« Probabilmente, cercare di sviluppare un videogioco, per quanto basilare, senza avere la benché minima esperienza in ambito informatico, non è il modo migliore di passare le proprie giornate, almeno se si ha qualcosa di meglio da fare. Dato che io, però, di meglio da fare non ne avevo, ho deciso di passare 9 giorni (INTERI) delle mie tanto agognate vacanze natalizie a –incredibile, ma vero- “sviluppare” un videogioco. Sono dunque fiera di presentare al grande pubblico “Riki’s Adventure – Christmas Edition”, una strabiliante avventura 2D dal setting natalizio dove i giocatori potranno, con grande onore, immedesimarsi in “Riki”… mio fratello. Tale scelta peculiare deriva in realtà dal fatto che questo capolavoro videoludico - crediamoci - era inteso come regalo di Natale per mio fratello maggiore, appunto, Riccardo (so che questo dettaglio non interesserà a nessuno, ma tanto sono io a scrivere l’articolo, quindi vabbè). Originariamente non doveva essere nemmeno un gioco, ma un’animazione o un disegno (ambiti sicuramente a me più familiari). Tuttavia, il mio desiderio di provare qualcosa di nuovo e la mia convinzione di poter riuscire a fare qualsiasi cosa che abbia una componente grafica – ancora una volta, crediamoci – mi hanno portato ad esplorare un mondo estremamente interessante di cui sono sempre stata fruitrice, ma mai autore. Vorrei dunque raccontare la mia personale esperienza, mettendo in luce i punti salienti del lavoro e anche vari errori che ho commesso strada facendo. Se ci si volesse poco bene e si volesse effettivamente giocare a “Riki’s Adventure – Christmas Edition”, la lettura del seguente articolo è consigliata SUCCESSIVAMENTE al gameplay effettivo per evitare spoilers di qualsivoglia genere (veramente, il lavoro che ho fatto è talmente poco che leggere a riguardo sarebbe come giocarlo … )
1. La trama
“Riki’s Adventure – Christmas Edition” segue le vicende di Riki, un ingegnere, il giorno di Natale, quando due mascalzoni provenienti da un’altra dimensione, Ben e Fen, rubano il puntale dell’albero alla “Riki’s House”, rovinando così i festeggiamenti. Il nostro eroe sarà costretto a inseguire i malandrini e, superato un pericolosissimo labirinto di ghiaccio, riprendersi il puntale. Naturalmente, non sono esclusi dei colpi di scena nonostante la trama piuttosto scarna. Inutile dire che quando si inizia un progetto del genere è fondamentare delineare, prima di tutto, una trama di fondo, in modo da avere sempre chiaro dove e come procedere nel progetto. È quanto più ovvio c’è da fare. Chiunque inizierebbe abbozzando una storia, anche un bambino. Mi sembra implicito. Tutti ci arrivano. Tutti, ma non io. Io no. Io non ho iniziato dalla trama, ovviamente, ma mi è venuta in mente circa al quinto giorno di lavoro e ciò ha comportato varie difficoltà nel strutturare il programma perché mancava una visione di insieme. A chiunque voglia cimentarsi in qualcosa di simile consiglio di non fare come me.
2. Lo sviluppo – programmazione
Facendo alcune ricerche, sono venuta a conoscenza dell’esistenza di un software per pc adatto a qualsiasi sistema operativo e completamente gratuito che permette di sviluppare in maniera intuitiva giochi con grafica 2D e 3D utilizzando delle impostazioni di codice che ho trovato comprensibili sebbene non avessi nessuna esperienza in merito. Si tratta di “Game Maker 2” e in internet si può trovare vasta gamma di tutorial (anche molto dettagliati) per la creazione di prodotti di qualsiasi genere (sparatutto, picchiaduro, scorrimento laterale, …) e qualsivoglia grafica su questa piattaforma. La schermata di avvio del programma si presenta come un “workspace” vuoto con a lato una tendina che figura delle cartelle preimpostate utili per l’organizzazione degli elementi che si andranno a creare.
In particolare, le sezioni che mi hanno interessato maggiormente (data la semplicità del prodotto) erano Object, Sprite, Tile Sets, Rooms, Script e Font (questi ultimi entrambi necessari per inserire caselle di testo e selezionare il carattere desiderato). A ciascuna di queste poteva essere associato del codice creando un Event di tipo Step (codificando il movimento), Draw (segnalando un animazione), Create (per impostare nuove variabili personali) e così via. Il mondo di gioco è essenzialmente costituito da sovrapposizioni e interazioni di tutti i tasselli sopracitati all’interno delle Rooms, letteralmente delle “camere” dove tutti questi elementi sono inseribili e modificabili.
Un Object è essenzialmente un qualsiasi elemento del gioco che svolge una data operazione. Per esempio, l’oggetto più importante è il giocatore (che io ho chiamato “obj_player”) in quanto costituisce l’elemento fondamentale del gioco. Esso è in grado di muoversi lungo x e y ad una velocità standard utilizzando le frecce direzionali della tastiera. Nel progetto, tuttavia, vi erano altri oggetti essenziali per la resa finale. Innanzitutto, “obj_wall” rappresentava letteralmente i muri, barriere invisibili o meno, che impedivano a giocatore di avanzare. In questo caso, il muro non era portatore di alcun codice in quanto il comportamento del giocatore nei confronti di “obj_wall” era esplicitato nel codice del giocatore stesso. Vi era poi “obj_warp_block” che permetteva, se intercettato dal giocatore, di passare da una Room all’altra (associato a “obj_warp”, che costituiva l’animazione di transizione da una stanza alla successiva). Infine, “obj_text_maker” (associato a “obj_textbox”) permetteva di far apparire caselle di testo con varie pagine di dialogo personalizzato se il giocatore si trovava al di sopra dell’oggetto utilizzando la barra di spazio della tastiera. Le proprietà di ogni oggetto sono dettate da stringhe di codice che ne determinano il comportamento nel mondo di gioco.
Tutto il coding si basa su una serie di variabili e funzioni “built-in” all’interno del programma, ovvero formule di codice alle quali Game Maker associa automaticamente determinati significati, e su variabili personali impostabili nell’evento Create a cui il creatore deve attribuire determinate funzioni. Il codice varia da oggetto a oggetto e può essere visualizzato sia come diagrammi di flusso, sia come le classiche stringhe. Ad esempio, ecco quanto codifica che il giocatore, se incontra “obj_wall”, non può più proseguire:
//collisions with walls
if place_meeting( x + xspd, y, obj_wall ) == true
{
xspd = 0;
}
if place_meeting( x, y + yspd, obj_wall) == true
{
yspd = 0;
}
Dove xspd e yspd sono variabili da me create che indicano la velocità del giocatore e “place_meeting (x, y, Object)” è una funzione built-in che indica la sovrapposizione dell’oggetto a cui appartiene il codice con l’oggetto citato tra parentesi. La scrittura si traduce con “Se il giocatore incontra un muro, la sua velocità su x e y è pari a 0” Con un coding così facile ed intuitivo è possibile effettuare una varietà di azioni divertenti, come per esempio creare uno “sliding state”. Gli amanti dei videogiochi Pokémon retro avranno familiarità con il concetto di labirinto di ghiaccio, cioè una parte della mappa in cui il giocatore è impossibilitato dal muoversi liberamente in diagonale e, fino a quando non incontra un oggetto (un “obj_wall”), non gli è possibile modificare la sua direzione di movimento su x e y; è come se rimanesse congelato, costretto a proseguire per inerzia, proprio come se scivolasse sul ghiaccio. Ho deciso di includere come parte fondamentale del gameplay un labirinto di ghiaccio – è praticamente l’unica azione effettiva che si può fare – sia perché era l’unico effetto riguardo cui ho trovato un tutorial comprensibile su YouTube e soprattutto che non mi facesse perdere 12 anni di vita, sia per l’effetto nostalgia di uno “sliding puzzle” alla pocket monsters. Per fare ciò, è tutta via necessario introdurre uno “sliding state”, ovvero del codice che rappresenti il comportamento anomalo che il player ha quando incontra il ghiaccio (da me chiamato “obj_iceground”).
//get info for each state
//movement state (full player control)
if state == movementState
{
//set the qualities of the state
movementControl = true;
autoSpriteControl = true;
animate = true;
//state swapping
if place_meeting(x, y, obj_iceground) && ( xspd != 0 || yspd != 0)
{
state = slidingState;
}
}
//sliding state
if state == slidingState
{
//set te qualities of the state
movementControl = false;
autoSpriteControl = false;
animate = false;
//state swapping
if !place_meeting( x, y, obj_iceground) || (xspd == 0 && yspd == 0)
{
state = movementState;
}
}
//diagonal ice collision
if xspd != 0 && yspd != 0
{
if place_meeting( x + xspd, y, obj_iceground) {xspd = 0;};
if place_meeting( x, y + yspd, obj_iceground) {yspd = 0;};
}
Il codice riportato divide il movimento del giocatore in due casi. Nella prima parte di codice viene detto “Se il giocatore si trova nello movementState allora si comporta normalmente; se invece incontra obj_iceground passa allo slidingState” e si procede poi a definire questo stato di movimento: “Se il giocatore si trova nello slidingState (perché le condizioni dello state swapping sono soddisfatte) allora non si deve più comportare normalmente, ma non può più procedere diagonalmente e deve congelare il suo movimento”.
3. Lo sviluppo – grafica All’avvio, il gioco presenta la Room iniziale come una finestra 288 x 216 pixel che corrisponde alla grandezza dello “scorcio” che si ha sul mondo di gioco; significa che una Room può essere anche di 10000000 pixel, ma il giocatore potrà vederne solamente un rettangolo 288 x 216 alla volta. È possibile selezionare una serie di opzioni all’interno dell’editing di ogni singola Room che permettono di cambiarne le dimensioni, la forma e i “Viewports and Camera” (la telecamera). Nel mio caso specifico ho deciso di mantenere delle misure standard in tutte le Rooms e di centrare la telecamera sul giocatore, facendolo persistere ai vari cambi di Room (significa che al cambiare della stanza, il giocatore non scomparirà). Inoltre, il room editing permette di inserire su livelli diversi oggetti, caselle di testo e i cosiddetti “Tile sets”. Essi sono come delle tavolozze virtuali suddivise in quadranti di dimensioni variabili a seconda della necessità che permettono di disegnare nelle stanze (che, altrimenti, sarebbero nere, anzi, prive di colore). Prelevando un blocco dal tile set, esso può essere ripetuto all’infinito nella Room (anch’essa suddivisa in quadranti) andando così a disegnare paesaggi e ambienti di gioco.
Fino a questo momento ho però tralasciato un dettaglio vagamente importante: bellissimi gli oggetti, i muri, il player e lo slidingState, ma chi gioca, cosa vede? Ecco che entrano in gioco gli Sprite! Si tratta di insiemi di pixel dalle dimensioni variabili che possono essere associati o no a determinati ogetti o elementi che ne permettono una visualizzazione effettiva nel mondo di gioco. Anche gli stessi Tile sets non sono altro che grandi sprite. Ad esempio, al mio “obj_player” è associato ad uno sprite 16 x 16 pixel. Non solo. Gli sprite non sono immagini isolate ma permettono la creazione di vere e proprie animazioni di cui si può decidere il numero di fotogrammi e la velocità di riproduzione. Infatti, la rappresentazione del player è uno sprite 16 x 16 di 4 fotogrammi (rappresentanti le fasi della camminata) con un frame rate di 4 fps (frames per second). Nell’arco di un secondo ci sarà, dunque, il susseguirsi di quei 4 frame a ripetizione. Addirittura, è possibile impostare sprite diversi (e, quindi animazioni diverse) a seconda della direzione verso cui è rivolto il giocatore, sempre a livello di coding:
//sprite control
sprite[RIGHT] = spr_player_right;
sprite[UP] = spr_player_up;
sprite[LEFT] = spr_player_left;
sprite[DOWN] = spr_player_down;
face = DOWN;
Che si traduce con “Associare a ogni direzione lo sprite designato e come posizione d base utilizzare quella verso il basso” Quella di creare letteralmente qualsiasi cosa, partendo solamente dalla propria immaginazione sembra una procedura semplice e allettante, io stessa pensavo che sarebbe stata la parte più entusiasmante del lavoro e credevo che avrei messo in gioco le mie abilità artistiche. Purtroppo non sapevo ancora che avrei dovuto disegnare tutto PIXEL PER PIXEL, con conseguenze catastrofiche e danni a livello visivo – ho perso quattordici decimi per occhio – e soprattutto psicologico – credo di aver inventato dei nuovi insulti per l’occasione. Ovviamente, però, quando pensavo di non poter essere in una situazione peggiore, l’universo, come sempre, è riuscito a dimostrarmi il contrario. Scopro, naturalmente a cose fatte, che per tutto questo tempo era possibile scaricare ed importare gratis sprite GIA’ FATTI da altre persone in maniera completamente gratuita. In quel momento, credo di aver inventato altri nuovi insulti per l’occasione. Consiglio vivamente, per lo meno se ci si tiene alla vista, di scaricare tutto quello che si può, anche per risparmiare MOLTO tempo.
4. Sclero conclusivo
Al netto di tutto, “Riki’s Adventure – Christmas Edition” è un videogioco solo dal punto di vista formale dato che il gameplay è brevissimo e praticamente inesistente, di sicuro non il titolo più entusiasmante della storia. La trama è molto debole e alcuni dialoghi e citazioni hanno senso praticamente solo se si è mio fratello – non fa una piega, è la sua di avventura. Ritengo comunque questa avventura un’esperienza interessante e di sicuro che mi ha messo alla prova su molti fronti (soprattutto quello psicologico). Ovviamente, si tratta del risultato di vari tutorial e un pizzico di freestyle – perché da un certo punto in poi ho deciso di aver capito (spoiler, non era vero) e ho improvvisato del coding di altissimissima qualità (è una finzione letteraria), quindi non posso dire che sia qualcosa di assolutamente originale, ma ne sono comunque fiera. Ci sono molti punti sui quali avrei potuto lavorare di più ed essendo una prima volta mi ci è voluto del tempo per cominciare a vedere dei risultati concreti, tuttavia mi sono divertita e vedere la felicità di mio fratello nel giocare “Riki’s Adventure – Christmas Edition” mi ha ripagato di tutti gli sforzi.
In conclusione, qualche accortezza in più e un piano di lavoro meglio strutturato avrebbe sicuramente portato a risultati migliori, eppure rimango soddisfatta del prodotto finale per quanto imperfetto. »
Matilde Degiorgi
In una stanza elegante, i due sono seduti a tavola, con due calici di vino in mano. Schopenhauer e Leopardi sono in piena discussione. La tensione tra loro è palpabile.
Schopenhauer
La morte di Michael e Grace non è altro che la conferma di quanto la vita sia crudele: la natura non ha pietà e non ha alcuna giustizia. Si limita a schiacciare ogni cosa.
Leopardi
La natura è crudele, certo, ma c’è bellezza anche nel dolore e nella consapevolezza della nostra fragilità.
Schopenhauer (inizia ad alzare la voce, snervato)
Bellezza? Consapevolezza? Di quale consapevolezza stai parlando, Giacomo?! Non vedi che tutto è inutile, dominato da una volontà cieca, che ci spinge a desiderare solo per condannarci alla sofferenza? L’amore, la passione… tutto un inganno, tutto finirà con la morte! Non esiste un ordine morale, non c’è alcuna giustizia, solo un continuo dolore, il nulla che divora ogni speranza.
Leopardi (mantiene un tono tranquillo)
Non credo che sia inutile, la bellezza dell’infinito è anche nel dolore.
Schopenhauer (sbuffando e ridacchiando)
Infinito?
Leopardi (senza alzare la voce)
Sì, Arthur, infinito. Ciò che non possiamo toccare, ma comunque sentiamo... e nel sentire c’è bellezza.
Schopenhauer (corruga le sopracciglia, infastidito)
Ma tu non eri quello che parlava della crudeltà della natura? Dove va a finire la tua teoria, ora, Giacomo? Guarda Michael e Grace, la natura li ha tolti di mezzo senza pietà! Ha spento ogni sogno, ogni speranza, ogni FUTURO! E tu vuoi parlarmi di bellezza?
Leopardi
Non nego che la natura sia crudele, io stesso sono il primo a dirlo, ma non credo che la sofferenza debba essere solo una condanna… guarda oltre, verso l’infinito.
Schopenhauer
Oltre? Sei impazzito? Sono solo illusioni! La sofferenza è l’unica certezza. E se proprio vuoi la morale, l’unico vero impulso morale è la compassione, perché solo chi soffre capisce il dolore degli altri. Ma “speranza”? Dài, non farmi ridere.
Leopardi
Forse, ma guarda oltre la morte, Arthur. Nel dolore c’è anche una ricerca di bellezza e quella ricerca è ciò che rende l’uomo… umano.
Schopenhauer (sbuffa)
Umano? Quanto dici non ha a che fare con l’umano, è solo un modo patetico per rendere tollerabile l’orrore dell’esistenza, per renderla più dolce.
Leopardi
Se non fosse per la sofferenza, non ci sarebbe il nostro sguardo verso l’infinito.
Schopenhauer (rancoroso)
Pensala come vuoi. Brindiamo, dài, che almeno la sofferenza ce l’abbiamo in comune; ma non credere che tu abbia ragione.
Leopardi
Sì, brindiamo. E forse, nel brindare, troveremo almeno un po’ di bellezza.
Schopenhauer rotea gli occhi borbottando tra sé e sé: "tu e la tua stupida bellezza”, strappando un mezzo sorriso a Leopardi.
Un ultimo sguardo tra i due, e i calici si incontrano.
Tabasum Tanzina
P. T. (direttore responsabile): Buonasera e benvenuti a questa nuova edizione delle “Verità nascoste sulla Luna”. Oggi esploreremo diverse prospettive su un evento storico di cui tutt’ora si dubita: il presunto allunaggio del 20 luglio 1969.
Come potete intuire dalle parole che abbiamo utilizzato, ancor oggiquesto evento ha lasciato molte incertezze: alcuni sostengono che l’intero accaduto sia stato falsificato dal governo degli Stati Uniti per vincere la corsa allo Spazio con l’Unione Sovietica, altri invece affermano che non ci siano prove fisiche sufficienti per dimostrare che gli esseri umani siano veramente stati sulla Luna.
Per iniziare, diamo il benvenuto al nostro primo ospite, il professor Maltagliati Paolo, astrofisico ed esperto in esplorazione spaziale.
P. M: Grazie, è un piacere essere qui.
P. T.: Professor Maltagliati, cosa pensa delle teorie di cospirazione sullo sbarco sulla Luna?
P. M.: Personalmente, ritengo che lo sbarco sulla Luna sia stato un momento epocale per l'umanità. Le prove scientifiche e testimonianze affidabili confermano che gli astronauti hanno camminato sulla superficie lunare.
P. T.: Interessante punto di vista, ma…. Ci sono molte persone che sostengono che le prove fornite, come le fotografie e i campioni di roccia, siano state falsificate. Cosa risponde a queste affermazioni?
P. M.: È comprensibile che ci siano dubbi, ma è importante considerare il contesto storico e tecnologico dell'epoca. Le foto e i video possono apparentemente presentare alcune anomalie, ma queste possono essere tranquillamente spiegate dalle varie condizioni ambientali e dalle tecniche fotografiche dell'epoca.
P. T.: Capisco. Ora vorrei dare la parola al nostro secondo ospite, il dottor Thomas Tedesco, studioso delle teorie di cospirazione sullo sbarco sulla Luna.
T. T.: Grazie per l'invito.
P. T.: Dottor Tedesco, quali sono i principali argomenti che supportano la teoria del complotto?
T. T.: Le incongruenze nelle fotografie e nei video sono uno dei principali punti di discussione. Inoltre, ci sono dubbi sulla trasmissione radio e sulle prove fisiche portate sulla Terra. Per esempio, possiamo vedere come nelle foto degli astronauti sulla loro visiera specchiata ci sia il riflesso di quello che può essere (ed é praticamente) il cameraman che ha fatto le foto; inoltre anche alcune rocce che vediamo su quello che è uno studio cinematografico sono false, infatti su una di queste è presente la lettera c, viene quindi da pensare che sia tutta una bufala la notizia dello sbarco sulla luna data dalla NASA. Una prova che però non può essere messa in discussione è quella del movimento della bandiera, infatti la bandiera non dovrebbe muoversi come vediamo dalle immagini arrivateci.
P. T.: Interessante. Prof Maltagliati, come risponderebbe a queste preoccupazioni sollevate dal dottor Tedesco?
P. M.: Ripeto e ribadisco: incongruenze nelle prove possono essere spiegate da varie condizioni ambientali e limitazioni tecnologiche dell'epoca: se guardiamo la “misteriosa” lettera c sulla pietra capiamo che non é stata fatta per forza da qualcuno, é normale che le rocce presentino strane forme. E’ un fenomeno che si chiama ‘pareidolia’: il nostro cervello associa l’immagine ad contesto o ad un ricordo a noi familiare. Per fare un esempio pratico, come quando crediamo di vedere delle forme nelle nuvole o delle ‘facce’ sulle pareti delle case (in cui le finestre ci sembrano gli occhi e la porta la bocca o il naso). Inoltre, non sto ad elencare i numerosi studi scientifici e testimonianze che confermano la veridicità dello sbarco sulla Luna. Sembra un po’ improbabile che tutti, ma proprio tutti, abbiano mentito, no?
P. T.: Grazie, Prof Maltagliati. Dottor Tedesco, qual è la sua risposta a queste argomentazioni?
T. T.: (iniziando a mostrare segni di irritazione): Continuo a ritenere che ci siano delle lacune nelle prove presentate e che sia necessaria un'ulteriore indagine approfondita per chiarire definitivamente questo evento.
P. T.: Grazie a entrambi per le vostre opinioni. È chiaro che il dibattito su questo argomento continuerà a suscitare interesse e controversie.
Quale sarà la verità dietro tutti questi dubbi? Fateci sapere voi cosa ne pensate.
Con questo concludiamo la nostra intervista.
T. T.: (si alza in piedi rimboccandosi le maniche, pronto per prendere l’interlocutore a pugni) Ohhhhh. Qui non abbiamo concluso proprio niente, io sto cercando di aprirvi gli occhi sul fatto che questo è tutto un complotto!
È palese il fatto che le foto della luna sono state fatte in uno studio, ci sono immagini di rocce con lettere sopra, di bandiere che sventolano! È stato tutto sistemato sul set per farci credere che lo sbarco sulla luna sia avvenuto davvero in quegli anni ma non è così, e voi lo sapete. LO SAPETE, ACCIDENTI!!! Gli Stati Uniti volevano solo vincere la corsa allo spazio della guerra fredda contro l’Unione Sovietica, tutti lo sanno ma nessuno lo dice mai!!!
P. M.: (anche lui si alza con fare minaccioso e si dirige anche lui verso il suo interlocutore che lo sta raggiungendo) Innanzitutto non ti devi permettere di parlare in questo modo e poi lo sai che sono balle quelle che stai dicendo! Adesso basta prenderci in giro e guarda in faccia la realtà.
(i due iniziano a prendersi a pugni mentre P. T. cerca di dividerli e chiama la sicurezza per farsi aiutare e portarli via)
P. T.: (sistemandosi il vestito stropicciato mezzo stordito dopo che si è messo in mezzo ai due invitati al programma) Ahem… Grazie per essere stati con noi, vi aspettiamo la prossima sera con un nuovo episodio…
Tabasum Tanzina e Tedesco Thomas
Artemisia Gentileschi è stata una grande italiana, con una storia molto travagliata di cui vi parlerò a breve; ma prima volevo informarvi che recensirò in particolare la mostra che sono andata a vedere io a Genova. Vi dico questo a partire dal fatto che gli sono state mosse delle critiche e mi piacerebbe esporre e argomentare la mia opinione. Ora iniziamo con la sua storia.
Artemisia nacque a Roma nel 1593, figlia di Orazio Gentileschi, un importante pittore. Fin da subito fu chiaro non solo che Artemisia condividesse la stessa passione del padre, ma anche che avesse un grande talento naturale verso l’arte. Così il padre Orazio decise di insegnarle a dipingere, nonostante sapesse che la vita d’artista di Artemisia sarebbe stata molto travagliata in quanto donna, anzi probabilmente anche per questo decise di farle prendere lezioni di prospettiva da Agostino Tassi (che era un grande amico e collaboratore del padre di Artemisia). Il problema era che Agostino non era proprio un ottimo soggetto… per quanto bravo nell’arte della prospettiva, le fonti non solo lo definiscono iroso, ma fanno riferimento al fatto che era coinvolto anche in diversi processi giudiziari e addirittura fu mandante di diversi omicidi. Probabilmente Orazio pensò che, essendo suo amico, non avrebbe mai torto un capello a sua figlia. Purtroppo, invece, Agostino, dopo aver ricevuto numerosi rifiuti da parte di Artemisia, decise di stuprarla in un momento in cui Orazio era fuori casa (ovviamente Orazio non li aveva lasciati da soli, ma non sapeva che la sua domestica fosse d’accordo con Agostino). Sfortunatamente non sarà un caso isolato, anzi Agostino abuserà diverse volte di Artemisia, convincendola che l'avrebbe presa in sposa, e Artemisia fu costretta a credergli, sapendo che cosa sarebbe successo nel caso in cui si fosse opposta. Orazio, però, anche quando venne a scoprire degli abusi, non denunciò subito; lo fece solo quando scoprì che Agostino era già sposato, decidendo di scrivere una lettera di accuse direttamente al papa. Artemisia venne sottoposta a torture e a umilianti visite ginecologiche nel tribunale stesso, sotto gli occhi di diverse persone, ma alla fine ottenne il risultato: Agostino fu condannato a cinque anni di esilio da Roma, esilio che però non sconterà mai. Artemisia, invece, venne comunque considerata dal popolo romano come una “Sgualdrina” e una “Scostumata” e costretta a un matrimonio riparatore con tanto di trasferimento a Firenze, dove i pettegolezzi non potevano raggiungerla. Il marito di Artemisia non era proprio un buon partito ed essendo anche lui un artista, non prese molto bene il fatto che Artemisia entrò all’Accademia delle Arti di Firenze prima di lui e che avesse avuto incarichi molto importanti e venne anche a conoscenza di persone illustri, come la famiglia De Medici( Non è rilevante, ma Artemisia incontrò Galileo Galilei e divennero grandi amici, infatti si scambiarono numerose lettere). Quindi Artemisia decise di trasferirsi, portando con sé sua figlia, e andare a lavorare a Genova. Da lì, poi, girò per diverse zone d’Italia, tornò anche a Roma, dove molte persone, dopo aver visto in azione il suo talento, si erano ricredute. Una tappa importante fu l'Inghilterra, dove decise di seguire il padre; lì dipingevano insieme e lei rimase fino alla morte di Orazio. Allora Artemisia, non avendo più motivi di restare così lontano dall’Italia e con l'avvicinarsi della rivoluzione inglese, decise di stabilirsi a Napoli, dove morirà nel 1656.
Ora, prima di passare alle opere, consideriamo le critiche. Alla mostra di Genova c’è una sala con all’interno solo un letto matrimoniale con dei proiettori e altoparlarlanti: in questa sala si sente una voce che legge le parti del processo di Artemisia in cui è lei a parlare, descrivendo lo stupro subìto mentre vengono proiettano le parole lette. Questa stanza è stata molto criticata perchè molte persone l’hanno percepita come eccessiva e non poi così affine al contesto e allo scopo della mostra stessa; oppure è stata anche rivolta una critica al fatto che fosse di cattivo gusto enfatizzare così tanto un evento davvero traumatico per la vita della pittrice, evento che lei stessa ha cercato per tutta la sua vita di nascondere. Però c’è anche da dire che, proprio in quanto trauma potente , ha influito molto sulla sua arte e quindi non parlarne toglierebbe delle informazioni utili per capire i significati dei suoi quadri; sarebbe come andare a una mostra di Van Gogh dove non vengano fatti riferimenti alla sua fragile salute psicofisica e alle sue forme di dipendenza non sarebbe lo stesso.
La Sibilla (Immagine 1), foto di Sofia Rebagliati
Ed è vero che i curatori potrebbero mettere un testo scritto alla parete o su pannelli, e basta (che tra l’altro c’erano pure, alla mostra) come si fa spesso in queste occasioni , ma è anche vero che molte persone non si fermano a leggere e non prestano attenzione a queste forme di comunicazione più convenzionale, mentre invece quella stanza propone un modo innovativo per fare sì che più persone possano accorgersi e venire a conoscenza di contenuti fondamentali per la comprensione dell’opera dell’autrice . L’unica cosa che davvero potrei criticare del tutto erano gli effetti speciali: infatti, alla fine della “lettura”, i proiettori fanno comparire sul letto un fiume di sangue, cosa che mi è parsa eccessiva (anche se, probabilmente, se non avessi già avuto una pulce nell’orecchio per via di quanto già visto e ascoltato, non avrei mai pensato fosse eccessivo). Per avvalorare la mia tesi (cioè che Artemisia non ha mai nascosto ciò che le era accaduto e non aveva problemi a mostrarlo al mondo), come primo quadro tratterò de “La sibilla” (immagine 1) (che in realtà è stato fatto dal padre Orazio con l’aiuto di Artemisia); Il quadro rappresenta appunto una sibilla (nella mitologia le sibille erano delle donne scelte da Apollo che avevano la funzione di oracolo) che in questo caso ha il volto di Artemisia, ma la sibilla è anche una tortura a cui fu sottoposta Artemisia in cui, tra l’altro, lei rischiò di perdere la possibilità di dipingere (la sibilla è una tortura in cui si legano con una corda le mani e le dita della vittima e poi si stringe e, a furia di stringere, c’è ovviamente il pericolo che le dita si rompano), quindi se Artemisia ha deciso non solo di posare per un quadro così significativo, ma di contribuire all’esecuzione, probabilmente non ci rimarrebbe così male se scoprisse della stanza col letto tanto criticata.
