E se ci immergessimo in un mondo di magia e mistero con Maleficent? Se nell'avvincente adattamento del classico Disney, scoprissimo il lato oscuro della storia della “Bella Addormentata nel Bosco", cambiando punto di vista? E se la vera vittima non fosse Aurora ma anche Malefica?
Malefica, una strega con un aspetto sinistro e un mantello nero. Lunghi capelli neri e unghie aguzze, con un sorriso malefico e sguardo penetrante. Associata a magie oscure e maledizioni, una delle più grandi antagoniste della storia della Disney. Come potrebbe essere la vera vittima? Un film, un segreto, una storia. “Le streghe cattive sono le principesse che non sono mai state salvate". E se avesse ragione Malefica?
Se veramente le streghe cattive non nascono come tali, ma diventano così a causa delle esperienze che hanno vissuto? E se questa sua frase volesse suggerire che molte delle streghe cattive potrebbero essere state in realtà principesse o donne che non hanno ricevuto il loro lieto fine?
Malefica, vista come un mostro, inizialmente, era una fata gentile e benevola, ma diventata "cattiva" a seguito del tradimento subito da Stefano e della perdita delle sue ali. "Avevo le ali, ed erano forti, ma mi sono state rubate". Vittima quindi di un tradimento subito dal suo amico d'infanzia, Stefano, il quale ambisce al potere. Promettendole amore eterno, tradisce Malefica per ottenere il trono, tagliandole le ali. Questo atto crudele e traditore segna l'inizio del dolore e della rabbia di Malefica, che la spingono a vendicarsi lanciando una maledizione sulla figlia neonata di Stefano, Aurora.
"Non chiederò il tuo perdono, perché ciò che ti ho fatto è imperdonabile ma ero smarrita nell'odio e nella vendetta". Nonostante il tradimento e l'odio iniziali, Malefica si rende conto che l'amore per Aurora supera la sua sete di vendetta. Attraverso il legame che si sviluppa tra loro nel corso della storia, Malefica scopre un amore sincero e materno per Aurora. Questo amore supera il suo desiderio di vendetta, portandola alla redenzione e alla comprensione del vero significato d'amore.
Maleficent, quindi, ci offre una prospettiva unica sul classico racconto della "Bella Addormentata nel Bosco", esplorando il lato oscuro e doloroso di Malefica, precedentemente considerata solo come l'antagonista. Attraverso un tradimento e la perdita delle sue ali, Malefica diventa la vera vittima di una storia di inganni e ambizioni. Tuttavia, il suo viaggio verso la redenzione e l'amore per Aurora ci ricorda che anche coloro considerati "cattivi" possono trovare la luce e la speranza, dimostrando che l'amore e la compassione possono superare anche il più profondo desiderio di vendetta. Malefica ci insegna che il vero potere risiede nell'accettazione e nel perdono, trasformando la nostra comprensione di ciò che significa essere veramente "cattivi" o "buoni".
“Lascia che le persone giudichino chi sembri, non tutti devono sapere chi sei”.
Tabasum Tanzina
Citazione dal film “Maleficent”: 2014-2019
Regista: Robert Stromberg.
2015 - Premio Oscar: candidato per i migliori costumi a Anna B. Sheppard (wikipedia)
Cast:
Angelina Jolie: Malefica
Sharlto Copley: Re Stefano
Elle Fanning: Aurora
Il film Dune - parte due porta a termine gli avvenimenti del primo libro della saga. Se nel primo film l’azione era messa in secondo posto in modo da spiegare meglio il mondo fantascientifico in cui è ambientato, nel secondo finalmente otteniamo un po’ di movimento. Probabilmente la qualità più grande di questo film è proprio quella di non annoiare: in un mondo come il nostro in cui il livello d’attenzione è molto basso, è ancora più difficile creare un film che riesca a tenerti incollato allo schermo per 2 ore e 46 minuti, ma Denis Villenueve ci è riuscito.
Innanzitutto, le sequenze d’azione sono estremamente coinvolgenti, non tanto per la presenza di azioni spettacolari come potremmo vedere in un prodotto Marvel, ma proprio per il realismo e la concretezza. Non abbiamo la presenza di superpoteri fantasmagorici, ma un’impressionante e naturale destrezza e aggressività dei personaggi Fremen – che anche Paul farà propria – che crea in un certo senso una sua eleganza nelle mosse essenziali e apparentemente veritiere. Il lungometraggio è costellato da molte scene di combattimento, le più suggestive sono sicuramente quelle corpo a corpo fra due personaggi che presentino un pubblico interno alla scena quando altre comparse assistono al duello; in questo modo lo spettatore può immedesimarsi doppiamente come osservatore “dall’interno” e come personaggio principale combattente, grazie ai ritmi scanditi da pause nell’azione che permette di analizzare in profondità la scena senza venir sopraffatti da un’eccessiva dinamicità. Il pregio è quello di essere molto evocativi e impressionanti, senza la necessità di mostrare troppo “splatter” fine a sé stesso.
Sicuramente, anche la grafica e le musiche sono essenziali per conferire fascino e carattere a questa produzione, che richiama fortemente un mondo che gli spettatori “occidentali” potrebbero riconoscere come “mediorientale”.
La colonna sonora ci accompagna da feroci e “rumorose” scene di battaglia caratterizzate da cori solenni che diventano grida di battaglia, fino a delicatissime notti nel deserto cullate dal flauto.
L’ambientazione di Arrakis è disarmante nella sua semplicità, con dune sconfinate bruciate dal sole e solcate dalla spezia, in una palette dai colori caldi e terrosi che predomina per tutta la proiezione; in contrasto invece le sequenze dedicate agli Harkonnen, girate con un filtro quasi in bianco e nero per renderle ancora più cupe.
I costumi non sono particolarmente complessi, ma puntano a classificare i personaggi in modo essenziale, principalmente attraverso texture e colore (quasi come le caste di Divergent): abbiamo tele e simil lino beige per i Fremen, armature spigolose nere per gli Harkonnen, bianco freddo e scintillante per la famiglia imperiale e panneggio grigio più classico per casa Atreides.
Si potrebbe dibattere su come la caratterizzazione del popolo Fremen sembri fortemente ispirata alla cultura mediorientale e nordafricana: dal profondo senso religioso, ai vestiti che richiamano veli e turbanti in vari stili, fino alla lingua che ad orecchio inesperto suona molto simile alla fonetica araba, gli appellativi di Paul, e infine agli argomenti stessi della trama (fra cui, l’innegabile colonialismo imperiale su Dune/Arrakis). Si tratta di un tributo, che potrebbe voler far simpatizzare lo spettatore con un mondo lontano dal suo e mettere in scena elementi non comuni per una produzione statunitense? Oppure abbiamo a che fare con la riduzione a “un’orientalizzazione” irrispettosa, per puro scopo narrativo e per creare un’estetica “esotica”, senza una reale comprensione di ciò che si va a mettere in scena?
Ovviamente, ognuno ha la sua visione, e non bisogna dimenticare che si tratta comunque di un prodotto fantasy di intrattenimento e non di un’opera esplicitamente dedicata a temi sociali o politici.
Questo lungometraggio è la dimostrazione che però anche un fantasy può insegnarci qualcosa di importante, Dune - parte due vuole infatti insegnarci l’influenza che il potere ha e, allo stesso tempo, quanto anche solo l’apparenza basti per ottenerlo. Paul Atreides non fa nulla che non fosse mai stato fatto nella storia, quando realizza quanta influenza ha solo grazie a ciò che i Fremen pensano di vedere in lui: inizialmente ne fugge, ma quando capisce come essere Lisan al’Ghaib potrebbe tornargli utile per fare la “cosa giusta” non ha problemi a sfruttare il fanatismo della popolazione per i suoi scopi. Così facendo si apre anche la questione sul fatto che il fine giustifichi i mezzi. Ovviamente, noi non possiamo sapere se effettivamente Paul voglia compiere un’azione giusta (per quello dovremo aspettare la fine della saga), ma mettiamo caso che lo sia: questo giustifica il fatto che lui abbia fatto leva sulla speranza dei più poveri per portarli alla salvezza?
Infine, l’ultima realizzazione che ci dona è quanto sia difficile individuare quale sia veramente la figura che detiene il potere. Questo spunto si intravedeva anche nel primo film, ma nella seconda parte viene sviluppato affinché ogni volta che lo spettatore pensa di aver capito chi veramente detiene le redini del gioco, scopra una nuova entità che si trova un gradino più in alto di quella precedente.
Inoltre, il film è contornato da questa storia d’amore tra Chani e Paul, dove i due si trovano a lottare tra ciò che loro credono e le credenze popolari, un amore travagliato che rende ancora più coinvolgente il film.
A chi consiglierei questo film? Agli amanti della fantascienza e a chi ama analizzare per trovare il significato nascosto delle cose, oppure a chi ha letto i libri e li ha amati e vuole rivivere quelle emozioni. Non lo consiglio a chi non è disposto a vedere prima la Parte 1, che è decisamente più lenta ma necessaria.
Martina Cucchi e Sofia Rebagliati
Dune 2, di Martina Cucchi
Tecnica: tempere e matita*ALLARME SPOILER*
Dopo undici anni dal suo precedente film Si Alza Il Vento (2013), è uscito al cinema Il Ragazzo E L’Airone, ventiduesimo film dello Studio Ghibli e dodicesimo film del regista giapponese Hayao Miyazaki. Sicuramente, l’hype per questo film, dal momento del suo annuncio, fino al rilascio nelle sale cinematografiche è stato enorme. Dopo l’uscita di Si Alza Il Vento, il regista, durante la 70esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia aveva annunciato che si sarebbe ritirato dalla sua attività a causa della sua età. A seguito di ciò, nel 2014 gli venne conferito l’Oscar onorario. Ma ciò non bastò per far mollare tutto al maestro dell’animazione giapponese.
Il ragazzo e l'airone, di Martina Cucchi
Tecnica: acquerelloDurante uno speciale televisivo intitolato Never-Ending Man: Hayao Miyazaki, del 2016, venne rivelato che il regista fosse intento a lavorare ad un altro lungometraggio intitolato “provvisoriamente” “How Do You Live?” Titolo, ispirato dal romanzo omonimo. La produzione ebbe inizio ufficialmente nel 2016 con previsione di terminarla nel 2019. Dopo sette anni totali di produzione, il film uscì nelle sale giapponesi a luglio del 2023. La particolarità che più ha fatto discutere è stato il rilascio diretto nelle sale cinematografiche senza trailer o pubblicità, ma con la sola pubblicazione di una locandina di uno storyboard con il titolo del film, cambiato in Il Ragazzo E L’Airone. Il 10 Marzo 2024 Il Ragazzo E L’Airone ha ricevuto l’Oscar come miglior film d’animazione. Questo film, però se analizzato ha altro da offrirci oltre ad un meraviglioso intrattenimento. Quando ho detto che questo film era stato provvisoriamente intitolato “How Do You Live?” in verità quello non era il titolo provvisorio. “How Do You Live?” in realtà è, come detto prima, un romanzo; scritto da Genzaburō Yoshino, che lo stesso Miyazaki lesse da ragazzo e che in Il Ragazzo E L’Airone ne riprese solo le tematiche. Molti critici hanno considerato questo film come il lavoro più personale del regista, poiché al suo interno racchiude eventi che hanno segnato o addirittura fatto parte della vita personale di Miyazaki, per esempio, l’evento “Deus ex Machina” di molti avvenimenti nel film è il fatto che Mahito, il protagonista non riesce ad accettare il fatto che suo padre si sia risposato con la zia di Mahito e che lei sia incinta. Questo evento, seppur non vissuto allo stesso modo, è presente nella vita di Miyazaki, poiché lui è secondo di quattro figli, nati dal matrimonio del padre con la sorella della sua ex moglie. Il film si apre con Mahito che assiste alla morte della madre per un incendio causato nell’ospedale in cui era ricoverata. Questa scena è tratta da esperienze che il regista ha vissuto davvero, ovvero in primis il ricovero ospedaliero, lungo 7 anni, della madre per tubercolosi; (tema che il regista aveva già affronto in Il Mio Vicino Totoro e in Si Alza Il Vento.) e in secondo luogo, l’aver assistito ad un incendio in un ospedale quando era ragazzo.
Solitamente Miyazaki, nei suoi film, ricorre all’uso dei quattro elementi naturali: Aria, Acqua, Fuoco e Terra. L’aria soprattutto è un elemento estremamente ricorrente nella maggior parte dei suoi film poiché influenzato dal fatto che suo padre fosse direttore della Miyazaki Airplane, azienda specializzata nella costruzione di timoni per i modelli di caccia Mitsubischi A6M. Come detto, questo lavoro, (e soprattutto il tema del volo) saranno poi, temi molto ricorrenti nei futuri film di Hayao, come per esempio: Si Alza Il Vento, Kiki Consegne A Domicilio, Nausicaä Della Valle Del Vento e Porco Rosso. L’acqua invece come elemento e molto presente, per non dire quasi protagonista nel film Ponyo Sulla Scogliera, e in un altro film dello Studio Ghibli (Ma non di Miyazaki) La Tartaruga Rossa. Il fuoco invece è un altro elemento che Miyazaki usa tantissime volte; degli esempi sono presenti ne Il Castello Errante Di Howl, dove il protagonista, Howl fa un patto con il demone del fuoco Calcifer per il possesso del suo cuore in cambio di poteri magici (anche la schiera a cui Calcifer appartiene sono demoni con sembianze di stelle cadenti), oppure ne: Il Ragazzo E L’Airone, Mahito incontra Himi, anche lei un demone del fuoco che lo accompagnerà nella sua avventura. La terra per quanto fisicamente (e visivamente) presente nei suoi film non era mai stato un elemento centrale nei vari lungometraggi di Miyazaki, ma in Princess Mononoke e Pom Poko è presente sottoforma di rapporto fra Uomo e Natura, tema che il regista affronta costantemente cercando di sensibilizzare le persone, accusando l’uomo di star distruggendo l’ambiente intorno a sé. Invece ne: Il Ragazzo E L’Airone la natura è “malevola”. Il protagonista si ritrova in un mondo dove la natura non è un elemento che si sta deteriorando ma invade lo spazio. Non solo la natura vegetale, ma anche quella animale. Nei vari mondi paralleli che Mahito visita è presente tanta flora quanto sia presente una fauna che va oltre l’incredibile.
Come anticipato prima, Miyazaki nei suoi film inserisce moltissimi elementi e rimandi alla cultura Giapponese, per esempio un elemento che il regista tende ad usare è il tema della spiritualità. In molti dei suoi film (così come quasi tutti i film dello Studio Ghibli) gli spiriti sono presenti e sono rappresentati come custodi di vari luoghi o elementi naturali. Sono generalmente esseri molto potenti e rispettati, nonostante le sembianze (Per esempio Totoro, ne Il Mio Vicino Totoro), o il Dio Cervo (in Princess Mononoke), o i procioni (In lingua originale chiamati Tanuki) di Pom Poko, hanno sembianze animali ma sono esseri molto potenti.
In ultimo un altro tema che è presente in moltissimi film dello Studio Ghibli è la guerra. Sia Miyazaki che Takatha nei loro film trattano anche questo argomento. Miyazaki per il motivo sopracitato, Takatha l’ha trattato in vari film a cui ha lavorato, fra cui forse il suo più famoso trattante questo argomento: Una Tomba Per Le Lucciole. Altri film che toccano questa tematica sono: Nausicaä Della Valle Del Vento, dove si parla di due guerre: la prima la distruzione di una civiltà molto avanzata per mano dei Mostri della guerra. La seconda mille anni dopo, fra gli abitanti della Valle del vento, un impero, e le creature che abitano la Giungla tossica che ha ricoperto il pianeta dopo la guerra di millenni prima. In Laputa-Il Castello Nel Cielo la guerra è in uno stato dormiente, poiché svoltasi secoli prima degli eventi (un segno evidente sono i robot posti a protezione del cristallo di Laputa), Invece Una Tomba Per Le Lucciole è ambientato invece nella seconda guerra mondiale e racconta di un fratello e una sorella che cercano di sopravvivere dopo la distruzione di casa loro per mano di un bombardamento per mano degli Alleati, Porco Rosso è ambientato nella prima guerra mondiale, Princess Mononoke invece tratta di una guerra fra l’uomo e la natura, Il Castello Errante Di Howl parla di una guerra fra due regni, così come i I Racconti Di Terramare. Si Alza Il Vento ed Il Ragazzo E L’Airone sono ambientati nella seconda guerra mondiale. Il primo racconta fittiziamente la storia di Jirō Horikoshi progettista dei caccia Zero. Il secondo è ambientato nel 1941 e come sfondo la seconda guerra mondiale vissuta dal punto di vista di un ragazzino. Ma la cosa più interessante, per me, è che Miyazaki si schiera contro la guerra sempre. Quindi questo tema unito alle riflessioni sulla natura rende molto attuale il maestro giapponese. Servirebbe un altro articolo per parlare di come è trattato l’amore nei vari film, amore che risulta sempre delicato e rispettoso.
I disegni e l’animazione dello Studio Ghibli sicuramente sono i più riconoscibili se si parla di Anime. In questi capolavori visivi c’è da elogiare il lavoro artistico dei vari disegnatori che se ne occupano. Tutti gli storyboard sono disegnati a mano e l’acquerello è usato come base su cui poi ricavare i colori durante il processo di animazione. Le caratteristiche da me molto apprezzate sono: la ricchissima palette di colori utilizzata, le ambientazioni, che spessissimo rimandano a paesaggi e città europee, la grande varietà di creature che popolano le storie.
L’ultima nota riguarda le musiche che accompagnano i film, tutte composte da Joe Hisaishi. Ogni colonna sonora è capace di far immergere completamente lo spettatore nei mondi creati dai registi.
