra sé e sé.
<<Continuiamo con Nicholas Vitali, 15 anni. Lavora ormai con noi da tre anni come attivista sulle tematiche che affronteremo, e per cui siete stati convocati; viene definito “Il Piccolo Genio” e poi capirete il perché. Manca ancora una persona, ma mi è stato riferito che dovrebbe arrivare a momenti, quindi se avete domande fatele adesso.>>
Finì il discorso guardando i ragazzi uno a uno, che erano intenti a capire cosa stesse succedendo. Tutti, tranne Nicholas, erano piuttosto confusi. Clara stava per chiedere quale fosse la loro “missione”, ma la porta venne spalancata bruscamente e lei si bloccò. Un ragazzo alto, dai capelli castano chiaro, fece il suo ingresso in modo esagerato, molto teatrale.
<<Sei tu Lorenzo B->> chiese l’uomo che però venne subito interrotto.
<<Sì sì, sono io, ma preferisco essere chiamato Chip. Sapete per caso dov’è il...>> disse in modo frettoloso il ragazzo, che però venne interrotto a sua volta, un po’ per ripicca, da parte dell’altro.
<<Perfetto, ora che ci siamo tutti possiamo andare. Spiegherò tutto durante il viaggio e risponderò alle vostre domande. Ah, prendete Chip-Chop, che mi sembra abbastanza disorientato.>> Detto questo uscì dalla stanza e si avviò fuori a passo spedito.
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati
CAPITOLO 1
Cinque erano le ombre proiettate sull’asfalto in quella strada deserta. Un timido sole, tipico dell'inverno, illuminava il viso del gruppo di ragazzi, fermi a parlottare tra di loro mentre, in teoria, avrebbero dovuto essere a scuola. Nicholas, il più piccolo del gruppo, staccò gli occhi dai suoi amici per poi puntarli attorno a sé con fare circospetto. Il suo sguardo era confuso mentre si guardava intorno. Si erano forse persi?
<< Dovremmo andare. Si sta facendo tardi. >> Disse con voce ferma, decisa. L’incertezza di poco prima sembra svanita. Il resto del gruppo, accortosi dell'improvviso cambiamento, iniziò a incamminarsi. Dopo solo pochi metri l'altro ragazzo del gruppo si era già distaccato da loro.
<< Fa freddo qui ragazzi non trovate? >> chiese, ormai rimasto solo.
<< Ragazzi? Ehi aspettatemi!>> gridò, con fare disperato e come un forsennato, ansioso di riunirsi ai suoi amici.
Una volta ricongiuntosi con loro, la paziente Clara, decise che il modo migliore per tenere sotto controllo Chip – questo il suo nome - fosse di legarlo con un cordino al proprio giubbotto. Dopo qualche altro metro, però, il ragazzo si bloccò di nuovo: << Sto andando a fuoco! >>, urlò spaventato.
I quattro si girarono verso di lui spazientiti. La ragazza che lo “teneva a guinzaglio” alzò gli occhi al cielo. << Guardate, mi esce fumo dalla bocca! E anche a voi!>>, urlò per l’ennesima volta Chip.
Nicholas scoppiò a ridere << Non è fumo, idiota . È il tuo fiato che condensa perché fa freddo >>
L’altro ragazzo lo guardò come se stesse parlando in una lingua straniera. In ogni caso, sembrò ricavare dalla frase l’informazione per lui più vitale:
<< Quindi non stiamo andando a fuo- >> Non fece in tempo a finire la frase, che venne interrotto da un “wow” generale da parte delle ragazze. Queste, infatti, avevano notato per prime il manto bianco che ricopriva le foglie degli alberi e l’erba ai lati della strada.
Dalia, curiosa come sempre, decise di avvicinarsi e di toccare con un dito la sostanza candida e con lei anche Nicholas << È fredda >> disse il più piccolo.
<< È neve >>, disse Julie con fare esperto.
Gli altri la guardarono confusi: << Non avete seguito i corsi vero? >> aggiunse, con aria di superiorità.
Tutti rimasero in silenzio, affascinati dalla nuova scoperta. Chip, rattristato all'idea di non essere, per una volta, al centro dell’attenzione, decise di cacciare un urlo, casualmente troppo vicino a Julia che, per reazione a quell'improvviso attentato mortale al suo sistema uditivo gli mollò un ceffone.
<< Avete idea del perché lo abbiano scelto? >> chiese Dalia, al limite della sopportazione.
<< Non lo hanno scelto, è finito qui per sbaglio .>> rispose Clara, con tono calmo.
Il ragazzo, sentitosi preso in causa, ribadì le sue parole : << Confermo. Stavo solo cercando il bagno.>>
Sofia Cantù, Francesca Curti, Elisa Frigerio, Sama Mohamed, Gaia Trezzi, Benita Joyce Sagbohan e Alexia Vimercati