Susanna e i vecchioni, Immagine 2, foto di Sofia Rebagliati
Cleopatra, Immagine 3, foto di Sofia Rebagliati
Giuditta e Oloferne, Immagine 4, foto di Sofia Rebagliati
Artemisia si dedicherà principalmente a rappresentare donne. Una delle sue rappresentazioni più famose è quella del quadro “Susanna e i vecchioni”(foto 2). Il soggetto di questo quadro, per chi non lo conoscesse, fa riferimento a un episodio biblico. Susanna si sta facendo il bagno quando due vecchioni la vedono e la minacciano di raccontare bugie sul suo conto in caso ella si rifiutasse di fare loro dei favori sessuali; alla fine Susanna non demorde e il marito riconosce le bugie dei due vecchioni, che vengono condannati a morte. Questo, quindi, dovrebbe essere un racconto sulla virtù della castità femminile: ma nel quadro di Artemisia possiamo vedere tutta l’angoscia e la paura di Susanna che cerca aiuto ma sa di essere sola e sa cosa può succedere a una donna del suo tempo. Artemisia sceglie un paesaggio vuoto, proprio per sottolineare la desolazione e l’inutilità delle richieste di aiuto di Susanna. Per quanto riguarda la tecnica pittorica, nel quadro troviamo la fusione della tecnica manierista del padre e di quella caravaggesca tipica del suo periodo. Un altro dei personaggi che dipinge in cui si identifica la Gentileschi è Cleopatra (immagine 3): rappresenta la sua morte ispirandosi alla “Maria Maddalena in Estasi” di Caravaggio. Nel quadro, Cleopatra sta morendo serena; l’unica cosa ancora viva nel quadro sono i fiori, che rappresentano la sensualità di Cleopatra, e le ancelle sullo sfondo che la compiangono. Artemisia si rivede in Cleopatra perché, come lei, cerca di sopravvivere in un mondo fatto per gli uomini. L’ultima opera di cui vi parlerò, è “Giuditta e Oloferne" (immagine 4). Anche questo episodio è stato rappresentato più volte da Artemisia. Per chi non lo sapesse, fa parte anch’esso della Bibbia, in particolare è nell’Antico Testamento: Giuditta è una vedova ebrea che salva il suo popolo dall’invasione assira fingendo di allearsi col nemico per poi ammazzare lei stessa il generale nemico Oloferne. Nella sua rappresentazione però Artemisia è rivoluzionaria: Giuditta non è una ragazza graziosa e posata, un po’ titubante, com’era di solito raffigurata no, lei la dipinge come una matrona forte e risoluta, che sa cos’è giusto fare per il suo popolo e non ha paura di farlo. Anche l’uso delle ombre è fatto apposta per rendere la scena più intensa e i lineamenti di Giuditta più duri.
Queste sono le sue più famose opere, ma ci sono altre numerosi donne forti che Artemisia ha rappresentato, aggiungendoci sempre un po’ della sua travagliata storia. E proprio per questa caratteristica, Artemisia risulta molto più avanti del suo tempo, infatti l’interpretazione di eventi storici o mitologici usando come tramite la propria storia, è una caratteristica molto moderna. Al tempo di Artemisia gli artisti si preoccupavano più del realismo del quadro, ma non cercavano la loro vita all’interno del quadro, non si mettevano in gioco in prima persona, semplicemente raffiguravano ciò che gli veniva chiesto. Questo rende l’artista apprezzabile sia dagli amanti di Caravaggio, ma sia dagli amanti dell’impressionismo e dell’arte come oggetto da interpretare e mezzo di comunicazione.
Sofia Rebagliati
Cosa succederebbe se dèi greci combattessero insieme alle divinità nordiche contro gli angeli della Giustizia e dello Spirito? Se in questa guerra ci fossero divinità indiane che piangono sui corpi di dèi greci ed egizi? A ciò non ci è stata data una risposta scritta ma un’immagine, attraverso il dipinto Divina tragedia di Paul Chenavard.
Questa è una delle opere che più mi ha colpita al Musée d’Orsay, non solo per la grandezza del dipinto ma per la complessità nel disegnare una simile situazione; questo articolo serve a dare un’analisi completa ma più semplice di un quadro poco conosciuto ma molto interessante. Prima di analizzare questo quadro bisogna però parlare dell’autore e del periodo storico in cui ha vissuto.
Paul Chenavard nacque a Lione nel 1807 e si trasferì successivamente a Parigi, era un periodo di cambiamento per la Francia, successivo alla rivoluzione francese e pieno di sconvolgimenti sentiti in tutto il XIX secolo. Si comprende quindi che l’epoca in cui visse Chenavard fu tutt’altro che tranquilla e ciò si riflesse sulle sue opere d’arte. Nell’arco della sua vita studiò all’Accademia delle Belle Arti nello studio di Ingres, successivamente visse a Roma e infine frequentò il salotto letterario e musicale Berthe Rayssac. Morì nel 1907 a Lione, dove fu sepolto.
Dopo aver riassunto le principali tappe della sua vita passiamo all’opera da analizzare, Divina Tragedia, che gli fu commissionata all’indomani della rivoluzione da Charles Blanc come decorazione per il Pantheon ma, a causa di Luigi-Napoleone Bonaparte che riservò il luogo al solo culto cattolico, Chenavard dovette abbandonarne il progetto. Riprese successivamente l’idea di illustrare la storia delle diverse religioni per il Salon del 1869.
Possiamo iniziare l’analisi partendo dalla figura al centro, che rappresenta il Dio nuovo, tra le braccia del padre, di cui si vede però soltanto la testa tra le nuvole; Chenavard però immaginava che, per avere l’avvento di un nuovo Dio, le vecchie divinità dovessero perire, per questo di vede in cielo la Morte che, aiutata dall’angelo della Giustizia e dello Spirito, colpisce gli antichi dei che devono perire.
Sotto l’arcobaleno, sulla destra, possiamo vedere Prometeo (1) incatenato che viene divorato da un avvoltoio e, in prospettiva davanti a lui, si nota Thor (2) che con il suo martello lotta con Jǫrmungandr, che si riconosce dalle gambe squamose, questa lotta rappresenta quella tra il bene e il male. Vicino a queste due scene, un poco più in alto, si vede Mercurio (3), riconoscibile per il caduceo, che porta in braccio Pandora, svenuta, che ha in mano la funesta scatola ormai già aperta. Andando invece verso l’angolo in basso a destra incontriamo Bacco (4), con la sua corona di vite, che, insieme ad Amore, trasporta Venere addormentata, formando una triade.
Ritornando poi verso il centro incontriamo la mitologia indiana con la vecchia Maïa indiana (5) che prega chinata sul corpo di Giove e di Iside (più a destra, si riconosce per le numerose mammelle e la testa di mucca nascosta sotto il velo verde), queste due figure sono morte dandosi la mano ed erano contemporanei della divinità indiana, per questo lei li piange. Appena sopra di lei, sulla sinistra, si vede Minerva (6) armata con la testa di Medusa, il cui sangue ha dato vita a Pegaso, il cavallo alato, cavalcato da Ercole (7). L’autore dell’opera afferma che Ercole era turbato dalla potenza e dalla forza morale del nuovo Dio, che presto avrebbe preso il sopravvento.
Andando poi a vedere le figure più a sinistra vediamo in primo piano Apollo (8) che lotta contro Marsyas, satiro e dio dell’omonimo fiume, questo scontro rappresenta il trionfo dell’intelligenza sulla bestialità. Questa scena si può paragonare al mito nel quale viene raccontato come Atena lanciò uno strumento musicale giù dall’Olimpo e Marsyas lo trovò e utilizzò, successivamente coloro che lo ascoltavano iniziarono a lusingarlo dicendo che avesse più talento persino di Apollo. Questa fama arrivò anche al Dio, che sfidò Marsyas e, come nel dipinto di Chenavard, Apollo ebbe la meglio sul satiro e le Muse scelsero lui come vincitore. Come punizione per aver sfidato un dio, Marsyas venne appeso a un pino e scorticato vivo.
Guardando poi in secondo piano vediamo Odino (9) appoggiato su un ramo di frassino e Heimdall che, con il suo corno, chiama gli altri dei del Nord a combattere.Sopra Odino si trova Diana (10), dea della caccia e della luna crescente, che scaglia le sue ultime frecce contro Cristo.
Andando ancora più in alto ci sono le tre parche (11), che tessono i fili della vita di ognuno, e poi colui che viene chiamato l’eterno Androgyne (12), è simbolo dell'armonia delle due nature o principi contrari, siede sulla chimera ed è riconoscibile grazie al cappello frigio. È l’unico personaggio dell’opera circondato da un nimbo, una luce posta intorno alla testa, che solitamente era utilizzata nell’iconografia cristiana; l’autore non espone il motivo di questa scelta ma lo si può immaginare come l’illustrazione della filosofia di Chenavard.
Questo quadro rappresenta non solo la morte dei gli dei antichi ma anche di Cristo stesso.
Sin da quando fu presentata, nel 1869, quest’opera suscitò diverse reazioni, da chi rimaneva incantato dal dipinto a chi, guardando il quadro, considerava l’autore una persona dalla mente confusa. Appena entrata nella stanza dove è tenuto ho pensato che fosse puro caos, ma magnifico. In conclusione, quando si va al Musée d’Orsay, una tappa fondamentale per rimanere estasiati è la stanza in cui si trova la Divina Tragedia di Paul Chenavard.
Alice ScuriFrancisco Goya è stato un pittore collocabile storicamente a cavallo tra Settecento e Ottocento. Non solo pittore, ma anche incisore, con un serio odio per le… mani – ma di questo ne parlerò più avanti.
Goya nacque nel 1746 e morì nel 1828, alla veneranda (per l’epoca) età di 82 anni; fin da giovane decise di voler essere un pittore e, per sua fortuna, era dotato di molto talento, tanto che, dopo pochi anni da apprendista a corte, diventò collaboratore del pittore Francisco Bayeu e, nel 1770 circa, venne incaricato di dipingere diversi affreschi per i reali – e qua iniziano i problemi. Infatti, prima di fare gli affreschi. Goya doveva sottoporre le sue idee sotto forma di bozzetti per verificare che andassero bene; ma molti suoi schizzi vengono bocciati, e non per mancanza di talento, bensì perché Goya voleva ritrarre una verità scomoda per i reali di Spagna. Infatti, gli affreschi avrebbero dovuto raffigurare la quotidianità mondana del popolo spagnolo; solo che la gente comune non se la passava poi così bene… e Goya lo sapeva, e voleva che fosse mostrato nei suoi dipinti.
Per esempio, uno dei bozzetti che venne rifiutato rappresenta dei bambini trasandati che, sotto la finestra di un nobile, si contendono delle castagne che quest’ultimo gli lancia (immagine 1) un altro rappresenta dei bambini che “giocano” a fare la guerra (immagine 2), bocciato anch’esso perché, ovviamente, il re non voleva che rimanesse un perenne ricordo della povertà popolana, venivano preferiti dei quadri che rappresentassero sia i nobili sia il popolo in una convivenza cordiale e felice, come nel quadro Le fioraie (immagine 3). In questi quadri di Goya possiamo notare i primi segni di quello che noi definiamo romanticismo: l’analisi razionale della realtà e l’introspezione psicologica (nonostante siano ancora presenti gli strascichi del rococò).
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Ma ora consideriamo una caratteristica peculiare di questo artista: egli riteneva che le mani fossero la parte più complicata da disegnare e dipingere e, quindi, quando gli veniva chiesto un ritratto (cosa che accadeva spesso, visto che era pittore di corte) il prezzo cambiava in base alla volontà o meno del nobile in questione di farsi ritrarre anche le mani (o meglio, dipendeva se il nobile poteva permettersi di pagare pure per includere anche quell’elemento nel quadro ). Infatti in molti ritratti Goya ricorre a degli escamotage per non dover giustificare la mancanza delle mani (immagine 4).
Proseguiamo ora con l’analisi di altri elementi peculiari dell’opera del pittore spagnolo. Le idee illuministe iniziano a fare leva su Goya che, verso la fine del Settecento, diventa ancora più critico sulla società, iniziando a lavorare su una serie di dipinti che dal nome possono sembrare innocenti come per esempio Il manicomio (immagine 5) che, in realtà, non rappresenta la vita in un manicomio, ma la stessa società ottocentesca nella sua versione “folle”, come se non fosse altro che un insieme di gente fuori controllo;oppure, in altri quadri di questa serie (chiamata Cuadros de fiestas y costumbres), critica alcuni costumi e usanze particolari del suo Paese, come per esempio quella dei flagellanti (per chi non lo sapesse, i flagellanti sono persone di diversi ordini religiosi,spesso frati, che usavano come mezzo di penitenza e devozione quella di autoflagellarsi pubblicamente. Spesso venivano organizzate questo tipo di processioni in periodi difficili per chiedere la grazia a Dio). Infine, Goya è molto famoso per I capricci una serie di circa 80 incisioni, dove la sua critica si inasprisce ulteriormente , probabilmente anche per via della malattia che, in quegli anni, lo aveva portato alla sordità. Le incisioni sono state fatte con una tecnica molto particolare, cioè con l'acquaforte e l’acquatinta: in breve, questa tecnica prevede l’utilizzo di una lastra in metallo (Goya utilizzava il rame) ricoperta di un prodotto (in questo caso la cera) in grado di proteggerlo dall’acido successivamente bisognava “incidere” nel prodotto i disegni che si volevano stampare e poi immergere la lastra nell’acido e lasciare che questo corrodesse i punti scoperti; una volta estratta sarebbe bastato metterci l’inchiostro e stamparla su un foglio (volendo le lastre si possono anche riutilizzare, per questo spesso dopo la stampa gli artisti le distruggevano. Per fortuna, non Goya!). Una delle incisioni più significative è ¿Si sabra más el discípulo? (immagine 6), dove Goya raffigura l’insegnante e lo studente come asini, per simboleggiare che, se l’insegnante non è in grado di trasmettere più la sua materia, anche l’alunno rimarrà ignorante quest’ultimo, infatti, è ancora alla lettera A, la prima dell’alfabeto, come a indicare la sua scarsità di conoscenze.
La conclusione della sua vita è drammaticamente segnata dal fatto che la sua visione del mondo e del compito del suo lavoro artistico lo porterà a doversi allontanare dai reali e dalla corte e, successivamente, a stabilirsi in Francia (dalla figlia, a Bordeaux) dove morirà; eppure, anche in questo periodo, non smetterà mai di dipingere e, anzi, scoprirà persino un’altra tecnica artistica di stampa, la litografia.
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Prima di tutto, come voi penso possiate intuire, El greco non è il vero nome di questo pittore: no, si chiamava Dominikos Theotokopoulos.
Nacque in Grecia nel 1541, venne prima in Italia, dove si farà chiamare Domenico Greco e poi si stabilì a Toledo; in spagnolo “il greco” si direbbe “El grieco” e, di fatto, veniva chiamato così ma, per qualche strana ragione, col passare dei secoli, è rimasto nella storia con questo nome mezzo in spagnolo e mezzo in italiano.
El Greco si può definire figlio del suo tempo di fatto solo per ciò che raffigurava; infatti, egli vive gli anni della Controriforma (Che cos’è la Controriforma? in breve, per chi non se lo ricordasse: il protestantesimo inizia con il pensiero e l’azione del monaco tedesco Martin Lutero che ritiene erronei o da correggere alcuni elementi dottrinali e disciplinari della chiesa cattolica, mettendo a nudo la sua corruzione; la chiesa di Roma allora dà vita a una risposta che, riprendendo una serie di dinamiche già esistenti precedentemente nella chiesa stessa, si concentra su una serie di provvedimenti per cui viene chiamata “controriforma”, esercitando un controllo su aspetti dottrinali e disciplinari in ottica antiprotestante e spingendosi anche a imporre una linea sull’arte).. El Greco, a parte alcuni momenti in cui si concentrava sulla ritrattistica, si sarebbe poi occupato di raffigurazioni religiose (come era solito per gli artisti dell’epoca); ma, per quanto riguarda il suo stile, non può essere paragonato a nessun autore del suo tempo come Caravaggio, Tiziano, Michelangelo, autori con cui si confronterà e a cui si ispirerà per alcune sue opere , senza però mai rappresentare i soggetti come facevano loro perché non era il suo metodo. Infatti, El Greco non avrà particolarme fortuna in vita: per esempio, la sua ambizione era di diventare pittore alla corte del re di Spagna, ma al re non piaceva il suo stile e, per molto tempo, El Greco venne snobbato, fino all’arrivo dei surrealisti (come Salvador Dalí), per i quali invece egli diventerà ispirazione e modello da imitare; però, come forse ben saprete, il surrealismo è un movimento artistico arrivato nel Novecento, quasi quattro secoli dopo l’epoca del nostro pittore. Quindi possiamo dire che El Greco è stato un pittore vissuto nell’epoca sbagliata, troppo innovativo per essere apprezzato quanto avrebbe dovuto (ma tranquilli che il suo ego non ne ha risentito… anzi, ho paura di sapere cosa avrebbe pensato, detto e fatto se fosse stato riconosciuto meglio il suo talento).
Ora però andiamo con ordine, riprendendo il filo della sua vita e approfondendo gli elementi principali della sua cifra artistica. In Grecia, ovviamente, apprende il più possibile dalla famosissima arte bizantina, che, probabilmente, è stata la causa del suo stile così differente dai pittori dell’epoca; per esempio, manterrà i colori sgargianti e i punti luce evidenti tipici proprio di quell’arte bizantina, Il trittico (immagine 1) fa capire molto bene lo stile di El Greco, ma dobbiamo ricordare che, nel Cinquecento, in Grecia c’erano i veneziani e sono proprio loro che lo spingono ad andare in Italia, all’inseguimento del suo sogno. El Greco voleva conoscere i grandi artisti e superarli. Così arriva a Venezia e si confronta con Tiziano; anzi, si pensa che El Greco abbia pure frequentato la bottega del celebre pittore veneziano ma non si è sicuri. Di certo è stato in contatto con le sue opere: un esempio è la sua rappresentazione di San Giovanni Battista (immagine 2) che ricorda molto quella di Tiziano, solo che, mentre quest’ultimo disegna un San Giovanni in ottima forma, El Greco lo rappresenta come è molto più probabile che fosse stato dal punto di vista di un realismo biografico (ricordiamo che, nella tradizione delle Scritture e nell’iconografia dell’arte, San Giovanni Battista era un eremita e un asceta). Sempre a proposito di San Giovanni, possiamo notare che El Greco ne raffigura il personaggio numerose volte, e questo fatto è sempre legato alla Controriforma, infatti i protestanti rinnegavano l’efficacia reale dei sacramenti e San Giovanni è l’emblema del battesimo, in più i protestanti non riconoscevano la sacralità rappresenta dalle figure dei santi; un fatto interessante, però, è che la famiglia di El Greco era ortodossa, quindi è difficile capire se lui si sia veramente convertito al cattolicesimo o se abbia solo finto una conversione per avere più agevolazioni e quindi ottenere maggior visibilità e quindi fama: infatti, El Greco rappresenterà poche volte una Madonna allattante, perché la Madonna era la figura pudica per eccellenza e raffigurarla col seno di fuori sarebbe stato visto come un atto di cattivo gusto; oppure pensiamo alla Maddalena, spesso raffigurata a seno scoperto; El Greco decide di vestirla, sempre forse per l’influenza della Controriforma. Siamo invece certi che abbia frequentato il circolo del cardinale Alessandro Farnese e, proprio qui, iniziamo a capire un altro tratto della personalità non facile di El Greco: infatti, il motivo per cui si allontanò in seguito dalla bottega fu per alcune frasi che lui diceva in pubblico, perché El Greco riteneva di essere molto più bravo di Michelangelo (ricordiamoci che quest’ultimo era, in quegli anni, l’artista forse più riconosciuto e osannato per la sua bravura) e si offrì pure di dipingere nuovamente la Cappella Sistina sostenendo che “Michelangelo era una brava persona, ma non un gran pittore”. Per dare prova della sua superiorità, diverse volte si ispirerà o riproporrà quadri di Michelangelo: un esempio è il suo Cristo in croce (immagine 3), una sua opera molto famosa, anche perché si può notare molto quel famoso senso di allungamento in verticale che El Greco cerca di dare ai suoi personaggi; poi, nella figura del Cristo con lo sguardo rivolto verso l’alto si può percepire tutta la passione e il dolore della scena – per non parlare di come la figura sembri essere quasi iridescente rispetto allo sfondo scuro della tempesta. Ma nonostante nel corso del tempo cerchi di conformarsi sempre di più alle regole e ai canoni della sua epoca e della zona del mondo in cui agisce, si può sempre notare un richiamo alla tradizione bizantina, come nella sua famosa Veronica col velo in mano (immagine 4). Questo perché il significato stesso del nome Veronica, “vera icona”, riporta all’iconografia, tipica dell’arte bizantina, che indica che la faccia di Cristo raffigurata nel velo sia proprio la sua, quindi per questo si dice che è la vera icona, la vera raffigurazione. Infatti, El Greco non sceglie a caso di raffigurare la faccia in modo che non segua le pieghe del velo, ma fa sì che compaia appositamente come un qualcosa di trascendente, qualcosa che vada oltre il velo stesso. Purtroppo il suo stile lo porta ad abbandonare non solo l’Italia, ma anche la corte spagnola; solo a Toledo riuscirà ad ottenere il riconoscimento che merita, e, anzi, pare che El Greco si fece pagare non poco per le sue opere di quel periodo.
L’artista morì nel 1614 e, se non fosse stato per i surrealisti, forse anche la sua arte e il suo stile sarebbero stati dimenticati insieme al suo nome.immagine 1
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Sofia Rebagliati
«Chi siamo noi? Quale parte di noi può essere definita effettivamente “noi”? Come possiamo capirlo? Il “vero io” esiste veramente o è una leggenda come il One Piece? Tutti questi quesiti rientrano nel grande insieme delle fantomatiche domande di senso alle quali si è sempre cercato di dare una risposta. Per quanto mi riguarda, dall’alto della mia adolescenza e 5 ore scarse di P.C.T.O., sarebbe giusto un poco presuntuoso, o meglio, penoso da parte mia cercare effettivamente di sciogliere questi dubbi. Non essendo, evidentemente, la persona più adatta a determinare cosa sia il “vero io”, ciò che mi limiterò a fare è un confronto da puro osservatore esterno tra opere che hanno effettivamente cercato di definirlo, questo fantomatico “vero io”.
Le produzioni considerate, come pure i loro autori, sono temporalmente e geograficamente molto lontane tra di loro ed è forse anche per questo che presentano parecchie differenze, prima fra tutte la risposta definitiva al quesito in esame. Ho notato, tuttavia, con curiosità che ci sono anche molti punti in comune e mi ha stupito ed affascinato vedere come le idee di due individui così distanti possano avvicinarsi tanto.Arriviamo però al dunque: questo fantomatico “vero io” esiste? Per il primo autore chiamato in causa, non proprio.
Si tratta di uno dei più grandi autori italiani del Novecento, Luigi Pirandello, e il tema dell’apparente inesistenza di un sé autentico è ricorrente nei suoi scritti. A tale proposito, mi servirò di alcune delle sue produzioni per convalidare la mia tesi. La prima di cui tratto è una novella del 1911, trasposta poi in una commedia di un atto nel 1917, intitolata “La Patente”. essa narra delle vicissitudini del povero Rosario Chiarchiaro, un semplice impiegato al quale viene affibbiata ingiustamente l’etichetta di iettatore e che per questo sporge denuncia per diffamazione. Nel corso della narrazione, tuttavia, il protagonista si accorge di poter guadagnare grazie alla sua infelice situazione e decide dunque non di vincere il processo, ma, al contrario, di determinare inequivocabilmente di essere uno iettatore, ottenendo così la sua “patente”. Questa storia, apparentemente così ilare, cela in realtà una considerazione molto interessante su come gli uomini percepiscono sé stessi e le altre persone, cioè che tutti indossano delle “maschere”. Ovviamente non si intende che Pirandello pensava di essere sempre nel carnevale e che la gente andasse in giro vestita da Teletubbies o Tartarughe Ninja (anche perché nella sua epoca non c’erano), ma credeva che le persone, quando incontrano qualcuno, impongano inevitabilmente a tutti una maschera, un giudizio basato unicamente sulle proprie prime impressioni espresso ancora prima di conoscere l’altro: un pregiudizio. In riferimento a “La Patente”, il pregiudizio nei confronti del protagonista è che sia uno iettatore. Dato che, però, non è stato ancora inventato un modo per uccidere le idee, è molto difficile sradicare alcuni preconcetti dalla mente delle persone. Pirandello ci tiene, tuttavia, a sottolineare che gli uomini non sono un branco di vittime ingenue, ma che sanno perfettamente di indossare delle maschere, in quanto tutti si accorgono di essere costantemente giudicati da chi li circonda. Nei suoi lavori si prendono dunque in considerazione situazioni surreali ed estreme che mostrano il comportamento di alcuni uomini ossessionati da questo “filtro”. Ad esempio ne “La Patente”, il protagonista decide di accettare il pregiudizio, di indossare la maschera e di abbandonare la sua vera identità per diventare quello che tutti avevano sempre pensato che fosse. Al netto di tutto, sorge giusto un piccolissimissimo problema: se Rosario avesse deciso di lottare per la sua vera identità, screditando l’immagine di iettatore, cosa sarebbe rimasto di lui? Quale vera identità avrebbe difeso? Il suo” vero io”? E, quindi, ritornando alla domanda di partenza, il “vero io” esiste? Fortunatamente, Luigi Pirandello era un vero Giga Chad peggio di The Rock e non solo ha risposto a questa domanda, ma lo ha anche fatto in maniera a dir poco esaustiva. (Ci ha scritto giusto un intero libro a riguardo e due drammi teatrali rivoluzionari per l’epoca. Così. Tanto per. Ci teneva). Credo che, a questo proposito, una delle opere più significative da citare sia il suo capolavoro “Uno, Nessuno, Centomila”, romanzo del 1909 in cui si analizza proprio cosa succederebbe se qualcuno decidesse di levarsi tutte le maschere che gli sono state imposte; Che cosa rimane? Per Pirandello, non rimane nulla. Niente. Nada. Nothing. Il vuoto cosmico. Insomma, a suo parere, quello che siamo è puramente una somma di tutte le impressioni che ciascuno ha di noi e il nostro “vero io” non esiste propriamente, quanto più si crea, si forma e si modifica nel corso della nostra vita entrando in contatto con sempre più individui diversi. Non so gli altri, ma a me, quest’idea che probabilmente “noi” non esistiamo ha fatto salire un po’ di ansietta.
Parlando di ansia, l’opera che ho deciso di confrontare con quelle di Pirandello è “Neon Genesis Evangelion” anime del 1995 ideato da Hideaki Anno, causa di un buon 40% dei miei traumi.
Naturalmente non intendo paragonare l’interezza della serie animata (tra robottoni, ragazzini con traumi pesanti, riferimenti filosofici e alla fede ebraica e chi più ne ha più ne metta) a storie di uomini di mezza età italiani con crisi esistenziali di inizio Novecento. Per quanto sembri assurdo, vi è tuttavia un passaggio costituito dagli ultimi 20 minuti dell’episodio conclusivo della serie nipponica che riprende molto la visione di Pirandello.
La storia segue le vicende del quattordicenne Shinji Ikari, un ragazzino complessato che vive nella città di Tokyo 3 che si troverà a combattere la minaccia "aliena" degli Angeli come pilota del mecha Eva01 assieme ad altri ragazzini altrettanto complessati (di cui uno è la terza versione di un clone nato in laboratorio della mamma di Shinji, ma dettagli). Questa sintesi è estremamente riduttiva in quanto nel corso nella narrazione diventerà sempre più importante il piano filosofico e introspettivo del protagonista, che culmina con la sua epifania. È proprio il processo per arrivare a questa illuminazione che rappresenta, a mio parere, un punto di convergenza con le opere di Pirandello. Infatti, è quasi come se Shinji "attraversasse" degli "stadi di accettazione" delle maschere dell'autore italiano. In un primo momento, il ragazzo precipita in una spirale di autocommiserazione dovuta all'odio per sé stesso (come se non si fosse fatto schifo da solo per tutto il resto della serie…). I personaggi che lo hanno accompagnato nel corso delle vicende gli appaiono quasi come se fossero delle visioni che cercano di rassicurarlo. Un concetto importante che esprimono è il fatto che la verità, essendo dettata dell’animo, è soggettiva e, anche se cambia da individuo a individuo, è una e una sola per ciascuno. (Il che mi ricorda vagamente Socrate, ma forse il problema sono io e mi sto facendo troppi viaggi mentali. Uno alla volta). Di conseguenza, il punto di vista dal quale si osserva la realtà modifica la realtà stessa e ciò si applica anche con le persone. A questo punto Shinji si chiede dunque se tutto quello che aveva fatto, tutto quello che era, fosse effettivamente "lui" o se fosse solamente uno strumento per fare sì che gli altri lo identifichino, un atteggiamento coerente con la sua persona secondo, però, la visione altrui. Non sa se la realtà degli altri abbia deviato la sua. Questo lo porta ancora più in crisi e giunge alla conclusione che odia sé stesso, e che odia sé stesso non tanto perché sia effettivamente così, quanto più perché era quella la visione di lui che avevano le persone che lo circondavano. La ricaduta di Shinji è quindi dovuta alla presa di coscienza del fatto che, forse, fino a quel momento aveva indossato una maschera, che era qualcuno diverso dal “vero lui”. Ma se il suo modo di essere dipendeva dalla considerazione altrui, significava che gli altri pensavano fosse corretto che si odiasse e che tutti lo odino a priori.
Dato che l’autostima del povero protagonista era ormai tendente a meno infinito e peggiorare ulteriormente la situazione era impossibile, Shinji comincia a compiere i primi passi verso la sua epifania. Sempre grazie all'intervento dei suoi amici, si rende conto che non è veramente disprezzato da tutti, ma dato che era abituato a non aprirsi con il prossimo per paura di non piacere, non dava modo all’altro di conoscerlo a fondo e apprezzarlo. Come avviene in "Uno, Nessuno, Centomila", Shinji si accorge di conoscersi molto meno di quanto pensasse, di essersi autoconvinto di una sua convinzione (della serie Nolan levati proprio). Conseguentemente, decide di rivelare e liberare il “vero sé stesso”, di togliersi tutte le maschere, giungendo di fatto ad una illuminazione improvvisa: Shinji, alla fine, capisce che fino a quel momento la paura di essere odiato e il giudizio che aveva di sé gli precludevano di apprezzare i lati positivi della vita ed essere effettivamente il suo "vero io". Tali riflessioni rispecchiano degli eventi di vita vissuti realmente dall'autore della serie, come da lui confermato. L'ascesa di Shinji è in qualche modo la rappresentazione del riscatto di Anno in seguito al suo periodo di profonda depressione.