Sara Rebuzzini
Nel mondo distopico di "Maze Runner", la sopravvivenza è una lotta quotidiana e la verità è un tesoro nascosto tra le ombre del mistero. In un futuro dove il caos regna sovrano e le regole sono scritte dalle forze oscure del potere, un gruppo di giovani ribelli si trova al centro di una battaglia per la libertà e la verità. Senza ricordi del loro passato, sono catapultati in un labirinto letale, dove il destino è incerto e ogni passo avanti è un rischio mortale. Attraverso ostacoli e tradimenti inaspettati, questi eroi devono trovare la forza e il coraggio di sfidare il sistema e scoprire la chiave per un futuro migliore. Ogni decisione è un'opportunità ma pure un pericolo.
Durante il loro viaggio, i protagonisti, guidati da Thomas, affrontano non solo le minacce fisiche del labirinto, ma anche i loro conflitti interiori e le loro relazioni personali. Thomas emerge come leader del gruppo, con un mix di compassione, coraggio e determinazione che lo rendono un eroe. Al suo fianco, compagni come Newt e Minho contribuiscono con le loro abilità uniche e la loro lealtà, formando un legame che va oltre la semplice sopravvivenza.
Mentre il mistero del labirinto si svela poco a poco, scoprono che la chiave per la loro salvezza e il futuro dell'umanità potrebbe essere sepolta nelle profondità oscure del labirinto stesso.
In bilico su una linea sottile tra la speranza e la disperazione, i protagonisti affrontano situazioni che mettono alla prova non solo la loro forza fisica, ma anche la fiducia tra loro e nelle loro stesse capacità.
Nel corso dell’avventura, scoprono indizi e segreti che indicano una possibile via d'uscita, ma devono lottare contro il tempo e contro forze oscure che cercano di ostacolarli.
Nei seguiti di Maze Runner, il viaggio dei protagonisti si intensifica mentre affrontano nuove sfide e rivelazioni che mettono alla prova la loro determinazione e la loro fede nell'umanità. In Maze Runner: La fuga, i sopravvissuti devono affrontare il deserto bruciante e i nemici, mentre cercano di decifrare i misteri del loro passato.
Nel terzo film, Maze Runner: La rivelazione, la lotta per la libertà raggiunge il suo culmine, mentre i protagonisti si preparano a svelare la verità finale dietro il labirinto e la devastazione del mondo esterno.
Attraverso queste epiche avventure, Maze Runner non è solo una serie di film d'azione, ma una saga che esplora temi universali come l'amicizia, il coraggio, la fiducia e la ricerca della verità. Nel cuore di ogni film, c'è la costante lotta per la libertà e la speranza, anche quando il mondo sembra essere caduto nel caos e nell'oscurità, insegnandoci che c'è sempre una via d'uscita per coloro che osano sognare e lottare per un futuro migliore.
Tanzina Tabasum
Marvel Comics è una casa editrice statunitense di proprietà di Marvel Entertainment, è una delle principali società d'intrattenimento al mondo fondate sui personaggi dei fumetti (la sua biblioteca ne conta oltre 8 000).
Questo mondo è ricco di personaggi e universi alternativi. Le storie di questi personaggi hanno portato l'industria a godere di un notevole aumento di popolarità nel corso degli anni, particolarmente grazie al successo del Marvel Cinematic Universe.
The Avengers di Aurora Pennisi
TECNICA GRAFICA: MatitaLa strategia di collegare diversi film e personaggi in un'unica narrativa condivisa ha contribuito a catturare l'attenzione di un vasto pubblico. La Marvel è ora ampiamente apprezzata sia dai fan di lunga data dei fumetti che da nuovi spettatori.
Uno dei film più apprezzati di quest'industria è il primo degli “Avengers” che presenta personaggi iconici Marvel come Iron Man, Captain America, Thor, Hulk, Black Widow e Hawkeye che si uniscono per salvare il mondo da un'invasione aliena guidata da Loki.
La trama di "Avengers" si sviluppa intorno all'assemblamento di un gruppo di supereroi iconici della Marvel per affrontare una minaccia aliena. Loki, fratello di Thor, ottiene il Tesseract, un potente artefatto cosmico, e usa il suo potere per aprire un varco attraverso il quale invia un esercito alieno guidato dai Chitauri sulla Terra.
Nick Fury, direttore dello S.H.I.E.L.D., si vede costretto a riunire un team di supereroi che include Iron Man (Tony Stark), Captain America (Steve Rogers), Thor, Hulk (Bruce Banner), Black Widow (Natasha Romanoff) e Hawkeye (Clint Barton). Inizialmente, il gruppo è diviso a causa delle loro diverse personalità e sfide interne.
La trama si sviluppa attraverso conflitti interni, con i membri degli Avengers che imparano a lavorare insieme mentre affrontano la minaccia di Loki. Oltre alle dinamiche interne del team, il film presenta spettacolari scene d'azione e combattimenti epici, culminando nella battaglia finale a New York City, dove gli Avengers affrontano l'invasione aliena.
Il film si conclude con i neonati Avengers vittoriosi.
A differenza del primo film, l'ultimo “Avengers Endgame” copre un arco temporale più vasto, dove i personaggi affrontano dei viaggi nel tempo per recuperare le gemme dell'infinito e annullare i danni causati da Thanos.
Nel primo film possiamo notare che la gamma dei personaggi è nettamente minore a quella dell'ultimo, a cui alle grandi figure di Iron Man, Capitan America, Thor, Hulk, Black Widow e Hawkeye, si uniscono Wanda, Captain Marvel, Spiderman e moltissimi altri personaggi Marvel presenti in altri film e fumetti. Inoltre, possiamo notare che anche la storia raccontata crea più suspense ed è più articolata nei dettagli con un finale inaspettato e continui colpi di scena.
A seguito di questi film possiamo notare il modo in cui la MCU è stata in grado di mantenere l'entusiasmo del pubblico attraverso una combinazione di fattori chiave. Innanzitutto, la coerenza narrativa e la connessione tra i film hanno creato un'esperienza cinematografica unica. Gli eventi di un film influenzano spesso gli altri, come notato in precedenza, creando una trama complessa e interconnessa.
Inoltre, la capacità della Marvel di introdurre nuovi personaggi e storie senza perdere di vista il filo conduttore principale ha contribuito a mantenere l'interesse del pubblico. L'inclusione di personaggi carismatici e la scelta di attori di alto calibro hanno reso ogni nuovo film un evento atteso.
Infine, l'attenzione ai dettagli e ai riferimenti ai fumetti originali ha reso i film della Marvel apprezzati sia dai fan di lunga data che dai nuovi spettatori. Ma a causa delle morti di molti personaggi principali, possiamo notare un calo di popolarità dei film recenti, ma ciò è d’altra parte soggettivo e può variare tra gli spettatori. Tuttavia, alcune ragioni per cui alcuni potrebbero percepire una diminuzione di valore nei film della Marvel rispetto a quelli iniziali, potrebbero includere il passare del tempo, dove le aspettative degli spettatori possono crescere, rendendo più difficile per i film successivi soddisfare o superare le aspettative. Inoltre, la questione relativa alla qualità di un film si presta in parte alla soggettività dello spettatore, dipende dai gusti individuali. Alcuni potrebbero preferire lo stile o la trama dei primi film rispetto a quelli più recenti, mentre altri potrebbero avere opinioni opposte.
Un altro punto su cui riflettere potrebbe essere il cambiamento dei personaggi principali o della trama, che potrebbero influenzare la percezione del valore dei film. Ma ciò nonostante, l'industria cinematografica della Marvel resta una delle migliori mai create.
Tedesco Thomas e Tabasum Tanzina
Ten years have passed since the civil war that has almost been the end of Panem. Ten years in which the Capital mended its wounds, strangling the districts ever more. Ten years in which the districts have been forced to send their children, like the Athenians to Crete, to be slaughtered in the arena. But, as the memory of the war fades, the Capitol’s citizens’ interest in the Games is waning and its tenth edition could be the very last.
And that’s where Coriolanus Snow enters the game. A Capitol boy of eighteen, with a famous family name, but no money to sustain it, and a shining smile under which to hide the shame of his misery. He, along with other twentythree Capitol peers, is assigned as a mentor to a tribute. At stake, there is a prize that would allow him to sane his family’s desperate finances and attend a prestigious university, a first step towards Panem’s presidency. At first, his seems like a loosing game: his tribute is the District 12 girl, who everyone thinks has no chance of winning. But Lucy Gray Baird is miles away from what one would expect district 12 could produce. She wears a flamboyant rainbow dress in the sea of gray of the coal district and sings like a nightingale. She is from the Covey, a nomadic group of artists that, before the war, used to travel from place to place, but are now forced to live in District 12. She immediately stands out: she’s bold and brave, and not afraid to speak her mind. With the Capital’s attention now drawn on her, Coriolanus sees a chance. He starts to devise a scheme to get her out, and get the prize, reshaping the Hunger Games to fit his needs and balancing love and ambition in a game of life and death. Yet, every prize comes with a cost, and Coriolanus Snow is more than willing to pay the price for wealth and power, even if it’s his very soul. Good just doesn't stand a chance.
I dare to say, A Ballad of Songbirds and Snakes is the most fascinating installment of the whole Hunger Games saga. It takes the fairly common trope of the villain's origin story, but not quite. Nothing like the abrupt, sometimes blameless falls from grace we're used to: Coriolanus Snow’s descent into evil is controlled, cold. He is not thrown off an abyss, he does not lose and lose till he breaks: he is slowly, and willingly, walking into an ever deepening river of blood. Coriolanus Snow is a snake hiding under a rose: at first the two parts of him coexist, working towards the common goal of, but soon their aims begin to grow apart. As he climbs up the ladder of his ambition, he sinks deeper and deeper into his own poison. Betrayal after betrayal, he sheds the petals of the rose, leaving behind only the smell, to cover the stench of blood he can no longer rid himself off.
A Ballad of Songbirds and Snakes also offers an interesting take on human nature. Even more than in the Hunger Games, Collins explores just what it takes for every moral, human and divine law to fall apart and be forego. The tributes, and not only them, are put face to face with death, forced to play by nature’s rule: kill or be killed in doctor’s Gaul, the Hunger Games’ Gamemaster, sick show. She strives to bring the monster lurking beneath every pair of human eyes, to make a mockery of the innocence of the child and display humanity’s rotten core to the whole Panem. Some characters try to resist, such as Lucy Gray and Sejanus, but still get dragged away by the bloodied stream of violence, losing a bit of their humanity in the barbary of the world.
Elisa FrigerioUscita il 14 giugno 2021, la serie Il liceo Voltaire ha súbito riscosso un grande successo, soprattutto tra i più giovani. La serie di Marie Roussin, però, avrà soltanto una stagione, lasciando i suoi spettatori con il fiato in sospeso. Nonostante la sua breve durata, infatti, la sua cancellazione ha suscitato molto scontento tra i fan, facendo nascere diverse polemiche e petizioni per una seconda stagione. Come mai? Perché dovresti guardare Il liceo Voltaire?
Lo scopo di questo articolo è quello di provare a rispondere a questa domanda.
Ambientato in Francia durante l’anno scolastico 1963-1964, il tema principale de Il liceo Voltaire è l’ammissione di alunne in una scuola (com’era del resto molto frequente) riservata a scolari maschi. Nonostante questo sia il fulcro, la serie tocca anche altre tematiche importanti, trattando della situazione delle minoranze in Europa negli anni Sessanta. Da donne a orfani, fino a parlare della comunità LGBTQ+, il lavoro della Roussin esplora diverse problematiche legate ai diritti sociali con tocco morbido, leggero ma mai banale, permettendo allo spettatore di immergersi in riflessioni più ampie e complesse, ma facendo pure sì che rimanga una serie semplice, da godere anche in famiglia.
CONSIDERAZIONI STRUTTURALI
Essendo ambientata negli anni sessanta in Francia, la serie mostra allo spettatore i movimenti sociali precedenti all’annata del ‘70, decisiva, invece, nel nostro Paese accompagnato da numerose rivoluzioni – sociali e legislative. La serie, come ho già detto, non è incentrata sui cambiamenti riguardanti la collettività, ma li tocca in modo sottile (e altrettanto efficace) attraverso una splendida e profonda introspezione di diversi personaggi. Ma andiamo con ordine.
Il primo argomento – il principale, in quanto conferisce alla serie il titolo originale Mixte ovvero “Misto” – è quello della scolarizzazione femminile. Nel nostro Paese, nel 1860 venne varata la legge Casati, che stabilì l'obbligo dell'istruzione elementare e riorganizzò l'accesso alle superiori. In teoria il diritto all'istruzione era uguale per i due sessi, ma veniva diversificato nei contenuti.
In Francia, invece, l’apertura delle prime scuole miste si ha nel 1959, quando la scuola Ponts et Chaussées è aperta alle ragazze. Successivamente, un ulteriore passo in avanti viene fatto quando, nel 1965 la legge del 13 luglio modifica il regime giuridico del matrimonio della coppia che si sposa senza contratto. Ciò consente alle donne di esercitare un'attività professionale senza il consenso dei mariti.
Il modo in cui questi cambiamenti investono interamente queste generazioni lo vediamo espresso nei personaggi di Michele Magnan (alunna) e Camille Couret (insegnante).
La prima non è cosciente del cambiamento sociale di cui fa parte, e, anzi, sembra che le pesi andare a scuola, non tanto per il fatto che non riesca ad adattarsi ad uno sbalzo di contenuti didattici tra medie e superiori, quanto per il fatto che non è incoraggiata da genitori e insegnanti, da cui più volte verrà ingiustamente punita nel corso della serie.
La seconda, invece, è una donna divorziata negli anni Sessanta, durante i quali il divorzio era sia un privilegio che un tabù per molte. Questo finirà per influenzare negativamente la sua carriera – anch’essa una cosa straordinaria per una donna non sposata.
Nonostante ciò, la serie non tratta soltanto tematiche legate al mondo femminile, ma relative anche al mondo LGBTQ. Abbiamo un esempio nel personaggio di Jeanne Bellanger, interpretata da Maud Wyler. La donna lavora all'interno del liceo come infermiera della scuola, e ha un matrimonio di facciata con il dirigente degli insegnanti: il signor Bellanger, zio di Michele. Essendo un personaggio marginale, non abbiamo molti indizi su di lei, fino al quinto episodio, in cui la vediamo trasformarsi, abbassando la guardia e abbandonando la maschera che è costretta ad indossare sul lavoro e in famiglia. Durante l’episodio cinque, vediamo accadere un evento traumatico per Jeanne, al termine del quale non troviamo nessun cambiamento. La mattina successiva, infatti, la donna sarà costretta dalle circostanze e dalle aspettative a tornare sul posto di lavoro, indossando la solita maschera da donna felicemente sposata, serena ed impegnata a ricoprire il suo ruolo.
Gli esempi non si fermano qua: infatti la serie parla anche della situazione degli orfani in Francia nella seconda metà del Novecento. Attraverso il personaggio di Alain Laubrac, infatti possiamo intuire un tassello di ciò che era la situazione degli orfani francesi. Infatti, già nel primo episodio, vengono comunicati direttamente allo spettatore il disagio e le difficoltà che una persona senza genitori o tutori legali poteva incontrare. Il ragazzo subisce diverse discriminazioni, da quelle dei docenti a quella dell’emarginazione sociale.
Oltre alle opportunità di riflessione che offrono questi personaggi, trovo molto affascinante la morale, che diventa sempre più esplicita verso la fine della serie, e che viene esternata direttamente da Pierre Bellanger, marito di Jeanne. Anche lui, durante tutta la serie, è costretto ad indossare una maschera, e quando decide di togliersela, pronuncia queste parole: “Ci sono dei giovani qui che hanno compreso le cose della vita prima di me.”
Questo mostra come la morale della serie sia legata al pensiero innovativo (anche per i nostri tempi!) secondo il quale anche gli studenti possano insegnare qualcosa– non necessariamente legato all’ambito disciplinare – ai docenti.
IL PERSONAGGIO
Il personaggio che ho trovato più interessante è quello di Annick Sabiani, interpretata da Lula Cotton-Frapier. Il personaggio di Annick è caratterizzato da una profonda solidarietà e da un marcato senso di sacrificio, che però rischiano di venire fraintesi, per colpa della sua freddezza, che utilizza come meccanismo di difesa. Il pregiudizio che si verrà a creare nei suoi confronti la farà apparire un personaggio opposto rispetto a quello che è.
La serie è molto piacevole, perciò è adatta alla visione di tutta la famiglia. Allo stesso tempo offre molti spunti di riflessione. Il mio giudizio, per questo motivo, è pari a cinque stelle su cinque.
Sofia DefendentiOgnuno di noi ha un film o una serie tv del cuore. Sono incredibili i capolavori che si possono creare su uno schermo, ma, effettivamente, quanto lavoro c’è dietro?
Senza rendercene conto, finiamo per dare per scontata la formazione di una fiction, pensando che basti un copione e delle telecamere per creare qualcosa di impeccabile.
Se ci soffermassimo, invece, sui dettagli di ogni inquadratura, riusciremmo a cogliere la quantità di imperfezioni presenti in ogni scena: è molto difficile, infatti, crearne una senza un minimo dettaglio fuori posto. Potrebbero essere un esempio i capelli di un personaggio: a volte capita che prima sono in un modo e dopo in un altro.
Sapevate che una semplice scena di 2/3 minuti, richiede spesse volte almeno 7/8 ore di lavoro? 4/5 ore per l’allestimento (luci, telecamere, suoni, oggetti di scena…) e circa 2 ore per girare un cosiddetto “Master”, ovvero, la scena definitiva fatta più volte con diverse inquadrature. Tutto questo senza contare i bloopers, ovviamente.
Un elemento importante per le riprese: lo stuntman
Avevate notato che non in tutte le scene è la stessa figura ad interpretare un personaggio?
Capita spesso, infatti, che ci sia bisogno di girare alcune sequenze action che potrebbero risultare pericolose per l’attore principale: è qui che entra in gioco lo stuntman.
Fondamentalmente, si tratta di atleti allenati per compiere determinate azioni più estreme: vengono vestiti e truccati come il personaggio che devono imitare e, quando la scena viene girata, fanno in modo che il volto non venga riconosciuto. E’ stato uno stuntman, ad esempio, il famoso Terence Hill, ormai ottantenne.
Questa figura, però, non compare con tutti gli attori: Jackie Chan, ad esempio, ha sempre rifiutato la comparsa di uno stuntman in ogni suo film.
I luoghi: affascinanti e belli, ma sono davvero tutti reali?
Soprattutto nei film fantasy si vedono dei paesaggi spettacolari, mentre nei film di azione, delle scene spericolate, come ad esempio buttarsi giù da un dirupo. Quando osserviamo queste vicende, non possiamo fare a meno di farci la solita domanda: “Ma come hanno fatto?”
La risposta è semplice: green screen o, meno usato, blue screen.
Sono delle tecniche applicate per modificare lo sfondo di una scena, illudendo, appunto, lo spettatore. Non c’è differenza tra i due colori; all’inizio, però, veniva usato il blue screen, poi si passò al green screen perchè si scoprì che il verde è più semplice da sostituire.
Anche qui, come per lo stuntman, ci sono eccezioni di attori che preferiscono girare la scena in modo realistico, come Tom Cruise, che, nell’ultimo “Mission Impossible”, scelse di buttarsi giù da un dirupo vero, salvandosi usando un semplice paracadute.
Avete presente la famosissima scena di Harry Potter, nel prigioniero di Azkaban, dove Harry accarezza l’ippogrifo? Ecco questo potrebbe essere un esempio perfetto, per mostrarvi cosa accade dietro le quinte di un famoso film… Quello che sembra essere un animale fantastico, in realtà è solamente un becco sospeso attaccato ad un bastone!
Concludiamo il nostro articolo, quindi, dicendo che il mondo del cinema è un qualcosa di unico ed eccezionale: se ci soffermassimo più a vedere quello che accade dietro le quinte, scopriremmo la particolarità e la difficoltà nel realizzare una scena. Sicuramente, ci penseremmo due volte prima di pretendere il seguito di un film, nel giro di un anno!
Carlotta Vittori
Non è semplice ricreare sullo schermo l’atmosfera di mistero ed eleganza tipicamente britanniche dei racconti di Sir Arthur Conan Doyle, ma chi ha dato vita nel modo più fedele ad uno dei più famosi detective di sempre?
Per aprire questa sfida, analizziamo (con metodo, come Holmes vorrebbe) la moderna serie “Sherlock” prodotta dalla BBC. Ambientata in una Londra contemporanea, con dispositivi elettronici e metodi scientifici moderni, sicuramente non restituisce il sentore “vintage” che troviamo fra le pagine (un po’ ingiallite) dei romanzi originali: Holmes avrà pur sempre il suo cappello da caccia, ma sicuramente non si ritrovano carrozze trainate da cavalli, antiche ville sontuose e, ancor più, vecchi gentiluomini di fine ‘800; nel bene e nel male, poiché l’ambientazione più vicina a noi rende sicuramente la serie più appetibile anche per chi non è fedelissimo lettore dei racconti gialli di fine XIX secolo. Così come Sherlock Holmes e Watson sono per antonomasia i detective della letteratura poliziesca, i loro due interpreti in questa produzione sono due icone del cinema inglese: l’interpretazione del duo Benedict Cumberbatch e Martin Freeman (che sì, sono gli stessi dello Hobbit) è indiscutibilmente coinvolgente, dalla sottile freddezza e black humor di Holmes al più sensibile ed indispensabile Watson. Le loro personalità si discostano però dai personaggi classici, seppur mantenendo i tratti principali: al metodo razionale e logico del detective viene aggiunto un (più che) pizzico di follia, ma anche umanità, esasperando il suo amico, sempre comunque fedelissimo; ciò permette l’inserimento di molti momenti di comicità, alti e bassi emotivi, altrimenti assenti nella formale linearità delle opere classiche. Romanzi ai quali le trame degli episodi si ispirano con una certa libertà : le prime tre stagioni propongono infatti degli adattamenti molto piacevoli dei casi originali, di cui prendono gli elementi fondamentali (trasponendoli di un paio di secoli) per ricreare nuove, avvincenti avventure. La nota stridente in questo violino di qualità, sono però alcune parabole di complessità e frenesia degli episodi assolutamente non verosimili, talvolta eccessive anche per la brillante mente di Holmes (quindi figuriamoci i poveri spettatori a casa); in particolare, la quarta stagione si discosta totalmente dai racconti originali per precipitare da una cascata di follie narrative, prima fra tutte l’invenzione di una sorella mai nominata, e una lunga serie di drammi esistenziali repressi in un detective tradizionalmente simbolo di stoicismo. Una nota di merito va sicuramente alle musiche (alcune suonate dal violino di Holmes), mentre il montaggio contribuisce all’atmosfera caotica e complessa durante i casi, con inquadrature vorticose e turbolente. Anche per i fan di Conan Doyle, una serie da rivedere, se non altro per comprenderla appieno.
La produzione cinematografica Warner Bross, contemporanea all'uscita della rivale britannica, si pone su un livello totalmente differente rispetto alla serie TV prima citata. Complessivamente, si propone come “dissacrante” rispetto al mito del detective britannico: il personaggio di Holmes viene rappresentato come sciatto, non curante dell’igiene personale, e bizzarro oltre ogni limite, nonchè piuttosto sgarbato e incurante con il compare Watson. La scelta dell’attore principale in Robert Downey Jr. contribuisce a privare il protagonista del suo tipico "british aplomb”, trasformando il distinto detective in un uno stravagante giustiziere americaneggiante; se non altro, questo offre spunto per numerosissimi momenti di comicità, spesso però più surreali che di "british humor”, talvolta anche equivoci e sovrabbondanti. Il dottor Watson, interpretato dal britannico Jude Law, si pone in netto contrasto con la figura del protagonista, mostrandosi più composto e tradizionale. Le trame dei due lungometraggi ricalcano più il genere dell’avventura, con apprezzabili e rocambolesche scene d’azione, combattimenti e inseguimenti; al contrario, sembra che venga perso di vista lo spirito del racconto del mistero e il coinvolgimento mentale del pubblico nel cercare di risolvere la trama, non particolarmente complessa e per nulla vicina allo stile di Conan Doyle. Ambientato alla fine del XIX secolo, entrambi i film propongono settings piuttosto oscuri nei colori, ambienti degradati, quasi squallidi, lontani dall’elegante sobrietà tipica dei romanzi originali. Insomma, sarebbe meglio che ciò che era inglese resti inglese, non che venga rimaneggiato in modo discutibile in chiave americana; un film da vedere giusto una volta per fare qualche risata, sicuramente difficile da apprezzare per gli appassionati dell’opera originale.
Distribuito nel 2010 dalla casa di produzione cinematografica “The Asylum” (altrimenti nota per i remake a basso budget di celebri blockbuster hollywoodiani e film di serie z) questa pellicola diretta da Rachel Goldenberg tenta di unire il racconto giallo e la fantascienza, con risultati alquanto disastrosi. Un cast relativamente sconosciuto non riesce a caratterizzare in modo significativo i personaggi, che si destreggiano fra scene surreali in una Londra Vittoriana invasa da automi robot: un giovane Holmes dovrà infatti risolvere l’improbabile mistero di un robot marino piovra gigante, un t-rex meccanico che sparge il terrore nelle strade di Londra e addirittura un drago volante da inseguire in mongolfiera. Il creatore di questi mostri è il dimenticato fratello del detective, ribattezzato Thorpe, come se il personaggio di Mycroft Holmes non fosse già stato delineato nei racconti con una dignità e un ruolo del tutto differenti… Una storia illogica per distruggere un personaggio per eccellenza razionale della letteratura; fortunatamente, una visione semplice da dimenticare.
Questo film del 2015 diretto da Bill Condor presenta un anziano e sconfitto Sherlock Holmes, interpretato sapientemente da Ian McKellen. Anche se tratto da un romanzo di Mitch Cullin e non dai racconti originali, la pellicola riesce a restituire il carattere britannico ed elegante della saga letteraria, anche se con un'atmosfera decadente: i giorni di gloria del famoso detective sono ormai lontani, mentre Holmes trascorre i suoi ultimi anni ritirato, dedicandosi alla cura delle arnie e alla botanica. Il grande e doloroso assente è il fidato Watson, con cui l’amico ha ormai perso i contatti dopo la pubblicazione della sua ultima, insoddisfacente opera biografica. L’investigatore, melanconico, distrutto da problemi di memoria e dal deterioramento della sua brillante mente dovuto all’età, cerca di risolvere dal punto di vista umano un ultimo caso, e ricerca il perdono del figlio di un ambasciatore giapponese, che aveva lasciato la famiglia anche a causa del detective. L’intrigo dell’indagine lascia il posto ad una triste introspezione psicologica, che svela le debolezze umane di un detective ormai a fine carriera e insiste melodrammaticamente sull’aspetto emotivo, generalmente assente dalla figura. Del grande personaggio razionale rimangono solo le luttuose ceneri, spazzate via da un vento Levante, insieme al successo di una vita conclusasi nella solitudine. Molto, molto triste.
Martina Cucchi
Premessa: in questo articolo si analizzerà il film “io ti salverò” di Hitchcock e una scena molto importante del celeberrimo anime “Naruto” di Masashi Kishimoto; per fare questa analisi si useranno anche spoiler, quindi nel caso vi fosse l’intenzione di vedere anche solo una di queste opere è caldamente consigliabile di smettere la lettura. Se viceversa si è interessati a riflessioni riguardanti la tematica del sacrificio per amore allora non vi saranno problemi, poiché l’articolo sarà impostato in maniera tale da dare le basi a chiunque per poterne comprendere il significato (pur non avendo visto le opere in questione).
Partiamo con l’analizzare la signora Petersen del lungometraggio hitchokiano: Si tratta di una psicologa, di una donna emancipata che non ha occhi per gli uomini, solo per se stessa e la sua carriera. O almeno è così finchè non conosce John Ballantine, della quale si innamora con un colpo di fulmine. Si scoprirà molto presto che quest’ultimo non è chi dice di essere: anziché essere un giovane psicologo, è un malato di schizofrenia, che molto probabilmente ha ucciso lo psicologo della quale ha preso l’identità.
La signora Petersen è assolutamente sicura che lui sia innocente senza alcun razionale fondamento (se non l’innamoramento derivante dal colpo di fulmine) e quindi mette a rischio vita e carriera per salvarlo, per ricostruire il suo passato e poter dimostrare la sua innocenza, anche se questo comporta essere una latitante in fuga con un ricercato, anche se questo ricercato è stato conosciuto appena cinque minuti prima. È insomma l’emblema del sacrificio irragionevole, fatto nonostante tutto e tutti.
Con Hinata Hyuga abbiamo invece tutt’altro tipo di donna. Hinata è l’erede di una casata molto influente specializzata nelle arti marziali. Già fin da piccola è considerata troppo debole per essere degna del suo nome, si fa superare da suo cugino, appartenente ad un ramo cadetto della famiglia, da sua sorella minore e in generale un po’ da chiunque. Hinata non è fatta per il combattimento, non crede in sé stessa, è timida al limite del patologico e non vuole mai fare del male all’avversario. Proprio per tale ragione ha sviluppato una tecnica, a differenza del resto della casata, denominata “passo gentile”, un nome tanto paradossale quanto esplicativo, se pensiamo che è stato dato ad una tecnica di combattimento con cui lei dovrebbe ferire il nemico.
Il sacrificio di Hinata avviene nel contesto della saga di Pain, dove il protagonista dell’anime, Naruto (ovvero la persona che ha sempre amato), si ritrova a combattere appunto con questo personaggio denominato “Pain”, dotato di una forza pressochè divina che, come è immaginabile, sconfigge il protagonista. E’ in questa circostanza che entra in gioco Hinata, mettendo a rischio la sua vita, pur inutilmente poiché non abbastanza forte, per salvare quella del suo amato.
Per quanto questi due sacrifici possano sembrare uguali - entrambi si basano infatti su un completo annullamento di sé stessi e dei propri interessi pur di fare del bene alla persona amata - se analizzati più a fondo sono molto diversi. Quello della signora Petersen è un sacrificio che, contrariamente alla sua apparenza di personaggio positivo, ha dei tratti, oltre che - inevitabilmente - irrazionali, anche fortemente egoistici. Si tratta un sacrificio, al limite del masochistico, derivante da una sorta di ‘sindrome della crocerossina’ e dalla voglia egoistica di ottenere per sé un ‘lieto fine’ (ella infatti è consapevole che l’innamoramento è reciproco e che se scagionato lui la sposerà). In pratica, un sacrificio solo all’apparenza, tossico sotto ogni punto di vista, sia per il paradosso di distruggersi per uno sconosciuto (quindi in nome di una visione idealizzata e del tutto personale dell’altro), sia perché c’è sempre di fondo un beneficio atteso che ne valida il costo.
Per Hinata invece è l’esatto contrario: fin da bambina ama Naruto, per la sua personalità: nonostante tutti lo ostracizzassero, lo odiassero e lo giudicassero, lui andava avanti con il coraggio di essere sé stesso, con grande resilienza, e con la forza di credere che in un futuro qualcuno avrebbe riconosciuto il suo valore.
Fu proprio lui infatti a insegnarle il significato di queste tre parole: Hinata non era mai stata né forte, né resiliente,né coraggiosa ha sempre subito piangendo e basta, tranne quando poi per l’appunto non si illuminò grazie all’esempio del protagonista. Per Hinata quindi, a differenza della signora Petersen dove ho parlato di innamoramento, si può parlare di amore.
Un amore profondo, andato avanti per più di una decade, un qualcosa che va oltre le farfalle nello stomaco, che si basa su un rapporto di stima, di fiducia, di voglia di essere al suo fianco, nel presente quanto nel futuro, cosa però non corrisposta dal protagonista che è - come è tipico in queste narrazioni - innamorato di una stronza che lo tratta male.
Quando Hinata si è sacrificata per Naruto non lo ha fatto con il fine di ottenere qualcosa, sapeva che non ci sarebbe mai stato nulla; del resto era già stata rifiutata implicitamente più e più volte. Lo ha fatto solo per amore, non per calcolo, finto altruismo o altro.
D’altronde è su questo che si basa l’amore, no? Sul volere così tanto il bene dell’altra persona da mettere da parte il proprio, su una donazione completa, spontanea, genuina e costante di se stessi anche se non vi sarà alcuna meritocrazia a risolvere le cose.
È molto interessante comunque notare come i due autori abbiano deciso di far sviluppare e terminare questi due sacrifici. Quello della signora Petersen infatti finisce (nonostante anni di fatica e rischi enormi per lo più tagliati dall’autore che preferisce non porci l’attenzione visto che il focus è solo la storia d’amore e il mistero degno di un giallo) con un lieto fine; stranamente, lei aveva fatto bene a fidarsi delle parole di quello sconosciuto schizofrenico e il suo sacrificio è stato ricompensato con il matrimonio e una felicità duratura.
Kishimoto nello sviluppo del sacrificio invece usa un approccio totalmente opposto e molto simbolico, innanzitutto l’innamorato è bloccato con dei paletti da Pain (la personificazione del dolore, come si intuisce dal nome) e Hinata cerca di combattere quest’ultimo, non con un approccio frontale, non sostituendosi alla battaglia personale del protagonista con il dolore, bensì eliminando uno ad uno quei paletti, liberandolo da quella sofferenza, per poi combattere insieme.
La simbologia comunque non si ferma qui: smette infatti di usare il ‘pugno gentile’, ma sperimenta una nuova tecnica, che chiama “Passo dei leoni gemelli”, in cui, sin dal nome, mostra molto chiaramente la forza, la determinazione e la resilienza che prima le mancavano.
Sin dal momento della dichiarazione di Hinata poco prima dell’inizio del combattimento fino alla fine nello spettatore vi è costantemente instillata la paura e la consapevolezza del finale, ovvero la morte di Hinata, il combattimento è qualcosa di veramente struggente, a senso unico, brutale e doloroso, ogni singolo secondo diventa un fardello al cuore dello spettatore che non ne può più di vedere un amore così puro collassare di fronte al dolore, non ne può più di quella ingiustizia, dopotutto è l’amore che deve vincere no? Beh no.
Dopo aver strisciato, sputato sangue e combattuto fino a quasi lo sfinimento Hinata viene uccisa proprio davanti agli occhi del suo amato. Kishimoto vuole porre l’enfasi su quanto sia stato effettivamente puro quel sentimento non facendolo volutamente terminare con qualcosa di positivo, per Hinata quello è stato un sacrificio lungo, doloroso e sterile, e anche quando poi Naruto batterà Pain e tramite una serie di vicende lei resusciterà non vi sarà comunque un cambio di rapporto tra i due, anche se è ingiusto i sentimenti non vanno a comando, Naruto non si innamorerà lo stesso (e a lei andrà bene così: molto emblematica è infatti la scena finale della saga in cui, mentre l’oggetto del desiderio del protagonista lo abbraccia definendolo un eroe, lei preferisce stare in disparte, non volendo avere nulla in cambio). Poi vabbè dopo 2 anni da quegli avvenimenti e un lungo percorso di riflessione Naruto comprenderà finalmente quanto era stato fortunato ad avere Hinata al suo fianco durante il suo percorso e si fidanzeranno, però ricordo che non è stata una conseguenza del sacrificio e soprattutto è stato dopo ben 2 anni. Vorrei concludere quindi con una riflessione: qual è la differenza tra un sacrifico definibile tossico da uno definibile sano? Personalmente ritengo che il primo non necessiti di basi concrete per avvenire, si basa sul voler ricevere qualcosa in cambio e su una idealizzazione irrazionale dell’altro. Il sacrificio definibile sano si basa invece su delle fondamenta, quelle dell’amore incondizionato che, per quanto paradossale possa sembrare, sono razionali. Vi è un punto infatti nel vero amore in cui il bene che vogliamo alla persona che amiamo è così grande da poter giustificare anche l’andare contro i propri interessi, in cui per vedere un sorriso nel volto della persona amata si sarebbe disposti a tutto, perché quel mero movimento di labbra per noi ha un valore molto più grande di quello che è.