Alla luce di queste considerazioni è inutile dire che le risposte date al quesito del "vero io" da parte di Luigi Pirandello nelle sue produzioni e da Hideaki Anno tramite Neon Genesis Evangelion siano fondamentale opposte, ma ho trovato particolarmente interessante il fatto che per entrambi la visione che gli altri hanno di noi sia estremamente essenziale nel definire chi siamo. Da una parte, senza le maschere, senza il giudizio altrui, noi non siamo nessuno (vedasi il bisogno smodato di apprezzamento monetizzato da social come instagram), dall'altra, proprio perché ci rendiamo conto dell'effetto del giudizio altrui sul nostro modo di essere possiamo effettivamente trovare il nostro "vero io".»
Matilde De Giorgi
Grazie al suo trattatello “l’Arte di ottenere ragione” Schopenhauer ci ha svelato che per vincere in una discussione non bisogna per forza dire sempre la verità, anzi, in questa società così corrotta non esiste alcuna verità se non che apparenze, e quindi noi, per avere in pugno quella “verità”, dovremmo apparentemente portare con noi argomenti veritieri e convincenti. A noi non interessa sapere la verità, interessa avere ragione perché noi siamo malvagi di natura! Quello che ci porta a sopraffare l’altro avversario è la nostra innata dialettica, spinta dal nostro ego. Saranno infiniti gli stratagemmi, ma il nostro caro Shopi ne ha 38. Quelli da non dimenticare…
Stratagemma numero 8: Ira. Fare arrabbiare l’avversario, così si diminuisce la sua capacità di ragionare lucidamente.
Stratagemma numero 12: Nomi favorevoli. Usare parole che hanno già in sé una connotazione, spesso più emotiva che razionale, positiva di ciò che si vuole sostenere o negativa di ciò che si vuole criticare.
Stratagemma numero 14: Sfacciataggine. A un certo punto si esclama in modo trionfante che l’avversario con le sue risposte ha dimostrato la tesi voluta, anche se non è affatto così. L’interlocutore timido e gli ascoltatori disattenti possono essere ingannati.
Stratagemma numero 16: Accusa di contraddizione. Si cerca una contraddizione, anche apparente, tra due affermazioni dell’avversario, o tra una sua affermazione e il suo atteggiamento.
Stratagemma numero 18: Sviare il discorso. Se l’avversario sta svolgendo un’argomentazione che lo porterà alla vittoria, bisogna impedirgli di concluderla, cambiando velocemente argomento.
Stratagemma numero 26: Ritorcere l’argomento avverso. Volgere l’argomento usato dall’interlocutore contro di lui. Es. “poiché è un bambino, bisogna pur concedergli qualcosa”, “proprio perché è un bambino, bisogna punirlo”.
Per le strade di Ferizaj, nel Kosovo orientale, mi è capitato di incontrare un soldato americano, James McDallis (ovviamente è nome di fantasia), attivo nella base americana di Camp Bondsteel per sostenere i civili nel conflitto in Ucraina, scaturito dall’occupazione militare russa da parte del presidente russo Vladimir Putin , e tutto d'un fiato, dopo una giornata di dura gavetta militare, mi disse:
JOSHUA: Chiunque tu sia, hai visto che disastro stanno facendo quei bast***i dei Russi qui in Ucraina, che per poco non arrivano alla terza guerra mondiale…
Da qui è iniziato un dibattito (quasi una lite) che tocca un argomento che, per non so quante volte, non sono riuscito a rendere convincente a nessuno. In sostanza, quello che vorrei far capire a chi mi ascolta è che Putin, lo zar di Russia, ha preso una decisione particolarmente onorevole sia per la Russia che per l’Ucraina stessa, ovvero quella di occupare i territori ucraini con lo scopo di imporre la propria potenza nel paese. Dall’altra parte, come si può ben capire, Joshua, il mio avversario, condanna in ogni forma l’attacco dei Russi in Ucraina. Dunque, il mio scopo è convincerlo usando le sue stesse parole contro di lui, provocando anche sul pesante e verificando che non si contraddica da solo nei suoi ragionamenti e nei fatti a essi collegati.
IO: Se tu mi dici “guerra”, io ti dico invece che questa è una “missione militare speciale” (STRATAGEMMA N°12) da parte della Russia, che ha il solo dovere di riprendersi l’Ucraina, sua sorella slava, assieme alla Bielorussia, per riportare l’ordine che vigeva prima del 1991 con URSS, di gran lunga più organizzato della Russia odierna.
JOSHUA: Per fortuna, almeno noi americani stiamo contribuendo per aiutare il popolo ucraino contro i Russi, ma quelli che veramente hanno fatto la differenza fino ad adesso sono quelli della Nato, ai quali ho prestato servizio per un pò di anni prima di questa tragedia e conosco anche le loro regole fondamentali…
IO: Ma non avete ancora capito, voi americani e voi tutti europei, che state invadendo un paese che non vi riguarda in nessun modo, non ti ricordi che cosa dice l’articolo 5 della Nato, tu che sei “quello esperto”? (STRATAGEMMA N°16)
JOSHUA: Si, mi sembra di ricordare che dicesse così: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti”
IO: ahah! l’hai detto! Gli Americani allora non rispettano le stesse regole che impongono, perché la Nato sta intervenendo in Ucraina come se essa ne fosse già membro, ma non è affatto così! (STRATAGEMMA N°16-26)
JOSHUA: C’è da dire che anche la Russia fino al 1962 ha schierato missili sovietici a Cuba, quindi siamo alla pari…
IO: e a questo aggiungerei che gli Stati Uniti hanno giurato di non invadere più Cuba e di lasciare alcune delle loro ignobili basi militari in Europa…(STRATAGEMMA N°26)
JOSHUA: Dai, finiamola qui, sennò faccio tardi per cena…tu continua a parlare ai muri, e io me ne vado con la coscienza pulita…
IO: No, no, no…ti voglio fare un’ultima domanda per vedere se adesso stai dalla mia parte. Voi americani vi dichiarate così pacifisti e caritatevoli nei confronti di chi aiutate, ma siete soltanto degli stupidi ipocriti!…!
JOSHUA: ma che idiozie stai dicendo, vorrei farti a brandelli adesso, brutto s****
IO: …Prima iniziate con la storiella dell’isolazionismo, poi ficcate le vostre antipatiche basi militari dove piffero volete voi, persino in America Latina e in Asia, controllando totalmente la vita di milioni di persone nel mondo. Perchè volete imbrogliare la gente con le vostre promesse fasulle di aiuto umanitario?(STRATAGEMMA N°8-18)
JOSHUA: ma il povero popolo ucraino sta patendo la fame e sta vivendo in condizioni logoranti, mi dispiace, non capisci?…
IO: Il vero fatto è che a voi non importa il senso del gesto, ma lo fate soltanto per ottenere in cambio soldi che presto addebiteranno l’Ucraina, come è successo in alcuni paesi europei dopo la prima guerra mondiale. (STRATAGEMMA N°16)La vostra influenza occidentale non è più gradita dalla Russia, se l’Ucraina riuscirebbe ad entrare nella Nato vi sarebbe uno scontro che andrebbe ben oltre la guerra nucleare, per questo l’Ucraina deve essere dei Russi, e non altrimenti
JOSHUA: ma se l’Ucraina sta soltanto chiedendo indipendenza…
IO: L’Ucraina è sorella della Russia, perché i Russi di oggi discendono dai Rus’, che si stanziarono nei pressi dell’odierna Kiev, e dunque gli ucraini sono russi, e viceversa.(STRATAGEMMA N°14) Devono accettare di essere con i suoi stessi nemici, infatti le regioni del Donbass stanno chiedendo l’annessione alla Russia come prova di fratellanza tra i due popoli.
JOSHUA: Basta! mi hai convinto. Allora gli Ucraini fanno finta di essere europei, ma in realtà devono accettare le loro origini sovietiche
IO: Siete voi americani e Europei che alimentate il fuoco di una guerra tra russi, e per colpa vostra questa carneficina non avrà fine per lungo tempo. Questa è solo una missione militare speciale per salvare i loro stessi fratelli ucraini e vendicare il fastidioso influsso americano in Europa. Malanno a voi!(STRATAGEMMA N°8)
…Ecco una situazione in cui potreste trovarvi anche voi, non è stato facile averla vinta in questo accanito scontro dialettico, ma grazie agli stratagemmi siamo riusciti a far valere un punto di vista al dir poco singolare e raro sulla guerra in Ucraina di fronte a quello che la gente dice, che questa guerra è sbagliata da parte dei Russi e punto.
Quelli che si schierano dalla parte di Putin siano certi di ottenere ragione…
Giulia Boschetti
L’homo Sapiens Sapiens possiede la verità di una terra veramente gaia? Oppure c'è qualche cretino che pensa di essere un super-eroe per avere la felicità da questo mondo così pieno di false credenze e morali che sembrano incollarsi come la cera alle bocche di chiunque? Solo la potenza di Friedrich Nietzsche e la rivoluzione copernicana di Sigmund Freud, nella loro totale armonia, ci fanno veramente comprendere che quello di cui siamo certi è una palese menzogna: la coscienza è sottomessa al misterioso inconscio erotico, la felicità è infelice e la verità… Dio è morto…!
Giulia Boschetti
Chi è Joan Mirò? Semplicemente uno dei più grandi artisti spagnoli mai esistiti., Sia pittore che scultore, come spesso succede con i personaggi importanti della storia, all’inizio della sua carriera non fu certo facilitato: i suoi genitori non erano molto felici della sua aspirazione di vita tanto che lo costrinsero infatti a studiare economia. E che cosa accadde? Beh, dopo che lo videro avere un esaurimento nervoso a 18 anni, i suoi non se la sentirono di far continuare il figlio su una strada che lo stava distruggendo mentalmente. A 27 anni, allora, andò a Parigi, dove incontrò Picasso e si unì alla corrente artistica del dadaismo, ritornando a Barcellona (la sua terra natia) solo negli anni ‘30. Ma, con l’inizio della guerra civile spagnola, decise di scappare e tornarsene nuovamente a Parigi, dove però, purtroppo, sappiamo bene che, di lì a poco, scoppiò la Seconda guerra mondiale. Mirò si trovò allora a “scegliere” tra i due dittatori Francisco Franco e Hitler (...di male in peggio, eh?)... Alla fine optò per la Spagna, dove sarebbe poi restato fino alla sua morte, nel 1983.
E ora che vi ho fatto una bella infarinatura sulla vita, possiamo passare alle opere (i dipinti che vi mostrerò si trovano tutte nella fondazione Mirò di Barcellona; nel caso voleste andare andare a vederli, vi consiglio di tenere a portata di mano quest’articolo, perchè l’audioguida funziona malissimo).
La prima di cui voglio parlarvi si chiama L’oro dell’azzurro.
Di quest’opera, in realtà, non c’è un'interpretazione definita: si pensa che rappresenti il rapporto tra l’universo e l’uomo; in più, Mirò associava al colore blu i sogni. Ma il vero motivo per cui vi ho voluto parlare di quest’opera è legato al fatto che spesso le persone pensano che alla base della creazione di questi quadri non vi sia chissà quale riflessione;, in realtà, Mirò aveva realizzato uno schizzo di questo quadro ben due anni prima di realizzarlo.
Poi abbiamo un’opera dal titolo infinito: Il cielo dischiuso ci ridona speranza.
Lo sfondo della tela è fatto per suggerirci dei disegni rupestri, mentre in bella vista abbiamo delle mani, rappresentate in più punti del quadro. Egli, infatti, con quelle mani anonime, appartenenti a persone di epoche e di lavori diversi, dai cavernicoli ai contadini di campagna, voleva simboleggiare la vicinanza, la connessione e la voglia di conoscere (e conoscersi) .
Proseguiamo ora parlando di un’opera realizzata con un materiale totalmente diverso:
mi riferisco all’arazzo della Fondazione (in caso non l’aveste intuito dal titolo, è stato fatto appositamente per la Fondazione Mirò). Questo arazzo rappresenta una donna con lo sguardo rivolto verso l’alto. Il disegno è fatto con la lana, lavorata in modi diversi in base all’effetto desiderato: per esempio, in alcuni punti sembra quasi che la lana coli come vernice. Mirò scoprì là versatilità della lana nell’arte abbastanza tardi, purtroppo. Questo non significa però che non sperimentasse: il quadro uomo e donna davanti a un cumulo di escrementi.
È infatti realizzato in olio su rame e rappresenta tutta l’inquietudine del pittore, in questo scenario che pare post-apocalittico(il quadro è stato realizzato un anno prima dello scoppio della guerra civile spagnola, come a intuire il disastro che sarebbe avvenuto). Il cumulo di escrementi dovrebbe invece essere un omaggio a Rembrandt (un pittore fiammingo del Seicento) che ha affermato di trovare diamanti e rubini negli escrementi.
Siamo giunti alle opere legate alle fasi finali della vita dell’artista. A ormai ottant’anni, Mirò crea una serie di opere chiamate “tele bruciate”,
per lanciare un messaggio a chi vedeva nella sua arte solo un modo per guadagnare e non l’autentica passione di un artista. Queste tele – che alcuni definivano “quadri ornamentali” – sono fatte con colori e benzina e, nelle poche parti di quadro che riusciamo a vedere, ci sono delle figure martoriate, probabilmente mercanti d’arte.
Per finire, voglio parlarvi della mia opera preferita: Il sorriso di una lacrima.
Sì, perché, per Mirò, ogni cosa rappresenta anche una parte del suo opposto: in questo caso un sorriso contiene in sé anche una lacrima, appunto. In realtà questo non è il suo ultimo quadro… Il motivo per cui ho deciso di metterlo qui è legato al fatto che Mirò, quando non riuscì più a dipingere quadri per via dell’età, continuò comunque a disegnare e riprese proprio questi paesaggi.
Sofia Rebagliati
Lo spazio, le galassie e tutte le infinite cose presenti al suo interno: sono troppo eterne per essere descritte da semplici e insignificanti esseri umani che pensano solo a sé stessi. Il cosmo non parla, il cosmo non contiene anima viva eppure la sua bellezza è parecchio evidentemente ed è così che sono molte persone, dentro sono piene di meravigliose stelle ma fuori non traspare nulla. Io non posso dire di essere diverso da questo gruppo di individui, ma non sono stato sempre così. Da piccolo ho vissuto la classica infanzia che vive un bambino medio, andavo all’asilo, avevo degli amici e giocavo come un bambino normale. Come le api ti rovinano per qualche attimo la meravigliosa passeggiata di campagna anche io avevo il mio insetto che mi girava attorno: ho iniziato ad avere sintomi della mia attuale patologia a 3 anni. Ovviamente io non mi ponevo alcun problema – per quanto un bambino a quell’età ne possa sapere… – ma si sa che gli adulti sono molto più complicati e quindi innalzarono da subito dei muri davanti a me, muri che nemmeno avrebbero dovuto esserci. Da allora in avanti i miei sarebbero stati degli ottimi muratori di insicurezze. Sono sempre stato un bimbo solare, vivace e che aveva tanta voglia di vivere, ma forse questo ho capito che era più uno stratagemma per dimostrare che potessi essere indipendente nonostante tutto, nonostante tutti gli adulti che si occupavano di me, intenzionati a tenermi sotto una teca come se fossi fatto di ceramica.
Ho sempre avuto degli occhi bellissimi, talmente grandi che ti ci potevi persino specchiare l’anima, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di entrarci e di camminare sulle loro milioni di strade intrecciate dei miei pensieri contorti.
Mi stavo vivendo tranquillamente un giorno normalissimo della mia infanzia, ricordo che ero in prima elementare, quando mi trovavo in mezzo alle persone iniziavo a sentirmi male come se fossi di troppo, mi veniva da piangere e mi chiudevo in me stesso. ‘’Quello che hai sentito e senti tutt’ora sono attacchi di ansia, la causa è tua madre’’ queste sono le parole che mi avevano tirato fuori da tutte le mie inquietudini ma che mi avevano lasciato un bel segno sulla pelle, come una cicatrice.
Ero perfettamente cosciente della mia disastrosa situazione con i miei genitori - mio padre che c’era ma non era presente, mia madre che mi insultava anche per la mia disabilità - ma non avrei immaginato di arrivare a questo punto, la cosa più terrificante è che sentivo di essere stato quasi manipolato da così tanto che ero arrivato a pensare che quello che avevo passato fino ad allora fosse normale, che anche i figli di altri genitori iperprotettivi fossero felici di essere trattati così.
Ho sempre amato uscire con gli amici, socializzare, visto il mio carattere molto estroverso, esplorare e fantasticare, ma purtroppo ero intrappolato in un loop nel quale io non potevo avere amici e la mia batteria sociale era quasi a zero, non riuscivo a vedere più un motivo per il quale avrei dovuto uscire dalle quattro mura di casa.
C’è da dire che da poco più di un anno i miei genitori si sono separati e quindi una parte dei miei problemi sembrerebbero essersi risolti, ma ne rimane ancora uno: come faccio ad essere di nuovo felice come solo io posso sapere? A questa domanda nel 2022 non avrei saputo rispondere ma per fortuna nella mia vita il detto ‘’anno nuovo vita nuova’’ ha acquistato senso.
Ho sempre capito di essere un ragazzo diverso, mi trovavo meglio con gli adulti perché i ragazzi della mia età mi sembravano un po’ stupidi e immaturi: probabilmente avevo questa sorta di repulsione derivante dal fatto che l’esperienza mi ha portato a crescere in fretta. Penso che tutto sommato questo mio atteggiamento e questa mia sensibilità a scuola non sempre siano stati così apprezzati. I precedenti anni delle superiori sono stati un inferno, non volevo andare a scuola perché mi sentivo alienato in quella classe di ragazze un po’ volubili che pensavano ai ragazzi, ad andare in discoteca, ai vestiti: cose normalissime in fondo, ma poi arrivavo io che ero alla ricerca di qualcosa di diverso e forse di più profondo, amavo fare lunghi discorsi e mi meravigliavo per le piccole cose… figurarsi a parlare ad uno strano come me. Come se non bastasse amavo rifugiarmi nella musica, le cuffie erano il mio piccolo angolo di pace ma ascoltando musica non proprio comune era più difficile parlarne con la maggior parte dei miei coetanei visto i loro gusti musicali verso autori più commerciali. Tanto per completare il mio disastro interiore, nel 2020 avevo iniziato a capire che la mia identità di genere non era più quella che mi avevano assegnato alla nascita, mi sentivo prigioniero del mio corpo e di tutte quelle fasulle e inadatte etichette che mi avevano appiccicato in fronte, neanche fossi una banana messa sul banco della frutta.
Avevo scoperto di essere queer e di volermi chiamare Ethan, al maschile, e questo non sempre viene visto bene e – soprattutto in Italia – si ostinano a vederti sempre con la tua vecchia pelle.
Dicevo, è andata così fino alla seconda metà di febbraio 2023, quando poi ho avuto la fortuna di incontrare due persone speciali. Premetto che non ho alcuna intenzione di fare nomi anche se magari si capirà lo stesso. Partiamo dal primo: è un detenuto venuto qui a scuola poco tempo fa con il quale ho voluto parlare in privato. Lui, dopo avermi raccontato la sua vita dicendomi anche delle cose molto forti, è riuscito a tirarmi fuori dal buio e farmi capire un mondo – che tra l’altro vorrei tanto potesse legarsi in futuro al mio lavoro – che mi sembrava così lontano sconosciuto ma che avevo iniziato a comprendere: il mondo del carcere. L’impatto importante che questa persona ha avuto su di me è come se mi avesse dato il carburante per dirigermi verso la strada della felicità e della riscoperta di me stesso. Gliene sarò sempre grato, come ho scritto nella lettera che gli ho mandato a inizio marzo. Io e lui condividiamo la stessa convinzione: non vale la pena tenersi tutto l’amore per se stessi quando accanto a noi c’è chi ne ha bisogno più di quanto non voglia farci credere. Mi manca ancora adesso a distanza di un mese e mezzo dal nostro ultimo incontro, e spero ci sarà l’occasione di rivederci presto in futuro.
Un’altra persona che mi ha – letteralmente – stravolto la vita è il mio docente di religione. Mi trovavo in una situazione piuttosto disastrosa sul piano psicologico e pensavo che lui sarebbe stato il mio ennesimo attaccamento emotivo e invece è stato la svolta: da oltre un anno non capivo più cosa fosse l’amore, l’essere amato e apprezzato per ciò che sono e non per come esprimo i miei sentimenti. Avevo ormai perso ogni speranza, ma lui mi ha fatto ricredere. Non è corretto definirlo odio, ma in un certo senso era come se ripudiassi le persone religiose per il semplice fatto che mi mandavano benedizioni solo perché facevo loro pena e su questo, grazie a lui, sono diventato più tollerante.
Io solitamente per esprimere i miei sentimenti senza fare confusione quando parlo scrivo le lettere, così avevo deciso di scriverne una anche a lui e di mettergli un segnalibro fatto da me del mio colore preferito e ho scritto ‘’così avrà un bel ricordo di me’’. A scuola, poi, cogliendo il momento giusto, mi ha regalato un suo rosario – proprio del mio colore preferito! – ripetendomi la stessa frase che avevo scritto nella lettera che gli avevo indirizzato. Ora lo ho infilato attorno alla manopola che uso per guidare la mia carrozzina, così sarà sempre con me. Credo che lui sappia benissimo quello che è riuscito a risvegliarmi, facendomi uscire da un vero e proprio loop nel quale ero caduto da un pezzo.
Per concludere voglio dire che sinceramente non mi aspettavo di trovare la felicità in un posto come la scuola, un posto che talvolta può apparire così opprimente, ma mi dico sempre che c’è una prima volta per tutto e credo che sia proprio questa ‘’l’immensità’’ che intendevo nel titolo, l’immensità delle probabilità che ha il destino di portarci – nonostante tutto – cose e persone meravigliose al momento giusto.
Ethan Recchia
Il latte.
Secondo l’autorevole dizionario Treccani, è un «liquido bianco opaco, di composizione chimica complessa; [...] destinato ad alimentare la prole dei Mammiferi».
Per alcuni di noi è un ricordo dolce degli anni d’infanzia, per altri una panacea contro ogni tipo di malattia.
Ma il latte è soprattutto una merce: cioè un prodotto con un valore legato al suo uso pratico (valore d’uso) insieme a un valore di scambio stabilito utile per le transazioni commerciali.
Secondo Marx, nell’economia capitalista il valore d’uso è di secondaria importanza: ogni merce (tra cui il latte) esiste in realtà solamente per diventare portatrice di un valore puramente quantitativo (indicato dal suo prezzo) senza alcuna corrispondenza nel mondo concreto.
In poche parole, per Marx il fine dell’economia capitalista è il continuo accumulo di valore quantitativo, non la produzione di oggetti effettivamente utili alla società.
Poiché a determinare il valore di scambio di una merce è la quantità di lavoro necessario per produrla, il datore di lavoro (nel nostro caso un magnate del latte) può aumentare il guadagno finale (e quindi il valore generato) in diversi modi: il primo è quello di investire in macchinari o materie prime per aumentare il volume di produzione, il secondo è quello di aumentare l’orario di lavoro dei dipendenti, il terzo è quello di pagare i dipendenti il meno possibile.
Il problema è che il tempo in una giornata è comunque limitato (quindi c’è un limite naturale non superabile per gli orari lavorativi) e inoltre aumentare la produzione fa calare il prezzo della merce (perché all’aumentare dell’offerta il mercato si satura): l’unico modo veramente efficace per continuare a mantenere i guadagni alti per la Massoneria dei Caseifici quindi è il non pagare gli operai.
“Però anche gli operai devono essere pagati un minimo, fosse pure una miseria!” direte voi.
“Deve esserci un salario minimo di sussistenza!” aggiungerete.
Ed è qui che vi sbagliate.
Questo è un tipico ragionamento ottuso da secolo scorso, chiuso alle nuove possibilità dell’era digitale.
Prendiamo la seconda più ricca compagnia produttrice di latte al mondo: una grande multinazionale che fa rima con “bebé”.
Nestlé (secondo dati del 2021) conta 276’000 dipendenti circa e nello stesso anno ha venduto prodotti per un guadagno netto di oltre 17 miliardi di dollari.
Per renderci le cose più difficili, contiamo 340’000 dipendenti (cioè il numero più grande di dipendenti mai avuto dalla compagnia) e solo 17 miliardi di dollari nella nostra equazione. Negli Stati Uniti un gallone di latte (3.8 litri di latte più o meno) costa al più una decina di dollari nei casi peggiori.
10x340’000x365 = 1’241’000’000 dollari
Signore e signori, se un dipendente di [l’azienda che fa rima con “bebé”] potesse sopravvivere bevendo solamente latte, 3 litri al giorno, per un intero anno, [l’azienda che fa rima con “bebé”] potrebbe sfamare la sua intera forza lavoro sottraendo meno del 10% al suo guadagno finale; togliendo lo stipendio a tutti i lavoratori nel frattempo.
Ma anche una strategia come questa fa ancora troppo XIX secolo, non è vero?
Ebbene, perché non pagare gli operai quando potresti aumentare i guadagni pagandoli in negativo?
Non ci credete ancora? Non pensate di aver capito?
Allora aprite bene le orecchie. Il guadagno finale di un’azienda, come [l’azienda che fa rima con “bebé”], è dato dalla rendita meno i costi di produzione.
Quindi in formula: GUADAGNO = (RENDITE) - STIPENDI - COSTOMACCHINE - COSTOMATERIEPRIME - COSTOLAVORAZIONE
Se io però pago i miei operai, invece di 0 dollari, -1’000’000 dollari, alla fine avrò guadagnato un milione di dollari in più: esatto, miei cari, con il metodo dello Stipendio Negativo™ si può trasformare il salario da una perdita a un profitto netto, senza pagare effettivamente pagare i lavoratori un becco di nulla.
Dopotutto far lavorare le persone costa ed è naturale che tali costi siano dedotti dallo stipendio dei dipendenti: non il lavoro stesso un premio sufficiente?
Volete un altro esempio di come conquistare il mondo con il latte?
Bene, sentite un po’ qua.
Creiamo innanzitutto una nuova valuta digitale: il MILKOIN.
1 MILKOIN simboleggia la fiducia di un investitore che io gli restituisca un litro di latte pastorizzato.
Sono molto amico del Sultano dell’Oman e gli prometto di potergli restituire 75’000’000’000 di litri di latte entro la fine dell’anno se mi paga 75’000’000’000 di MILKOIN.
Il valore di 1 litro di latte pastorizzato in Oman è di 1.77$, perciò ho appena guadagnato l’equivalente di 132’750’000’000 dollari.
Con questa somma compro un’armata privata, faccio un colpo di stato e divento il nuovo Sultano dell’Oman per conto degli Stati Uniti. In tutto questo non ho restituito nemmeno un litro di latte.
Il processo è ripetibile per qualsiasi paese sulla faccia della terra, naturalmente, fino a diventare padroni del mondo.
Una volta diventato padrone del mondo, posso creare finalmente una società totalmente comunista: proprio come voleva Marx.
Per chi è interessato a divenire parte dell’elite che controllerà il mondo durante la fase di ‘Dittatura del Canestrato’, seguite questo breve video informativo sui MILKOIN ed i loro usi:
Alessandro Pace
Max Ernst è un pittore nato nel 1891 e morto nel 1976. Questo significa che ha assistito all’emergere di tutte le diverse correnti artistiche novecentesche ed è stato da esse influenzato, soprattutto da Picasso e Dalì, che possiamo considerare suoi contemporanei e, in modo ancor più decisivo, da Picasso, con il quale ha solo dieci anni di differenza.
Ernst nasce in Germania ma, visto che la sua arte non rientrava nei canoni stabiliti dal partito nazista, si trova obbligato a scappare in Francia, dove viene ospitato da un amico. Lì conosce Gala, futura moglie di Dalì ma a quel tempo sentimentalmente legata all’amico di Ernst – anche se si sospetta che possa aver avuto una relazione con Ernst stesso, il quale le ha fatto anche un ritratto. Purtroppo, come ben sappiamo, anche la Francia viene invasa dalla Germania e a Ernst tocca andarsene di nuovo, questa volta in America, dove rimarrà per molto tempo prima di decidere di tornare in Francia. Lì morirà a 85 anni. Questi sono, più o meno, tutti i principali spostamenti geografici della sua vita.
Ora torniamo alla sua carriera d’artista. Ernst nasce come surrealista, molte delle sue prime opere sono ispirate agli studi di Freud (per esempio, a teorie psicoanalitiche quali il complesso di Edipo o il complesso di Elettra), ma, più in generale, possiamo trovare dei richiami alla filosofia. Un chiaro esempio è, appunto, Oedipus Rex opera realizzata con una delle tecniche artistiche da lui predilette: il collage. I collage nei quadri di Ernst sono diversi da quelli che intendiamo noi oggi: egli non incollava foto per costruire immagini, ma le riproduceva e ci apportava modifiche in base al significato che voleva dare a esse.
Successivamente, nasce un’altra corrente artistica di cui lui farà parte: il dadaismo. Ora, probabilmente vi starete chiedendo che cosa sia il dadaismo… questo termine deriva da “dada” che, di per sé, non significa niente. Infatti, i dadaisti cercavano di creare arte senza farsi influenzare dal passato e senza prendere spunto da esso per creare qualcosa di nuovo. “Dada” nasce, quindi, come un gioco di parole, quasi a ricordare un bambino che non sa ancora parlare e che produce suoni senza significato. Le idee di questa nuova corrente influiranno a tal punto su di lui che Ernst creerà una sua sorta di alter ego, “Loplop”, rappresentato sotto forma di uccello.
Grazie a delle riviste sull’arte, Ernst conosce in Francia uno dei “pezzi grossi” dell’arte novecentesca, De Chirico, la cui arte gli rima così impressa da portarlo a creare un album di litografie col titolo di Fiat modes, pereat ars (questa frase mi piace particolarmente!) dove possiamo ritrovare i tipici manichini alla De Chirico. Inoltre, nei suoi quadri Ernst riproporrà spesso i cieli di De Chirico (per chi non sapesse di cosa sto parlando, De Chirico amava mettere questi cieli di colore petrolio, che ovviamente non esistono nella realtà).
Abbiamo poi delle opere dedicate ai quattro elementi –Aria (sopra a sinistra), acqua (sopra a destra), fuoco (sotto a sinistra), terra (sotto a destra) per intenderci –, in cui possiamo notare altre due tecniche da lui amate: il frottage (che consiste nel mettere un foglio sopra un qualche materiale ruvido e passarci sopra con del colore e, in base alle forme create, costruirci qualcosa di nuovo) e il grattage (cioè fare due strati di pittura diversi e poi grattare via alcune parti di quello più superficiale, in modo da creare dei disegni). Ernst rappresenta nei suoi quadri anche posti in cui si trovava o era stato, per esempio Arizona red (foto 3)che fa parte dei quadri dedicati al fuoco, è stato realizzato nel periodo in cui si trovava negli Stati Uniti.
Ora parliamo un po’ delle sue due opere più famose. La prima è Tessuto di menzogne (sotto al paragrafo): titolo abbastanza cupo per il quadro, che è un insieme di colori sgargianti mischiati e che stimola a una libera interpretazione. Per comprendere meglio il senso del titolo, bisogna tenere presente che Ernst scrisse diversi libri, tra cui una biografia chiamata Tessuto di verità e menzogne Ernst, infatti, riteneva che nessuno potesse raccontare la sua vita senza mentire od omettere dettagli. asti solo pensare al fatto che la memoria è selettiva; quindi non possiamo, anche volendolo, ricordarci tutto. Potremmo quindi interpretare il suo quadro come un modo per dirci che qualsiasi cosa una persona pensi di vedere in questo dipinto, non potrà mai sapere se questa coincida con il suo vero contenuto
Il secondo quadro più famoso è L’angelo del focolare (sotto): probabilmente, così, di primo acchito, potreste pensare a qualcosa di allegro e gioioso (ma, se avete letto fin qua, avrete già capito che non lo è…). L’angelo rappresentato, invece, non è altro che una bestia, che salta e si diverte, è vero, ma tutto ciò che la circonda è una landa desolata: l’effetto è dunque quello di un forte contrasto tra la figura e il contesto. Non a caso, Ernst si ispirò a Guernica di Picasso(se per caso qualcuno di voi vivesse sotto una roccia e non conoscesse la Guernica,ve la spiego berevemente:quest’opera simboleggia il caos e i danni che la guerra porta al mondo e alle persone) , ma, al posto di rappresentare i danni causati dalla guerra, decise, a differenza del pittore spagnolo, di rappresentare direttamente il carnefice. In poche parole, l’angelo rappresenterebbe il male.
Insomma, Max Ernst era come un tornado, amava sperimentare nuove tecniche e-se vedeva in un artista qualcosa che gli piaceva- lo faceva proprio, cambiandolo in modo che combaciasse con la sua persona. E nonostante l’enorme quantità di opere, lui rimane oscurato rispetto ai suoi contemporanei Picasso e Dalì, per questo vi scrivo di lui, perchè penso meriti la stessa notorietà dei suoi coetanei.
“L’arte non ha nulla a che vedere con il gusto. L’arte non è lì per essere gustata” -Max Ernst
Sofia Rebagliati
Oceano Atlantico, 27 Maggio 1941
Corazzata tedesca Bismarck
5:00
Il rumore e i lampi durarono tutta la notte.
Ad un certo punto il gatto smise di farci caso. Il sonno, però, continuò ad essergli irraggiungibile. Lo stesso fu per gli uomini a bordo. L'incessante bombardamento britannico stava dando i suoi frutti.
Con l'alba, arrivò la quiete. Il gatto decise di approfittarne per uscire all'aria aperta.
Il ponte era in una condizione ancora peggiore dell'ultima volta che l'aveva visto.
Mentre aggirava una grossa scheggia, una convinzione iniziò a farsi strada nella sua mente: i bipedi stavano distruggendo ciò che loro stessi avevano costruito. E lui ci era, sventuratamente, in mezzo.
Quella convinzione si acuì quando vide i bipedi affaccendarsi per un po' attorno al grosso uccello di metallo che riposava sul ponte, per poi gettarlo nell'oceano.
Questo, fallito miseramente a causa dei danni al sistema di lancio, era stato un disperato tentativo di salvare il diario di bordo. L'inservibile aereo fu buttato fuori bordo in modo che non costituisse materiale infiammabile.
La quiete si protrasse per ore. Alle 8, il gatto stava ancora gironzolando sul ponte. Di fronte all'evidente sconforto dei bipedi aveva deciso di dimenticare la sua rabbia contro di loro e stava offrendo la propria calmante presenza a chiunque lo volesse.
Aveva la sensazione che ciò che attendesse loro fosse ben peggio di qualsiasi cosa che lui potesse escogitare.
Anche il capobranco dei bipedi gli fece una veloce carezza. C'era qualcosa di diverso in lui, un'alone di oscurità che colpì profondamente il gatto.
I bipedi erano disperati. Basandosi su questo, il gatto cercò di calcolare le proprie chance di sopravvivenza. La sorte non era a suo favore.
Alle 8:30 suonò un allarme. Nessuno si preoccupò di portarlo nella stiva. Nessuno badava più ad un gatto.
Da lì in poi fu un inferno. I colpi, che durante la notte li avevano miracolosamente risparmiati, ora si susseguivano in rapida successione.
Il gatto riuscì a rintanarsi in un angolino sicuro, al riparo dalle esplosioni.
Davanti ai suoi occhi sbarrati volarono pezzi di lamiera e corpi di bipedi.
Oltre il parapetto, delle sagome minacciose scivolavano sull'oceano tonando con le loro bocche infuocate, avvicinandosi sempre di più. Il gatto aveva ora una certezza: i bipedi si stavano uccidendo tra loro.
Il ponte si riempì di bipedi urlanti e sanguinanti, mentre altri si affacendavano attorno a loro.
Mentre un'altra esplosione lo scuoteva dagli artigli alla punta delle orecchie, il gatto si chiese con cinico distacco quanto dovesse essere grosso il pesce per cui stavano combattendo.
La nave, intanto, si inclinava sempre di più verso sinistra.
Con la coda dell'occhio, il gatto notò che un gruppo di bipedi sul bordo destro stava saltando in acqua.
L'istinto suggerì al gatto di sbrigarsi a fare lo stesso. Lasciata la sicurezza del suo nascondiglio risalì ciò che un tempo era stato piattò e, senza esitare, si tuffò.
L'oceano Atlantico lo avvolse nella sua umida, gelida, viscida morsa. Il gatto nuotò rapido tra le onde, allontanandosi il più possibile dal relitto.
A quel punto la fortuna decise di finalmente girare a suo favore, perchè il suo naso impattò contro un qualcosa di duro galleggiante sull'acqua. Il gatto ci si arrampicò sopra, grato di sottrarsi al freddo dell'acqua e di concedere un po' di sollievo.
Rivolse il suo sguardo alla nave. Un bipede col berretto bianco era in piedi sulla prua. Non tentò di saltare in acqua per salvarsi la vita: si limitò a portarsi la mano al cappello in un ultimo saluto, che mantenne fino a quando gli abissi non lo inghiottirono insieme alla gigantesca corazzata. Il capitano Lindemann affondò con la sua nave.
Non capirò mai i bipedi e i loro istinti suicidi. Riflettè il gatto. Ancora meno capirò come esseri così stupidi siano arrivati a governare il mondo.
Si guardò intorno, notando diverse centinaia di bipedi tenuti a galla da giubbotti imbottiti nell'acqua attorno a lui. Il gatto non poteva che sperare che i loro simili venissero a raccattarli e dessero un passaggio anche a lui.
I soccorsi arrivarono dopo un tempo che al gatto come agli umani sembrò eterno.
I bipedi che lo sollevarono e portarono a bordo si esprimevano con suoni leggermente diversi da quelli della Bismarck. Trovarono anche un nuovo modo di chiamarlo: Oscar.
Al gatto non importava. Ciò che gli premeva che quel luogo fosse caldo, asciutto e dritto.
Le carezze dei bipedi e le fettine di pesce crudo che gli erano state messe davanti, poi, non guastavano di certo.
Non sapeva di essere stato molto fortunato: le operazioni di soccorso britanniche furono interrotte per l'avvistamento di navi tedesche quando solo un centinaio di persone erano state salvate.
Dei più di 2200 uomini dell'equipaggio della Bismarck, i sopravvissuti furono 115.
Il gatto si leccò via il sale dal pelo, poi si acciambellò per concedersi il suo meritato riposo.
Non aveva certo idea che la nave, HMS Cossack sarebbe affondata qualche mese dopo e che lui, sopravvissuto ancora, si sarebbe guadagnato il soprannome di Inaffondabile Sam.
Per uno scherzo del destino, sarebbe stato poi imbarcato sull'Ark Royal, la nave che era stata così tanto importante per la distruzione della Bismarck. Questa, considerata una nave fortunata per averla scampata per un pelo diverse volte, affondò due settimane dopo aver preso a bordo il gatto. Le circostanze del naufragio non furono mai del tutto chiarite.
Dopodiché, nessuno volle più tentare la sorte di avere l'Inaffondabile Sam a bordo: il gatto trascorse i suoi restanti quattordici anni in tranquillità sulla terraferma in Irlanda.
Per anni ci sono state due versioni contrastanti sull'affondamento della Bismarck: i sopravvissuti tedeschi sostenevano fosse dovuto alle cariche da loro stessi messe per evitare che cadesse nelle mani dei nemici, mentre la flotta britannica se ne attribuiva il merito. Recenti studi sul relitto hanno confermato la versione tedesca.
Oscar, nel Codice internazionale dei segnali, significa uomo in mare. Siccome si tratta di un gatto tedesco, talvolta viene usato lo spelling Oskar.
L'ultima missione della Bismarck era anche la sua prima: la nave fu intercettata dagli inglesi prima ancora di arrivare a destinazione.
La band svedese Sabaton ha fatto una canzone sulla famosa corazzata tedesca: Bismarck
Elisa Frigerio
Bibliografia:Battleship Bismarck: A Survivor's Story, di Burkard Freiherr von Müllenheim-Rechberg (1990)WikipediaOperation Rheinüburg- First and Last Voyage of the Bismarck, Drachinifel (YouTube) hmshood.comweaponsandwarfare.comBBCErano stati due giorni molto tesi. Finalmente liberato dalla stiva, il gatto dovette constatare che fuori era ancora peggio. Il suo spazio preferito, il ponte, era impregnato di un odore sgradevole, che gli fece arricciare le narici per il disgusto. Sporgendosi dal parapetto, notò che l'acqua attorno a loro, invece che blu era di mille colori e che la scia arcobaleno si prolungava alle loro spalle.
Un topo che lascia una traccia di sangue dietro di sé è un topo morto. Rifletté.
Non aveva idea di quanto avesse ragione. In quel momento, infatti, le forze britanniche stavano scandagliando l’Atlantico alla ricerca della nave che aveva affondato la loro famosa Mighty Hood. La scia di carburante che la Bismarck lasciava dietro di sé certo non aiutava la corazzata tedesca a passare inosservata.
Anche i bipedi erano tesi. Ciò non gli giovava. Alcuni avevano tentato di usarlo come anti-stress, rinunciando solo davanti ad artigli sfoderati, da altri aveva ricevuto calci quando per disgrazia gli era capitato tra i piedi. La lista di cose per cui vendicarsi si stava allungando sempre di più.
Nel complesso, il suo istinto felino gli suggeriva che tirava una brutta aria.
La sua impressione fu confermata quella sera. I bipedi, al contrario del vento che era andato peggiorando, si erano calmati nel corso della giornata. Parecchi erano radunati sottocoperta, alcuni armeggiando con grosse carte, parlando concitatamente tra loro.
Il tema della discussione era se ce l'avrebbero fatta o meno a raggiungere la protezione delle proprie forze prima che i nemici raggiungessero loro.
Il gatto li osservava di sottecchi, valutando se balzare su una di quelle carte e farle a frammenti potesse essere l'inizio di un'adeguata punizione, ma i suoi pensieri si trascinavano sempre più pigri e le sue palpebre si facevano sempre più pesanti.
Prima di scivolare nel sonno, un pensiero ottimista attraversò la sua mente: dai che forse abbiamo finito con botti, piroette e scemenze varie.
Gli umani, in termini diversi, stavano sperando la stessa cosa.
A chilometri di distanza, dalla nave inglese Ark Royal, quindici aerosiluranti Swordfish si erano appena alzati in volo.
Fuori, si preparava la tempesta.
Erano le 20:30 quando un rumore acuto e persistente infranse un sogno davvero piacevole: riposava in un caldo giaciglio davanti ad un fuoco crepitante sulla terraferma, lontano da pavimenti tremolanti, navi oscillanti e bipedi stupidi.
Aprì gli occhi di scatto, soffiò verso i bipedi che si erano alzati in piedi e stavano urlando nel loro modo sgraziato e, con tutta la dignità possibile si nascose terrorizzato in un armadietto aperto. Odiava il rumore.
Quando i marinai uscirono dalla stanza per correre alle postazioni di artiglieria contraerea non si ricordarono che in essa ci fosse stato anche un gatto.
Così il felino ebbe una buona visuale sui lampi di luce che squarciarono il cielo e illuminarono la stanza, accompagnati da un rumore tonante.
Temporale? Si chiese, cercando l'ipotesi più sensata. Era strano, però. Generalmente il suo istinto felino lo avvisava delle tempeste in procinto di arrivare.
Si azzardò di strisciare fuori dal nascondiglio per dare un'occhiata migliore al cielo. Quello non era un temporale.
Adesso pure con la luce si mettono a giocare? Cosa si inventeranno dopo?
La domanda lo preoccupava seriamente, ma un forte sussulto della nave lo convinse a cercare un posto che ne attuttisse il contraccolpo.
Dopo un'attenta ispezione, il gatto saltò su un pezzo di stoffa che pendeva dal soffitto e che i bipedi usavano per riposare. Piantate le unghie nel tessuto, si mise ad aspettare.
Alle 21:15, un colpo estremamente più potente degli altri scosse la corazzata. La nave si alzò e si abbassò diverse volte.
Era l'ultimo: gli Swordfish, miracolosamente ancora quindici, invertirono la rotta per tornare verso l'Ark Royal.
Il gatto tirò un respiro di sollievo che ebbe breve durata: non ci mise molto ad accorgersi che la nave non procedeva più in linea retta.
Il gatto non lo sapeva, ma l'ultimo torpedo aveva danneggiato il timone. Inutile fu il tentativo delle squadre di manutenzione di riparare il danno: la rotta della Bismarck era immutabile e puntava dritta nelle braccia delle navi nemiche.
Alle 21:40, l’ammiraglio Lutjens comunicò al quartier generale: “La nave è ingovernabile. Combatteremo fino all’ultimo colpo. Lunga vita al Führer”
Il destino della prima delle due navi più grosse mai costruite dalla Germania era segnato.
Questo, anche il gatto lo sapeva. Glielo diceva il suo istinto.
Curiosità
Sebbene tradizionalmente i marinai si riferiscano alle navi come ella, Lindemann usava egli per parlare della Bismarck, in virtù della sua immensa potenza.
La prima ondata di Swordfish partiti dall’Ark Royal scambiarono la nave inglese Sheffield che stava pedinando la Bismarck per la Bismarck stessa e la colpirono al suo posto. Fortunatamente, i nuovi detonatori magnetici che gli erano stati forniti non funzionarono e la Sheffield ne uscì indenne. Gli Swordfishes tornarono quindi all’Ark Royal per reinstallare i tradizionali, più funzionali, detonatori a contatto. Nell’allontanarsi dalla Sheffield, uno di essi segnalò con una lampada Morse: “Sorry for the kipper” al basito equipaggio.
Elisa Frigerio
Ecco a voi una piccola rassegna di curiosità su una delle creature più inquietanti e misteriose dell’oltremondo fantastico: da crudeli succhiasangue a custodi di misteriosi e arcani segreti, ecco svelate alcune curiosità sui famosi vampiri!
Geolocalizzazione, i luoghi che più hanno caratterizzato il mondo vampiro
Quelle dei vampiri, sono storie che riguardano tutto il mondo: per fare un esempio, quella di Dracula (come vampiro) è una storia ambientata in Romania, più precisamente in Transilvania ma l’ideatore, Bram Stoker, viveva in un paese totalmente diverso:l'Irlanda.
Pure nel nostro paese esistono innumerevoli storie sui vampiri.
L’America tra Hollywood e numerose serie TV e romanzi ha arricchito questo mondo fantastico, facendo diventare i vampiri un fenomeno di tendenza globale.
Il vero Conte Dracula, chi c’è dietro a questo personaggio?
Il personaggio di Dracula è esistito veramente ma non come tutti noi lo conosciamo: certo non aveva ali di pipistrello o succhiava sangue! Ecco chi era veramente.
Vlad Tepes è il vero nome di colui che tutti chiamiamo Dracula. Era un sovrano della cosiddetta Valacchia, territorio che adesso si trova nella Romania meridionale, presso la valle del Danubio, il secondo fiume più lungo d’Europa. Personaggio controverso, in Romania, perlomeno prima che la globalizzazione lo facesse diventare il personaggio da film che tutti noi conosciamo, era considerato un vero e proprio eroe. Infatti guidò, anche se con metodi orribili e brutali, la resistenza del proprio popolo, i valacchi (potremmo definirli i progenitori dei rumeni di oggi), contro l’invasione dell’impero turco. Egli fu un soprannominato l’Impalatore, poiché in vita (quando fu al potere) eseguiva torture su chi lo aveva tradito o sui suoi rivali portandoli poi a ammazzarli lui stesso con un paletto di legno.Questo ovviamente è un chiaro riferimento al tradizionale modo per far fuori ogni vampiro che si tramanda di generazione in generazione.
In particolare, si racconta che sorprese una pattuglia dell’esercito del sultano turco in un’imboscata e decise, come monito per il sultano stesso, di creare, poco lontano dall’accampamento del nemico una ‘foresta di pali’ su cui erano letteralmente infilzati i nemici. Possiamo dire che il suo fosse un tentativo di guerra psicologica per demoralizzare il nemico.
Del resto, anche la parola ‘Dracula’ con i mammiferi volanti non c’entra: deriva dalla parola rumena ‘Draculea’ che significava ‘figlio del drago’, animale mitologico simbolo di indomito coraggio e simbolo della sua casata.
Erzsebet Bathory, la contessa vampiro
Erzsébet nacque nel 1560 a Nyírbátor, un villaggio nel nord-est dell'attuale Ungheria, ma venne allevata nella proprietà di famiglia di Ecsed in Transilvania (odierna Romania).
La successiva crudeltà della donna potrebbero essere la conseguenza di eventi traumatici a cui ella aveva assistito come (secondo la leggenda) quando un gruppo di zingari venne invitato nella sua casa per intrattenere la corte; uno di essi venne però condannato a morte per aver venduto i figli ai turchi. Dei soldati tagliarono il ventre di un cavallo legato a terra, il condannato venne preso e infilato nel ventre, rimase fuori solo la testa, poi un soldato ricucì il ventre del cavallo con il condannato al suo interno.
Si sposò all’età di 15 anni, con il Conte Férenc Nádasdy, ebbero 5 figli dei quali solamente 3 sopravvissero.
Successivamente alla morte del marito si scoprirono molti crimini compiuti dalla contessa (secondo alcuni testimoni, la contessa arrivò a fino a 650 vittime) . Bagni nel ghiaccio, corpi immersi nel miele, nasi e labbra tagliati… , i suoi metodi di tortura non avevano precedenti. C’è anche chi dice che la Contessa si facesse il bagno nel sangue delle sue vittime per “riconquistare la giovinezza perduta”.
Come era successo con il Conte rumeno, anche lei divenne una figura simbolica nei racconti vampireschi.
Assume nei racconti il nome di Elizabeth, è la principale antagonista del romanzo Undead - Gli immortali, scritto da Dacre Stoker e Ian Holt e primo sequel ufficiale del classico Dracula di Bram Stoker.
I vampiri esistono? da dove sorge questo dubbio?
Esistono teorie che vedono i vampiri come persone reali tra noi, che si camuffano nella società odierna e appena possono sfruttano ogni occasione per mordere la vittima.
La storia in questione è abbastanza improbabile, ma non è questo il punto. Piuttosto, ci chiediamo: da dove nasce questa teoria? Poichè dovremmo anche solo immaginare che i vampiri siano tra noi?
Cercando di dare una risposta sfrutterò un articolo che parla del cosiddetto VAMPIRO DELLA BERGAMASCA.
‘800 Vincenzo Verzeni (il presunto vampiro) aggredì otto donne uccidendone due dopo averle azzannate al collo, bevuto il loro sangue e mangiandone i resti.
La storia potrebbe sembrare proprio quella di un vampiro però nella sostanza è solamente un caso di omicidio cannibale di massa. Che sia stata fonte di ispirazione per l’invenzione di questo mito?
Uccidere un vampiro, come si uccide l’immortale?
Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’esistenza dei vampiri e volesse proteggersi da un'eventuale massacro ecco alcuni rimedi per scampare al mostro o meglio eliminarlo.
L’aglio è un rimedio naturale contro le zanzare che succhiano nelle caldi estati il nostro sangue rendendoci immuni; da qui nasce la credenza che possa valere lo stesso principio, quindi, per i vampiri.
Il sale davanti alla porta una tradizione vede come protezione dai vampiri lo spargere il sale o dei sassolini davanti alla porta; la ‘dea degli usci’ proteggerà tutti coloro che applicheranno appunto questa protezione dinanzi all’uscio di entrata e il vampiro non potrà entrarvi se non invitato espressamente dal proprietario.
L’acqua corrente simbolo di purezza; se volete far fuori un vampiro gettatelo nell’acqua che scorre e potrete dirgli addio!
Il sole simbolo di speranza, vita e luce del giorno, è il rimedio più efficace contro i vampiri abituati alla notte; essi bruceranno fino a diventare cenere poiché si narra che la purezza del sole sconfigga la loro malvagità. State attenti dunque che il vampiro che ce l’ha con voi non possegga la crema solare.
Volterra, la capitale dei vampiri italiani
Volterra è un’antica città della provincia di Pisa.
A partire da New Moon Volterra è divenuta la città dei vampiri. È qui che la scrittrice, Stephenie Meyer, ha ambientato infatti parte della propria saga, “Twilight“, ponendo a Volterra l’antica sede di un concilio di vampiri, passando dal ‘Nuovo Mondo’ al ‘Vecchio Continente’.In questa città infatti il concilio si raduna per prendere decisioni vitali per la sopravvivenza pacifica dei vampiri.
Ieri vs oggi, come sono cambiati i vampiri nei secoli?
È incredibile pensare come nel corso dei secoli i vampiri abbiano subito una totale mutazione letteraria.
L'esempio lampante di questa mutazione è il loro l'aspetto e carattere.
Bram Stoker, lo scrittore del celeberrimo Conte Dracula, lo aveva descritto nel 1897 come un crudele e spietato predatore che si nutre del sangue umano per continuare a vivere una vita eterna, nonostante il suo cuore abbia smesso di battere.
Adesso invece, in questi ultimi anni in particolare, questi mostri della notte sono diventati dei sex symbols, basti pensare a Edward Cullen del best seller della Meyer e ai fratelli Salvatore dell'iconica serie The vampire diaries.
Quei vampiri, che io definisco come ‘vampiri moderni’ cercano di reprimere i propri istinti assassini nutrendosi di sangue animale, sono sensibili e in ogni loro storia, rigorosamente, c'è una ragazza che anche se non lo mostra, ha cicatrici indelebili che provengono dal suo difficile passato.
I vampiri di oggi sono soggetti di moltissimi clichè quali ad esempio l’amore ossessivo quasi riconducibile allo stalking che li caratterizza.
I vampiri però nonostante tutto sono e saranno sempre i protagonisti di storie che ci affascinano perché questo sono bravi a fare: incantare e suscitare timore, conquistando col loro fascino ciascuno di noi.
Iris Pinto
Stretto di Danimarca, 24 Maggio 1941
Corazzata tedesca Bismarck
5:45
Il gatto e la nave Bismarck di Giulia Boschetti
Tecnica: matita, disegno in bianco e neroCominciamo male, pensò il gatto, quando fu strappato senza né grazia né ritegno al suo comodo giaciglio e scaraventato nel luogo che i bipedi chiamavano stiva. Nulla gli valse dimostrare la sua indignazione soffiando e miagolando: con una serie di fastidiose urla, i bipedi lo chiusero dentro.
E, siccome ciò che male inizia non può che peggiorare, la sua giornata si affrettò ad andare in quella direzione. Aveva infatti appena deciso che, siccome era costretto a stare nel luogo dove il cibo era più numeroso, tanto valeva cacciarsi la colazione, quando il pavimento sotto le sue zampe iniziò a tremare.
Il gatto soffiò, infastidito. I pezzi di terra galleggianti che i bipedi costruivano non erano affatto solidi come la vera e propria terra, eppure loro continuavano a farne di nuovi e a salirci. I bipedi erano esseri molto strani.
Lui aveva permesso che uno dei bipedi lo portasse a bordo perché, era risaputo, difficilmente su una nave c'era più di un gatto. Ciò permetteva di sfuggire alla spietata concorrenza del porto, dove per un boccone di pesce puzzolente si rischiava di perdere un occhio.
Una pancia piena più le carezze di diversi bipedi valeva bene un po' di fastidio, decise, tanto più che era la prima volta che sentiva la nave ondeggiare a quel modo . E poi, quella era la nave più grossa che lui avesse mai visto e tutti i gatti sapevano che più una cosa era grossa e più era difficile da buttare giù.
Il tremolio si calmò. Molto strano. Considerò il gatto, poi il suo stomaco brontolò, le sue narici colsero odore di topo e smise di farsi domande.
Erano le 5:53 di mattina. Le navi inglesi avevano sparato le prime salve contro quelle tedesche.
Due minuti dopo, lo spazientito capitano della Bismarck, Lindemann, di fronte alla ripetuta richiesta del suo ufficiale di artiglieria di rispondere al fuoco e all’esitazione dell’ammiraglio Lutjens ad ordinarlo, avrebbe risposto: "Non permetterò che la mia nave mi venga sparata via da sotto il sedere. Aprite il fuoco!"
La battaglia dello stretto di Danimarca era iniziata. E la caccia del gatto era giunta a termine.
Stava volando nell'aria, infatti, al culmine di un agile salto, in tutta la grazia della sua specie, gli artigli pronti a conficcarsi in un succulento topo… quando la nave tremò violentemente e un rumore sordo echeggiò attraverso essa.
Il gatto atterrò malamente, perse il topo e l'equilibrio e si acquattò, terrorizzato e a bocca asciutta, sul pavimento.
Il rumore che feriva le orecchie del gatto fu sentito fino a Reykjavik. L'artiglieria della Bismarck aveva risposto agli avversari.
Il gatto agitò la coda, tra i gatti del porto girava voce che così facendo si potessero controllare le tempeste. Nulla. Il rumore continuò. L’istinto del gatto gli disse che non fosse una tempesta a provocarlo. Ciò significava che, in qualche modo, erano i bipedi a causarlo. Maledetti esseri!
Man mano che il rumore, imperterrito, perseverava nell’assordarlo, la rabbia si sostituì alla paura.
Allora, la finiamo con questa cagnara? Lo pensò solamente, era inutile sprecare energia in miagolii che non sarebbero mai stati sentiti da quei codardi che, prima di far baccano l’avevano chiuso nella stiva, dove non avrebbe potuto sfogare la sua ira su di loro. Cani schifosi!
La cagnara non si fermò, anzi, semmai aumentò di intensità. Essendo gli insulti inutili, il gatto si convertì ai propositi di vendetta. I gatti al porto dicevano che ad un gatto nero sarebbe bastato tagliare la strada ad un umano per portagli sfortuna.
Lui, sfortunatamente, aveva qualche macchia bianca sul mantello scuro come la pece. Non sapeva se avrebbe funzionato lo stesso.
E poi, che gusto c'è nella vendetta se arriva con comodo, senza che io sia lì ad assistere?
C'erano però altre leggende circolanti tra i gatti più anziani, veterani di diversi viaggi in mare...
I suoi piani furono interrotti da un colpo più violento, che scosse completamente la nave e sollevò il micio, facendolo poi ricadere sgraziatamente per terra.
La nave Bismarck aveva ricevuto il suo primo colpo.
Il gatto soffiò, più furioso che mai, rizzò il pelo e si appiattì contro il pavimento. (Quest'ultima cosa era dovuta al tremore delle sue zampe, ma l'orgoglioso felino non l'avrebbe mai ammesso). Neanche l'appellativo di cani vi meritate! Loro sono civili in confronto a voi! Aggraziati! Silenziosi!
Troppo destabilizzato per fare un pensiero coerente, la sua mente era ormai in grado di formulare solo insulti, il gatto si rassegnò ad aspettare che passasse.
Ci furono altri due sussulti (provocati da altrettanti colpi andati a segno) poi la nave ondeggiò paurosamente.
Niente, hanno deciso di sperimentare tutti i possibili modi in cui possono farmi... (l'espressione giusta sarebbe stata finire a gambe all'aria. Abbiamo già detto che il gatto era molto orgoglioso) perdere momentaneamente l'equilibrio.
L'ultimo movimento era diverso dagli altri, perché provocato dall'onda d'urto dell'esplosione della HMS Hood, perla della marina britannica, a cui la Bismarck aveva dato il colpo di grazia. Il gatto non lo sapeva. Per lui, i bipedi stavano semplicemente dando sfogo alla loro fantasia nel creare confusione.
Maledetti bipedi! Conoscessi l'arte dei miei antenati egizi… ma adesso ve la faccio vedere io… appena esco da qui, dovessi anche scavarmi la via con le mie stesse mani...
La nave si inclinò di nuovo, bruscamente e il gatto volò contro una parete. Non ci fu nessuna esplosione questa volta: la brusca manovra aveva evitato che l'imbarcazione fosse colpita dalla vendetta postuma della HMS Hood: l'ultimo torpedo che la nave aveva lanciato prima di sparire negli abissi.
Di tutto questo, il gatto non ne aveva la minima idea.
Di tre cose, però era certo. Primo, il pavimento sotto di lui non era più dritto. Secondo, a questo incubo preferiva decisamente perdere un occhio nel porto di Gotenhafen. Terzo, i bipedi erano esseri davvero stupidi.
Più o meno nello stesso momento, un gatto di nome Blackie che si allontanava a bordo della HMS Prince of Wales, la nave inglese che per ben tre volte aveva colpito la Bismarck (e da essa era stata colpita), stava pensando all'incirca la stessa cosa.
Erano le 6:09 di mattina.
Curiosità
La tradizione di tenere dei gatti sulle navi è antichissima: degli studi hanno dimostrato che già i Vichingi avevano gatti a bordo delle proprie. I felini erano apprezzati per la loro attività di cacciatori di topi e considerati creature magiche. Ci sono pervenute diverse superstizioni e leggende dei marinai sui gatti.