In parole povere, ‘se tu sei felice, io sono felice’. E’ un ragionamento molto basilare e razionale.
È certamente importante che vi sia una base di amor proprio che impedisca di marciare verso l’autodistruzione e all’annullamento del sé e che faccia da scudo agli estranei che vogliono approfittarsi di chi la pensa a questo modo, ma è altrettanto importante che questo scudo non diventi poi una gabbia di egoismo ed egocentrismo.
La vera felicità è fatta di questi piccoli e grandi sacrifici, è fatta sia dal rinunciare alla propria vita (non per forza letteralmente ovvio, ma anche solo facendo cose che ci creano danni irreversibili nello sviluppo della vita che appunto vogliamo vivere) sia dalle piccole cose (come cucinare anche quando non è il proprio turno perché si è stanchi, fare piccoli regali dal nulla, ricordarsi delle piccole cose, essere sempre disponibili, essere interessarsi sempre quando l’altro parla, assorbire le passioni dell’altro entrando nel suo mondo, ricordarsi di dare tutti i giorni il buongiorno e la buonanotte…). In fondo non è importante molto cosa si fa ma che lo si faccia, ognuna di queste cose è considerata un gesto d’amore e magari ognuna di queste cose non sarà mai ripagata, ma ciò non le svaluta, anzi. Certo, potremmo dire che è solo questione di trovare un giorno la persona giusta che sarà disposta a fare altrettanto o che è solo questione di aspettare che la persona a cui ci si sta dedicando effettivamente capisca la fortuna e il valore di quelle azioni, ma indipendentemente da ciò il valore dell’azione in sé non cambia, l’esito è ininfluente. L’amore vero non può mai essere sbagliato, come ci insegna Hinata, è solo questione di pazienza e resilienza.
Se tutti ragionassero così anziché arrendersi all’egoismo e al cinismo allora forse sì che il mondo sarebbe un posto migliore.
Simone Banfi
Pleasantville è un film del 1998 diretto da Gary Ross e interpretato da Tobey Maguire (Bud Parker/David) ,Reese Witherspoon (Mary Sue Parker/Jennifer), Marley Shelton (Margaret) ,William H. Macy (George Parker), Joan Allen (Betty Parker) e Jeff Daniels (Bill Johnson).Il film e i suoi attori hanno ricevuto diversi riconoscimenti e ben tre nomination agli Oscar.
La trama
California, anni novanta. David e sua sorella Jennifer sono due gemelli completamente diversi: il primo introverso, inetto e con una vita sociale abbastanza limitata. La sorella, al contrario, vivace e piuttosto superficiale. A causa della sua introversione, David tende a passare il suo tempo da solo, davanti alla televisione, appassionandosi, così, ad una vecchia pellicola, Pleasantville. Una sera, dopo aver rotto il telecomando durante un litigio, i due fratelli vengono catapultati nel mondo della sitcom grazie al nuovo telecomando regalatogli da un misterioso riparatore di televisori. In questo modo David e Jennifer diventano Bud e Mary Sue Parker, i due figli della famiglia protagonista dello show. Da questa avventura i due fratelli impareranno lezioni di vita molto preziose.
Nella cittadina del ‘58 nulla è imperfetto: i pasti sono sempre sostanziosi, preparati dalle amorevoli madri casalinghe della città, la temperatura media è fissa sui 25 gradi ed è sempre soleggiato; gli uomini vanno a lavorare tutti i giorni e a scuola si studia la geografia del posto, ignorando ciò che esiste al di fuori di Pleasantville. C’è solo una particolarità che spicca: tutto è in bianco e nero.
Questo a David, in quanto fan della serie, sembra soltanto una magnifica utopia, di cui non si può (e non si deve) alterare la natura. Ma la sorella la pensa in tutt’altro modo: quando inizia ad uscire con Skip, liceale e leader della squadra di pallacanestro della scuola, infatti, le cose iniziano a cambiare. Nel viale degli innamorati - luogo dove i giovani del luogo vanno per tenersi per mano - compare una rosa rossa.
Da quel punto le cose iniziano a degenerare: tutto acquista un nuovo colore, e da bianco e nero la città inizia a colorarsi, oggetto per oggetto, persona per persona. Questo avvenimento non viene accolto di buon grado dai cittadini rimasti in bianco e nero, che iniziano a commetttere atti violenti e aggressivi nei confronti degli elementi colorati. Questi eventi, incoraggiati dal sindaco senza colori, portano all’istituzione di nuove leggi come, ad esempio, il divieto di visitare la biblioteca, di riprodurre musica ad alto volume e di utilizzare vernice che non sia nera, bianca o grigia. In quale modo i nostri protagonisti riusciranno ad uscire da questa situazione?
Pleasantville e il Sogno Americano
Il film è un chiaro riferimento all'idea - e la sua relativa estremizzazione - dell’American Dream, un’utopia basata sulla speranza, condivisa sia dagli estimatori degli Stati uniti d’America sia da parte degli stessi abitanti, che attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica.Questo concetto ha portato ad enfatizzare il benessere materiale come misura del successo e/o della felicità. Scopriamo di più analizzando la dimensione storica: dalla fine della seconda guerra mondiale, le giovani famiglie statunitensi cercarono di vivere con relativo benessere e stabilità nei sobborghi che venivano costruiti attorno alle maggiori città. Questo portò all'arrivo dei conservatori anni cinquanta, quando molti inseguirono la "famiglia perfetta" come parte, o conseguenza, del sogno americano. Esso, quindi, non si limita soltanto a misurare il benessere personale attraverso l’agiatezza economica, ma include anche una base del pensiero di omologazione dei comportamenti e degli atteggiamenti, da quelli sociali a quelli affettivi. Abbiamo un esempio molto evidente quando viene mostrata, come filone narrativo secondario, la storia d’amore tra Bill – il proprietario del café di Pleasantville – e Betty – moglie e madre della famiglia protagonista.
Questa relazione rompe gli schemi che gli abitanti si sono imposti per vivere una vita armoniosa e, quindi, viene vista come un evento negativo. A questo punto si nota la fragilità del concetto stesso di questa impossibile utopia: ogni comportamento fuori dagli schemi, che riguardi anche la sfera personale, viene nei migliori casi visto male, mentre, nei peggiori, sfocia in proibizioni, divieti e vere e proprie repressioni.
Punti di forza
Questo film ha sicuramente molti pregi. Partendo dall’effetto grafico molto piacevole e dall’estetica originale, che rappresenta il suo significato e rende direttamente visibile, attraverso i colori e il modo in cui risaltano sul bianco e nero, il messaggio che vuole comunicare. In secondo luogo, la pellicola ha una “natura ibrida” a metà tra la commedia, il fantastico e il drammatico (riuscendo a fondere perfettamente i generi tra loro). Questo non è assolutamente d’intralcio per parlare dell’oggetto importante del film, che tratta di discriminazione, disuguaglianza e di lotta per il diritto di opinione e allo stesso tempo offre una critica alla socità moderna. Il livello di empatia che lo spettatore è capace di avere con i personaggi è sicuramente un’altro punto a favore: i due protagonisti, in particolare, non sono personaggi piatti, grigi e senza personalità, bensì subiscono dei cambiamenti attraverso l’arco temporale della narrazione e cambiano atteggiamento, elemento chiave che li farà continuare le loro vite in un modo migliore per entrambi.
Il finale e il messaggio che offre
La conclusione della trama è appunto insolita ed interessante ed evidenzia un altro importante messaggio: fuggire dai problemi della realtà, verso un mondo in cui tutti sono gentili e premurosi, le relazioni interpersonali non esprimono mai un conflitto e non ci sono mai inconvenienti, non è sempre la cosa migliore. In altre parole, quello che desideriamo non è sempre quello di cui abbiamo bisogno.
Sofia Defendenti
Tre modi per non morire di Alessandro Pace
Tecnica: ProcreateTre modi di non morire. Baudelaire, Dante e i Greci, è uno spettacolo interpretato da Toni Servillo su testi di Giuseppe Montesano.
I tre nomi sono ben riconoscibili: Baudelaire, il poeta dello spleen; Dante, che non necessita di presentazioni; i Greci, la culla della nostra identità.
Ma, l'espressione tre modi di non morire, attira la mia attenzione. Lo spettacolo promette di mostrare come non morire. Ma perchè? Secondo la fisica, la medicina, la scienza, non sto morendo. Il mio cuore batte, i miei polmoni si riempiono di fresco ossigeno.
Dunque, come sto morendo?
Chiudo gli occhi, ripenso al viaggio che mi ha portata qui. Una melodia familiare a cui non avrei saputo dare il nome, una qualche canzone che ha raggiunto i suoi cinque minuti di celebrità, risuonava dagli altoparlanti, senza nessuno che l'ascoltasse davvero. Attorno a me una foresta di gomiti e facce, volti stanchi, occhi vuoti, pupille in cui si riflettono schermi squadrati. C'è una cacofonia di suoni, che si sovrappongono e stridono e si avvinghiano nella lotta per superare gli altri, per essere percepiti.
Se la Poesia cantasse, non sarebbe udita.
E il treno corre e la marea si struscia ruvidamente sulla fragile bolla di ciò che sono, minacciando di farla scoppiare e trascinarmi via con la corrente, di annacquare il mio nero spleen nei colori dei cartelloni publicitari, di riportare me, ingranaggio, al suo posto nella macchina.
Forse è questo morire, rifletto, mentre le sublimi parole di Baudelaire che ritrovo capaci di descrivere la metropolitana di Milano del 2023 come la Parigi del XVIII secolo, riempiono l'aria e pennellano davanti a noi spettatori la straziante agonia umana.
Riapro gli occhi e lo schermo alle spalle di Servillo è rosso. Rosso, come il sangue, rosso come la mela avvelenata dell’invidia che la nostra società distribuisce e morsica in egual misura, affogando la noia nel suo falso dolce gusto.
E dunque, mentre il grido di Baudelaire penetra attraverso la nostra pelle, attraverso le nostre illusioni, le nostre finzioni, i nostri inganni, ecco che ci troviamo ad annaspare in una selva oscura, mostruosa, in cui siamo circondati da fiere e i loro occhi, che brillano nell’oscurità, sono i nostri.
Sopraggiunge la poesia, quindi, e ci conduce sulla strada dell’espiazione. Prima giù, sempre più giù, a trovare quella forza invisibile, il vento che scuote Paolo e Francesca, la scintilla che accende il nostro essere umani: l’amore. Una volta trovato è esso a guidarci: Beatrice ci porta per mano, su, sempre più su, fino a consegnarci ad un amore più grande, all’Assoluto, alla verità, dove nessuna logica può arrivare, solo l’amore e la poesia.
E dal cielo, dall’universo, piombiamo di nuovo giù, sulla Terra, secoli e secoli addietro: ci sediamo sugli spalti di un teatro greco, ad osservare il sole specchiarsi nel mare e l’esistenza umana nello spettacolo in corso. Verità dietro una maschera, verità nella finzione, verità brutale urlata in faccia, questo è il teatro dei greci, il teatro che, attraverso lo scontro con la verità, ne allevia il peso sul cuore degli uomini.
Lo schermo è ora grigio perla, azzurro chiaro, il colore del paradiso di Dante, il colore del cielo che, incatenati alle abbaglianti ombre dei nostri schermi, abbiamo scordato come guardare.
È un viaggio cronologicamente a ritroso, dunque, è un viaggio che sprofonda prima di risalire, che cerca delle risposte e trova che, in realtà, le si sapeva già, da millenni, ma che nella frenesia del progresso erano state dimenticate, sepolte negli scaffali polverosi delle librerie.
Toni Servillo porta la miseria dell’umanità su un palco, la espone nuda alla luce e ai nostri sguardi, la rivolta e rigira, mostrandocene ogni pietosa e marcescente sfaccettatura.
Eppure il pipistrello della speranza agita le ali, come nelle poesie di Baudelaire.
E forse la speranza siamo proprio noi, seduti in un semicerchio come i greci di tempi andati. Siamo noi, che per due ore abbiamo spento i cellulari, noi che per una serata abbiamo lasciato agli altri il profitto, agli altri il progresso, agli altri la brama e ci siamo seduti, fermi nel costante movimento, silenziosi nel costante rumore, ad ascoltare. Siamo noi che, ritrovando l’antico coraggio dei Greci, abbiamo accettato di accostarci al pozzo e osservare il crudo riflesso della nostra essenza.
Elisa Frigerio
The Menu, thriller del 2022 diretto da Mark Mylod, è un'esperienza sorprendente e sanguinolenta che si affronta il tema del divario sociale attraverso gli occhi della scaltra Margot interpretata da Anya Taylor-Joy e i piatti dello chef Slowik interpretato da Ralph Fiennes.
La vicenda si apre con un gruppo di benestanti uomini e donne in tragitto verso un ristorante estremamente rinomato per via dello chef che lo dirige [Continua in Ex-log...]
A 8 anni di distanza da “Lo Hobbit – La Battaglia delle 5 Armate”, gli Amazons Studios fanno rivivere la Terra di Mezzo sul piccolo schermo: a settembre 2022 è infatti debuttata la serie-evento “Gli Anelli del Potere”, rivelandosi la più grande prima della piattaforma streaming, con 25 milioni di spettatori; si tratta solo dell’inizio di un grande show, di cui sono state già pianificate 5 stagioni per un totale di 50 episodi, e sono stati già investiti 800 milioni di dollari.
La serie si propone come qualcosa di più che uno spin-off: l’intento è quello di tornare indietro nel tempo della narrazione, fino al passato remoto di Arda, raccontare i miti dietro alle leggende; le scene mostrano eventi cruciali per la storia, come la creazione dei tre anelli, portando sullo schermo personaggi che nel Signore degli Anelli erano solo echi di nomi. Come obiettivo narrativo dovrebbe perciò ricordare il romanzo "Silmarillion", in cui Tolkien ha fondato la mitologia del suo mondo fantastico, partendo dalla sua genesi.
Ma attenzione: la serie non è assolutamente tratta dall’opera originale, si potrebbe al massimo dire che ne è liberamente ispirata. Vengono infatti creati filoni narrativi del tutto originali, come quello della giovane hobbit o degli orchi in cerca di una patria, e con essi personaggi mai visti nei romanzi; si tratta dunque di un’opera corale, che permette di seguire diverse avventure, che però non si riconciliano del tutto fra loro nel finale.
La serie non mantiene sempre il tono elevato e solenne del Silmarillion, nel bene e nel male: la pesantezza di quel tomo sia dal punto di vista contenutistico sia stilistico era difficilmente sostenibile già nella versione editoriale; logicamente in una serie tv non si può dedicare la metà del tempo a enumerare intere casate. La narrazione della serie inizia del resto in medias res rispetto al romanzo, con il ritorno di Sauron a seguito di una fantomatica grande guerra vinta da elfi, uomini e nani, e pochi accenni alla creazione di Arda ad opera dei Valar.
La suspense sull’identità di Sauron si mantiene bene e per varie scene, portando lo spettatore a cercare di indovinare (mentre gli esperti del Silmarillion scuotono la testa man mano che si rendono conto che è tutto sbagliato, e non ci capiscono più niente neanche loro).
Seppur la trama sembra essere coerente e avere un’economia che nel complesso non si discosta poi molto dalla narrazione originale, dal punto di vista “dell'atmosfera", dello spirito e dello stile, la serie non si mantiene molto fedele ai romanzi e neppure alle precedenti trasposizioni cinematografiche; infatti ricorda più la precedente produzione Prime de “La Ruota del Tempo”, che la saga tolkieniana.
Le ambientazioni sono comunque fantastiche dal punto di vista visivo, specialmente la città di Numenor e dei nani: architetture incredibili, paesaggi appunto da sogno, costumi raffinati, colori e ovviamente le immancabili acconciature. La novità maggiore (e più discussa) è l’inserimento di un elemento “multietnico”: sembra una versione “globalizzata” di Tolkien, in cui vengono uniti più o meno armoniosamente elementi di culture esistenti per creare una varietà maggiore; l’obiettivo dei produttori dovrebbe essere stato quello di creare così una “profondità culturale” per rendere più credibile l’universo fantastico, e ampliarlo ulteriormente in virtù del numero di popoli mostrati.
Debutto in grande quindi per la splendente e gloriosa Numenor e Moria nell’età dell’oro, ma decisa recessione per gli elfi della serie; in generale l’ambientazione e l’aspetto di questi sembra decisamente sottotono rispetto ai film precedenti: la scelta del cast non ricalca appieno i personaggi come li conosciamo (evidentemente durante la lunga vita di Elrond i suoi connotati sono completamente cambiati), il glorioso e soave reame elfico sembra più un villaggio di folletti, con un cosiddetto “re” impresentabile. L’unico aspetto che viene implementato di questi sono i dialoghi, che risultano però pomposamente gonfiati di figure retoriche. Divertente l’amicizia fra Thorin ed Elrond, che offre momenti di leggerezza fra una sentenza disfattista di Galadriel e l’altra; in particolare quest’ultima risulta semplicemente odiosa: arrogante ed egocentrica, ha poco da spartire con la regina dei film.
In generale, i nani sembravano i più simpatici, fino a quando la moglie di Thorin si è rivelata una pazza dispotica assetata di potere (oltre che una cantante d’opera). Interessante anche la rivisitazione “antropologica” degli Hobbit, che appaiono più arretrati e rozzi rispetto alla Contea, per dare l’idea di un tempo distante (anche se una doccia non avrebbe guastato l’atmosfera da cavernicoli).
Grande assente la colonna sonora: potrebbe considerarsi sufficiente per una serie qualsiasi, ma dopo gli Oscar vinti dalle musiche di Howard Shore, Enya e Lennox, si poteva fare qualcosa di meglio. A farla da padrone sono gli effetti speciali e le sequenze d’azione: spettacolari, ma a mio parere non dovrebbero essere il punto di forza principale di un prodotto televisivo (posto che spetterebbe a trama e personaggi).