Lo stretto di Danimarca non è affatto vicino alla Danimarca, bensì tra Groenlandia e Islanda.
Uno dei sopravvissuti della Bismarck, Burkard Freiherr von Müllenheim-Rechberg, incontrò nel 1957 il luogotenente Esmond Knight, che nella Battaglia dello Stretto di Danimarca si trovava sulla Prince of Wales. I due divennero amici.
La Prince of Wales sopravvisse allo scontro e, nell'Agosto del 1941, trasportò Churchill ad un incontro segreto con Roosevelt. Churchill, un amante dei gatti, fu immortalato nell'atto di accarezzare Blackie, che divenne immediatamente famoso.
Elisa Frigerio
Nella società rurale del passato, era maggiormente seguito il codice comportamentale dettato dal gruppo sociale, da una famiglia o dai singoli individui piuttosto che quello dato dallo stato.
Quest’ultimo infatti era sentito estremamente distante, lontano dalla vita quotidiana ed essendo principalmente uno stato dinastico con a capo il sovrano, esso era limitato alla figura del principe, entro la quale il concetto di stato si concludeva. Non veniva sentito quindi il ruolo che attualmente conferiamo ad esso, il valore di tutore dei diritti civili e politici e garante della libertà individuale. Inoltre, probabilmente il ruolo dello stato come lo si intende ora non veniva nemmeno compreso, era un concetto troppo astratto per la concretezza su cui si basava la realtà e non riusciva a far sentire la sua presenza in modo chiaro e costante.
Così le norme che regolamentavano i comportamenti degli individui erano dettate dalla tradizione, dalle abitudini, dalle usanze e dal gruppo sociale in cui si viveva.
Durante il medioevo, nella giurisdizione dello stato, si insinuavano spesso dei “corpi intermedi” come le arti, le leghe, le diverse associazioni, le quali si interponevano tra il potere dello stato e i diversi cittadini, garantendo a loro modo una forma di giustizia che per quanto non sempre equa ed imparziale, finiva per tutelare le persone che vi appartenevano.
Tra il 1500 ed il 1700 la situazione cambiò radicalmente: le diverse arti e le associazioni che prima componevano la società, erano scomparse in seguito alla progressiva affermazione di un potere centralizzato, forte abbastanza da imporre delle leggi assolutistiche, ma non in grado di rivestire il ruolo di tutela per i cittadini. L’individuo si trovava così dinanzi ad un potere che non aveva alcun significato per lui, se non quello di limitazione e soprattutto senza nessuno che lo difendesse da esso stesso.
Attualmente ci è chiaro che senza istituzioni non può essere tutelata la giustizia, essa ha la necessità di essere univoca, così come le leggi, universali, così da non creare equivoci od eccezioni che esentano alcuni individui dal loro rispetto. La giustizia permette la libertà e per assurdo si è più liberi quando sono presenti delle norme, piuttosto che in loro assenza. In una comunità composta da numerosi soggetti, l’espressione assoluta della libertà di un individuo, provoca inevitabilmente la privazione della libertà di qualcun altro, mentre le leggi permettono da una parte la manifestazione dell’individualità e dall’altra, la tutela della libertà di ciascuno. Si può dedurre conseguentemente che le norme così come le istituzioni -cioè i modi con cui lo stato interviene, opera e “si fa udire” dai cittadini- siano fondamentali per la pacifica convivenza. Oltre agli ordinamenti scritti esistono e sono sempre esistiti anche le leggi non scritte, definite anche “norme naturali”, proprie dell’essere umano, scritte non nella costituzione ma nella coscienza di ciascun individuo. Un esempio è costituito dal senso di rispetto per la vita umana che dovrebbe essere applicato non in seguito ad una legge, ma per la coscienza morale di ciascun individuo.
Nel corso del tempo però gli interessi individuali, l’egoismo e il cinismo dell’essere umano non hanno fatto altro che soprassedere a tali norme, tanto che è risultato necessario integrarle nella costituzione di ogni paese. Una civiltà in evoluzione ha la necessità di essere regolamentata da normative ed istituzioni così da disciplinare la realtà, al fine di non lasciarla alla casualità ed in balia degli eventi e dell’egoismo di ciascun individuo che costituisce la società. L’essere umano non disciplinato può essere estremamente pericoloso e solo se indirizzato e guidato da precise direttive è in grado di svilupparsi nelle sue piene facoltà di uomo, esse diventano non solo qualcosa a cui conformare i propri comportamenti, ma se interiorizzate e sentite, diventano un modello di riferimento da seguire.
Se le leggi scritte non vengono rispettate si incorre nella criminalità, e di conseguenza nelle sanzioni e a questo punto diventa necessario introdurre il concetto di carcere e prigione. Quest’ultimo è un termine derivante da una parola latina prehensio, ovvero catturare, carcere deriva anch’esso dal latino, in particolar modo da coercere, che significa costringere. Le prime forme di penitenziari sorsero con il nascere della civile convivenza nelle civiltà umane, si ha infatti testimonianza delle prime forme di reclusione forzata già nella Bibbia, successivamente in epoca Greca e Romana, ma l’idea di carcere come luogo di rieducazione e reintroduzione del detenuto nella società, nacque solamente nel 1764 con il testo “Dei delitti e delle pene” del giurista italiano Cesare Beccaria, uno dei più illustri esponenti dell’Illuminismo. Nell’età dei lumi insieme a tale figura si ricordano anche molti altri personaggi come Immanuel Kant, Gaetano Filangeri, Pietro Verri, i quali contribuirono al cambiamento del concetto di giustizia, non più basata su punizioni corporali e pena di morte ma sul libero arbitrio, il lavoro, l’istruzione e la redenzione, elementi fondamentali che si allontanavano decisamente dai concetti di pena e castigo presenti nella storia fino a quel momento. Secondo Beccaria la pena non doveva castigare l’individuo in quanto individuo, ma punire il reato compiuto, si pone così l’accento sull’importanza di scindere la persona che ha commesso il reato con la sua colpa; continuando infatti ad associare il soggetto al reato, si continua a ritenere la persona legata a ciò che ha commesso, non dandole la possibilità di redenzione. Rimane così legata, a causa del giudizio sociale, al suo passato, senza aver la possibilità di costruire nel presente il suo futuro.
In passato, come accennato in precedenza, il carcere aveva un ruolo estremamente diverso da quello che oggi possiede, aveva infatti unicamente una funzione cautelare, era impiegato per rinchiudere i detenuti in attesa che ricevessero la loro condanna, che poteva essere la tortura oppure la morte. Il condannato veniva poi esposto pubblicamente in piazza per disincentivare le persone a commettere crimini, assumeva il ruolo di tragico deterrente.
Grazie ai personaggi sopracitati, attualmente la situazione è cambiata, l’articolo 27 della Costituzione Italiana afferma: <<Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.>>
Nel testo “Dei delitti e delle pene”, il giurista non solo esprime la sua concezione riguardo le carceri, ma si batte per l’abolizione della pena di morte e la tortura, si tratta di un testo che fonda le sue posizioni sulle idee illuministe, trovandosi soprattutto a condividere quelle del filosofo Rousseau. Beccaria in tale trattato analizza molteplici punti chiave: afferma innanzitutto che la pena deve perseguire il bene generale ed è necessario che sia commisurata al reato commesso, inoltre sostiene che la pena di morte non sia affatto utile come sanzione, invero non è un deterrente, dal momento in cui non impedisce il realizzarsi del reato. Questa impedisce all’individuo che ha compiuto il reato di redimersi e di intraprendere un percorso di reintegrazione nella società; il soggetto è infatti destinato a morire per ciò che ha compiuto, senza aver nessun’altra possibilità di fronte a sé. Trovo la pena di morte in contrasto con la costituzione e i diritti fondamentali del cittadino, lo stato afferma infatti di operarsi per tutelare tutti i cittadini senza esclusione, così come difendere la libertà e la vita di ciascun individuo; dall’altra parte però non tutela la vita di coloro che hanno compiuto il reato che, per quanto in errore, sono esseri umani e quindi hanno l’onere di vivere. Come lo stato può arrogarsi il diritto di scegliere per la vita o la morte di un cittadino? Se decidesse per la morte, non sta compiendo anch’esso un delitto, al pari o forse addirittura peggio del suo? Sono quesiti complessi che non hanno una risposta immediata, tant’è che oggi alcuni stati applicano tale tipo di pena, tra cui: Cina, Bielorussia, Giappone, India, Corea del Nord, Iran e alcuni stati degli Stati Uniti.
Il maggiore paradosso osservabile è che la pena di morte è per alcuni aspetti conforme allo spirito americano, in quanto una delle filosofie e atteggiamenti politici più diffusi in tali stati è il libertarianesimo, le cui caratteristiche traggono ispirazione dalle posizioni di Locke (1632-1704).
Tale filosofia ha alla base l’idea di limitare il più possibile gli interventi dello stato nella società e nei rapporti con i cittadini. L’estremizzazione di tale liberalismo confluisce nel movimento politico dell’anarcoindividualismo, il quale sostiene la necessità di porre alcuni settori come la giustizia, l’ordine pubblico e la sicurezza, in un libero mercato. In generale, in America si è diffusa nella società una grande attenzione per la libertà individuale, bene superiore rispetto alla sicurezza o al rispetto della vita stessa.
Un altro aspetto degno di considerazione è il fatto che alcune volte la morte è una prospettiva meno negativa e spaventosa rispetto alla reclusione. Come si è detto precedentemente, carcere e prigione significano rispettivamente costringere e catturare, implicano il fatto che ci sia una detenzione -non volontaria- da scontare ed essendo la libertà una peculiarità dell’essere umano, rinunciarvi per un lungo periodo di tempo è deleterio, non provoca la morte del corpo ma quella dell’anima. La pena di morte elimina i diritti umani, li surclassa e non permette al detenuto di intraprendere un percorso di riqualificazione e reinserimento all’interno della società, elimina ogni possibilità di futuro, soddisfa la sete di giustizia immediata che si prova in seguito ad un torto, ma uno stato a mio avviso non può attuare questa forma di giustizia che assume le vesti di una vendetta, togliendo ad un individuo il diritto alla vita.
Inoltre la pena di morte essendo irreversibile non permette di porre rimedio ad un eventuale errore giudiziario. Il carcere invece permette al detenuto di scontare la sua pena per il reato commesso e parallelamente costruire il suo avvenire attraverso attività sociali, lavorative ed educative, in modo che l’individuo, una volta avvenuta la scarcerazione, avendo imparato una professione o intrapreso un percorso di studi, ha più possibilità di riuscire ad allontanarsi dal contesto criminale; il sistema su cui si basa il carcere è per questa ragione chiamato sistema a doppio binario. Inoltre chi ha intrapreso una carriera criminale, a causa delle influenze negative derivate dal contesto sociale in cui vive, applica unicamente la realtà che conosce, cioè quella della criminalità; il carcere quindi consente al soggetto, attraverso i progetti di reinserimento nella società e le diverse attività formative, di conoscere altre realtà. Il maggior problema è costituito dal fatto che il carcere è un contesto altamente criminale e può capitare che chi vi entra per un piccolo reato, venga poi condizionati dai grandi criminali a compierne di più gravi e quindi ad allontanarsi dalla strada della redenzione.
Un ulteriore problematica è costituita dalla società, essa infatti è piuttosto rigida e giudicante e non accetta facilmente i soggetti che vogliono inserirsi in essa, soprattutto se marchiati da uno stigma sociale. Gli ex detenuti non vengono considerati come specifiche persone, ma solamente come “ex detenuti”, il passato diventa vincolante anche per il presente ed il futuro e l’individuo spesso è costretto a vivere costantemente legato allo stigma affidatogli, senza aver la possibilità concreta di integrarsi e intraprendere un percorso di cambiamento.
Si è visto come la formazione e l’educazione sia fondamentale nel cammino di un detenuto, per esempio un ragazzino nato in un quartiere in un ambiente di piccola criminalità, da una famiglia povera che non è riuscita a provvedere ai suoi bisogni educativi, compie un furto e va in prigione. In questo luogo riesce a partecipare ad attività pratiche, impara una professione oppure studia qualcosa di suo interesse.
Il carcere quindi, attraverso l’educazione, riesce a far emergere il meglio di ciascuno, permette di far trovare la giusta strada, consente di far tornare ad apprezzare la vita presente in ottica di un futuro migliore.
Alessandra Zagaria
“Sono Andrew Ryan e sono qui per porvi una domanda. Un uomo non ha diritti sul sudore della sua fronte?
No, dice l’uomo di Washington. Appartiene ai poveri
No, dice l’uomo in Vaticano. Appartiene a Dio
No, dice l’uomo di Mosca. Appartiene a tutti
Io rifiuto queste risposte. Piuttosto scelgo qualcosa di diverso. Scelgo l'impossibile, scelgo Rapture. Una città in cui un artista non debba temere la censura. Dove lo scienziato non sia limitato da ridicoli moralismi. Dove il grande non venga confinato dal piccolo. E col sudore della vostra fronte Rapture può diventare anche la vostra città.”
Questa è la presentazione del magnate Andrew Ryan della propria città sottomarina, Rapture, dove si svolge BioShock, videogioco di genere fantascientifico della categoria sparatutto survival horror action RPG. È stato ideato da Ken Levine, sviluppato da Irrational Games e pubblicato da 2K Games nel 2007.
Vorrei prima fare una premessa: non voglio entrare nel merito del gameplay e dei suoi aspetti tecnici perché in primis non ho le conoscenze per parlarne; e poi per rendere questo articolo fruibile anche a chi al mondo dei videogiochi fosse totalmente estraneo. Detto questo, possiamo iniziare.
Anno 1960. Il gioco inizia in volo su un aereo che, in mezzo all’oceano Atlantico, subisce un incidente dove Jack, il protagonista, è l'unico sopravvissuto. L’aereo si è schiantato vicino ad un faro che fa da accesso alla città sottomarina di Rapture. Con l'aiuto della guida del gioco, Atlas, Jack dovrà attraversare la città utopistica -ormai diventata un luogo spettrale, con un'atmosfera da manicomio pieno di pericoli e nemici terrificanti- per trovare Andrew Ryan e tornare in superficie. Ed è proprio di questo personaggio che vorrei parlare.
Per la sua caratterizzazione si sono ispirati a vari personaggi: il magnate Charles Foster Kane (protagonista del film Quarto Potere), la filosofa Ayn Rand (su di lei torneremo dopo) e anche Walt Disney.
Andrew Ryan è un potente imprenditore degli Stati Uniti che però disprezza il suo stato, definendo coloro che non hanno ambizioni e che, a suo dire, campano con la fatica altrui dei “parassiti”. Dopo la tragedia delle due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki, crede che presto si scatenerà una guerra nucleare, e decide di concretizzare la sua utopia personale: Rapture. Una città dove un individuo non ha da temere autorità statali o religiose e può sviluppare al meglio le sue capacità, realizzando i suoi progetti e le sue ambizioni senza alcun ostacolo grazie al libero mercato. Il tutto, però, degenera e la situazione che si crea finisce per avere caratteristiche paragonabili a quelle di una distopia. Lui è costretto a nascondersi dai rivoltosi che lo vogliono morto e manda eserciti di umani mutati, i ricombinanti che hanno perso la sanità mentale, e che, durante il gioco ci faranno il "dono" della loro memorabile compagnia.
Come ha fatto un sogno così invitante a diventare un incubo? Il motivo principale è uno dei pilastri su cui si fonda la società ideale di Andrew Ryan. Ma prima credo sia doveroso parlare della storia di Rapture, anche se ne menzionerò solo i punti salienti senza perdermi troppo in digressioni su eventi o personaggi, (per quanto interessanti possano essere).
Una ricercatrice che lavora a Rapture scopre l’esistenza di una specie di lumache di mare sconosciuta che contiene cellule staminali capaci di ricombinare i geni umani, la sostanza delle lumache viene chiamata Adam. L'Adam, se iniettato nel corpo di un essere umano, può dargli poteri sovrannaturali; ma a lungo andare causa forti danni, soprattutto al cervello. L’Adam entra sul mercato di Rapture ed è un successone, tanto che la domanda aumenta. Successivamente si scopre che le lumache, se parassitano su un corpo umano, possono produrre una quantità 20 volte superiore di Adam. Così, lumache di mare vengono impiantate nel corpo di bambine orfane che vengono poi condizionate mentalmente a cercare l’Adam;queste bambine e vengono ribattezzate le Sorelline. Intanto, il liberismo sfrenato presente nella società di Rapture causa un forte divario sociale: ci sono sempre più persone in condizioni misere e sempre meno ricchi e potenti che accumulano denaro. Ryan risponde al crescente malcontento generale mettendosi in una posizione più autoritaria, vietando le assemblee pubbliche ed istituendo la legge marziale. Durante la grande festa di capodanno del 1959, i ricombinanti rivoltosi attaccano in massa l’alta società di Rapture, dato che l’Adam,tra loro, scarseggia sempre di più. La situazione sprofonda nel caos più totale e Ryan è costretto a nascondersi. Successivamente, però, i suoi ricercatori riescono a trasmettere ai ricombinanti un feromone che li controlla: Ryan diventa così il re di quella sorta di Inferno perduto.
Ed è in questo punto della storia che inizia il gioco... per cui se volete sapere come va avanti,o se volete semplicemente sapere qualcosa in più comprate BioShock!
Ora che ho spiegato sinteticamente la storia di Rapture, posso finalmente arrivare al punto e rispondere alla domanda posta in precedenza. Perché la società di Rapture è fallita?
Il motivo principale è la filosofia su cui si basa: l'oggettivismo. L'oggettivismo è la teoria filosofica di Ayn Rand. Essa afferma che la felicità si raggiunge prima di tutto realizzando i propri progetti e le proprie ambizioni individuali. Secondo la Rand, l’egoismo è la più naturale e importante delle virtù umane. Devi, tu individuo, con le tue sole forze realizzare i tuoi progetti e mettere i tuoi bisogni prima di quelli altrui, anche se devi farlo senza ostacolare gli altri individui (almeno in teoria). Riprendo una sua frase particolarmente significativa “La più piccola minoranza al mondo è l’individuo e chiunque neghi i diritti dell'individuo non può dire di essere un sostenitore delle minoranze”.
Secondo l’oggettivismo, la realtà si mostra totalmente ai nostri sensi e alla nostra ragione, dicendo l’esatto opposto del filosofo Immanuel Kant, che la Rand definì “L’uomo più malvagio della storia dell’umanità” (Kant infatti sosteneva che l'essenza ultima della realtà rimanga a noi inaccessibile perché non percepibile coi sensi e intelletto). Già è critica verso le religioni, ritenendole frutto dell’irrazionalità umana, ma,in particolare è avversa al cristianesimo perché valorizza l'altruismo ed il sacrificio. È contraria anche ad ogni tipo di sistema collettivista, tanto quello fascista quanto quello socialista, perché, secondo lei, il collettivismo impedisce la crescita dell'individuo e quindi è il nemico assoluto della felicità umana.
Tornando al gioco, durante il gameplay si sentono in sottofondo dall’altoparlante delle frasi registrate di Ryan. Una di queste dice:
“Qual è la più grande menzogna mai inventata? Qual è la più grande punizione inflitta al genere umano? La schiavitù? L’olocausto? La dittatura? No. È lo strumento dal quale sorge tutta questa malvagità: l’altruismo.”
Ed è qui che, a mio parere, crolla tutto il castello di carte. La Rand e, di conseguenza il personaggio di Ryan (e in generale, tutti gli oggettivisti) non tengono conto di un'altra importante virtù umana, in qualche modo contrapposta all’egoismo: l’empatia. Siamo intrinsecamente egoisti ma non possiamo neanche fare a meno di rapportarci agli altri, ascoltarli, metterci nei loro panni. Per questo Ryan finisce per diventare un totalitarista, quindi andando totalmente contro i suoi ideali di partenza Rapture sarebbe dovuto essere un posto in cui potevi realizzare il tuo potenziale senza alcun ostacolo.
Concludendo: BioShock è una delle tantissime dimostrazioni che i videogiochi sono arte e che anche coi videogiochi si possono fare delle riflessioni profonde ed interessanti; Andrew Ryan, per esempio, è uno degli antagonisti più carismatici ed interessanti che io abbia mai visto. Quando nel gioco finalmente lo incontri faccia a faccia, lui ti illustra, in modo molto subdolo, una delle frasi che descrivono la sua filosofia:
“Un uomo sceglie. Uno schiavo obbedisce”.
Simone Firpo
Fonti: Bioshock.fandom.com ; Ayn Rand-enciclopediadelledonneNon so come tu sia finito qui, non so neanche il perché, forse stai leggendo per caso, forse stai leggendo intenzionalmente, ma do per certo che tu stia leggendo. Ecco, se stai leggendo questo testo con la fretta con cui una madre accompagna il figlio a scuola prima di andare al lavoro, cercando di fare il più velocemente possibile, allora, inizia a soffermarti sulle parole, non dare per scontata la compagnia di un figlio, non dare per scontato l’uso di ogni parola. Ogni singola parola ha un suo significato, ma le parole messe insieme, legate in modo indissolubile, possono dare vita a qualcosa di magnifico, di rilassante, di noioso o addirittura a qualcosa di emozionante. È quello che gli esseri umani chiamano forma d’arte, qualcosa che solo loro possono creare. Quanto può essere differente la lettera di auguri di un bambino, rispetto ad un libro di testo, si potrebbero usare in entrambi le stesse parole, ma il significato sarebbe completamente diverso, ogni cosa ha il suo contesto, ma ogni cosa è una forma d’arte. Siamo perennemente circondati da innumerevoli persone e da svariati oggetti, ma ognuno di essi ha una storia differente. Secondo me, ognuno di noi può essere letto, ha un testo dentro di sé che solo le persone più speciali sapranno decifrare, perché ognuno di noi ha un testo scritto in una lingua unica e sola al mondo, ciascuno comunica con un linguaggio proprio e per conoscere quello degli altri si devono avere le chiavi del suo cuore. Ogni movimento è un testo, un testo formato da varie parole, anche un semplice passo viene scritto nella nostra mente e saremo in grado di rileggerlo solo attraverso la memoria, rifugio sicuro in cui possiamo conservare il nostro romanzo, a meno che la gomma che abbiamo nella nostra mente non abbia cancellato quelle parole giudicandole inutili. È questo la scrittura, spostare quelle parole dalla rete di neuroni nel nostro cervello al bianco della carta di un foglio nuovo di zecca per ricordarle, e la lettura è il processo inverso, spostare quelle parole dalla carta di un foglio stampato alla rete di neuroni del nostro cervello, pronto ad accudire le parole di un inedito racconto. Ogni storia contiene parole, un racconto di fantasia proviene dalla creatività del nostro meraviglioso congegno, un romanzo storico o una biografia provengono dalla scrittura dei movimenti del nostro corpo o di quello altrui, mentre il testo argomentativo proviene dalla vibrazione del filo che connette il nostro cervello al nostro animo: è il pensiero complesso e misterioso. Tutto è traducibile in scrittura e tutto può essere letto, anche se spesso ci si sofferma su ciò che vedono gli occhi e ciò che ascoltano le orecchie, quindi magari si preferisce la visione di un film alla lettura di un libro; ma allora che cosa rende così speciale la lettura?
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”, questa è la risposta, una frase di Giacomo Leopardi che condensa in una sola espressione gli effetti benefici del piacere della lettura: la voglia di tuffarsi in un mare in cui le onde sono vita, e passano dagli occhi per schiantarsi contro il cuore, sede dei sentimenti, sede della curiosità che stimola l’intelletto. In quel limpido mare pieno di flutti, non potrai e non dovrai mai invertire la rotta, seguirai le lettere, ascolterai storie travolgenti nel silenzio più assoluto, perché il mare in cui ti sei immerso, risuona in silenzio. È questo ciò che rende speciale la lettura, il silenzio: sott’acqua, in apnea non potrai più né parlare, né ascoltare, perché il silenzio dell’acqua è più forte di tutte le grida, che infatti riesce a coprire lasciandoti contemplare il fondale marino.
Spero che tu abbia capito perché sei finito qui, un piccolo pesce chiamato curiosità ti ha probabilmente fatto tuffare in questo mare e ora, dovrai raggiungere la spiaggia per venirne fuori, ma preparati, perché una volta uscito dall’acqua, non sentirai più la magia del silenzio.
Davide Penna
Quando si parla di scrittura si deve necessariamente fare riferimento all’oralità: come sappiamo, essi sono due aspetti dell’essere umano che procedono insieme. L’oralità, tuttavia, è stata per diversi millenni indipendente dalla forma scritta, che è venuta successivamente e quest’ultima risulta fortemente dipendente dalla prima. Come afferma l’antropologo e filosofo Walter J. Ong, la scrittura è definibile come “processo di modellizzazione secondaria”, fortemente dipendente dal sistema primario costituito dall’oralità.
Un esempio di tale dipendenza è dato dalla lettura di un libro: le parole scritte su carta, che sono simboli cui noi attribuiamo un significato, si tramutano in suoni pronunciati nella mente del lettore, “parole interiori” che instaurano un dialogo tra il lettore ed il libro.
Di conseguenza, sarebbe impossibile interpretare uno scritto senza riferirsi alla parte orale.
Come accennato all’inizio, l’oralità è vissuta per lunghissimo tempo svincolata dalla scrittura, la quale nacque “solo” attorno al 3500 a.C in Mesopotamia, ad opera dei Sumeri.
Essa comparve soprattutto per motivi pratici: i sacerdoti infatti avevano necessità di tenere traccia scritta della quantità di prodotti che entrava in città, ed iniziarono a segnare su tavolette d’argilla simboli che rappresentavano oggetti e numeri. Con il passare del tempo, tali simboli divennero sempre più complessi, fino a rappresentare vere e proprie parole per poi diventare frasi, andando a costituire concetti.
L’essere umano ha però una storia ben più antica rispetto quella della scrittura ed anche successivamente alla sua invenzione, ha vissuto per diversi millenni senza utilizzarla, trasmettendo informazioni ed esperienze in forma orale.
Uno dei motivi per cui ciò è avvenuto è la scarsa affidabilità attribuita alla parola scritta.
Socrate per esempio, sosteneva che fosse disumana, inanimata, e che distruggesse la memoria. Inoltre, si riteneva che la parola scritta non potesse sostenere fino in fondo un concetto o una tesi, e che solo la “parola parlata”, attraverso l’arte dell’oratoria, potesse farlo.
L’oratoria si sviluppò inizialmente in Grecia, ad Atene, grazie a personaggi politici di spicco come Temistocle e Pericle, ed ebbe una successiva grande diffusione a Roma. L’oratoria fu utilizzata per le discussioni in Senato, per la conquista del potere politico e per l’innalzamento del prestigio sociale. Essere un buon oratore, quindi, era l’obiettivo principale dell’educazione greco-romana.
La scrittura si compone di una successione di regole che permettono al testo di districarsi nella complessità del pensiero dell’autore. A differenza di quanto si può pensare, anche l’oralità possiede delle regole, queste permettevano ai cantori e agli aedi dell’antica Grecia il ricordo e la trasmissione del testo orale narrato. Una di queste tecniche era la ripetizione: nella cultura orale la conoscenza doveva necessariamente essere ripetuta affinché non fosse dimenticata. A tale scopo si ricorreva alle allitterazioni, alle ripetizioni, ai proverbi comunemente condivisi, agli epiteti e alle espressioni formulaiche.
I testi orali dovevano essere scanditi da un ritmo marcato, infatti molte opere erano accompagnate dalla musica, oppure avevano temi standardizzati come i banchetti, le scene di battaglia, il ritorno in patria...
Quando si parla della genesi della letteratura occidentale, è necessario fare riferimento all’Iliade e all’Odissea. Questi due testi sono fra i più conosciuti e studiati della storia letteraria universale, eppure costituiscono tuttora un vero e proprio mistero.
L’enigma più grande è quello della cosiddetta “questione omerica”, apparsa per la prima volta nel XIX secolo. Molti critici negano l’esistenza storica di Omero, il presunto autore dei due poemi. Gianbattista Vico sostiene per esempio che costui non sia mai esistito e che i testi a lui attribuiti siano frutto della creazione popolare. Attualmente si ritiene difficile che un’unica opera possa essere stata composta da un’intera società e si è per questo motivo soliti attribuire i due poemi epici ad un'unica figura. (Storia diversa, per esempio, per i fratelli Grimm, che hanno raccolto e messo ordine alle numerose favole elaborate nel corso dei secoli dalla tradizione popolare, ma che non furono gli autori di quelle opere).
Tornando alla questione omerica, altri letterati sono propensi a credere che Omero sia stato un vero e proprio rapsode (termine che deriva dal greco rapsodia, cioè “cucire insieme”) e che quindi si sia adoperato per raccogliere e raggruppare le memorie e le narrazioni degli aedi sulla guerra di Troia, dando vita al più grande poema orale della storia.
Omero utilizzò molte delle espressioni formulari tipiche della poesia orale. In particolar modo fece un ampio uso degli epiteti, cioè di aggettivi che descrivono una o più qualità del soggetto: “Achille piè rapido”, “Pelide Achille”, “il più forte dei Danai”, ecc.
Esistono diversi motivi per cui il presunto autore utilizzò tali appellativi. Una è di ordine pratico: era necessario soddisfare le “esigenze metriche” della narrazione e quando recitava un poema a memoria, il cantore aveva a disposizione una serie di aggettivi da utilizzare in base al ritmo che voleva dare alle diverse frasi pronunciate. Doveva scegliere, nella sua vasta gamma di termini conosciuti, tutte quelle parole che si adattavano meglio al metro dell’esametro.
Inoltre gli epiteti servivano ad esaltare le caratteristiche particolari dei soggetti: era necessario riferirsi a personaggi eroici, dalle spiccate qualità positive o negative, in modo che essi si imprimessero più facilmente nella memoria collettiva.
L’Iliade e l’Odissea furono trascritti in greco tra il 700 e il 650 a.C. Nel corso dei secoli, la scrittura si diffuse sempre di più, fino ad essere impiegata per la stesura di opere, testi, ballate, poesie, ecc. Progressivamente, venne meno la necessità di descrivere personaggi eroici e mitizzati, dal momento in cui non c’era più bisogno che chi ascoltava mettesse a memoria soggetti e narrazioni. Il lettore iniziò ad apprezzare la moderatezza d’animo dei personaggi, la loro introspezione psicologica e lo studio dei caratteri. Nacque il romanzo, e i primi redattori di tale genere furono principalmente donne.
La scrittura e l’oralità interessano due sfere sensoriali distinte. La prima si riferisce alla vista e tende a chiudere, ad isolare i concetti all’interno di nuclei stabili costituiti dalle parole scritte.
La seconda si riferisce all’udito e porta all’unificazione e all’apertura dei concetti. Ascoltare un discorso significa aprirsi alla totalità e completezza dei suoni, così che a volte non si ha la necessità di concentrarci sulla singola parola. La vista focalizza ed isola i singoli elementi, l’udito li fruisce nel loro insieme.
Durante un’esecuzione d’orchestra, per esempio, è percepibile il connubio dei suoni prodotti dai singoli strumenti, ma non riuscire a vedere contemporaneamente il violino e il pianoforte che suonano.
Dunque l’udito, come anche l’oralità e la parola stessa, uniscono profondamente, tant’è che“parlare” deriva da una forma basso-latina con influenze Cristiane: “parabolare”, che significa “esprimere parabole”. Queste ultime, anticamente, avevano una duplice funzione: da un lato costituivano una modalità di apprendimento fondamentale per le persone, dall’altra consentivano la comunicazione diretta fra il narratore e l’ascoltatore; conseguentemente le parabole, come adesso fa la parola, permettevano di porre in contatto le due individualità.
Ma tornando alla scrittura, dal momento in cui si è detto essere caratterizzata da un forte ermetismo, sorge quasi spontaneo il dubbio riferito alla modalità con cui essa riesca ad esprimere un “pensiero aperto”. molti filosofi si sono interrogati e tutt’ora lo fanno, su come sia manifestabile l’infinità e la circolarità dell’essere, in qualcosa di chiuso e limitato come il testo scritto. Il filosofo Heidegger è giunto ad una possibile risposta: attraverso la poesia ed in particolar modo grazie alla metafora. Quest’ultima è infatti in grado di abbattere ogni legame tangibile con la realtà sensibile, il linguaggio poetico offre all’individuo una tale libertà e profondità d’espressione da superare i limiti imposti non solo dalla scrittura, ma anche dalla limitatezza della ragione umana.
Molti studiosi hanno dimostrato come la scrittura abbia modificato i nostri schemi di pensiero, come abbia favorito il pensiero astratto, incoraggiato il pensiero simbolico, sviluppato la capacità di formulare autoanalisi articolate, ecc. ciò cui però si sta andando in contro, sempre secondo Ong, è una sorta di “oralità di ritorno”, detta propriamente “oralità secondaria”, dovuta ad un progressivo abbandono della scrittura in modo “inconsapevolmente scelto.” La scrittura infatti è molto meno immediata rispetto la parola ed un esempio di tale progressivo cambiamento si ha prendendo in considerazione la diffusione dei mezzi elettronici, i quali favoriscono la scioltezza della comunicazione orale: i messaggi vocali, le telefonate o le piattaforme usate per le dirette, risultano estremamente più immediate rispetto ad un testo scritto come un articolo di giornale o un libro, e richiedono un minore sforzo di concentrazione e di interpretazione, elementi invece indispensabili per la parola scritta. La conseguenza è che le nuove generazioni sono meno attente alla parola intesa come “forma”, ed infatti recenti studi dimostrano che gli studenti di oggi commettono un numero quattro volte maggiore di errori ortografici e sintattici rispetto a quelli di cinquanta anni fa.
C’è, infine, un ultimo problema riguardante la memoria. Si è fatto riferimento al fatto che la scrittura consente di fissare e tramandare le testimonianze in modo semplice e sicuro.
La società attuale ha a disposizione una grandissima mole di materiale scritto e di conseguenza, dal momento in cui questo è facilmente reperibile, ci dovrebbe essere una maggiore consapevolezza riguardo le diverse tematiche del conosciuto umano; sembra invece che stia avvenendo il procedimento opposto. Più materiale scritto si ha a disposizione, meno si tende a ricordare e più facilmente si è portati a dimenticare. La possibilità ormai infinita di conservare le informazioni su supporti informatici sta deprimendo la capacità mnemonica, e l’uomo, confortato dal fatto che le informazioni son ben archiviate nelle memorie esterne, sta lentamente scivolando nella dimenticanza biologica. Non essendoci più la necessità pressante di “mettere a memoria”, si sta progressivamente perdendo la facoltà che ha accompagnato l’essere umano fin dall’inizio dei tempi, quella del ricordare.
Ma se la natura dell’uomo è spinta dal desiderio della conoscenza, e se la “pigrizia” indotta dal numero infinito di documenti scritti sta spegnendo lentamente questo desiderio, allora la scrittura sta diventando davvero disumana, come sosteneva Socrate?
Alessandra Zagaria
Fonti: “Oralità e scrittura” di Walter OngPlatone, insieme ad Aristotele, è stato il massimo esponente del pensiero filosofico dell’età classica e, benché sia vissuto più di duemila anni fa – per l’esattezza ad Atene tra il 428 a.C. e il 347 a.C. circa –, ancora oggi possiamo trarre preziosi insegnamenti dai suoi testi.
La straordinaria attualità contenuta nelle parole di questo personaggio può essere individuata nella dottrina dell’immortalità dell’anima e della conoscenza per reminiscenza, condensate nei dialoghi Menone, Fedone, Fedro e nell’arcinoto mito della caverna, tratto dal dialogo intitolato Repubblica. Peraltro, proprio tali capisaldi del sapere platonico sono diventati oggetto di trasposizioni cinematografiche: rispettivamente, nel film Matrix e nel recente adattamento ad opera dello studio di animazione Disney, Soul.
Molteplici aspetti della vita di Platone e, soprattutto, del suo pensiero, ci proiettano direttamente verso il tema della virtù, intesa come ricerca della verità. In questo senso, un primo riscontro emerge dall’aperta condanna che egli rivolge nei confronti della scrittura. Sostiene, infatti, che la parola scritta, per natura, non abbia la capacità di restituire l’esperienza che l’ha prodotta e, dunque, risulti decifrabile in ogni sua declinazione (forse) solamente dall’autore. Il padre di uno scritto si configura come una figura imprescindibile, a maggior ragione se si considera che, spesso e volentieri, si rischia di incorrere in interpretazioni fuorvianti, spiegazioni tutt’altro che logiche e rigorose ed equivoci sul piano esegetico. A tal proposito, si può fare un esempio. Prendiamo una qualsiasi formula matematica: si tratta di concetti reali e corretti, senza alcun dubbio; ma, se proposti a un uditorio sprovvisto delle conoscenze, necessarie a coglierli, risulteranno incomprensibili e incoerenti con il contesto.
Ecco, dunque, che Platone sceglie di trasmettere il proprio sapere filosofico in una forma inedita, affine alla comunicazione orale (che è per lui il luogo privilegiato dell’accadere della verità): il dialogo, una sorta di riadattamento e rielaborazione di questa, nel quale si inseriscono anche numerosi miti. Secondo Platone, il racconto figurato svolge un ruolo fondamentale nell’approccio alla conoscenza razionale. La sua funzione, infatti, è quella di suggerire e avvicinare alla verità anche chi ha meno capacità di comprensione teorica. Come il filosofo stesso suggerisce, nessun mito coincide con la verità e, d’altra parte, nessuna dottrina, nessuna spiegazione – e, tanto meno, nessun pensiero filosofico – possono prescindere da un mito; ma, dal momento che descrive ciò che il concetto non può raccontare, ne costituisce la porta d’accesso. Il valore educativo che assume il racconto mitologico viene sviluppato nel dialogo intitolato Leggi, dove spiega che, siccome le anime dei giovani “non riescono a sopportare la serietà”, è necessario raccontare loro i principi della realtà – dall’amore alla politica passando per i rapporti interpersonali – mediante una narrazione simbolica, assistita da giochi e canzoni, che l’anima stessa apprenderà sotto forma di Idea.
L’approccio alla verità, secondo Platone, deve avvenire mediante immagini in grado di raccontare lo stupore e la meraviglia, da cui, peraltro, nasce anche la filosofia – come poi scriverà il suo allievo prediletto Aristotele nel I libro della sua Metafisica. Tale percorso, ribattezzato nel dialogo più famoso di Platone, il Simposio, con il nome di scala amoris, è basato sul perfezionamento dell’anima con annessa ascensione dal mondo sensibile a quello intelligibile. Introducendo una metafora ciclistica, si potrebbe affermare che si tratta di una sorta di corsa a tappe che conduce fino a una conoscenza approfondita della vera realtà, l’Idea di Bene, passando per quattro crocevia fondamentali: l’aspirazione a ciò che è Bene, il possesso del Bene, la generazione di bellezza e armonia nell’ambito del Bene e, in conclusione, il desiderio di immortalità. In questo frangente, pare emblematica la maniera in cui Platone dipinge l’arte, che egli stesso distingue in due categorie: l’arte come strumento educativo, a cui si rifà in quanto narratore di miti, e l’arte come espressione puramente estetica. Nella Repubblica rivolge un’aspra critica nei confronti di artisti e poeti, dal momento che i loro prodotti, derivati da un’invenzione puramente umana, risultano la copia di un mondo già di per sé frutto dell’imitazione di un’Idea trascendente.
Nella società contemporanea, complici le innumerevoli notizie, i giudizi e i gesti, individuare autenticità e reale valore di una fonte, da una semplice notizia a un annuncio pubblicitario, non è per nulla semplice. Una chiave di lettura di tale tematica può essere individuata nell’insieme di tutti quei valori insiti in ognuno di noi e legati a esperienze personali o a questioni dottrinali. Nel caso in cui, però, si volesse chiamare in causa una disciplina capace di offrire una risposta di carattere poliedrico, si potrebbe, senza alcun dubbio, far riferimento alla scienza, simbolo per eccellenza della moderna concezione di che cosa si intenda per conoscenza oggettiva e, dunque, universale. Al giorno d’oggi, non è errato sostenere che la filosofia, per via delle numerose scoperte scientifiche fatte nel corso dei secoli, abbia perso posizioni nei confronti della scienza, ritenuta, spesso e volentieri, come avvolta da un’aura di infallibilità; lo dimostra la tipica giustificazione “non lo dico io, lo dice la scienza”.
Da queste considerazioni, emerge un’ulteriore differenza tra passato e presente: Platone sostiene – e qui stiamo volutamente semplificando il suo pensiero – che la verità coincida con l’Idea; mentre oggi, il termine verità si definisce come la piena ed effettiva corrispondenza di un’azione con la realtà dei fatti. Di conseguenza, è possibile comprendere come la scienza abbia potuto ottenere il posto di rilievo che occupa ormai da secoli. Smentire questa tesi – cioè quella per cui la scienza mette sempre di fronte a fatti verificabili e quindi arriva a verità inconfutabili –, in realtà, è più facile del previsto; basti pensare all’evoluzione delle teorie enunciate nel corso dei secoli riguardo la gravitazione universale da Cartesio, Newton e da Einstein (e tutt’oggi ancora in divenire).
Ciò non significa che l’operato della scienza debba essere ignorato o sottovalutato, ma, piuttosto, ridimensionato, dal momento che, in fin dei conti, come scrisse Dante nel XXVI canto dell’Inferno, in occasione dell’incontro con l’eroe omerico Ulisse, “fatti non [fummo] a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
Dunque, ognuno di noi, a partire dal proprio piccolo, dovrebbe prodigarsi per far valere quei principi di integrità e caratterizzazione che sembrano sempre più venir meno nel desiderio, per altro piuttosto vacuo, di emulare personaggi social che vengono ritenuti modelli di vita.
Approfondendo la dottrina platonica, è facile accorgersi che la sua incredibile attualità si verifichi anche rispetto a tematiche solo apparentemente distanti da quelle contemporanee, e in realtà fortemente alla ribalta, vale a dire l’amore tra persone dello stesso sesso e il ruolo della donna nella società.
Platone analizza la questione amorosa in un suo dialogo, il Simposio; questo termine, nel suo significato letterale, indica il momento in cui, al termine di un pasto, gli invitati consumano vino convivialmente, quindi in funzione della discussione che ne seguirà. In quest’opera, egli ricostruisce una serie di dialoghi sull’amore, nel tentativo di enunciare il principio secondo il quale tale sentimento non risiede nella bellezza fisica (o almeno non solo), ma in quella dell’anima. Molti critici hanno interpretato questo scritto come una sorta di gara di retorica, per via della maestosa ricostruzione che il filosofo fa di ciascuno stile – restituendo alla perfezione, per esempio, il lessico settoriale, da quello del medico Erissimaco a quello del commediografo Aristofane (colui il quale aveva messo in scena una rappresentazione in cui aveva descritto Socrate come un maestro dai tratti di folle sofista disinteressato alla verità).
Per quanto riguarda il tema dell’amore omosessuale, due degli interlocutori – di cui vengono riportati di seguito alcuni estratti degli interventi – possono dare un contributo: il sofista e politico Pausania e la sacerdotessa Diotima, mediatrice del pensiero di Socrate.
«L’altro Eros, invece, partecipa dell’Afrodite Urania che da sempre è estranea all’elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione quanti sono ispirati da questo Eros sono attratti dall’elemento maschile: essi amano teneramente il sesso per natura più forte e intelligente».
(tratto dal discorso di Pausania, nel Simposio)«Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l’attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l’anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all’imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell’unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest’uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità».
(tratto dal discorso di Diotima, nel Simposio)Pausania introduce la divisione fra un amore volgare, definito “Pandemio”, volto al corpo, e un amore elevato, definito “Uranio”, volto all’anima. L’amore celeste che Platone si figura in questo passo è quello della relazione educativa tra allievo e maestro; si tratta di un sentimento che aspira alla purezza e permette all’anima di elevarsi, a differenza dell’amore tra uomo e donna, che ha come focus fondamentale la procreazione.
Questo rapporto educativo viene trattato in modo analogo anche da uno dei primi autori della letteratura latina: Terenzio. Costui, rifacendosi, peraltro, ai modelli greci, nella commedia intitolata Adelphoe porta avanti l’idea che i giovani non debbano essere abituati a comportarsi in maniera giusta per una costrizione esteriore o per timore di una punizione, ma piuttosto per via di un reciproco rispetto.
Tornando a Platone, un’ulteriore riflessione riguardo tale argomento viene suggerita, ancora una volta, nella Repubblica, in cui si insiste su ciò che diviene elemento fondante di questo amore: l’elemento che attrae due corpi è l’amore per l’Idea che li unisce e, quindi, ciò che realmente amano e desiderano è la conoscenza. A queste considerazioni si riallaccia il discorso di Diotima, la quale ripercorre le tappe fondamentali della già citata scala amoris, aggiungendo che esiste una forza creativa ancor più forte di quella esercitata da coloro i quali amano e procreano nella bellezza. Si tratta della forza educativa della saggezza; chi conosce ha molto da dare e crea entrando in contatto con qualcuno che è desideroso di imparare, tale condizione genera una bellezza superiore. Si comprende, dunque, che la vera bellezza coincide con l’educazione dell’anima (una suggestione: anche da qui, probabilmente, trae origine il detto popolare “l’importante è essere belli dentro”... Spesso banalizzato o usato con ironia, esso riprende, però, questa fondamentale continuità e differenza che Platone traccia nei due tipi di bellezza). A questo punto, possiamo dire che questa concezione platonica del rapporto fra amore e bellezza potrebbe sintetizzarsi in un percorso di conoscenza che sfocia nell’impegno dell’uomo per migliorare la propria anima.
In relazione ai giorni nostri, facendo riferimento anche al concetto di giustizia nella città ideale platonica descritta nella Repubblica (“giusto è ciò che compie in massimo grado la propria funzione naturale”), si potrebbe sostenere che ciò che manca è la cosiddetta parresìa, propriamente la “libertà di parola”, ma, in questo caso, ancora più opportuna è la resa del significato come “libertà di pensiero e di ricerca”. In fin dei conti, come sostenuto dal medico Erissimaco nel Simposio, l’amore è come una medicina, un principio che cerca equilibrio e armonia in tutte le cose. Dunque, per quale motivo, nel 2021, dovremmo opporci a una relazione che, seppur non seguendo i canoni dei più ligi tradizionalisti e conservatori, permette a degli individui di trovare, come suggerisce, questa volta, Aristofane (in un altro celebre discorso del Simposio), la propria anima gemella, di sentirsi in pace con se stessi, di sentirsi accettati da qualcuno e, per di più, in un’ipotetica ricostruzione della della prospettiva città ideale, di esprimere al meglio le proprie potenzialità?
Proprio prendendo spunto dall’accenno appena fatto alla città ideale, come già detto figura fondamentale contenuta nel dialogo Repubblica, introduciamo un altro tema di enorme attualità presente nelle riflessioni di Platone: la collocazione della donna all’interno della società. Per rendersi conto di quanto tale argomento risulti importante per Platone, basti pensare che l’intero V libro del dialogo è dedicato a esso. Tra le numerose citazioni possibile, eccone una tra le più eloquenti e significative:
«Pertanto, caro amico, nel governo della città non c'è alcuna occupazione propria della donna in quanto donna, né dell'uomo in quanto uomo, ma le inclinazioni sono ugualmente ripartite in entrambi, e per sua natura la donna partecipa di tutte le attività, così come l'uomo, pur essendo più debole dell'uomo in ognuna di esse».
(tratto dal discorso di Socrate contenuto nel libro V della Repubblica)Innanzitutto, è bene precisare che Platone non è da considerarsi, in alcun modo, un femminista (anzi). In fin dei conti, si trova immerso in una società e in una cultura in cui la figura della donna viene relegata alle faccende domestiche e, a eccezione delle celebrazioni religiose, non può nemmeno partecipare alla vita pubblica (tale aspetto emerge dalle considerazioni esposte dal filosofo in chiusura del passo riportato sopra e in quello, precedentemente analizzato, relativo a Pausania).
Detto ciò, Platone rimane coerente con il suo sistema filosofico; infatti, arrivati a questo punto, si può dire che, comunque, nella città platonica ognuno può accedere alle medesime cariche o funzioni: anche una donna possiede le potenzialità per diventare governante o guardiana e – ancor prima – ha la possibilità di accedere a un modello di istruzione analogo a quello dei compagni di sesso opposto. Questo aspetto permette di comprendere come il filosofare e il praticare la virtù non siano materia esclusiva degli uomini.
Sebbene si tratti solamente di un’idea, mai tradotta in fatti (persino lo stesso Platone era ben consapevole che tale progetto fosse puramente ideale e, come tale, inevitabilmente destinato al fallimento se applicato alla lettera nella realtà storica; e questo anche e soprattutto, forse, per quell’educazione “di stato” che doveva essere raggiunta tramite la dissoluzione dei nuclei familiari privati), risulta estremamente moderna e anzi, questa ipotetica uguaglianza tra i sessi è qualcosa di cui ancora oggi, in molti, auspicherebbero il raggiungimento.
Prendendo come esempio l’attribuzione di una carica istituzionale o di una occupazione lavorativa, l’elemento che dovrebbe prevalere è il livello di sviluppo delle proprie capacità; purtroppo, spesso e volentieri, prevalgono invece favoritismi, pregiudizi e falsi miti. A tal riguardo, rimanendo imparziali e senza entrare nei particolari della vicenda, una condotta virtuosa può essere rappresentata dalla decisione del neo-segretario del Partito Democratico Enrico Letta di sostituire con due donne gli attuali capigruppo alla Camera e al Senato del proprio schieramento.
La caverna di Platone di Helena Bertolotti
Ricalcando l’immagine di un mito, in particolare dell’arcinoto mito della caverna, è possibile chiudere il cerchio dicendo che, forse, ciò che più fa sentire la propria mancanza nella nostra quotidianità è un personaggio come Socrate. Costui, infatti, come si evince dagli scritti di Platone, appare capace di mettersi in discussione, di abbandonare pregiudizi e premature convinzioni per aprirsi alle idee altrui. Per via di questo suo modus operandi, nella società contemporanea, potrebbe ricoprire il ruolo di guida e testimone nel tentativo, per usare un’immagine del mito, di far aprire gli occhi a tutti gli “schiavi” incatenati e, quindi, gettare le basi per un clima di tolleranza e comprensione nei confronti dell’altro.
Negli ultimi anni, sono stati fatti enormi passi in avanti in quest’ambito, ma ancora nella nostra società prevalgono individui paragonabili a Cypher, il personaggio negativo di Matrix, famosissimo film distopico del 1999, che si scagliano contro l’ipotetico “liberatore” per tornare alla menzogna (proprio come lui aveva fatto con Morpheus e Neo, i due protagonisti positivi del film). Indubbiamente, si può dare ragione a questi quando sostengono che vivere nella libertà e nella ricerca della verità ci metta lungo un percorso tortuoso, ma non si può negare che, al termine, questo cammino conduca alla virtù e, dunque, alla verità, e porti a collaborare all’idea di giustizia universale applicata non all’idea di affermazione egoistica di sé (come inteso dalla teoria dell’“utile del più forte”, concezione della giustizia espressa nella Repubblica dai personaggi di Trasimaco e, tramite l’immagine del mito dell’anello di Gige, di Glaucone), ma alla collettività (concetto reso esplicito nel quadro della città ideale delineato da Socrate, in cui, anche in ambito politico, la ragione deve prevalere sugli interessi).
Ognuno, dunque, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale, dovrebbe essere libero di coltivare la propria indole naturale per poter esprimere, al massimo grado, il proprio valore all’interno della società, in virtù di una maggiore coesione.
Per concludere, una figura che, in un certo qual modo, si avvicina molto alle linee-guida etiche espresse da Socrate può essere individuata in Barack Obama, 44° presidente degli Stati Uniti, nonché primo afroamericano a ricoprire tale carica. Egli, a partire da una condizione familiare precaria, ma con tanta voglia di far sentire la propria voce e, a mio parere, tanta umiltà, in otto anni di permanenza alla Casa Bianca, è diventato uno dei personaggi maggiormente amati dall’opinione pubblica, anche in virtù di quello che molti ritengono essere un impagabile lavoro a livello politico-amministrativo.
Il segreto del suo “successo” emerge dalle pagine della sua biografia, in cui Obama si mette a nudo, raccontando gli aspetti più interessanti della sua vita privata e i momenti significativi del suo duplice mandato.
«Quell’incertezza, quel mio mettermi in dubbio mi trattennero dall’accontentarmi troppo in fretta di facili risposte. Presi l’abitudine di porre in discussione le mie stesse convinzioni, e questo, credo, alla fine si rivelò utile, non solo perché mi impedì di diventare insopportabile, ma perché mi immunizzò contro le formule rivoluzionarie sottoscritte da un sacco di gente di sinistra agli albori dell’era Reagan».
(B. Obama, Una terra promessa, Garzanti, Milano, 2020)Luca Taverna
L’oroscopo, dal latino horoscopus (“osservare l’ora”) è l’interpretazione astrologica della posizione degli astri al momento in cui si verifica un qualsiasi evento. Interpreta l’influenza degli Astri sulla vita dell’uomo (opinione piuttosto comune in tutte le culture sin dall’epoca antica) in base al proprio Segno Zodiacale. Lo Zodiaco è suddiviso in 12 segni.
Per sapere qual è l’insieme di queste posizioni astrali al momento della nascita di ogni persona lo possiamo guardare calcolando il Tema Natale.
Sul sito ‘astri e psiche’, il tema natale è definito come l’insieme del nostro DNA e “la nostra commedia/tragedia personale rappresentata sul palcoscenico della vita”. Definizione molto poetica, ma che sostanzialmente intende indicare che l’esatta posizione degli astri nel cielo nel momento della nostra nascita è fondamentale per comprendere come essi possano influire sul nostro carattere, la nostra vita di tutti i giorni e il modo di reagire agli eventi che ci capiteranno nel corso della nostra esistenza.
Inserendo il nostro luogo di nascita, la data in cui siamo nati e il giorno avremo una carrellata di pianeti e altri aspetti, a ciascuno riferito uno dei 12 segni zodiacali esistenti nello zodiaco.
La classificazione così determinata deriva dalla tradizione classica e, ovviamente, al giorno d’oggi dal punto di vista strettamente astronomico genera incongruenze: per esempio, il ‘passaggio’ del Sole nelle ‘dodici case’ non è più a intervalli assolutamente regolari (alcuni segni durerebbero di più, altre di meno); addirittura, intorno a novembre, si dovrebbe inserire, pur per pochi giorni, anche un tredicesimo segno, quello dell’Ofiuco (il serpente cosmico, nella mitologia greca).
Gemelli di Asma Salouh
Pesci di Asma Salouh
Ariete di Asma Salouh
La rappresentazione del nostro tema natale è appunto una circonferenza suddivisa in 12 spicchi per ogni segno. Ovviamente per gli ‘esperti’ ci sono molti particolari complessi ulteriori (come il trigono, lo zenith eccetera), ma per una infarinatura generale, ecco a voi un simpatico schema delle informazioni base contenute nel tema natale:
Sole: è riferito al nostro segno zodiacale (il segno più determinante in noi. Esempio: sole in Gemelli, sole in Cancro, eccetera);
Ascendente: è riferito al segno che esprime il modo in cui ci mostriamo alle persone;
Luna: è riferito al passaggio del nostro satellite nel segno che esprime la nostra emotività, il nostro modo di essere interiore;
Mercurio: è riferito al segno che esprime la nostra intelligenza, il modo in cui un individuo pensa, apprende e comunica;
Venere: è riferito al segno che esprime il modo in cui viviamo l’amore;
Marte: è riferito al segno che esprime il modo in cui agiamo, la nostra aggressività, la nostra volontà;
Giove: è riferito al segno che esprime la nostra moralità, i nostri ideali;
Saturno: è riferito al segno che esprime il modo in cui affrontiamo le sfide e i nostri limiti;
Urano: è riferito al segno che esprime il nostro senso di ribellione, l’indipendenza, la capacità di cogliere le opportunità;
Nettuno: è riferito al segno che esprime la nostra psiche, la fantasia, l’immaginazione, il sogno, l’illusione;
Plutone: è riferito al segno che esprime il modo in cui reagiamo ai cambiamenti e la nostra capacità di risorgere dalle crisi;
Cerere: è riferito al segno che esprime la nostra crescita, lavorativa e personale;
Giunone: è riferito al segno che esprime il modo in cui ci comportiamo all’interno di una relazione.
Scorpione di Asma Salouh
Acquario di Asma Salouh
Sagittario di Asma Salouh
Ci sono altri pianeti che esprimono chi siamo, ma questi sono quelli più importanti.
Occorre tenere conto del fatto che per quanto gli astronomi storcano il naso, gli astrologi hanno cercato di ‘evolvere’ la loro lettura degli astri, sin dal medioevo. Per esempio, i pianeti transaturniani non sono stati noti sino alla nascita dei cannocchiali e telescopi (Urano e Nettuno sono stati scoperti tra XVIII e XIX secolo, Plutone addirittura nel novecento e, per giunta, declassato nei primi anni duemila dallo status di Pianeta)
Infine, come sappiamo un po' tutti, ogni segno ha delle sue caratteristiche principali. Riassumiamo in breve i vari segni, che convenzionalmente vengono divisi in quattro gruppi: segni di fuoco, di terra, d’aria e d’acqua.
I segni di Fuoco sono Ariete, Leone e Sagittario: sono passionali e aggressivi, inoltre sono molto ambiziosi.
I segni di Terra sono Toro, Vergine e Capricorno: sono brillanti, affidabili e razionali, ma a volte distanti e timidi.
I segni d’Aria sono Gemelli, Bilancia e Aquario: hanno grandi capacità comunicative e sono molto creativi, ma risultano anche un po' ingenui e poco concentrati.
I segni d’Acqua sono Cancro, Scorpione e Pesci: sono misteriosi e fantasiosi, ma anche molto instabili e a volte pieni di rabbia.
Bilancia di Asma Salouh
Toro di Asma Salouh
Vediamoli uno per uno:
Ariete: è un segno molto impulsivo e rabbioso, ma anche pieno di vitalità e sincero.
Toro: è un segno molto testardo e amante dei piaceri del corpo (cibo, affetto e denaro), ma è anche determinato e metodico.
Gemelli: è un segno a volte falso e impaziente, ma è anche un segno che si sa adattare facilmente ed è molto curioso.
Cancro: è un segno chiuso in se stesso e permaloso, ma è anche affettuoso e disponibile.
Leone: è un segno egocentrico e arrogante, ma è anche molto affidabile e leale.
Vergine: è un segno autocritico e puntiglioso, ma è anche pragmatico e analitico.
Bilancia: è un segno che reprime i suoi sentimenti ed è indeciso, ma è anche molto preciso/estetico e ha grandi capacità collaborative.
Scorpione: è un segno vendicativo e manipolatore, ma è anche carismatico e profondo.
Sagittario: è un segno che si lascia influenzare facilmente ed è sfuggevole, ma è anche indipendente e avventuroso.
Capricorno: è un segno freddo e malinconico, ma è anche prudente e deciso.
Aquario: è un segno che appare distaccato ed asociale, ma è anche idealista e originale.
Pesci: è un segno ipersensibile e lunatico, ma è anche premuroso e fantasioso.
Vi abbiamo fornito delle descrizioni sintetiche, ma sul fantastico mondo dell’oroscopo e della divinazione vi è un vero e proprio mondo (del resto, anche se per noi è quasi un gioco, per molti secoli della storia dell’umanità, per gli uomini si trattava di una faccenda molto seria), restate sintonizzati con noi, anche perché, ricordatevelo, ogni cultura nata sul nostro pianeta ha avuto il suo modo di leggere l’influenza delle stelle su di noi!
Mara Ranzani
Sofia: « Grazie mille per aver deciso di venire, spero che il viaggio Inferi-Abbiategrasso sia stato piacevole. Si sieda pure di fronte a me.»
Achille: «Sempre meglio che viaggiare con quella faccia da cane di Agamennone. Ma perchè sono stato portato qui?»
Sofia:« Per fare un’intervista, ci sono molti suoi fan, non si preoccupi ho già parlato con Ade,quando avremo finito potrà tornare senza problema agli inferi »
Achille: «Ok, ma… Lei chi sarebbe? E per che dovrei darle ascolto? Io, Achille, che fui bagnato nelle acque dello Stige, che uccisi Ettore, disertai e disubbidii ai grandi capi, perchè dovrei dare ascolto a lei?»
Sofia: «Perchè ho il potere non solo di riportarti agli inferi, ma di spedirti proprio nel Tartaro e perchè anch’io sono una regina.»