In conclusione, si potrebbe pensare, più che una trasposizione sullo schermo del romanzo, ad un reboot degli eventi in una sorta di realtà parallela: difficile dire in assoluto se meglio o peggio, ma sicuramente diverso.
Martina Cucchi
FONTI:https://www.comingsoon.it/serietv/news/il-signore-degli-anelli-gli-anelli-del-potere-quando-esce-la-seconda/n150464/ https://it.m.wikipedia.org/wiki/Il_Signore_degli_Anelli_-_Gli_Anelli_del_Potere https://www.badtaste.it/tv/articoli/signore-anelli-potere-budget-ascolti-seconda-stagione/#:~:text=E%20partiamo%20proprio%20da%20questo,della%20prima%20stagione%20(inclusi%20iCyberpunk: Edgerunners è una serie animata basata sul videogioco Cyberpunk 2077 ambientata in un futuro distopico nel quale le megacorporazioni dominano il pianeta e la diffusione su vasta scala di impianti cibernetici ha dato vita all’ascesa di mercenari senza scrupoli, dotati di innesti bionici: i cyberpunk del titolo, appunto.
La trama
Per seguire il sogno di sua madre Gloria, il giovane David Martinez frequenta con scarsa convinzione una prestigiosa accademia per diventare dirigente all’Arasaka, azienda giapponese tra le più grandi produttrici di armi e tecnologie avanzate al mondo.
La sua vita cambia completamente in seguito alla morte improvvisa della madre: solo e in miseria, David scopre nel suo appartamento un impianto cibernetico militare (che Gloria aveva acquisito illegalmente per rivenderlo sul mercato nero) e decide impulsivamente di farselo innestare, nella speranza di guadagnarsi da vivere come mercenario grazie ai poteri sovrumani ottenuti.
L’incontro con la banda del carismatico Maine e l’affascinante quanto misteriosa hacker Lucy gli offrono una possibilità di provare il suo valore e persino di ritrovare una nuova famiglia, ma la fame di gloria gli porterà un successo pagato a caro prezzo.
Il bello: aspetto grafico, sceneggiatura e temi
I punti di forza maggiori di Cyberpunk: Edgerunners sono sostanzialmente due: la velocità e l’aspetto stilistico.
Dal lato grafico la vita frenetica della futuristica metropoli Night City è resa alla perfezione grazie al continuo cambio di inquadrature, dinamiche e spesso inusuali, oltre che al contrasto tra l’oscura massa dei grattacieli (che sembra voler inghiottire i protagonisti ad ogni inquadratura) e l’incessante susseguirsi di luci abbaglianti, insegne al neon, macchine sfreccianti e folle di personaggi bizzarri nelle strade della città.
Anche dal punto di vista narrativo il ritmo serratissimo della trama contribuisce a calamitare l’attenzione dello spettatore verso l’intreccio della trama e a farlo sentire parte del dinamismo sfrenato della sterminata città.
La violenza e le animazioni, a tratti enfatizzate al punto tale da risultare grottesche, comunicano bene la disumanizzazione che subiscono i personaggi nella loro ricerca di denaro e fama ad ogni costo.
Grazie a tutto questo Edgerunners ricrea perfettamente l’atmosfera cupa tipica del cyberpunk, facendo propria l’impronta narrativa di gangster movies come Scarface, Carlito’s Way o Il Padrino, nei quali l’ambizioso protagonista scopre a proprie spese il prezzo delle scorciatoie che ha preso illudendosi di coronare tutti i propri sogni.
Insomma, per quanto uno si creda speciale, l’individuo da solo non può riuscire a “fregare” davvero il sistema, che è più grande e tentacolare di lui.
Al massimo, sembrano suggerire gli autori, si può sperare di andartene col botto e abbastanza fuochi artificiali da non venire dimenticato come tutti gli altri.
Perché chi insegue il “successo facile” finisce sempre per pagare un conto molto alto.
Il brutto
È fuor di dubbio che l’estrema rapidità con cui procede la trama permetta di evitare momenti morti e di coinvolgere più facilmente lo spettatore, ma lo fa al prezzo di appiattire la profondità psicologica dei personaggi.
Il rapporto con la madre dovrebbe essere uno dei cardini del personaggio di David, il motore che lo spinge a cercare di esaudire i suoi sogni e a trasformarsi in un cyborg nel disperato tentativo di proteggere i suoi cari dalla morte.
Senonché, poiché le interazioni fra i due sono pochissime, la vicenda tocca a malapena lo spettatore.
Conclusione
“Style Over Substance”, "molta apparenza e poca sostanza": sembra essere questa la regola non scritta alla quale si sono attenuti i produttori della serie.
Cyberpunk: Edgerunners soffre quindi di una certa superficialità e incoerenza nella caratterizzazione dei personaggi.
Ma se si è disposti a chiudere un occhio sulle inconsistenze della storia per godersi lo spettacolo visivo ed emozionarsi nelle scene più commoventi, la serie risulta un’interessante interpretazione del tipico gangster movie con picchi di qualità davvero notevoli, quali la sequenza iniziale o l’intero episodio 6.
Alessandro Pace
Steve: “Che silenzio, stasera. Senti il canto delle balene scozzesi?”
Ned: “[sirena della nave] È meraviglioso. Chissà che cosa dicono.”
Steve: “Quella è la sirena della chiatta dei rifiuti... [Balene che cantano] Eccole!”
Il protagonista di Le avventure acquatiche di Steve Zissou è (guarda caso) Steve Zissou, un oceanografo e documentarista che trascorre la sua vita per mare, sempre in cerca di avventure da registrare, sempre accompagnato dalla sua improbabile ciurma.
Tutto inizia con la morte del suo migliore amico, Esteban, portatogli via da una misteriosa e feroce bestia marina.
A seguito di questo evento la ciurma decide di partire alla ricerca del pesce omicida.
Sorge un problema: nonostante le registrazioni immortalino l’accaduto –dove però non si vede l’animale – ,nessuno crede all’esistenza dello "squalo-giaguaro" (così soprannominato da Steve) e quindi nessuno vuole finanziare il viaggio.
La situazione però cambia quando Ned Plimpton, un giovane aviatore, dichiara di essere il figlio di Steve. Dopo questa rivelazione Ned viene subito accolto nella ciurma, a bordo della “Belafonte”. Ned non sembra aver ereditato alcuna abilità di oceanografo o documentarista dal padre, ma pare invece di essere in possesso di un’altra eredità, quella della madre, che alla morte gli ha lasciato tutto. Così, quando scoprirà delle cattive condizioni economiche in cui versa il padre, deciderà di mettere a completa disposizione il suo patrimonio.
La spedizione ha così inizio con il furto di materiali nautici da una delle basi marine di Alistar Hennessey, collega e rivale di Steve – oltre che ex marito di sua moglie e finanziatrice Eleonor –; sia Steve che Ned, nel mentre, iniziano a mostrare interesse sentimentale per Jane, una giornalista incinta, che ha l'obiettivo di scrivere un pezzo sulla vita di Zissou.
Da qui in poi la storia si fa sempre più bizzarra: la ciurma intercetta il segnale di una scatola nera presente all’interno di un aereo affondato; subiscono un attacco da parte di pirati, che rapiscono un assistente della casa di produzione del film; e Steve è costretto ad accettare l’aiuto di Hennessey. Nel frattempo, il rapporto tra Steve e Ned si stringe e i due diventano molto uniti, nonostante i dubbi dell'equipaggio che non vede di buon occhio la presenza di Ned; il quale, nel mentre, ha pure iniziato una relazione con Jane. La squadra decide di salvare l'assistente della casa di produzione e, recandosi sull'isola dove i pirati si nascondono, scoprono che anche Hennessey è stato attaccato e la sua nave è stata distrutta. A colpi di pistola il gruppo riesce a salvare i due prigionieri, i quali si uniscono all'equipaggio.Quando il gruppo inizia finalmente ad apprezzare Ned per il suo valore e a considerarlo un membro dell'equipaggio, durante una spedizione in mare aperto, a causa di un incidente aereo, Ned muore. Nonostante la tragedia il team riesce alla fine a intercettare lo “squalo-giaguaro”, ma Steve decide di non ucciderlo. Il documentario ricavato da tutte queste avventure diventa un successo, e questo dà lo stimolo a Steve per ripartire verso nuove avventure marittime assieme alla sua squadra e ai nuovi aggiunti.
Quando ho visto per la prima volta Le acquatiche avventure di Steve Zissou sono rimasta un po' perplessa. Ricordo che, finito il film, ai titoli di coda, ho pensato: “Tutto qui?”.
Premessa: non avevo mai visto un film di Wes Anderson, ne avevo sentito parlare spesso e devo dire che avevo delle aspettative piuttosto alte. Forse mi aspettavo più comicità? O forse desideravo qualcosa di più serio? Magari mi sarebbe piaciuto di più se tutto il film fosse stato nella forma di un documentario… o sarebbe stato meglio evitare totalmente quelle scene?
Tormentata da queste domande esistenziali, ho deciso allora di guardarmi altri suoi film (The Grand Budapest Hotel, Fantastic Mr. Fox e L’isola dei cani) per poi riguardare questa pellicola. E finalmente ho capito: non ti devi proprio aspettare niente!
Tutti i suoi film sono l’esatto mix tra una leggerezza quasi fiabesca e una mostruosa brutalità, totale serietà mista a una ironicissima comità; il tutto ottenuto con una serie di dettagli – tra immagini e suoni, colori e dialoghi –, un favoloso cast e, in generale, una sceneggiatura originalissima. Un aspetto caratterizzante di questo film è, a mio parere, la colonna sonora, che qui ha un’importanza pari a quella della palette di colori, o delle inquadrature simmetriche e perfettamente centrate.
Durante il film, anche quando non ce ne rendiamo conto, Anderson fa associare le immagini a musiche create da Mark Mothersbaugh (membro dei Devo) per poi passare a canzoni di David Bowie, alcune in versione originale, altre invece suonate da Seu Jorge in portoghese (che nel film recita come l’assistente alla sicurezza del team Zissou).La musica si amalgama perfettamente alle scene del film, come quando Steve spiega che, al posto dei walkie-talkie, nei loro caschetti da immersione tutta la ciurma possiede una radio, così da poter ascoltare un po’ di musica; o come quando la ciurma, raggruppata nel sottomarino giallo, vede finalmente il gigantesco “squalo-giaguaro”. Come ultimo esempio riprendo quello in cuiSteve Zissou, che ha perso un figlio, lottato contro i pirati e rubato delle apparecchiature alla sua nemesi per vendicarsi, vive una sorta di momento catartico appena lo vede. Finalmente fa pace con la sua vita, circondato da persone che lo supportano, si lascia finalmente andare e accetta la sua condizione. Ed è qui che le note di Staràlfur dei Sigur Rós rendono il tutto ancora più magico.
Anche se la trama non sembra essere piena di chissà quali valori morali ograndi temi, credo che, se vogliamo, tutti quanti noi ci possiamo un po’ immedesimare in Steve. È un uomo di mezz’età, nella vita ha raggiunto un relativo successo, ha una moglie che lo ama e una ciurma che lo stima e rispetta, ma in realtà sente che gli manca qualcosa: Steve non è soddisfatto.Sarà la sua situazione economica che lo rende infelice? È la tristezza per la perdita dell’amico a consumarlo? E uccidere quella bestia l’aiuterà mai a elaborare il lutto?
Se analizziamo meglio lo “squalo-giaguaro”, intendendolo come una metafora, allora forse un messaggio c’è. Ovviamente, la lettura allegorica è molto libera. Questo essere, che viene così ardentemente cercato (proprio come la balena bianca di melvilliana memoria), potrebbe essere inteso come quella parte della personalità di ognuno di noi che sentiamo parecchio lontana e che decidiamo di dover trovare ed eliminare. Possiamo collegarla a una brutta esperienza (come per Steve), oppure possiamo definirla come una parte del nostro carattere che detestiamo, ma, in ogni caso, quello “squalo” rimane lì, in attesa di essere affrontato. Quando però Steve si trova faccia a faccia con questo suo mostro, rimane paralizzato e, come lui, anche noi. Perché nel momento in cuii nostri demoni prendono forma, si concretizzano, ci rendiamoconto che in realtà quelli non sono altro che dei “pezzetti” che comunque fanno parte di noi.
Steve non uccide lo “squalo-giaguaro”: lo perdona e, grazie a ciò, perdona se stesso, perché in fondo il “mostro” non era altro che qualcosa su cui proiettare i suoi propri difetti.
Steve, quindi, decide di accettarsi così com’è, nonostante tutto. Come può avvenire per ciascuno di noi.Ma non si tratta solo di rassegnarsi ai nostri “lati negativi”, si tratta appunto di accettarli, inglobarli nella nostra essenza e lavorarci su fino a quando non si avrà imparato ad apprezzarli e, chissà, magari a farli diventare addirittura un punto di forza.
Per questa volta voglio concludere così, rivolgendomi direttamente a te, Wes Anderson, che sono sicura leggerai questo articolo… e farò lo sforzo di scrivertelo addirittura in inglese.
Dear Mr. Anderson,
even though the first time I saw The Life Aquatic with Steve Zissou I was a bit confused, you made me realise that you don’t always need a big lesson to learn something. Thank you.
Best regards.
Ludovica Tempesta
PERCY JACKSON E GLI DEI DELL’OLIMPO
L’Olimpo non è scomparso né con Atene né con Roma, ma si è trasferito a New York! La saga d’esordio di Rick Riordan riporta in vita mostri ed eroi dell’antichità classica in chiave moderna, catapultandoli negli USA: ecco che a Los Angeles compare una delle porte d’accesso all’Ade, è possibile raggiungere l’Olimpo salendo con un ascensore oltre la guglia dell’Empire State Building e che i Lotofagi prendono possesso di un hotel-casinò a Las Vegas. Gli Stati Uniti si popolano di semidei, figli di umani comuni e diegli dei Olimpici, i quali li trasmettono loro poteri peculiari a seconda del dominio del genitore divino, oltre alche il problema di venir ricercati da mostri per tutta l’adolescenza. Solo al ‘Campo Mezzosangue’ questi nuovi eroi possono imparare a controllare le loro straordinarie abilità e restare al sicuro, trascorrendo delle vacanze estive molto movimentate. Ma l’esistenza millenaria dell’Olimpo è minacciata dal silenzioso risveglio del titano Crono, mentre il furto della folgore di Zeus incrementa la tensione fra le divinità, avviandole, fra sospetti e intrighi, ad un’ennesima guerra… E chi se non un gruppo di ragazzini inesperti dovrà salvare il mondo? Percy, che ha da poco scoperto d’essere figlio di Poseidone, dovrà risolvere il conflitto fra gli Olimpici, aiutato dal comico satiro Grover e Annabeth, figlia di Atena: fra ironiche rivisitazioni dei classici della mitologia e uno stile molto semplice, le pagine scorrono velocemente fra risate e momenti di suspence che non vi lasceranno abbandonare i nostri eroi (nonostante dopo tre libri la ripetitività degli schemi e l’assoluta “americanità” dell’opera si faranno sentire). Ottimo sia per avvicinarsi in modo scherzoso alla letteratura classica sia per chi ne è già esperto, a patto di scendere a compromessi e non essere eccessivamente fiscale.
Più i romanzi vi hanno appassionati, più i due film vi faranno disperare: per i conoscitori della versione letteraria e della mitologia in generale, sono molteplici gli errori (ed orrori), dal colore degli occhi e dei capelli di Annabeth, ad un’idra a 5 teste anziché 7, fino a Persefone che vive negli Inferi in piena estate. La trama viene adattata in modo semplicistico e sbrigativo, per concludersi in soli due episodi, rendendo prevedibile e banale l’idea originalissima di Riordan. Si perde così il fascino dei numerosi “easter egg” dei libri, ricchi invece di personaggi ed oggetti magici ripresi anche dai nomi meno famosi della mitologia, mentre anche le scene d’azione e combattimento sembrano “finte”, da recita scolastica. Di tutti i momenti autoironici del libro, poche battute rimangono capaci di suscitare una risata, mentre la maggior parte di quelle del protagonista lo fanno solo apparire un ragazzino spaesato e non molto sveglio. Detto questo, per chi non ha mai letto i libri può comunque essere un buon film di intrattenimento, ma nulla di più.
LA RUOTA DEL TEMPO
Un libro alto una spanna, più di 800 pagine, ed è solo il primo di tredici: per alcuni l’opera di Robert Jordan potrebbe essere un noioso incubo senza fine, ma per gli irriducibili dell’epic fantasy invece potrebbe essere una nuova, vastissima storia in cui immergersi; probabilmente, la giusta recensione si trova fra le due opinioni. L’avventura di Rand al’Thorn, un semplice e giovane contadino dei Fiumi Gemelli trascinato dal volere del destino in un’impresa epica degna delle storie dei menestrelli, viene raccontata con uno stile elevato ma non particolarmente raffinato, che sa comunque affrescare paesaggi e personaggi per poterli far immaginare al lettore e tenere col fiato sospeso nelle sequenze d’azione (ma il rischio è quello di restare senz’aria quando il ritmo della narrazione rallenta troppo). Il protagonista sarà accompagnato dai suoi amici d’infanzia, il burlone Mat, l’apprendista fabbro Perrin, l'amica d'infanzia Egwain e la sapiente del villaggio Nyaneve, che partono per Tar Valon semplici e genuini come la realtà contadina da cui provengono, ma verranno cambiati dal vortice di magia e pericoli che incontreranno lungo la pericolosa via. Ad accompagnarli la strega Moraine e il suo enigmatico custode Lan, che aprono la via e soprattutto introducono la complessità di un mondo immaginario dominato dalla fantomatica Ruota del Tempo, che intesse la storia del mondo fra momenti di splendore e altri di decadenza, ricamando un complesso arazzo con le gesta di streghe e sovrani, ma anche stravolgendo il fato della gente comune. Si tratta di romanzi densamente popolati di personaggi, avvenimenti e storie nelle storie, ma il rischio è quello di dimenticare l’infinità di nomi esotici e vicende descritti nel racconto corale. Sicuramente dettagliata e realistica, la prosa si fa eccessivamente prolissa nella sezione centrale e povera di avvenimenti significativi: si affronta lo smisurato numero di capitoli per il piacere della lettura, ma forse si poteva evitare di descrivere minuziosamente ogni singola giornata dall’alba al tramonto, dettagliando il viaggio sosta per sosta.