Achille si siede e si guarda attorno sospettoso.
Sofia :«Bene, ora che è finalmente seduto, possiamo iniziare l’intervista. Prenderemo alcune domande dei fan. La prima é : “Come si descriverebbe con tre aggettivi?”»
Achille:«Beh, coraggioso, invincibile e…ribelle.»
Sofia:«Ok, la seconda domanda è, tra te e Patroclo, che cosa c’è? Cugini? Amici? Innamorati?»
Achille:«Alcuni segreti devono morire con me e Patroclo nella tomba. Vi lasceremo col dubbio.»
Sofia:« Ma voi siete già morti… Ehm, terza domanda. Conosci per caso un certo Omero? Era con voi nella battaglia oppure lo avete incontrato prima di partire?»
Achille:«È una domanda di anatomia? L’omero è un osso della spalla, che c’entra con me? Io ho il tallone come punto debole, mica la spalla!»
Sofia:«No, no, quello ha un’altra pronuncia, io intendo Omero lo scrittore, ha raccontato le vostre avventure in testo scritto, chiamato Iliade, no? Mai sentito?»
Achille:«E come mi ha descritto?»
Sofia:« Non è questo il punto, lei lo conosce?»
Achille:« No mai sentito, neanche agli inferi l’ho incontrato. Però se lo dovessi beccare nell’Ade le manderò una lettera per avvisarla.»
Sofia:«Ecco, sapevo che eri anche gentile! Bene, comunque Omero l’ha descritta come un cavaliere coraggioso e dal nobile cuore ma anche feroce e assetato di vendetta.»
Achille:«Che faccia da cane quest’Omero, sarà sicuramente nei campi della pena, a pagare le conseguenze di aver descritto male un eroe, io non sono per niente aggressivo!» Dice, lanciando la sedia contro il muro, rompendola.
Sofia:«No infatti, è proprio calmo. Vuole per caso una tisana? Una camomilla? Un calamante? Tanto abbiamo 10 minuti di pausa visto che dobbiamo cercare una nuova sedia.»
DIECI MINUTI DOPO
Sofia:«Bene, questa sedia è fatta di ferro dello Stige, a prova di semidei con un basso controllo emotivo. Ora, lei si definisce uno dei più coraggiosi dei greci e dei nobili. Ma, da sua grandissima fan, ho una cosa da chiederle. Perchè, se è così nobile e coraggioso, inizialmente scappa dalla guerra, sapendo che solo con la sua partecipazione i greci avrebbero potuto vincere?»
Achille:«Beh, vedi, i veri eroi, non sono sempre coraggiosi. Lei balla giusto? Bene allora facciamo un esempio, lei prima dei saggi probabilmente vorrebbe scappare dal palco, perchè è normale avere paura. Ma quando poi sale, si rilassa e balla. La stessa cosa vale per me, non temevo i troiani, ma temevo la morte, temevo di portare dolore alle persone che mi volevano bene. Ma quando poi mi hanno beccato, la paura è svanita, ormai ero lì, forse sarei morto, ma solo se gli dei lo avessero voluto, ed essendo figlio di una dea, pensavo di
aver più possibilità di sopravvivere. In più Ettore ha fatto il giro di Troia per 3 volte prima di trovare il coraggio di affrontarmi e, ci è anche voluto l’aiuto di Atena. Io almeno non ho avuto bisogno di aiuti divini »
Sofia:«Visto che siamo in tema, cosa ne pensa di Ettore? Noi sappiamo che in quel momento lei era arrabbiato e distrutto dalla perdita di Patroclo, ma a distanza di secoli, cosa ne pensa?»
Achille:«Che quella faccia di cane si meritava una morte lenta e dolorosa, magari l’avrei dovuto lasciare ancora vivo per cani e uccelli, così mi sarei addormentato con le sue urla strazianti mentre chiedeva pi…«
Sofia:«Ok, ok, ha reso l’idea e probabilmente non dormirò stanotte. Però, abbiamo trovato una sorta di incongruenza nel suo personaggio. Lei odia Ettore, ma comprende la disperazione di un padre, infatti restituisce il corpo a Priamo, ma allora, perchè non ha provato pena anche per Ettore, padre di Astianatte?»
Achille:«Un altro figlio ha fatto? Menomale che lui pensava solo alla guerra! Non bastava Scamandrio, no, pure un altro. Beh, meglio senza padre che avere Ettore come padre, che cos’avrebbe insegnato ai suoi figli? Se non riesci a uccidere il tuo nemico, uccidi il suo… il suo.. il suo Patroclo? No, molto meglio non avere un padre. Scommetto che quei due bambini sono diventati degli eroi, in fondo sono pur sempre dei greci, ci scommetto
dieci dracme che hanno fatto la storia.»
Sofia:« Ehm, come posso dire, Astianatte e Scamandrio sono.. la stessa persona. Ah, e in più mi deve dieci dracme visto che Astianatte è stato scagliato giù da un palazzo di Troia. E, già che ci sono, qui non si usano dracme, abbiamo delle altre monete.»
Achille:«Che orribile fine, non è colpa del bimbo se era figlio di quella faccia da cane. Ma le parche non ci pensano quando decido di tagliare il sottile filo della nostra vita.»
Sofia:«Bene, vuole lasciare una piccola dedica finale per i suoi fan? O sennò la riporto subito agli inferi»
Achille:« Ok, a tutti i miei fan, che saranno sicuramente tantissimi perchè io sono strabiliante, voglio dirvi. Se mai incontrerete un Ettore, state tranquilli, perchè un giorno riuscirete ad ucciderlo.»
Sofia:« COSA?! NONO, NON PUOI INDURRE ALL’OMICIDIO LE PERSONE! È REATO! Credo che sia arrivato il momento di andartene. CERBERO!»
IL CANE ARRIVA
Sofia:«Bravo cagnolone, ora riporta il nostro ospite agli inferi e magari, fagli fare un tuffo nel Flegetonte, intesi? Bene Achille se nel viaggio vuoi leggere qualcosa, leggi questo.»
Gli porgo un libro
Achille:« La canzone di… Achille. Ehi! Sono io Achille, questo libro è su di me. Grazie mille, o regina »
Sale sul dorso di Cerbero e si allontana
Sofia Rebagliati
Presentatore (Gino): il trattato di Versailles è una conferenza con lo scopo di instaurare una pace duratura tra i paesi partecipanti della prima guerra mondiale, invece: “Questa non è una pace, ma una tregua di venti anni” sostiene F. Foch. Perchè lo sostiene?
Abbiamo la fortuna di ascoltare, insieme al nostro generale francese, un’intervista fatta ad alcune grandi potenze, commentando le loro ideologie entrando nella visione della guerra di quest’ultime.
Partiamo da qui: Il presidente americano Wilson stilò i cosiddetti “Quattordici Punti” i quali girano attorno ad un unico punto: Nazionalità, ossia a ogni popolo una nazione.
Foch (con tono un po’ da dissatore): in realtà il principio di Nazionalità non venne rispettato in quanto i confini non erano ben fatti: popoli di differente etnia si ritrovavano in stati che non li appartenevano assolutamente. Gli stati sconfitti non fecero parte del congresso, quindi possiamo definire questa pace come “imposta” in quanto l’unica cosa che gli stati sconfitti hanno potuto fare è stato firmare il trattato.
Inoltre, la mossa della Francia e Inghilterra, con tutto rispetto, non è stata intelligente! Il rischio è quello di umiliare stati che in un futuro si sarebbero ribellati... Ma questo lo vedremo più avanti.
E ora, chiamiamo in causa le grandi potenze: signori e signore, qual è il verdetto?
Francia: Très Bien... A me è stata restituita la mia amatissima Alsazia & Lorena, dato che la Germania me l’ha aggressivamente tolta umiliandomi. Ho pensato, in modo intelligente e soprattutto casuale (...), di imporre alla Germania una “riparazione di guerra”, ossia che deve pagare ad ogni potenza vincitrice più di cento miliardi di marchi in lingotti d’oro.
Intervistatore: non le sembra esagerato? Sono tanti soldi!
Francia: Figuriamoci! Assolutamente nulla di personale, la Germania è uno stato sconfitto e la clausola si chiama punitiva per un motivo ben preciso. La mia idea fu che, se avessi scombussolato l’economia tedesca, questa non si sarebbe più rialzata… Ripeto: Le clausole punitive si chiamano tali per punire, quindi in questo caso distruggere l’economia, altrimenti potevamo evitare di farle!
E lei, Germania, come ha reagito?
Germania: Follia! Abbiamo provato a far capire alla “intelligente” Francia che questa riparazione di guerra era inammissibile e imbarazzante, ma no, niente da fare. Purtroppo la nostra “lamentela” non è stata presa bene, infatti la Francia ha invaso militarmente la nostro amata regione della Renania. Perché, vi chiederete? Beh, perché abbiamo le nostre principali miniere lì... Ma che atteggiamento è questo!? Abbiamo deciso di firmare solo per aspettare il momento giusto per vendicarci: tra la Francia e la Polonia, c’è l’imbarazzo della scelta da chi iniziare!
Cosa ne pensa, da esperto, Signor Foch?
Ferdinand Foch: Ok, ci sarebbe molto da dire... Partiamo dalla Francia: “Assolutamente nulla di personale” fa tanto ridere, ma anche riflettere. E’ risaputo che nel corso degli anni la Francia è stata tanto umiliata dalla Germania, si è taaanto offesa (permalosetta, la fanciulla) dall’atteggiamento della sua rivale; è come se avesse cresciuto dentro di sé un senso di rabbia e vendetta che, dopo la vittoria, ha scaricato tutto in un colpo, come un missile, sulla Germania.
Questo atteggiamento di frustrazione cronica lo notiamo nella scelta di invadere militarmente la Renania, un po’ per gridare al mondo: “E adesso? Chi comanda ora?!?”
Diciamo che si è presa bene dopo la vittoria, ma è stata imprudente, probabilmente dalla frenesia di distruggere una volta per tutte quell’ente maligno umiliatore (parole sue, eh) della Germania. Povera stellina!
Si, miei cari spettatori, se lo state pensando, avete proprio ragione, è un atteggiamento infantile: “mi hai umiliato e adesso lo faccio anch’io”. Come ho detto prima, quel senso di vendetta ha offuscato la vista alla Francia un po’ come il velo di Maya del mio amico Schopy. Non ha visto il caos che si sarebbe potuto creare dopo, in quanto il risentimento ed il senso di vendetta tedesca aumenta giorno in giorno...
Chissà, magari in futuro avverrà un’altra guerra!
In conclusione, riprendendo la mia frase: “Questa non è una pace, ma una tregua di venti anni”, voglio intendere che, prima o poi lo sconfitto acquisira abbastanza potere da vendicarsi. Quindi quella firma di pace, soprattutto da parte della Germania, è solo una soluzione tampone per prepararsi militarmente e psicologicamente per un’altra grande guerra. Il punto di non ritorno è dato proprio dalle condizione poste agli sconfitti. Per farla semplice, ho capito che vi siete gasati vincendo, però calma!
Dopo aver ragionato, cosa possiamo dire nel 2021? Ora che sappiamo come è andata veramente?
Gaia: Cosa avrebbe potuto generare una pace più duratura? Beh, menomale che non ci siamo chiesti “come si sarebbe potuta evitare la seconda guerra mondiale” perché, dal mio punto di vista, è impossibile!
Perchè? Perchè l’azzardo da parte della Germania è stato arrendersi quando il suo esercito era ancora sul suolo nemico francese. I soldati si sentiranno eroi della patria traditi dai corrotti e codardi politici. Hitler, infatti, utilizzerà questa idea sui politici facendo un lavaggio di cervello ai cittadini tedeschi, convincendoli di essere l’unico politico affidabile.
Proviamo ora a ragione con qualche E se...?
- Se la resa non fosse stata fatta quando i militari erano ancora nel territorio nemico? Beh, economicamente parlando la Germania era a pezzi grazie alla clausola di risarcimento imposta dalla Francia, quindi Hitler avrebbe usato comunque questo pretesto per farsi eleggere in quanto lui, il grande salvatore della patria, non avrebbe mai portato la Germania a questa condizione.
- Se la Francia non avesse imposto questa clausola? La Germania si era arresta con un armistizio umiliante per i tedeschi. Ma anche se non si fosse ritirata, la Germania avrebbe comunque perso. Ormai erano arrivati i soldati Yankee, freschi e armati fino ai denti e non si sarebbero fermati prima di piantare la bandiera a stelle e striscie sul palazzo più alto di Berlino.
- Se la Germania non avesse perso? Questo è il 'se' più difficile. Senza stare a pensare troppo al come avrebbe potuto fare (quasi impossibile), Chi ci dice che i tedeschi non si sarebbero comunque 'fatti fregare'? L'oratoria di Hitler non è da sottovalutare, fu sempre molto abile a convincere il popolo... Un buon “lavaggiatore di cervelli” come ironicamente mi piace definirlo, quindi forse il popolo si sarebbe fatto “corrompere” in ogni caso.
Ma allora, come la pace sarebbe potuta durare di più? Banale ma vero: la Francia doveva gasarsi di meno! Dal mio punto di vista, la Francia si è sempre considerata una 'povera vittima', oppressa dal potere tedesco e, grazie alla vittoria, ha potuto finalmente sfogarsi e vendicarsi delle tirannie subite dalla Germania.
Non è stata abbastanza abile, logicamente parlando, e si rivelata incapace di ragionare su eventuali effetti collaterali delle sue scelte.
La Prussia ha creato una spaccatura alla Germania; infatti la seconda guerra mondiale iniziò con l’invasione tedesca in Polonia per riprendersi ciò che gli apparteneva; l’intento di Hitler era quello di riaffermare il dominio tedesco in Europa, ossia il Terzo Reich. Posso vedere la Francia come piccola stellina indifesa il cui obiettivo era “solo” di vendicarsi della Germania, ma non la biasimo, non era prevedibile l’arrivo di Hitler (o forse si?). Diciamo che l’unico obiettivo era il benessere proprio: per la Francia, finalmente, era arrivato il momento della revanche, ma non ha pensato minimamente ad eventuali reazioni, solo a gustarsi il momento (però dai, Francia non ti sei sono proprio impegnata!!!)
Gaia Vito
Il termine Kurdistan indica la regione geografica abitata dai curdi, letteralmente infatti significa “Paese dei curdi” ed occupa un’area montagnosa molto ampia situata nel Vicino e Medio Oriente, più precisamente nella parte nord-orientale della Mesopotamia. È uno stato “non-stato” dal momento in cui non ha status legale. È uno stato di frontiera diviso politicamente tra l’attuale Turchia, Siria, Iraq, Iran ed una piccola parte anche in Armenia.
Questo territorio è quindi abitato dai curdi e la questione celata dietro tale etnia è estremamente complessa. Probabilmente essi derivano da popolazioni antichissime, più antiche addirittura dei persiani, databili intorno al 3000 a.C. Riguardo le origini esistono diverse ipotesi, alcuni storici ritengono che la parola “curdo” derivi dal linguaggio pahlavi. Il termine pahlavi fa riferimento alla lingua medio persiano utilizzata ampiamente negli antichi tesi della tradizione religiosa zoroastriana. Un’ulteriore interpretazione è legata alla parola “kurt” che significa abitatore di tende ed in arabo tale termine si riferisce alle popolazioni nomadi che abitavano quell’area geografica. Suddetta interpretazione è accreditata, infatti i curdi in antichità erano pastori nomadi organizzati in tribù. Infine si crede che il termine curdo sia riferito a Korduene, un’antica regione della Mesopotamia settentrionale.
Il Kurdistan è sempre stato un territorio abitato da diverse culture e da religioni eterodosse, punto di incontro delle grandi fedi monoteiste e delle loro diverse confessioni, infatti da secoli vi convivono musulmani (sunniti, sciiti), eterodossi (turcomanni, curdi, yezidi), cristiani (assiri, caldei, siri, armeni) ed ebrei.
Per quanto concerne la religiosità dei curdi, inizialmente essi praticavano ritualità legate alla magia. Successivamente nel 637 entrarono in contatto con l’Islam e vi si convertirono rapidamente, adottandone la confessione sunnita. I curdi però, a differenza degli arabi e turchi che seguono la scuola ufficiale hanafita, adottano la scuola ortodossa shafi’ita.
L’aspetto linguistico è un elemento di forte unione, nonostante non sia presente una lingua univoca per tutto il territorio del Kurdistan, questa presenta una stabilità di caratteristiche ed appartiene al gruppo nord-occidentale delle lingue iraniche. Essa comprende molti dialetti che si ripartiscono in tre principali gruppi linguistici:
1. Il Kurmangi, cioè il curdo settentrionale
2. Sorani, parlato nel Kurdistan d’Iran e d’Iraq
3. Il gruppo meridionale costituito da molti dialetti che non è riuscito a costituire una vera e propria lingua.
La lingua è un aspetto sostanziale, in passato come anche nel presente, ha permesso di mantenere una forte unione, coesione ed un senso di appartenenza tale da permettere loro di fare fronte alle vessazioni subite dagli stati limitrofi.
Nel corso del tempo il principale strumento adottato da diversi governi contro l’etnocidio e la questione curda, è stato proprio quello di limitarne la diffusione e l’utilizzo, in modo da privar loro dell’elemento fondante dell’identità. In Turchia come in Siria, è stato impedito di pubblicare testi, leggere libri o ascoltare la radio e la musica in lingua curda. Inoltre in Iraq, durante il regime Baathista, le università dovettero sottostare a numerose limitazioni, per esempio gli studenti curdi non avevano la possibilità di iscriversi alla facoltà che desideravano, perché era una scelta che spettava ad un ufficio dell’amministrazione di Baghdad, era questo che sceglieva quali e quanti studenti iscrivere alle università. Iniziò così nel 1974 una grande repressione anticurda che causò da una parte la diminuzione delle opere letterarie in circolazione e dall’altra la fuga dell’intelligencija (gli intellettuali) curdi, principalmente in Svezia e in Francia.
Le motivazioni che spiegano le diverse rivolte curde e la progressiva violenza attuata verso tale popolazione da parte dei quattro stati che da secoli hanno ospitato i curdi, è da ricercarsi non in una sola causa, bensì in una serie di concause, legate strettamente l’una all’altra.
Il Kurdistan era parte dell’impero ottomano, così come Turchia, Siria, Iran, Iraq e molti altri stati del Medio Oriente. All’alba del XIX secolo tale impero intraprese una progressiva politica di centralizzazione e fino a quel momento il Kurdistan aveva goduto di una generale indipendenza ed autonomia.
Lo status quo di libertà in cui vivevano i curdi si andò a scontrare con le limitazioni imposte loro e le prime rivolte incominciarono nel 1805 con la centralizzazione e l’inasprimento dell’amministrazione ottomana. Nel corso degli anni, l’insofferenza curda non fece che aumentare, fino a che nel 1826 ci fu la prima dichiarazione di indipendenza, la quale non fu accolta. In totale nel XIX secolo si contarono pressappoco una cinquantina di rivolte curde. Inizialmente lo scopo delle insurrezioni non era quello di ottenere l’indipendenza, ma si limitava a difendere i diritti e i privilegi ottenuti durante gli anni precedenti. Solo in un secondo momento le rivolte si catalizzarono verso l’obiettivo di un Kurdistan unito ed indipendente, infatti il desiderio di un popolo con una religione, un proprio modo di vivere nonché i costumi, tradizioni e lingua, è proprio quello di avere uno stato riconosciuto da un punto di vista legale.
Le lotte ed il patriottismo curdo, fondate su un grande senso di appartenenza, sono state però spesso sfruttate dalle grandi potenze imperialiste al fine di trarre guadagni e risorse petrolifere, di cui il Kurdistan è ricco. In più le lotte curde per la creazione dello stato indipendente si andarono spesso a sommare e a contrapporre a quelle mosse dagli Armeni. Entrambi stavano lottando per il loro stato, uno il Kurdistan, l’altro l’Armenia. Il problema armeno scoppiò nel 1915, durante la prima guerra mondiale e si concluse con un tragico genocidio, nel quale morirono un milione e mezzo di persone.
Gli Armeni sono una popolazione situata nell’Anatolia orientale. La maggior parte della popolazione abita in Armenia, molti però, circa 8 milioni di individui, sono in Russia.
L’antica Armenia era in origine indipendente, aveva una propria lingua e la popolazione si convertì al cristianesimo intorno al IV secolo. Curdi ed armeni vissero per molto tempo in paesi vicini e convissero talvolta pacificamente, talvolta con qualche ostilità. Tra le due etnie intercorrevano diverse differenze tra cui la religione, la quale però non costituiva motivo di dissidio, dal momento in cui i curdi erano tolleranti verso le diversità. La miccia che fece scoppiare la situazione di momentanea pace fu il fatto che gli armeni erano un popolo molto avanzato, sia culturalmente che economicamente, più di quello curdo ed iniziarono a fare delle rivendicazioni politiche. Il loro obiettivo era quello di costituire un’Armenia indipendente e la paura dei curdi era che essi potessero volere per il loro stato, gli stessi territori per cui i curdi stavano lottando. Inoltre con il progressivo indebolimento dell’impero ottomano le diverse potenze europee intervennero nella politica di molti stati del medio oriente e soprattutto a favore dei cristiani. In particolar modo la Russia si avvicinò notevolmente agli armeni. Gli ottomani, che vedevano il movimento armeno come un grande pericolo per l’incolumità dell’impero, utilizzarono i curdi per fini individualistici e politici, facendo in modo che rivendicassero le stesse terre degli armeni. Inoltre i primi furono anche spinti ed istigati a compiere violenze contro la seconda etnia. Nel 1915 iniziò il grande massacro degli armeni ad opera dei curdi. Ciò che avvenne tra i turchi e i curdi fu una pura strumentalizzazione e non ci fu nessun tipo di alleanza, né militare, né politica, infatti i generali turchi erano soliti dire: “Venendo abbiamo sterminato gli armeni, al ritorno ci sbarazzeremo dei curdi”. Dopo anni di massacri efferati, armeni e curdi giunsero ad un accordo di pace, stipulato a Parigi il 20 dicembre 1919. Questo mise fine alle tensioni createsi tra i due popoli, rese vittime e strumenti dell’impero ottomano. Attualmente, tutti gli anni in occasione del Metz Yeghern, il genocidio armeno, si reca a Yerevan una delegazione curda a presenziare e chiedere perdono per le atrocità compiute.
Dopo questa data le Grandi Potenze si mossero per un Kurdistan unito, lo scopo era quello di costituire uno “stato cuscinetto” tra la Turchia e la Russia; successivamente però i rappresentanti turchi sostennero che “i curdi non differiscono in nulla dai turchi, anche se parlano due lingue diverse questi popoli formano una sola entità etnica, religiosa e con gli stessi costumi”. Di conseguenza la possibilità di uno stato unito per i curdi decadde un’altra volta. Fu il momento in cui avvenne la spartizione del Kurdistan fra i quattro stati: Turchia, Iraq, Siria, Iran, divisione presente ancora ai giorni nostri e che ha creato non poche difficoltà.
Attualmente circa la metà del popolo curdo risiede in territorio turco, nonostante i rapporti con questo stato non siano stati e non siano sempre pacifici. Nel corso degli anni venti, trenta, ottanta e novanta ci furono diverse rivolte curde, non solo in Turchia, ma anche in tutti gli stati che ospitavano curdi, mosse al fine di vedere riconosciuta la propria etnia e ottenere l’indipendenza. Tali insurrezioni tuttavia furono represse ferocemente dai governi, i quali oltre a non riconoscere l’identità curda, reputavano tale popolo come semplicemente “curdi di montagna”. Dopo il 1923 con il trattato di Losanna, che aveva stabilito la ripartizione del Kurdistan tra i diversi stati, iniziò a diffondersi in Turchia una forte dottrina nazionalistica, la quale andava di pari passo con una progressiva turchizzazione delle aree circostanti. Si iniziò a sostenere l’idea che i turchi fossero un popolo ariano proveniente dall’Asia Centrale ed in seguito ai loro spostamenti diffusero la cultura, civilizzando tutti i popoli. Il turco era il solo signore, l’unico padrone del popolo e coloro che non fossero di origine turca avevano solo il diritto di essere servitori e schiavi. Questa visione si scontrò immediatamente con la minoranza che rappresentava circa un quarto di tutta la popolazione turca ed inevitabilmente si verificò una ribellione, portando il governo di Ankara ad occuparsi per la prima volta della “problematica curda”. A tale rivolta ne seguirono molte altre, non solo in Turchia, ma anche in Iraq, Siria ed Iran.
La repressione del popolo curdo è avvenuta (e purtroppo avviene tutt’ora) secondo il medesimo schema: con carceri, torture, armi chimiche, campi di concentramento, oppressione culturale ed economica, deportazioni ed arabizzazione.
Interi villaggi vengono evacuati senza preavviso e migliaia di cittadini curdi vengono spostati dal loro paese natale, obbligati a lasciare le loro case, i famigliari, le proprie cose, per essere portati ed abbandonati in luoghi remoti o in villaggi situati sui confini. Dopo un viaggio di giorni e giorni su camion, molti deportati non riescono a sopravvivere a causa delle condizioni disumane a cui sono sottoposti; altri invece, arrivati a destinazione, vengono imprigionati in campi di concentramento, oppure dispersi in villaggi arabi.
L’arabizzazione è invece quello strumento di repressione che consiste nell’annullamento della cultura curda e la sua sostituzione con quella araba. Un esempio è dato da tali spostamenti dei cittadini curdi in città arabe, in modo tale da non permettere loro di costituire comunità unite. Viene inoltre imposto di non poter parlare altra lingua se non il turco o l’arabo, di pubblicare testi curdi, addirittura è stata promulgata una legge per la quale ogni arabo che avesse sposato una donna curda avrebbe ricevuto un compenso in denaro. Ciò che sta avvenendo, oltre che ad essere un genocidio è un etnocidio. La distruzione di un’etnia, la privazione dell’identità di un popolo, seppur senza stato. 300mila morti e 100mila sfollati è il numero di curdi che dal 1984 fino al 2001 è stato coinvolto in costanti guerre volte a distruggere l’esistenza di una cultura.
La storia mostra, attraverso gli innumerevoli conflitti, che dove c’è intolleranza c’è violenza ed oppressione e la diversità, anziché essere motivo di arricchimento reciproco, diventa espediente per provare odio e conflittualità.
Alessandra Zagaria
Fonti:Storia dei curdi di Mirella GallettiIl fiore del deserto di Davide Grassohttps://it.wikipedia.org/wiki/Curdi https://www.repubblica.it/online/fatti/pkk/pkk2/pkk2.html https://it.wikipedia.org/wiki/ArmeniVivendo nel mondo occidentale che, nella maggior parte dei casi, almeno sotto questo punto di vista, è un’isola felice, il concetto di censura è del tutto astratto. Nella mia testa è privazione della mia libertà di espressione, ma quanto è sottile il confine tra censura e «bene comune»? Dopo gli eventi di Capitol Hill e il blocco degli account dell’ex presidente D. Trump si è scatenata una sontuosa bufera nella quale ci si faceva paladini della democrazia (e, dopo quello che è successo, fa già ridere così) perché i proprietari delle due aziende digitali lo avevano censurato.
C’è da dire che penso che per considerarci clienti dovremmo pagare i servizi che ci offrono i social, in realtà potremmo benissimo considerarci dipendenti, visto che è da noi che dipendono i loro fatturati. Fatta questa premessa, è chiaro che siano i fantomatici datori di lavoro a decidere i provvedimenti da prendere in caso di negligenza. Non sono d’accordo con quello che è successo, in quanto ritengo sia un «gesto eroico» fatto solo perché il soggetto ha un grande ascendente e non per la gravità dell’atto in sé: vedasi Bolsonaro che favoreggia pubblicamente il disboscamento dell’Amazzonia senza nessuno che gli muova una mozione contro. Stesso discorso per le fake news: è giusto cancellarle? Tralasciando il dovere del singolo di informarsi sulla veridicità di esse, che non è poco, più che eliminare qualcosa di scomodo e allarmistico, in quel caso sarebbe davvero definibile censura; bisognerebbe riconoscere utilizzando, ipoteticamente, un simbolo pagine che trattano con dovizia di dettagli (e studi) un determinato argomento così da avvalorare le loro pubblicazione ma soprattutto senza deresponsabilizzarci del tutto se finiamo col credere a delle bufale, sorgerebbe però l’ennesimo problema: regressione all’infinito, ovvero, chi o cosa conferisce attendibilità alla fantomatica autorità? Pur essendo paradossale, il problema persiste.
Estremizzando un po’, potremmo tranquillamente ritrovarci a breve in una società priva di confronto: tutto può urtare la sensibilità di tutti, essere controcorrente sarebbe un’utopia, per non essere erroneamente additati con determinati aggettivi finiremmo per precluderci la possibilità di esprimere liberamente la nostra opinione.
Francesca Curti
Le prime fondamenta le getta la Bibbia: proprio nella Genesi sono contenuti riferimenti a favore di questo pensiero. In fondo non è poi così strano pensare che circa 2500 anni fa si credesse ancora che la terra fosse piatta. Ma il discorso cambia quando i sostenitori di QAnon, una teoria complottista sul Deep State (un governo nascosto collegato a reti di pedofilia globale intento alla conquista della Terra), si affidano alla religione talmente da negare dati fisici come la sfericità della Terra ancora nel 2020. Avrete sicuramente sentito parlare di questa cultura per via dell’assalto al Campidoglio di Washington D.C. avvenuto all’inizio di quest’anno, per proteggere da Satana il loro profeta Donald Trump.
Se QAnon conta discepoli in tutto il mondo è grazie a Twitter: i social network sono infatti il motivo per cui oggi si è tornati a parlare di Terra piatta. Possiedono una velocità di condivisione quasi istantanea, che permette di diffondere messaggi in tutto il globo in pochissimi secondi. Ed è così che QAnon è giunta anche in Italia: appoggiata dai partiti di destra come Lega, promuove il complotto di Kalergi, secondo cui esiste un piano che prevede la sostituzione della popolazione europea con quella africana e quella asiatica. In effetti, l’immigrazione non è ancora ben vista da molti italiani. Strettamente legati ai terrapiattisti sono i No vax, i No 5G e i negazionisti della Covid-19: dopotutto, se ci hanno mentito sulla forma del nostro pianeta, perché non avrebbero dovuto mentirci anche su tutto il resto?