L’eccessiva lunghezza della trama viene arginata invece dalla trasposizione realizzata per il piccolo schermo nella serie tv prodotta da Amazon: dai ritmi narrativi serrati, percorre le vicende del romanzo al galoppo, saltando con agilità le sequenze ripetitive o monotone, senza però ridurre eccessivamente i particolari, così da rimanere coerente e anche più coinvolgente del libro (anche se risulta comunque impossibile rimanere del tutto fedele all’opera letteraria nel tentativo di rendere il prodotto appetibile ad un pubblico più vasto). Molto curata la parte visiva, dai costumi variopinti e il trucco, all’ambientazione architettonica e gli effetti speciali di qualità, anche se eccessivi nel primo episodio. Nel complesso, la serie sfuma in un tono più oscuro ed adrenalinico del primo romanzo, che si potrebbe rivolgere invece anche ad un target d’età leggermente inferiore del young adult.
Martina Cucchi
Alex: “Oh, deliziosa delizia e incanto. Era piacere impiacentito e divenuto carne. Come piume di un raro metallo spumato, o come vino d'argento versato in nave spaziale. Addio forza di gravità, mentre slusciavo... quali visioni incantevoli!”
In una distopica Londra di un futuro indefinito, Alex è un giovane capo di una banda criminale, i Drughi, con cui è solito praticare “l’ultraviolenza” e “un po' di dolce su e giù” (espressione usata dallo stesso Alex per descrivere gli stupri) nella notte, per poi concludere la serata con un gustosissimo bicchiere di “Latte+”, che altro non è che un miscela di latte e droghe.
Questa tipica routine, però, viene interrotta quando una sera Georgie, un componente della banda, propone una “visita a sorpresa” in una casa fuori città: una clinica per dimagrire abitata da un’anziana signora. Inizialmente il piano sembra funzionare: Alex riesce a intrufolarsi nella casa, iniziando a molestare, divertito, la vittima. Quando però la situazione precipita e si sente da lontano l’arrivo della polizia, il nostro protagonista tenta la fuga, ma il suo rimane uno sforzo vano, poiché verrà incastrato dai suoi stessi compagni.
Accusato di omicidio a soli 17 anni, viene rinchiuso in carcere per scontare una pena di ben 14 anni.
Dopo due anni in prigione, Alex riuscirà a far credere al parroco di essere cambiato, di non pensare più alla violenza e di volersi proporre volontario per una cura sperimentale finanziata dal governo che gli permetterebbe di uscire prima di prigione: si tratta della “cura Ludovico”.
Ignaro di ciò che lo aspetta, Alex decide di partecipare a questo nuovo trattamento e, alla fine, sembra essere guarito (agli occhi dei dottori).
In realtà è stato semplicemente condizionato ad associare ogni forma di violenza contro gli altri a uno stato di malessere fisico: ogni volta che penserà alla violenza, vi assisterà, la subirà o proverà a praticarla, Alex sentirà nausea e dolore in tutto il corpo.
Per una pura coincidenza però il condizionamento verrà esteso anche per l’ascolto della Nona Sinfonia di Beethoven, il componimento preferito di Alex, che, da quel momento in avanti, gli risulterà totalmente insopportabile.
Costretto a questa condizione, una volta tornato in libertà egli subirà innumerevoli atti di violenza: da parte dei genitori – che lo hanno rimpiazzato ospitando un ragazzo nella sua vecchia cameretta – e da parte dei suoi vecchi compagni d’avventura – che mentre lui era in carcere sono diventati poliziotti –, che abuseranno della loro posizione per pestare Alex.
L’episodio più doloroso, però, avviene dopo il pestaggio quando, mentre vaga sotto la pioggia, per caso si ritrova alla porta di casa di uno scrittore vecchio e zoppo.
L’anziano signore, in realtà, è stato ridotto così proprio a causa di Alex che, prima della cura, durante una delle sue solite serate, era entrato in casa sua, aveva stuprato la moglie e lo aveva picchiato duramente insieme ai suoi drughi (così soprannominati i compagni d’arme del protagonista).
Inizialmente il vecchio pare riconoscerlo solo grazie ad una foto dell’articolo di giornale su cui era finito – articolo che descriveva gli effetti della miracolosa cura Ludovico e il caso di Alex —; ma quando si rende conto che quel ragazzo che ha accolto in casa sua è in realtà lo stesso di quella fatidica notte, lo scrittore si sfogherà forzandolo ad ascoltare la Nona di Beethoven, dando vita a quella che si rivelerà essere una vera e propria tortura.
Rinchiuso in quella stanza e devastato da quella musica che una volta gli era così cara, non ha via di scampo: l’unico modo per uscire da quell’inferno è la finestra e un lancio nel vuoto.
Fortunatamente (o purtroppo, dipende dai punti di vista) Alex sopravvive alla caduta e si risveglia in ospedale, ingessato dalla testa ai piedi.
Sarà solo con una serie di “test psicologici" che egli stesso si renderà conto di essere tornato “normale”.
Le ultime scene del film sono quelle che più hanno lasciato gli spettatori allibiti: avendo fallito il leader del partito che aveva portato avanti il finanziamento della cura visita il protagonista e insieme a lui stipula un accordo che rende chiaro quanto il suo operato fosse solo un tentativo di guadagnare più consenso politico. Con il suo nuovo accordo – che gli permette di praticare la violenza in qualsiasi forma e senza ripercussioni – Alex ritorna alla sua vecchia vita.
Questa la trama di Arancia Meccanica, un film sicuramente non adatto a chi vuole guardarsi un filmetto leggero il sabato sera…
Con questo film (divenuto uno dei suoi capolavori), Stanley Kubrick è stato in grado di rappresentare una realtà distopica: un mondo dove non si cerca di prevenire il crimine, ma si lascia che questo proliferi fino a quando non è proprio necessario l’intervento delle forze dell’ordine. Una realtà in cui chiunque può trasformarsi da carnefice a vittima e viceversa.
Se mi è concesso, vi chiederei di vedere Arancia Meccanica almeno due volte prima di dirmi se vi è piaciuto o meno.
La prima volta mi soffermerei sul significato del film, che emerge da una lettura più profonda degli elementi della trama.
Fin dai primi minuti del film è già chiaro chi sia il cattivo; non è difficile stabilire che Alex sia una persona malvagia: fa parte di una banda di criminali di cui è addirittura a capo. Alex è colui che nel gruppo detiene il potere: decide lui cosa si deve fare, come lo si deve fare, perché, quando e dove. Niente viene stabilito prima che lui abbia approvato.
Il suo è un “governo” dittatoriale, che pone le sue fondamenta sulla paura e la manipolazione ma, poiché è accecato dalla superiorità del suo ruolo, egli non riesce a capire che saranno proprio i suoi più fedeli compagni a tradirlo.
Ciò che trovo particolarmente interessante, però, è che, nel momento in cui Alex entra all’interno del carcere, nello spettatore si crea una sorta di simpatia nei suoi confronti, che emergerà ancora di più nel momento in cui il protagonista si sottoporrà alla cura.
Da elemento attivo, Alex diventa passivo, vittima di un sistema corrotto ancora più crudele di lui, diventando un’“arancia meccanica”, ovvero un essere che agisce meccanicamente, senza alcun tipo di controllo sulle proprie azioni; ed esattamente nel momento in cui Alex perde il proprio libero arbitrio in noi si attiva un sentimento di compassione, una forte sensazione di ingiustizia.
Ma il ciclo di violenza che anima il film non si conclude con la perdita di volontà del protagonista; anzi, sembra accentuarsi sempre di più in tutti gli altri personaggi.
È proprio questo il messaggio che Kubrick ci vuole lasciare: il male risiede in ognuno di noi, basta solo fare pressione sui punti giusti.
Il desiderio di superiorità di Alex lo condurrà al suo stesso suicidio (superiorità dimostrata nella noncuranza delle vite che rovina e superiorità nel credere di essere il soggetto migliore che potrebbe sottoporsi alla cura); il desiderio di uno Stato di trovare la soluzione alla criminalità come dimostrazione di forza porterà questo stesso Stato verso l’ipocrisia; lo stesso scrittore, alla fine, passerà da vittima a carnefice.
Non è possibile stabilire in realtà chi sia il vero colpevole in tutta la narrazione, poiché tutto il contesto in cui si svolge la storia è impregnato di violenza.
È Alex il vero cattivo della storia? Oppure sono i suoi genitori che sono stati incapaci di svolgere il loro ruolo? Magari è la stessa città in cui vive che è sintomo del degrado della società di cui fa parte? Alla fine, allora, è Alex la vera vittima?
Non c’è una vera e propria risposta: all’interno di questo ambiente marcio e imputridito nessuno riesce a salvarsi.
Per la seconda visione mi concentrerei in particolare sugli aspetti tecnici della regia di Kubrick, a cui non si può fare altro che un grande applauso.
Fin dalle prime scene del film si intuisce che si è al cospetto di un regista con la “r” maiuscola, che cerca di cogliere ogni aspetto della pazzia di Alex e prova a trasportarti nel suo mondo.
La ricerca quasi maniacale di cogliere ogni dettaglio fa sì che Kubrick non racconti semplicemente una storia, ma renda ogni singola scena piena di una carica emotiva che lascia lo spettatore a bocca aperta.
Si pensi alla scena iniziale, dove Alex rompe la quarta parete fissando intensamente la cinepresa. In quel momento si crea un’intimità con il personaggio, pare proprio di essere violati da quel suo sguardo intenso; oppure la scena del pestaggio dello scrittore, quando ad un certo punto Alex si china verso di lui prima di stuprare sua moglie: in quel momento la cinepresa prende il punto di vista dello scrittore, disteso per terra, costretto a guardare quello che succederà. Tutto ciò non fa altro che catapultare lo spettatore in quella situazione, creando un coinvolgimento che spaventa e al contempo emoziona.
L’uso esasperato della macchina a mano e del grandangolo, le particolari inquadrature, le ambientazioni in spazi talvolta anche molto diversi tra loro e l’uso dei colori in modo simbolico, sono poi le caratteristiche che si ritrovano spesso della regia di Kubrick.
Arancia Meccanica è indubbiamente un film controverso. In Inghilterra, per esempio, il film venne distribuito al cinema nel 1971 ma venne ritirato dalle sale appena due anni dopo sotto richiesta dello stesso Kubrick, poiché giudicato moralmente pericoloso e anche perché il regista aveva ricevuto minacce di morte.
Per quanto il film possa presentare così tanta violenza, così tanto sesso e volgarità – e chi più ne ha più ne metta –, ho imparato ad apprezzare questo film e, di seguito, stimolata da esso, tutta la cinematografia di Kubrick.
Se si solleva questa sorta di pellicola che lo ricopre, che all’apparenza può rendere il tutto molto pesante, si scopre un messaggio preciso, mostruosamente attuale e spaventosamente vero: dentro ognuno di noi c’è della malvagità, c’è chi ne ha di più e la dimostra sempre (Alex e i drughi) e c’è poi chi invece ne possiede poca e non sempre la esterna, ma quando lo fa si concretizza in totale indifferenza o si manifesta ancora più violentemente, anche se in una forma diversa, o apparentemente inconsapevole e legata alla propria paura e inconsistenza (i genitori di Alex) o trattenuta per anni e poi improvvisamente sfogata (lo scrittore).
Questo è perciò il mio consiglio: imparate ad andare oltre alla semplice trama, cercate di leggere tra le righe, immergetevi completamente in quelle situazioni, perchè solo così potrete capire – e amare – veramente un film di Stanley Kubrick.
Ludovica Tempesta
Quando si analizza un'opera che sia un libro un film o un gioco, una delle prime cose che si fa è catalogare l'opera in un genere: giallo, fantasy, fantascienza, horror o altri ancora. In realtà questi generi letterari non esistono. O meglio, quando un autore vuole creare una storia, solitamente la prima cosa che pensa non è che la storia che voglio fare è un horror, quindi devo fare attenzione a non inserire elementi non horror nella storia". Il genere letterario serve a catalogare l'opera in un gruppo definito. Se ti è piaciuto molto Dune allora probabilmente ti piacerà anche Star Wars, ma sono opere molto diverse tra loro.
Per questo molte opere possono avere sia componenti horror sia fantascientifici, sia fantasy sia thriller. L’opera che sto per analizzare appartiene a diversi generi insieme. Si tratta di Fallout New Vegas, che, per inciso, è anche uno dei miei videogiochi preferiti
Fallout New Vegas, pubblicato dalla casa produttrice Bethesda nel 2010 è un action RPG e sviluppato da Obsidian e fa parte della saga videoludica di Fallout.
Il videogioco è ambientato nel 2281, in un mondo post-apocalisse nei dintorni di quella che fu la città di Las Vegas, chiamata ‘zona contaminata del Mojave’. Questa zona è contesa da due fazioni. Il primo è la repubblica della Nuova California (RNC), che è ciò che rimane del vecchio esercito della California ed i valori su cui si basa sono la libertà ed il diritto, ma impone pesanti tasse ai suoi cittadini ed è corrotta. L'altra fazione è la Legione di Cesare, una società autocratica, fortemente conservatrice, che ha come riferimento l'impero Romano e che schiavizza e opprime le donne, crocifigge i suoi prigionieri e ripudia la tecnologia (almeno in teoria) e che vive solo per la guerra e la conquista. Il protagonista è un corriere che deve consegnare un misterioso pacco nella Strip di New Vegas, la parte più ricca dove ci sono ancora alberghi e casinò; ed è governata dal misterioso signor House. Il corriere viene però fermato da un uomo misterioso che prende il pacco, gli spara un colpo in testa e lo seppellisce. Viene salvato da un robot misterioso ed eccentrico di nome Viktor e portato in una piccola cittadina dove verrà curato. Da lì inizierà il suo viaggio per cercare l'uomo che gli ha sparato, in mezzo all'arida e piena di pericoli zona contaminata del Mojave.
New Vegas mischia abilmente il post-apocalittico e western in uno strano ma riuscito connubio: ambientato dopo una guerra nucleare, è un mondo difficile, pieno di pericoli in cui l'umanità sopravvive a stento ed è divisa. C'è chi cerca di aiutare il prossimo e cercare di ricostruire una nuova civiltà, ma c'è anche chi desidera soltanto la sua soddisfazione personale e vuole rovinare le vite altrui per il potere, o anche solo per semplice divertimento. In Fallout New Vegas questo dualismo è rappresentato dalle due macro-fazioni citate precedentemente: la Legione, che vuole soltanto la guerra e azzerare il progresso umano;la RNC, che per quanto corrotta possa essere, cerca comunque di ricostruire una civiltà che si possa definire tale. Come tutte le opere di taglio post-apocalittico che rispettino, un altro aspetto onnipresente è la nostalgia di un passato migliore, in cui non bisognava lottare ogni giorno per sopravvivere. Un passato che, agli occhi dei sopravvissuti sembra ovviamente perfetto, (per uno nato dopo la guerra è inconcepibile che tempo fa si vivesse in un mondo così bello),anche se non era tale. Questa nostalgia è rappresentata dalle canzoni anni '40 e '50 che passano alla radio; canzoni allegre, ottimiste, che creano un contrasto affascinante con la desolazione e la rovina. Di pari passo con l’elemento post-apocalittico, come già detto, l'altro grande tema del gioco è il western. Generalmente il western è considerato il genere che racconta storie ambientate nella seconda metà dell'ottocento nell'ovest degli Stati Uniti, territorio di confine. Parla di cowboy, pionieri e fuorilegge, persone senza scrupolo che non esitano minimamente a farne fuori altre. Parla di vendetta ed ingiustizie. Ma esistono storie con questa impostazione narrativa che non sono certo ambientate nell'Ottocento. UN tipico esempio recente è la serie The Mandalorian, che è profondamente ispirata all’immaginario western, pur essendo in un contesto fantascientifico. E Fallout New Vegas non è da meno; l'elemento che rimanda subito al western è l'ambientazione per gran parte desertica della zona contaminata del Mojave, con piccole cittadine molto distanti l'una dall'altra. Non solo: il Corriere è molto diverso dai protagonisti degli altri Fallout. Il protagonista del primo capitolo cerca di salvare il suo Vault, il protagonista del terzo cerca il padre ed il protagonista del quarto cerca suo figlio. Il Corriere cerca l'uomo che gli ha sparato in testa. Un'altra componente dal sapore tipicamente western sono le tribù native, che vengono approfondite molto bene nel DLC Honest Hearts, in cui il Corriere si trova bloccato in un gigantesco canyon in cui le comunità locali sono in guerra.
Quindi, perché imbrigliare un testo letterario, un film o una saga videoludica in stereotipi fissi? Perché non giocare un po’ con i generi, utilizzando qua e là dei cliché solo per divertirsi a reinterpretarli liberamente o addirittura capovolgerli? Dopotutto, citando il film ‘Pirati dei Caraibi’, i generi sono più che altro una traccia.
Simone Firpo
Ray: Che cosa diresti se ti dicessi che hai sposato un uomo dalla mente eccezionale?
Frenchy: Ti direi che sono bigama!
Nella New York degli anni 2000, Ray è un uomo di mezza età che non si è mai veramente realizzato nella vita e vive con la moglie Frenchy in un buco di appartamento.
Stanco di questa sua situazione, Ray architetta una rapina in banca, che permetterebbe loro di riscattarsi una volta per tutte.
A causa di molteplici complicanze (diciamo che c’entrano dei biscotti e una planimetria mal interpretata…) il piano non procede come programmato, ma, alla fine -in modo totalmente imprevedibile-, i due, insieme alla “banda” che li aveva aiutati, diventano comunque ricchi.
La vita da milionari sembra affascinare molto Frenchy, che inizia a frequentare l’alta società e, in modo particolare, il bel David, un mercante d’arte che fin da subito sembra essere particolarmente interessato al patrimonio dei due coniugi.
Il nuovo stile di vita non appaga però fino in fondo né Ray, né Frenchy che alla fine capiscono che l’unica cosa veramente importante è stare insieme, a prescindere dai soldi.
Le ambientazioni così semplici ma, al tempo stesso, la storia e i personaggi così comici e
assurdi sono un perfetto mix in Criminali da strapazzo (Small Time Crooks il titolo originale) di Woody Allen. È Una commedia che potrebbe essere solo quello che è, ovvero una semplice commedia ma che, in realtà (un po’ come tutti i film di Allen, alla fine), suggerisce discorsi molto più ampi e per niente banali.
La prima parte mostra in modo particolarmente umoristico le vite di Ray e Frenchy prima e durante il tentativo di rapina. Ray (interpretato da un teatrale Woody Allen) è un lavapiatti con un passato da criminale fallito e, insieme, un sognatore ad occhi aperti. Frenchy, invece, una ex danzatrice “esotica” ora estetista, è dei due quella più razionale e forse, quella più brillante e capace. I due paiono essere i protagonisti di una normalissima storia di ordinaria follia matrimoniale e incorporano in pieno lo spirito dell’American Dream e della ricerca della felicità.
Ma la felicità equivale ad avere soldi?
Ray e Frenchy riescono fin da subito a immedesimarsi nella parte dei miliardari, o almeno provano ad esserlo. L’appartamento di lusso, il mobilio eccessivamente ricercato ed eccentrico, i loro vestiti di marca non sono altro che una sola facciata di quello che costituisce la vera “persona ricca”.
Questo aspetto sarà subito rivelato nel momento in cui, durante una cena con l’alta società, Frenchy si renderà conto di quanto lei sia estremamente ignorante.
Ray invece sembra rimanere sempre la stessa persona, lo stesso da prima della rapina: strampalato, goffo e burlesco. Questa differenza di approccio alla ricchezza è particolare: Frenchy si rende conto delle sue mancanze e vuole rimediare, Ray crede che quelli a cui manca qualcosa siano proprio quelli che lo criticano.
Ma la noia, la frivolezza di una vita di soli piaceri e le differenze tra i due li porterà al declino (che avviene anche a causa della loro incapacità nell’amministrare gli affari).
Si deduce allora che Criminali da strapazzo non è altro che una critica all’agiata borghesia americana: intellettuale e perbenista in superficie, ma in realtà disposta a qualsiasi cosa pur di arricchirsi (posizione che emerge principalmente nel personaggio di David).
In conclusione, mi sento di dire che in fondo questa è anche la condizione della nostra società: rincorriamo stili di vita consumistici, materialistici, che ci portano ad accumulare oggetti senza riuscire a dar loro un valore affettivo. Vogliamo sempre di più e non riusciamo ad apprezzare quello che già abbiamo.
Woody Allen ci permette di farci prendere in giro i suoi personaggi, di ridere delle sue comiche storie – a volte anche molto banali –; ma, allo stesso tempo, mentre ridiamo alle sue battute, se ci si fermassimo a pensare, ci renderemmo conto che, in realtà, è proprio di noi stessi che ridiamo.
Ludovica Tempesta
«Le persone legate dal destino si troveranno sempre a vicenda»
Morte, destino, azione, amore e contrasti, The Witcher ne è intrisa: un destino comune, tre
protagonisti, legati indissolubilmente dal fato, si contrastano, ma alla fine, trovano sempre il modo di ricongiungersi.
The Witcher è una serie televisiva uscita a fine 2019 tratta dalla saga di Andrzej Sapkowski.
Geralt di Rivia, il primo personaggio che si incontra, vive in un mondo popolato non solo da umani, ma anche elfi, nani, maghi e mostri. Lui però non è un umano, appartiene alla razza dei witcher, mutanti sterili che sono stati addestrati (nel caso di Geralt di Rivia, a Kaer Morhen) a combattere e uccidere i mostri che minacciano il mondo conosciuto.
Questa serie, rivelatasi sin da subito un successo cinematografico, non parla solamente di mutanti che uccidono mostri, ma anche di famiglia, amicizia e amore.
Si vede l’importanza della famiglia con i rapporti tra Cirilla (chiamata Ciri dai suoi cari) e sua
nonna, la regina Calanthe.
Anche il controverso rapporto tra Yennefer, una maga con sangue elfico addestrata a Aretuza (una scuola per apprendiste streghe) e Tissaia, preside di Aretuza e membro del Concilio dei Maghi, si rivelerà intriso di affetto, in quanto quest’ultima sostituirà la figura materna della mezzelfo.
Nella prima stagione anche l’amicizia tra Geralt e Ranuncolo, il bardo stravagante, in cui si alternano alti e bassi; da un lato Ranuncolo, la stereotipata persona estroversa della coppia, che parla e canta in continuazione, dall’altro il perennemente taciturno Geralt, che non vuole nemmeno ammettere che Ranuncolo sia suo amico,tanto da trattarlo male il più delle volte.
Altro punto focale della serie è la relazione complicata tra Geralt e Yennefer, che, nonostante tutte le incomprensioni, non riescono a stare l’uno senza l’altro, si ritrovano sempre, anche nei luoghi e nei momenti più improbabili.
Alla fine della prima stagione, i produttori ci hanno lasciati pieni di dubbi: che fine ha fatto
Ranuncolo, il bardo chiacchierone? Dopo l'assedio di Sodden e il sacrificio di Yennefer, lei è
sopravvissuta? I poteri di Cirilla si manifesteranno ancora? E riuscirà a controllarli?
Dopo quasi due anni dall'uscita della prima stagione, i dubbi sono stati dipanati.
La seconda stagione si riapre dove i protagonisti ci avevano lasciati, con Tissaia che cerca risposte per sapere se Yennefer sia ancora viva, mentre Geralt e Cirilla si avviano verso Sodden per la stessa ragione.
Ciò che mi ha spinta a guardare tutta la seconda stagione in un battibaleno era la speranza di rivedere Ranuncolo, di cui non si avevano notizie dall’episodio sei, quando le strade del bardo e di Geralt si erano divise. Le mie speranze alla fine sono state ripagate, perché non solo è ritornato già nella quarta puntata, ma il suo cambiamento è stato importante: non era più lo stupido Bardo odiato da Geralt perché pressante e logorroico, ma, pieno di rancore per essere stato abbandonato dal suo amico (oltre a comporre canzoni che auguravano al Witcher di morire, e che l’hanno reso famoso), ha messo la sua fama al servizio del bene.
Nella guerra tra Umani ed elfi, infatti aiuterà gli elfi, razza ormai in via di estinzione, discriminata ed odiata, a raggiungere la città di Cintra, da loro riconquistata con l’aiuto del regno meridionale di Nilfgaard.
Gesto eroico, quello di Ranuncolo, che, mosso da pietà per un popolo di cui ben comprende le ferite, lascia trasparire la sua bontà, spesso passata in secondo piano nel corso della prima stagione. Non sappiamo con certezza a quale vicenda storica si sia ispirato (e se l’abbia veramente fatto) Sapkowski, ma nel corso della storia (anche moderna e contemporanea) abbiamo conosciuto e ricordiamo episodi analoghi, in cui la bontà e l’umanità di pochi individui, per quanto incapaci di cambiare il corso degli eventi, hanno dato speranza a chi l’aveva persa.
Il Bardo, all’inizio della prima stagione, aveva pronunciato la frase «Con il rispetto non si fa la storia» e anche se il suo cambiamento è il più lampante, non è stato l’unico ad avere un’evoluzione notevole: ogni personaggio, dalla prima alla seconda stagione ha avuto modo, nel suo piccolo, di crescere e maturare.
Cirilla, la principessa dai poteri magici, da bambina spaventata è diventata una guerriera, pronta a mettere a repentaglio la sua vita per i suoi amici e per il suo regno.
Yennefer e Geralt, infine, hanno compreso il valore del sacrificio per amore, del sacrificio per gli altri e il significato che l’affetto e l’amicizia danno alla vita. Geralt in primis, nella prima stagione, mai avrebbe pensato di essere in grado di provvedere ad un’altra vita, di affezionarsi e provare emozioni talmente umane da sconvolgere radicalmente la sua esistenza.
Ma soprattutto Yennefer, che ha messo la vita di Cirilla davanti alla sua, che ha imparato ad amare non solo il potere, ma anche gli altri, che ha fatto diventare la sua dipendenza e attrazione per Geralt un sentimento vero, che l’ha portata addirittura a sacrificare la sua vita.
The Witcher non è solo la storia di un uomo che sconfigge mostri e di un regno vessato da invasioni e presenze oscure, non è la narrazione di un oscuro segreto che grava sulle spalle dello spettatore, di un mistero da svelare, ma il fulcro di tutto sono i sentimenti: i sentimenti tra i personaggi e che i personaggi provocano negli spettatori, che si ritrovano, inesorabilmente, con il fiato sospeso, e che alla fine dell’ultimo episodio, traendo le loro conclusioni, sanno che dovranno rimanere con il cuore in subbuglio fino all’uscita della terza stagione.
Serie TV avvincente, quella di The Witcher, probabilmente una delle migliori uscite su Netflix negli ultimi anni, acclamata dalla critica e da spettatori di ogni età.
Come si evince dalle mie parole, ho amato la seconda stagione di The Witcher dal primo
all’ultimo minuto; ancora di più della prima, perché molti nodi sono finalmente venuti al pettine, i destini dei vari personaggi, come un arazzo, si sono intrecciati e, negli ultimi tre minuti, il colpo di scena (NO, non lo spoilererò, almeno questo) ha ribaltato la situazione.
La battaglia tra il bene e il male non è più tanto scontata e stereotipata come si poteva immaginare, la sottile linea tra bene e male non è mai stata così labile, una terza stagione è alle porte, e tra bene e male non c’è più un abisso, ma solo un piccolo confine facilmente valicabile e che i personaggi dovranno stare attenti a non oltrepassare.
«Il male è male, Stregobor. Minore, maggiore, medio, è sempre lo stesso, le proporzioni sono
convenzionali, i limiti cancellati. Non sono un santo eremita, non ho fatto solo del bene in vita mia. Ma, se devo scegliere tra un male e un altro, preferisco non scegliere affatto»
Alice Scuri
Sia che siate lettori navigati che uscendo dal cinema esclamano “il libro comunque era meglio”, sia che siate alla ricerca di una nuova saga fantasy in cui immergervi, o di un buon film, questo articolo è per voi! Fra i vari classici del genere fantastico, quale trasposizione cinematografica ha reso meglio giustizia al romanzo e quali invece hanno fatto rimpiangere agli appassionati di aver pagato il biglietto? [Continua su Quarta di copertina...]
Martina Cucchi
WandaVision, uno dei prodotti cinematografici più attesi dell’anno, ha finalmente esordito in streaming nel gennaio del 2021, dopo mesi di posticipazioni a causa dell’avvento della pandemia. Con protagonisti Elizabeth Olsen e Paul Bettany, la cui interpretazione si rivela impeccabile in ogni episodio, la serie è in grado di distaccarsi, almeno inizialmente, dal tipico stile delle serie dei supereroi, riuscendo al tempo stesso nel suo intento: inaugurare l’inizio di una nuova fase del Marvel Cinematic Universe. Nonostante una partenza promettente, sono state numerose le critiche rivolte alla miniserie, specialmente con l’avvicinarsi del finale e l’accrescersi di cliché ed espedienti narrativi considerati troppo scontati e banali.
Com’è però cosa solita per i prodotti cinematografici Marvel, è necessario fare prima un passo indietro e vedere il quadro generale della situazione: alla fine di Avengers: Endgame, dopo la sconfitta di Thanos, avevamo lasciato Wanda di nuovo sola, reduce dalla perdita di Visione. Il contesto in cui troviamo i due eroi all’inizio della serie, tuttavia, è ben lontano dal finale tragico che forse ci si aspettava di vedere: Wanda e Visione, ora sposati, vivono felicemente nella cittadina di Westview e sono protagonisti di quella che sembra essere la vita idilliaca e a tratti comica di una sitcom americana degli anni ‘50. L’apparenza però non corrisponde alla realtà, che Wanda manipola inconsciamente in un disperato tentativo di proteggersi dal dolore.
La premessa con cui si apre WandaVision è audace, del tutto opposta a tutti i prodotti che fino ad ora ci sono stati proposti dall’universo cinematografico Marvel. Il primo paio di episodi, in bianco e nero come in una vera e propria sitcom del passato, possono a tratti risultare cadenzati secondo un ritmo più lento, ma sono sconvolti da una novità di stile che, oltre ad essere stata acclamata dalla critica, non può non apparire coinvolgente. A intrigare ancora di più sono i ripetuti cambi di stile da un episodio all’altro: cominciando dalle sitcom anni ‘50, per poi arrivare fino ai tipici show anni ‘80 e ‘90, ognuno di loro si focalizza e da spazio a un differente stadio del lutto. Con il passare degli episodi, aumentano i misteri, i colpi di scena, così come aumenta la consapevolezza di Wanda della realtà fittizia che ha creato a danno di centinaia di persone, che tiene come ostaggi nella cittadina di cui ha preso il pieno controllo, trasformandola nella casa dei suoi sogni. È negli episodi finali che – pur essendo essi più moderni e vicini allo stile a cui siamo abituati –, la serie sembra calare in alcuni punti rispetto a quella originalità che fino a poco prima l’aveva caratterizzata. Innanzitutto, la rivelazione della cattiva, Agnes, e il suo ruolo scontato e già intuibile dai primi episodi; poi, il viaggio che Wanda intraprende nei suoi ricordi, e in cui si mostra dettagli del suo passato che ci erano rimasti sconosciuti. Se alcuni, forse, possono risultare più ovvi – come l’origine dei poteri di Wanda – altri invece si mostrano magnifici in tutta la loro malinconia: come il momento in cui, parlando con Wanda della precedente morte di suo fratello Pietro, Visione la consola con una delle frasi più belle e struggenti di tutta la serie: “Cos’è il dolore se non amore perseverante?”. Particolarmente criticata è stata poi la puntata finale, perfettamente godibile a livello di intrattenimento, ma troppo veloce e confusa sotto tutti gli altri passaggi, quali fra i tanti lo scontro tra Visione e la sua controparte, che si è risolto in tutta fretta senza che avesse una vera e propria conclusione.
Uno spazio notevole all’interno della serie è sicuramente occupato dalla presenza di nuovi personaggi. Alcuni, come Agnes – o Agatha, come viene poi rivelato essere il suo vero nome – oppure Monica, ci vengono presentati per la prima volta; ma se alla prima viene dato più spazio per svilupparsi e mostrarsi al pubblico, la seconda viene pian piano ridotta a una semplice comparsa. Anche personaggi che già conoscevamo, come l’agente Jimmy Woo da Ant-Man and the Wasp o Darcy dai primi due film di Thor, riescono a trovare il loro posto all’interno della serie e ad intrecciarsi al resto degli eventi pur conservando un ruolo marginale. I nuovi personaggi che, indubbiamente, detengono la parte più importante sono Billy e Tommy, gli adorabili gemelli di Wanda e Visione, che, per i fan appassionati dei fumetti, hanno di certo costituito una piacevole sorpresa e il cui ruolo si farà sicuramente più rilevante nei prossimi film della Marvel (come già si può intuire dalla scena finale della serie).
La delusione più grande di tutte è stata proprio il personaggio di Pietro, il fratello-gemello della protagonista, già rimasto ucciso nel secondo capitolo degli Avengers, che, a sorpresa di tutti, ha fatto il suo ritorno all’interno di WandaVision, realizzando il colpo di scena più riuscito della serie. Ma a sconvolgere non è stato tanto il suo ritorno, quanto il suo aspetto: a presentarsi alla porta di Wanda, infatti, è stato il Quicksilver appartenente alla saga degli X-Men. I fan, ovviamente, non si sono risparmiati nell’ipotizzare teorie di tutti i generi, tra cui la più invitante è l’introduzione del multiverso Marvel che molti aspettano da anni. È proprio qui che, forse, sta il più grande difetto della serie: le occasioni sprecate di sviluppo di personaggi o di elementi della trama. Prima di tutto il personaggio di Quicksilver, rivelatosi solo un ragazzo qualunque manipolato dalla cattiva per ingannare la protagonista. Ma questo è soltanto uno degli esempi: si potrebbero citare le ipotesi sulla presenza di personaggi derivati dai fumetti o l’assenza di Doctor Strange, che tutti erano convinti di vedere almeno nell’episodio finale. Le delusioni per i fan, dunque, non sono state poche.
WandaVision non si può tuttavia ridurre ai suoi difetti, e ciò è possibile proprio grazie al valore della sua protagonista. È attorno a Wanda che verte tutta la storia, e lo sviluppo che vediamo in lei non riguarda solo le sue abilità, ma soprattutto il suo aspetto personale ed emotivo. All’interno della serie, dopo aver preso inconsapevolmente una città intera come ostaggio, Wanda Maximoff non sembra più essere l’eroina che abbiamo sempre conosciuto, ma pare quasi trasformarsi nella cattiva della storia, che anche nel momento in cui apprende l’impatto delle sue azioni, pur di conservare la sua felicità, non sembra volervi porre rimedio. Una “cattiva” che tuttavia non si può biasimare, a cui è impossibile dare qualsiasi tipo di colpa, perché abbiamo assistito e compreso il suo dolore, guardandola prima perdere suo fratello, poi Visione e la sua intera famiglia; l’abbiamo vista negare la realtà e rifugiarsi in una fantasia da lei creata, prendere consapevolezza delle sue azioni e della sofferenza che ha causato a centinaia di persone innocenti dopo averle imprigionate nel suo mondo fittizio, fino a diventare la Scarlet Witch che è nei fumetti e accettare finalmente la verità di ciò che è e la verità di ciò che la circonda.
Il ruolo di Wanda all’interno della serie così come all'interno del Marvel Cinematic Universe è delicato ed essenziale, ed è quello di simboleggiare la malattia mentale. Nonostante le sue carenze e i suoi difetti, WandaVision non fallisce nel mostrarlo e, soprattutto, è stata capace di rappresentare il vero nemico che Wanda è costretta ad affrontare nella serie: il lutto.
Elisa Fiandro
Dopo una stagione di gran successo, la serie “The Mandalorian” è tornata a distanza di un anno con una nuova stagione, con scene sempre più grandiose ed emozionanti, e, soprattutto, con ancora più Baby Yoda, il cui nome è stato rivelato essere Grogu.
Ci eravamo lasciati alla fine della prima stagione con Mando, interpretato ancora una volta dall’ormai celebre Pedro Pascal, che doveva riportare il nostro piccolo amico ai suoi simili. Ma durante questo lungo e difficile viaggio succederanno molte cose: colpi di scena, ritorni leggendari, rapimenti e ovviamente combattimenti a dir poco spaziali. Questa stagione di fatto va a intersecare direttamente la sua Lore con quella della saga principale, andando, infatti, a riscrivere una parte di storia.
Dei personaggi non abbiamo un vero e proprio approfondimento, tranne per alcune citazioni ai loro passati. Quello che viene accentuato però è il progredire e la crescita del rapporto tra i personaggi, esempio su tutti quello di Mando e Grogu. Infatti, tra i due protagonisti si sviluppa un sentimento tra amicizia e familiarità, che ricorda il rapporto tra padre e figlio.
La serie divisa in 8 episodi, della durata di circa 50 minuti, scorre molto velocemente alternando scene più profonde a scene di azione pura. La regia di Jon Favreau e la colonna sonora di Luddwig Göransson sono di altissimo livello e aiutano ad elevare l’intera serie, modernizzandola, migliorandola, ma cercando di rimanere fedele a ciò che era già stato fatto in precedenza, non solo nella prima stagione, ma anche nella serie principale. Ovviamente non arriva alla perfezione. Infatti, come nella prima stagione ci sono episodi fini a sé stessi che sono riempitivi e che accennano poche volte alla storia principale, che, contando il capitale sfruttato per ogni episodio, avrebbero potuto essere gestiti meglio. Inoltre, come chicca, in seguito alle ricerche del blog TorrentFreak si è venuto a sapere che The Mandalorian è stata la serie più piratata nel corso del 2020, superando colossi dell’industria come Game of Thrones e The office.
Inoltre, dopo un finale strappa lacrime con uno dei colpi di scena meglio riusciti degli ultimi anni, ci viene anticipata l’uscita di una serie live action che tratterà il personaggio di Boba Fett, che è riuscito non solo a riconciliare la sua persona, ma anche quella del “padre” Jango. Una piccola ricompensa in attesa della terza stagione della serie targata Disney+.
Luca Affaticati
Illustrazione di Bice Tarantola
Bojack Horseman è una serie animata caratterizzata da personaggi antropomorfi che agiscono in un ambiente hollywoodiano. Bojack, un “cavallo”, è un attore che ha recitato in un’importante serie tv: Horsin’ Around, e adesso che la serie è finita ha deciso di scrivere un’autobiografia, ingaggiando la ghostwriter Diane, personaggio fondamentale nella serie che vedremo crescere e cambiare, e con lei anche il suo rapporto con Bojack.
Ciò che da carattere alla serie è proprio il protagonista, Bojack. Non è il classico eroe o il paladino della giustizia che tutti ammirano e stimano, ma è un personaggio da cui si può imparare e in cui ci si può rispecchiare. Proprio per questo considererei Bojack un personaggio ben concepito, perché è semplicemente (e caoticamente) umano. Commette errori che non si risolvono quasi mai in un batter d’occhio ma che richiedono sforzi e forza di volontà perchè si possa arrivare ad una soluzione.
GLI ALTRI PERSONAGGI E IL MECCANISMO DELLA SERIE
Ogni personaggio che vediamo entrare nelle diverse stagioni ha a suo modo un’importanza; da Princess Carolyn, che rispecchia l’animo laborioso e serio delle persone, a Tod, coinquilino e presunto migliore amico di Bojack.
Sarah Lynn, una pop star dalla vita travagliata e, anche lei, ex attrice nella serie tv Horsin Around, è un altro personaggio fondamentale nella serie, che segnerà in modo particolare Bojack e porterà avanti gran parte delle stagioni.
Nonostante si tratti di un cartone animato e vi siano spezzoni comici, la maggior parte dei dialoghi presenti e le tematiche affrontate rendono questa serie più profonda di quello che ci si potrebbe aspettare, e portano lo spettatore a rispecchiarsi in Bojack e in tutti gli altri protagonisti, con quegli innumerevoli problemi quotidiani, che chiunque potrebbe avere.
L’intera serie tv è un missing moment all’interno della vita di ogni personaggio; la ricchezza di flashback, tratti persino dall’infanzia, fanno intuire che c’è un ’’prima’’, un retroscena, ma – come nel finale – anche un ‘’dopo’’, una “resa dei conti” che, prima o poi, arriverà per chiunque.
CHI È DAVVERO BOJACK
Bojack ha convissuto in età adulta con problemi di dipendenza, problemi nelle relazioni e nel mantenere rapporti sani e duraturi; capisce di dover cambiare quando vede le persone a cui tiene allontanarsi da lui, avendolo iniziato a vedere per quello che lui è veramente. È un antieroe: ha un animo buono ma fa cose cattive. Sicuramente il passato di Bojack ha influito molto sulla persona che è ora, i suoi traumi passati si stanno ripercuotendo sulle sue azioni presenti, insomma sta diventando tutto ciò che non è mai voluto essere.
Il protagonista tenta di districarsi tra relazioni, amicizie, popolarità, rapporti conflittuali con la figura paterna e materna, e soprattutto quello deleterio con se stesso.
Nel personaggio di Bojack troviamo molto egocentrismo, ma anche la consapevolezza che, nonostante gli innumerevoli fan dei suoi programmi tv, nessuno lo apprezza veramente come persona al di fuori del mondo televisivo. La sua autobiografia è un modo per uscire dal dimenticatoio e tornare rilevante agli occhi dei fan dopo il suo primo grande successo
Durante l’intero arco della serie lo show business di Hollywoo(d) viene criticato continuamente e in modo aggressivo. Eppure, la serie va al di là dell’ambiente frivolo hollywoodiano: femminismo, demenza, malattie mentali, depressione, cambiamenti o a livello fisico e caratteriale (spesso legato all'accettazione di un problema)… Di questi e di molti altri aspetti Bojack Horseman sa trattare come nessun’altra serie.
LA SESTA STAGIONE
Dalla prima alla sesta stagione troviamo i personaggi profondamente cambiati: non per forza in modo negativo o in modo positivo, semplicemente cambiati. E’ proprio grazie alle loro diverse caratteristiche che la serie è in grado di analizzare ogni aspetto della società odierna, in un perfetto equilibrio tra comicità e riflessione.
Il finale può lasciare a bocca aperta oppure no, essendo molto aperto, e non c’è una vera propria ‘’fine’’ se non quella che ognuno di noi vorrebbe vedere.
La sesta stagione si apre con quello che sembra un passo avanti per il cavallo, ma che poi si rivela un fallimento: è una fuga dal passato e un’ostinazione a credere di essere giunto finalmente alla serenità.
Così si giunge al penultimo episodio, il ‘’panorama a metà strada’’, che si può definire un falso finale. Il titolo dell’episodio si riferisce a una poesia che viene letta da uno dei personaggi, e rappresenta il ricordo nostalgico della vita, l’aver perso l’opportunità di fermarsi a ‘’guardare il panorama’’.
L’ultimo episodio chiarisce tutti i punti di domanda che il finale del penultimo aveva lasciato, arrivando quindi alla resa dei conti. E’ in questo episodio che possiamo vedere molto bene il percorso che ogni singolo personaggio ha svolto e che strada ognuno di essi ha imboccato, malgrado, ma soprattutto grazie all’incontro con Bojack.
Il finale può lasciare a bocca aperta oppure no, essendo molto aperto, e non c’è una vera propria ‘’fine’’ se non quella che ognuno di noi vorrebbe vedere. Ci lascia con tanti dubbi: Bojack riuscirà a rigare dritto? A trovare la felicità, l’amore, soprattutto per se stesso? e che fine faranno gli altri personaggi? Purtroppo a queste domande non c’è una vera e propria risposta, piuttosto è lasciata alla libera interpretazione di ognuno.
Finale caotico, ma perfetto per la serie, che ci ha insegnato per sei lunghe stagioni a non dare per scontato nulla e ad aspettarci sempre un ostacolo in più, a rimboccarci le maniche e rimettere insieme la nostra vita.
Caterina Lambertini
Quella di Romeo e Giulietta è una storia che tutti conosciamo, la tragedia d’amore per eccellenza, il grande e immortale capolavoro di Shakespeare. Innumerevoli sono state le versioni durante il corso degli anni, dagli adattamenti cinematografici alle rappresentazioni teatrali, tutte uniche fra loro.
La storia, però, è sempre la stessa, e diciamocelo, ha un po’ stufato. Dopo secoli che viene narrata e anni che ci viene raccontata, apprezzarla sul serio è sempre più difficile, quasi impossibile.
Era questo quello a cui mi aspettavo di andare incontro quando, martedì 4 febbraio, sono andata con la mia e un’altra classe del linguistico al teatro Strehler di Milano: l’ennesimo noioso e monotono spettacolo di Romeo e Giulietta. Non potevo di certo partire più prevenuta, eppure tutte le mie aspettative sono state inaspettatamente deluse, o per meglio dire, superate.
Romeo and Juliet (are dead) non è di certo il solito spettacolo che ci si aspetterebbe di vedere; gli attori sul palco sono solo tre, eppure sono riusciti a travolgere gli spettatori e a immergerli nella storia, forse più di quanto la versione classica avrebbe potuto fare con un pubblico così giovane.
Sì, perché i personaggi della storia, Romeo, Giulietta e Mercuzio, non sono sicuramente i classici protagonisti della tragedia: presentati con vestiti e atteggiamenti moderni, sono stanchi della fine che Shakespeare ha rifilato loro e decidono di cambiarla, raccontando un’ultima volta la loro vicenda, nella speranza di poter cambiare il loro destino.
La recitazione appassionata degli attori e Mercuzio nel ruolo del narratore che si improvvisa continuamente in personaggi differenti, sono stati gli elementi principali che hanno conquistato gli spettatori, che tra una risata e l’altra sono stati coinvolti in tutto e per tutto nello spettacolo, sentendosi parte di esso.
Raccontare questa storia in modo innovativo è un’impresa pressoché impossibile, ma loro sono riusciti a farlo, conciliando l’originale versione di Shakespeare con la comicità e il romanticismo di oggi, rendendo la storia più moderna senza però trascurare l’ineguagliabile testo da cui ha origine.
Uno spettacolo divertente e avvincente, che anche questa volta non ha rinunciato a lanciare il solito messaggio, che però arriva al pubblico con un sorriso: l’amore vince su tutto.
Elisa Fiandro
Piccola premessa: la seguente recensione non contiene spoiler.
(Fine premessa)
Sono passati cinquant'anni dalla fine della guerra che infuriava nella galassia, a colpi di bastoni al neon luminosi e oggetti a bassa definizione.
Sono passati dieci anni dalla creazione di lord casco, che indossava un'armatura di plastica nera da samurai e dalla trasformazione di yogurt da Computer grafica a pupazzo.
Ed infine, dopo lunga attesa e svariate teorie del perché Jar Jar Binks sarebbe un signore dei Sith, è uscito, finalmente, un dannato film delle principesse Disney.
In sé la proposta del film non mi aveva deluso, lo spazio, le creature, la grafica, le luci, i combattimenti e le navicelle, che quando il direttore della computergrafica ha chiesto a J.J. Abrams "Quante navi mettiamo?" e quello ha risposto "Sì", mi ero eccitato.
Illustrazione di Helena Bertolotti
Illustrazione di Alessandro Pace
Poi ho visto il film, e la trama mi ha fatto pensare "questo è un attentato ai fratelli Lumière".
Ne ho a centinaia tra libri, fumetti, atlanti, mappe, enciclopedie, dizionari, vocabolari, cartine, poster, giochi e set di lego tutti a tema, ma di ciò che veniva raccontato nel film non c'era nulla di attendibile, né in cielo né in terra né nello spazio. Come se il film di star wars fosse stato fatto da un tipo che non conosceva star wars.
Inoltre questa imperdonabile mancanza viene rattoppata mostrando personaggi di film precedenti senza motivo.
Perché?!
Si vede molto chiaro il profilo Disney:
Sono una ragazza povera ma bella, metà dei parenti è morta metà è kattiva, incontro ragazzo carino, ho una missione per salvare il mondo, tipo kattivo vince la prima volta, ritorno con gli amici, il kattivo rivela il suo piano, vinco, sposo il ragazzo carino, divento principessa, fine.
Tutta la trilogia si vede che è della Disney ed è per questo che dovrebbe andare all'inferno.
Consiglio il film a chi è fan della saga, ma solo per finire la trilogia, inoltre non è da guardare come primo film.
Victor Bardicchia
11 gennaio 2020, il Gruppo Teatrale Crennese si esibisce con “Romeo e Giulietta” in versione semi-moderna all’oratorio di Gaggiano. Il Gruppo Teatrale Crennese è nato nel lontano 1997 presso l’oratorio di Crenna; organizzazione senza scopo di lucro, un gruppo di amici con la passione per la recitazione. L’ambiente, carino e accogliente è stato riempito quasi completamente nel giro di mezz’ora.
Gossip: qualcuno aveva dimenticato il portafoglio in biglietteria, quindi la presentatrice, una volta sul palco, ha chiesto di chi fosse quel portafoglio nero di Carpisa. Un debole “Ah! È mio.” è arrivato dalla mia destra: era la prof.ssa Quaglia, che, rassegnata, si è alzata per andare a riprendersi il portafoglio.
Lo spettacolo inizia, la musica altissima rimbomba nella sala, presentando quelli che sono i personaggi. Chinati, cappucci sulla fronte, irriconoscibili, iniziano a parlare dell’odio della due famose famiglie: Montecchi e Capuleti. La scena si rivela molto bizzarra nel momento in cui alcuni personaggi escono di scena, quelli rimanenti ormai con il volto scoperto e vestiti (fin troppo?) moderni. Tutto prende una piega un po' comica quando iniziano a parlare con il testo originale, minacciandosi con pistole come se rappresentassero bande criminali. Contrasto strano, non lascia indifferenti.
Lo spettacolo continua, tutti conoscono la storia a memoria, ma è il modo inusuale con cui viene interpretata a farla spiccare. La recitazione è amatoriale, ma certi personaggi emergono per la loro qualità: Giulietta per la recitazione particolarmente appassionata, la Balia (personaggio secondario) per la sua comicità: codini biondo platino, aria da scolaretta svampita con voce stridula, abbastanza contrastante con la vecchia dell’originale, ma ugualmente caratteristica e spiritosa. La parte più iconica è stata quando si è messa a cantare la canzone del cartone “Anastasia” (fortunatamente la base era alta e lei senza microfono): 10/10 per il coraggio.
Personaggi come Tebaldo, che sembra un gangster leggermente fuori di testa, danno un tocco “americano”. La voce da gradasso, i modi di fare alla “badboy”: apprezzata l’originalità dell’interpretazione. Abbastanza di contrasto anche il fatto che, nonostante l’estetica sia molto moderna, non arrivi “la lettera” a Romeo, forse per fare una combinazione di passato e presente, per enfatizzarne le caratteristiche.
Apprezzabile, invece, la scelta musicale (anche se Anastasia ci ha lasciato un po' interdetti) tra cui l'azzeccatissima “Iris” dei Goo Goo Dolls.
“And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am”
Illustrazione di Alessandro Pace
Poche righe che rappresentano in pieno il significato di un amore nascosto al mondo, ostacolato e incompreso; un amore dove, per i due ragazzi, non ha importanza “Il nome”. Canzone perfetta, sia per il testo che per la potenza della base.
Insomma, piacevole e particolarmente divertente e con dialoghi “appassionati”, ovviamente, a differenza di rappresentazioni teatrali professionali, l'entusiasmo degli attori compensa bene qualche carenza nella recitazione.
Non avevamo aspettative per una serata del genere al teatro di Gaggiano, tra risate e battute,ma possiamo dire che sicuramente ricorderemo questo 11 gennaio con un gran sorriso... e con una coppia di “Romeo e Giulietta” in meno.
Camilla Scuri
Meraviglioso capolavoro di Tim Burton con Jack Nicholson negli splendidi panni Joker (il mio personaggio preferito) e Michael Keaton nei neri panni di Batman (il piú fico di tutti). Batman dell'89 cambia completamente la reputazione data da Batman the movie del '66, in cui possiamo ammirare Batman ridicolo nel suo vestitino di plastica con al suo fianco Peter Pan.
Batman dell'89 cambia l'immagine dell'omonimo protagonista dandgli una voce seria e austera, gadget che veramente utile a combattere i cattivi – non come il "bat-schiacciamosce multiuso" – Joker è folle e ha un piano diabolico e sensato e, infine, viene mostrata Gohtam City in tutta la sua oscurità, la sua malavita e il suo inquinamento.
In questo film potremo vedere le origini del cavaliere nero, scoprire gli assassini dei suoi genitori, le origini di come è diventato il giustiziere di Gotham City e ha riacquistato la sanità mentale precedentemente persa.
Consiglio fortemente il film e la saga intera.
Victor Bardicchia
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Illustrazione di Alessandro Pace