Sempre nel nostro paese abbiamo esempi di terrapiattisti che però non fanno parte di un gruppo, ma sono singoli individui che conducono dei propri studi. Il massimo esponente è probabilmente Calogero Greco, che adatta le leggi della fisica alla Terra Piatta a cui collega differenti teorie tra cui quella dei giganti che ci hanno preceduto (una prova sono le dimensioni dell’ingresso del Duomo di Milano). Un altro degno di nota è Giovanni Manfrin: oltre alla scienza nega anche la storia, per questo considera Adolf Hitler un uomo compassionevole e si considera nazista in quanto rifiuti la mescolanza etnica. Inoltre, Manfrin ha tradotto un libro dello scrittore americano Eric Dubay (un'altra celebrità) che rivela tutta la verità sul Führer, ritenendo che non volesse nient’altro che la pace.
Abbiamo visto dunque differenti ragioni per cui affidarsi a questa dottrina. C’è chi lo fa per la fede cristiana, chi per i propri studi, chi per le proprie opinioni e c’è persino chi approfitta di queste manifestazioni. Ma perché credere che tutto sia un complotto? Per quanto ne sappiamo, ognuno di noi può essere protagonista di un Truman Show e quindi tutto ciò che ci circonda può essere una messa in scena, eppure la maggior parte delle persone crede alla scienza ormai da molto tempo. Questo perché ciò che impariamo a scuola può essere dimostrato, anche nella vita di tutti i giorni. Le teorie che vengono a galla negli ultimi anni invece sono spesso prive di fondamento e di una spiegazione logica. Si suppone quindi che siano frutto dell’ignoranza, alimentata dai i social network che condizionano facilmente il pensiero umano, tanto che risulta più convincente chi è più persuasivo rispetto a chi possiede più argomentazioni. Inoltre i complottisti sono inattaccabili. A loro basta infatti una sola frase per smontare qualsiasi dimostrazione che comprometta il loro pensiero: ‘’questo è quello che ti fanno credere’’. Una frase che respinge qualsiasi verità oggettiva, facendola passare come inganno. E qui ci ricongiungiamo al titolo: quanto può essere pericoloso il terrapiattismo? Dal momento in cui viviamo in un mondo in cui chiunque può accedere a notizie false, il rischio di disinformazione è alto. E i dati si vedono: negli Stati Uniti, il 2% della popolazione crede che la Terra sia piatta ed il 10% è incerta della sua forma. Perciò non potremo rimanere per sempre indifferenti a questo movimento sempre più in espansione, che conquista dopo l’altra, potrebbe occupare cariche importanti nella nostra società. Chissà, magari un giorno potremmo essere governati da un partito terrapiattista.
Filippo Ciaccia
Alessandra Zagaria
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A chi non è capitato, da ragazzi, di fantasticare sul proprio futuro? Di immaginare il lavoro perfetto per sé o anche solo la propria vita da adulti?
Scommetto che tutti avranno pensato almeno una volta a tutto questo. Il problema sorge quando a un giovane come noi viene tolta la possibilità di scegliere come vivere e chi diventare “da grande”.
Esistono storie di persone che hanno vissuto infanzie e adolescenze distruttive, piene di odio, rabbia, tristezza e depressione. Esistono persone che soccombono, purtroppo, all’ingiustizia di queste situazioni, ma esistono anche, e per fortuna, persone che combattono per ciò che sono, per ciò che vogliono e per ciò che spetta loro. E, infine, esistono persone che raccontano, parlano, informano, studiano e tramandano tutte queste storie di eroi e eroine, ragazzi come noi, di sedici, quindici, diciassette anni, che hanno avuto il coraggio di dire di no.
Una ragazza che ebbe il coraggio di dire di no è stata Franca Viola. La sua storia io ve la narro, in veste di quelle persone che cercano di tramandare queste storie di determinazione e forza, affinché tutti possiamo riflettere, grandi e piccoli, su quanto la vita di tutti noi sia mutabile e, anche, su quanto farsi valere ripaga e insegna.
La fidanzata del diavolo, di Asma Salouh
Tecnica: digitale (Ibispaint X)La mia narrazione parte da un libro “Franca Viola – la ragazza che disse NO” che, in maniera semplice e fanciullesca, ma mai banale o ingenua, racconta la storia di questa ragazza di soli diciassette anni; una di noi.
Il racconto inizia, però, ancora prima dei diciassette anni della ragazza. Franca, infatti, si fidanza, come era usanza all’epoca, a quindici anni nel 1964, ad Alcamo in Sicilia, con un ragazzo di nome Filippo Melodia, più grande di lei di circa otto anni.
Siamo solo all’inizio di questa storia e già proviamo a riflettere insieme: da quel fatidico 1964 sono passati più o meno 55 anni. Solo 55 anni fa le ragazze erano ancora costrette a fidanzarsi a giovane età con chi la famiglia decideva per loro. Non c’erano sentimenti, non c’erano uscite per conoscersi meglio, c’era solo la consapevolezza che quel ragazzo, dal giorno in cui tuo padre gli dava il permesso di fidanzarsi con te, sarebbe diventato tuo marito.
Per la famiglia Viola, di origine contadina, avere un figlio di un uomo ricco che chiedeva in moglie la propria figlia era un fatto molto positivo e vantaggioso.
Ma non stiamo raccontando una favola, quindi il principe azzurro, col tempo, si trasforma in ciò che davvero è: un ragazzo presuntuoso, cattivo, disonesto e… figlio di una famiglia mafiosa.
Bernardo Viola, padre di Franca, dopo aver compreso che tipo di famiglia era quella di Filippo, rompe il fidanzamento tra lui e sua figlia. Un atto, al tempo, di puro coraggio: andare contro ad una famiglia ricca, per di più mafiosa, negando al ragazzo la mano della propria figlia era un atto che ledeva l’onore della famiglia stessa. Ma quale padre avrebbe lasciato la propria amata figlia nelle mani di persone del genere? Tutti i padri, i veri padri, avrebbero fatto ciò che era meglio per i propri figli, e così aveva fatto Bernardo.
Ma ne pagò le conseguenze.
Dopo un breve soggiorno di Filippo in Germania (dove alcuni fonti affermano che finì anche in prigione), la tranquilla vita della famiglia Viola e della giovane Franca, ormai diciassettenne, viene interrotta dagli attacchi di sfida e intimidatori da parte della famiglia Melodia.
In pochi mesi, Bernardo, da umile contadino quale era, perde la campagna, il vigneto e il campo di pomodori in incendi che si susseguono. Filippo, credendo di aver spaventato la famiglia, torna a chiedere la mano di Franca. Ma il padre, prontamente e coraggiosamente, “lo manda al diavolo”.
Ora, per Filippo, è una questione di onore, e questo, in Sicilia, non era, nella stragrande maggioranza dei casi, un buon segno. Infatti il giovane si presenta davanti a mamma e papà Viola con una pistola nei pantaloni dicendo “questa è quella che vi schiarisce la testa, signore”.
Dopo tutto questo la famiglia di Viola passa un bruttissimo periodo: il padre è sempre irascibile, non vuole aiuto al lavoro, si prende il peso della responsabilità della sua decisione, la madre è agitata e spaventata, piange da sola cercando di non farsi sentire e nessuno può uscire di casa da solo.
Il 26 dicembre 1965 alle otto e quarantacinque di mattina, la casa di Franca, con all’interno lei, la mamma e il fratello Mariano, mentre il padre lavorava nei campi, viene circondata da molti uomini in motocicletta e in macchina che intimoriscono le persone circostanti con uno sparo rivolto verso l’alto (per ordinargli di farsi i fatti propri). Viene spaccata la porta di ingresso di casa Viola, la madre viene spinta cadendo a terra svenuta e Franca viene rapita insieme al fratellino Mariano, che le rimane attaccato per tutto il tempo, senza mai lasciarla.
Contro la violenza sulle donne, di Asma Salouh
Tecnica: digitale (Ibispaint X)Immaginiamo la scena: un bambino di otto anni che, nonostante tutti gli spintoni e gli sforzi per allontanarlo, rimane strettamente attaccato alla sorella maggiore, spaventato; un padre che torna a casa dal lavoro, sentendo in maniera confusa cosa era accaduto a casa propria, e trova la moglie svenuta sull’ingresso, la casa piena di vetri rotti e i figli spariti, i figli che non era riuscito a proteggere come avrebbe voluto.
Filippo nel casolare libera il fratellino di Franca, Mariano, due giorni dopo il rapimento, e tiene con sé Franca per otto giorni consecutivi. Durante questi otto giorni Franca viene stuprata da Filippo, per permettere a lui di sposarla indifferentemente dal volere dei genitori di lei.
Siamo negli anni ’60 in Sicilia, in un mondo che sembra così vicino al nostro, ma, allo stesso tempo, così distante. Siamo in un mondo in cui la legge consentiva di sottrarre un minore, di minimo 14 anni, ai propri genitori (articolo 544 del codice penale, cancellato nel 1981) – indecente come si utilizzi in questo articolo del codice penale la parola minore quando effettivamente questo avveniva alle sole ragazze minorenni che venivano rapite dal proprio fidanzato per poi sposarsi dopo aver passato una notte insieme.
La cosiddetta “fuitina” (piccola fuga) che avveniva tra una coppia, di cui lui più grande di lei, per obbligare i genitori della ragazza a darla in sposa al ragazzo che l’aveva rapita e “profanata” durante la notte. E per quelle coppie che non avevano la benedizione della famiglia per il matrimonio, la fuitina era un modo alternativo per sposarsi.
Quindi, questo era lecito all’epoca, ma il fatto che probabilmente scandalizza di più la nostra generazione, lontana dalla vita di Franca solo di 50 anni, era la considerazione della donna non più pura, costretta al matrimonio a causa dell’atto scandaloso che era avvenuto. Il cosiddetto “matrimonio riparatore” – riparatore nei confronti della sola donna; il maschio, invece, aveva solo fatto ciò che fanno i maschi.
La purezza della ragazza spettava, infatti, solo al marito, e sposandola le cose si riparavano: l’onore della famiglia di lei era salvo e la vita della ragazza non era più finita, ma solo iniziata, con il piccolo dettaglio che sarebbe iniziata con lo sposare il proprio rapitore.
E questo spettava a Franca: le era stata rubata la possibilità di scegliere il proprio futuro affinché diventasse proprietà dell’uomo che l’aveva “marchiata”.
Gli articoli del diritto penale dell’epoca (e non parliamo di un’epoca tanto distante da noi) mettevano il reato di stupro nel gruppo dei delitti “contro la moralità pubblica e il buon costume”, cioè quei reati contro il nostro pudore. Ma un reato del genere, che ha leso il diritto di una donna di fare le proprie scelte di vita nel momento che avrebbe preferito lei, non dovrebbe stare nei delitti “contro la persona”?
No. Solo 50 anni fa, lo stupro era considerato un reato che offendeva l’onore della famiglia, non che violava la donna, facendole del male fisico e psicologico.
Ninfa, di Asma Salouh
Tecnica: digitale (Ibispaint X)Era come se l’offesa dell’onore fosse più grave del delitto contro la persona.
A Franca, quel dicembre del 1965,era stata rubata una cosa molto importante: la libertà. E con le leggi dell’epoca la violenza sarebbe stata purtroppo il minimo problema, - se la violenza e la violazione del corpo di una donna contro il suo consenso diventa il problema minore significa che stiamo proprio sfiorando il ridicolo- poiché lei avrebbe dovuto sposare e vivere per il resto della vita con il suo rapitore e stupratore.
Successivamente, dopo gli otto giorni di prigionia di Franca, Filippo torna in paese con lei per la cosiddetta “paciata”: il momento in cui le famiglie della coppia si riunivano per organizzare in fretta il matrimonio e “fare pace”.
Il padre di Franca, Bernardo, accettò la paciata, incontrò la famiglia di Filippo, Filippo stesso e la figlia (tutta ben vestita per l’importante occasione: quella di sposarsi a 17 anni dopo essere stata stuprata, ovviamente) per iniziare le trattative per l’organizzazione del matrimonio.
Contro ogni aspettativa, il padre aveva contattato la polizia che, il mattino dopo, irrompe nell’abitazione della famiglia di Filippo e che, dopo un burrascoso inseguimento, viene messo in manette e portato in carcere.
Filippo continua ad essere tranquillo perché sa che Franca è costretta a sposarlo, altrimenti rimarrebbe emarginata per il resto della sua vita e perderebbero, lei e la sua figlia, l’onore . Ma lei non ha intenzione di farlo e grazie al padre, coraggioso quanto lei, rifiuta questo matrimonio ben poco riparatore.
Il padre le disse queste parole per farle capire il suo immenso sostegno e aiuto: “Tu metti una mano e io ne metto cento! Basta che tu sia felice, non mi interessa altro …” E da questa frase vediamo quanto la storia ci insegni molto e quanto questa sia in grado di aiutarci anche oggi. Infatti leggendo questa frase non possiamo che rimanere impressionati da come viene subito in mente come un uomo vissuto in un epoca cinquanta anni distante dalla nostra sia stato in grado di accettare una decisione della propria figlia ben distante dalla mentalità dell’epoca.
Cinquant’anni dopo sembra - come purtroppo tanti casi di cronaca raccontano - che lo stigma sociale sia immutabile ed enormemente più importante della “semplice” felicità individuale, come per esempio, nell’accettazione del proprio figlio che si dichiara apertamente appartenente alla comunità LGBTQ+.
Sarebbe infatti più giusto buttare per strada il proprio figlio piuttosto che accettare la sua “diversità” dalla “normalità” sociale e dirgli solo “Basta che tu sia felice”.* Ma questa è un’altra storia.
Ebbene, dopo la decisione di Franca la vita della famiglia Viola non sarà molto facile per un bel annetto. Bernardo perse il lavoro e gli amici, Franca fu costretta in casa per paura di ritorsioni della famiglia Melodia e un’auto della polizia sorvegliò la loro casa per molto tempo per paura di attacchi mafiosi.
Nonostante tutto quello che Franca e la sua famiglia dovettero subire, lei ebbe il coraggio di non arrendersi mai e di andare contro tutti per la propria libertà. Fu una vera e propria eroina per tutte le persone che seguirono la sua storia (e furono molte in tutto il mondo). Lei affermò più volte che aveva solo seguito il cuore ed è questa la caratteristica degli eroi: non sanno di esserlo, cercano solo di fare la cosa, secondo loro, più giusta. E Franca l’aveva fatto.
Franca, senza paura e con determinazione, sebbene si fosse guadagnata l’appellativo di “svergognata” da molti, si presenta a ogni udienza del tribunale giustificando il suo no con poche e semplici parole: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad
amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
E così, il 17 dicembre 1966 Filippo Melodia viene condannato a 11 anni di reclusione, inaspriti, dopo la Corte d’Appello, a 13 anni e confermati dalla cassazione, sebbene poi ne sconterà solo 10, morendo pochi anni dopo essere stato rilasciato, ucciso dai sicari mafiosi.
Dopo di Franca molte altre donne ebbero il coraggio di opporsi al matrimonio riparatore, fu così che, con l’inizio di un nuovo clima di speranza,
l’articolo del codice penale riguardante il matrimonio riparatore (l’art. 554) fu cancellato nel 1981.
Franca, ancora contro tutti e tutto, si sposò con Giuseppe Ruisi nel 1968 ed ebbe due figli. Aveva avuto il coraggio di lottare per la sua libertà e l’aveva ottenuta!
Questo e molto altro ancora ci è stato raccontato nelle serate organizzate da Iniziativa Donna e L’altra Libreria in collaborazione con La salamandra di Abbiategrasso; tra le tre serate quella sull'identità di genere e sugli orientamenti sessuali abbiamo già trattato nel precedente numero di B-Log.
Grazie a Valeria Palumbo, giornalista, scrittrice, storica delle donne e autrice di testi teatrali, abbiamo esplorato le condizioni sociali in cui vivevano le donne del secolo scorso e di come, grazie a donne forti e coraggiose come Franca, queste siano evolute e migliorate.
Dopo l’introduzione di Valeria Palumbo, è salita sul palco l’attrice Sara Urban che ci ha raccontato, con una scenografia semplice e delle parole ricche di significato, la storia di Franca Viola che avete appena letto.
Alla fine del monologo, l’attrice conclude dicendo: “Mi sarebbe piaciuto chiamare Franca, magari intervistarla per conoscerla da vicino, ma ho voluto rispettare il suo silenzio. Ha voluto scegliere una vita normale, lontana dai riflettori, la sua vita.” E io aggiungerei: una vita che si è guadagnata con un coraggioso e secco NO.
Mara Ranzani
Estetico, dal greco αἰσθητικός:
"che concerne la sensazione, sensitivo",
“che rispecchia i comuni canoni della bellezza, detto di persona, oggetto e simili."
Treccani
Da sempre l’essere umano ha avuto dei modelli di “perfezione umana” su cui basarsi, spesso irraggiungibili ma altrettanto spesso imitabili.
Non sempre i canoni di bellezza sono stati quelli che conosciamo oggi, così come sono cambiate le mode nel tempo, sono cambiati anche i modelli a cui l’uomo aspirava.
Gli standard di bellezza femminili di oggigiorno pretendono che le ragazze per essere belle agli occhi della società debbano essere magre senza imperfezioni (come cellulite o acne).
Ma sono sempre stati questi i canoni di bellezza? La risposta è no: un esempio è La nascita di Venere di Botticelli, dipinto nel 1485-86. Venere, come molti di noi sanno, è la dea della Bellezza e dalla Fertilità, eppure, osservando il quadro, possiamo notare che Venere ha i fianchi e le cosce grosse, perché un tempo si pensava che tali qualità avrebbe potuto aiutare durante la gravidanza, era quindi un simbolo di fertilità.
Illustrazione di Alessandro Pace
Ma, al giorno d'oggi, Venere non sarebbe considerata così bella, per via di queste caratteristiche. C’è anche da considerare che la bellezza artistica e la bellezza naturale sono due piani ben distinti. La prima, considera bella sia un quadro come “La nascita di Venere” ma anche un ritratto di Picasso, ovviamente questi dipinti fanno parte di due correnti artistiche diverse. La seconda, quindi la bellezza naturale, giudica la bellezza a livello umano, su quanto una particolare caratteristica possa piacere o meno alle persone quindi, tornando all'esempio dei quadri, Venere sarebbe considerata solo carina ma, se una donna di un ritratto di Picasso esistesse veramente, sarebbe considerata una figura orribile. Un altro dettaglio che possiamo notare, non solo in questo quadro, ma anche nei ritratti dei sovrani e dei nobili di un tempo, è che hanno tutti la carnagione bianca, estremamente bianca: la carnagione abbronzata significava, infatti, avere un lavoro sotto il sole, come contadini, schiavi o mercanti.
Al contrario, oggi, anche “abbronzato” è “bello”, non solo per il colore della pelle, ma anche perché significa spesso che la persona ha avuto il tempo di stendersi sotto al sole.
Anche questo fa notare gli innumerevoli cambiamenti che la nostra società ha subito nel modo di pensare, di vestire, di truccarsi, ma anche solo nella percezione di “fascino”.
Questo articolo ha lo scopo di far capire che i canoni di bellezza non sono costanti, ma in continuo cambiamento, mutevoli ed estremamente diversi a seconda di culture, religioni e periodi storici.
Essi si stanno sempre più ampliando cercando di includere sempre più caratteristiche; un esempio di questo fatto è il lavoro di Alessandro Michele, famoso stilista che è da quasi sei anni direttore creativo di Gucci.
Egli ha rilanciato il brand cercando di rivoluzionarlo, scegliendo anche modelle che non rientrano nei canoni di bellezza standard.
Un nuovo e anche più recente esempio di tentativo di rivoluzionare gli standard di bellezza è quello di Vanessa Incontrada, che ha pubblicato una sua foto nuda sulla copertina di Vanity Fair con la frase “Nessuno mi può giudicare”.
Questa frase provocatoria vuole far capire alla gente che ogni corpo è bello, indipendentemente dalla taglia e dalle imperfezioni.
Ciononostante, c’è chi l’ha criticata perché, appunto, ha un corpo “in carne” e non magro come imposto dai modelli femminili a cui la società si è abituata.
L’intento di queste persone famose è quello di mostrare come non esista un unico tipo di bellezza e che chi non fa parte allora è brutto, ma che ci sono tanti tipi di bellezze ed è normale preferire delle caratteristiche a delle altre, ma questo non le rende sbagliate. Perché nella bellezza non c’è un migliore o peggiore a livello oggettivo, delle regole universali per essere belli agli occhi di tutti. Ci possono essere delle preferenze a livello personale, ma non universale. E queste preferenze non rimangono tali per sempre ma spesso cambiano, per questo non bisogna escludere una persona solo perché non rispecchia i nostri gusti personali o quelli che la società ci impone.
di Sofia Rebagliati
Tu sei così giovane, così al di qua di ogni inizio, e io ti vorrei pregare quanto posso di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel tuo cuore, e tentare di avere care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di questo si tratta: di vivere tutto. Vivi ora le domande. Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano, la risposta.
(Rainer Maria Rilke, Lettere ad un giovane poeta
Una delle cose per cui sono grata a questo periodo di libertà negata e reclusione forzata è avermi ricordato il valore dell’attesa. Dico “ricordato” perché so cosa significa avere pazienza e speranza nel cuore, ma non sempre me ne ricordo l’importanza. Durante un momento come questo che stiamo vivendo, abbiamo molto più tempo per riflettere, per cercare di capirci, e ciò è un dono. Quindi ho deciso di dedicare anche dello spazio alla lettura, che ha il potere di farmi sentire meno isolata e più attenta ai miei pensieri, e mi sono concentrata inizialmente su un libro di D’Avenia, dal titolo “Cose che nessuno sa”. I romanzi di questo autore, che stimo moltissimo, li ho letti tutti, per cui sono andata alla ricerca, partendo da questo racconto, di quei dettagli percepibili solo dopo una seconda e più attenta lettura. Così, a pagina trenta, mi sono imbattuta nella emblematica citazione che qui riporto. Partirei da questa per ripercorrere quello che è stato per me un viaggio all’interno di un secolo più vicino a noi di quanto, parlandone come di una parte di storia passata, si possa credere. In realtà siamo noi la storia.
Faccio le valigie; parto dal quarto anno e sono diretta all’ultimo, all’esame della mia carriera da liceale. Prendo tutto quello di cui ho bisogno: tutta la matematica che mi porto dietro dalla prima elementare, le formule essenziali di fisica, i principali movimenti artistici, letterari e filosofici, italiani e non, che ho studiato lo scorso anno, tanta storia e chimica quanto basta, senza dimenticare latino e gli sforzi di scienze motorie. Il mio bagaglio culturale è pronto? Spero di sì!
Ho deciso di compiere questo viaggio in treno, simbolo dell’epoca che tratteremo nell’anno che mi aspetta: lo sviluppo industriale e tecnologico, di cui ho studiato finora le ambizioni, è il principio di questa nuova invenzione. Discendente dell’epoca illuminista, figlio del motore a vapore di James Watt, che dal 1765 lo introdusse nelle fabbriche, rivoluzionando la concezione di produzione e lavoro, il treno è movimento, è innovazione. Ne parla Carducci nella sua poesia “Alla stazione in una mattina di autunno” (1875-1876), includendola in una delle raccolte più famose della poesia italiana moderna, le “Odi barbare”, che quasi anticipa la metrica libera degli autori novecenteschi: descrive il treno come una bestia feroce, dai movimenti fulminei. A questo, poi, si ispireranno i futuristi, che scoveranno nel treno un’idea di irraggiungibile, di potenza infinita, di slancio, che Turner pochi decenni prima aveva interpretato così:
Pioggia, vapore e velocità, William Turner
Stati d'animo. Gli addii, Umberto Boccioni
Dunque una macchina sorprendente non solo dal punto di vista umano e progressista, ma anche tecnico: era il culmine degli studi sulla termodinamica e sul trasferimento di energia, in particolare la piena realizzazione del primo enunciato del secondo principio, che Lord kelvin formulò nel 1848 in seguito agli studi sulla macchina di Carnot. Insomma, un vero successo, che in Italia ha riscontrato la sua fama grazie all’essenziale opera di nazionalizzazione delle ferrovie (1905) proposta da Giolitti nelle sue “Leggi sociali”, in un periodo di sviluppo anche del nostro Paese, che si è rialzato seppur in difficoltà dopo i numerosi flussi emigratori di quel periodo e la povertà incombente dovuta al malgoverno post-unità. Un esempio ne è il fenomeno del brigantaggio, descritto anche da Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo Il Gattopardo, che da tempo indeboliva il Meridione.
Per cui parto, su questo magnifico frutto dell’ingegno e della ragione umani alla ricerca di risposte e curiosa come mai di guardare tutti d’un fiato gli episodi dell’ultima stagione di questa serie TV, quelli del quinto anno.
Ancora ho in mente quel quadro di Turner che, in gita con la mia classe in seconda superiore, abbiamo visto esposto alla Art Gallery di Londra. È, a mio avviso, insieme a “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich, il simbolo di questa nuova epoca che sto esplorando: il Romanticismo. Scendo dal treno, mi guardo attorno, incantata. Si tratta di un movimento artistico internazionale, di cui in Italia abbiamo studiato essere Leopardi il suo massimo esponente letterario, con quell’ideale dell’uomo fragile in confronto ad una Natura matrigna che lo crea e lo rende sensibile verso l’esistenza; in letteratura inglese ricordo una poesia, “I wondered, lonely as a cloud” di Wordsworth, pubblicata nel 1807, che mi ha colpito personalmente per l’attenzione con cui l’autore descrive il suo sentimento durante una passeggiata e il forte aspetto introspettivo di questi versi; in filosofia abbiamo trattato l’idealismo tedesco, segnato, anche in questo caso, dalla ricerca di una identità conoscitiva, secondo Schelling frutto di un processo naturale che culmina nella Volizione. L’uomo conosce per agire e agisce nella storia, che è manifestazione dell’assoluto: questo assoluto, dice Schelling, è la tensione romantica all’infinito! Mi fermo, rifletto: l’uomo, che per fin dal principio ha aspirato ad una risposta a numerosissime domande, è arrivato ora ad accettare di conoscere questo infinito, scoprendo l’effetto che ha in lui. È travolgente: è qualcosa di immenso e inavvicinabile, ma che ritroviamo sempre dentro di noi, ma essendo così forte ci spinge verso nuovi confini, e ci fa esprimere questa potenza attraverso l’arte, proprio come sosteneva Platone. Anche io finalmente comincio ad avvicinarmici, “e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Il treno sta per ripartire, mi porto con me questa voglia di infinito e vado, alla ricerca di altro che mi lasci affascinata.
Il treno si ferma e c’è una certa agitazione a bordo, tutti scalpitano per scendere. Guardo fuori dal finestrino: finalmente capisco, siamo arrivati al XX secolo. Scendo, c’è un’aria nuova, di cambiamento. Siamo appena passati attraverso un’epoca intensa, quella del Positivismo, che verso la fine del 1800 ci ha dato la spinta per raggiungere questa stazione. Positivisti, Veristi, Scapigliati tutti hanno contribuito a questo nuovo inizio, che, prima di tutto è stato tecnico. Di questo epoca di progresso sono precursori le scoperte scientifiche, che, a cavallo tra questo secolo e il precedente, spalancano le porte a una nuova prospettiva, quella relativista. È proprio del 1905 la teoria della relatività ristretta, pubblicata da Einstein in seguito a numerosi studi sul concetto di simultaneità. La sua è una scoperta che stravolge la fisica classica e ci lascia perplessi: se lo spazio e il tempo non sono assoluti, ma variano, che cosa lo è? La luce, invisibile, ma senza la quale nulla sarebbe visibile. Dunque approdiamo ad una verità, che non è sempre oggettiva, perché dipende dal sistema di riferimento da cui si osserva l’evento. Nietzsche, filosofo tedesco, esponente del Decadentismo, in qualche modo potrebbe avere anticipato questa scoperta: “non ci sono fatti, solo interpretazioni” è il motto della sua Teoria della conoscenza, secondo cui non esiste un verità universale. Il pensiero nichilista di questa affermazione è evidente, e vuole ricordare che il modo in cui ognuno vede le cose è strettamente personale e, al tempo stesso, dentro di noi ha varie prospettive. Per questo il suo Prospettivismo mi affascina: rimango stupita al pensiero che il mondo, come ci appare, è frutto di quello che siamo. Questo aspetto verrà poi studiato più ampiamente da Freud, che, concentrandosi sul soggetto, ci svelerà le numerose sfumature del nostro inconscio. Penso che l’artista che meglio di tutti ha saputo esprimere queste novità della psicanalisi sia Picasso: attraverso la scomposizione e la riproduzione in parti dell’oggetto ritratto, mi permette di guardare con occhi diversi anche una semplice chitarra, di cui non notavo i particolari. Sarà così che si presenta il mio “io”? Frammentato, ma intero?
Chitarra, Pablo Picasso
Risalgo sul treno a malincuore, dopo aver abbandonato un periodo che mi ha entusiasmata e riempita di speranza. Trovo un libro appoggiato sul mio sedile, sembra una raccolta di poesie, qualcuno deve averlo lasciato per sbaglio. Mi siedo, guardando fuori dal finestrino le immagini di uno spazio che non è più come lo credevo. Prendo il libro e leggo il titolo: “Il porto sepolto”; mi incuriosisce e inizio a sfogliarlo. Alcuni versi attirano la mia attenzione:
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Richiudo il libro; leggere la poesia mi ha fatto capire quale sarà la prossima meta: la Grande Guerra, combattuta da uomini piccoli, proprio come Ungaretti, che senza pensarci due volte, impregnati di nazionalismo e spinti dall’entusiasmo giovanile, si sono sacrificati al fronte. Non voglio scendere, vorrei che il tempo rallentasse, ora so che è possibile, vorrei viaggiare alla velocità della luce per poter stare il più possibile a bordo di questo treno, posticipando la prossima fermata. Purtroppo non posso e già sento le urla; sono quelle di chi assiste all’attentato di Sarajevo, inorridito da tanta crudeltà, ma che ancora non sa cosa succederà dopo. Percepisco la tensione tra Austria e Serbia, l’incitamento della Germania per una “guerra lampo”, la corsa alle alleanze: ed è subito fatto. Austria, Germania, Turchia, Bulgaria, Ungheria da una parte, Inghilterra, Francia, Russia e successivamente Italia e USA dall’altra.
Scendo dal treno avvolta in una nube di fumo, c’è appena stato un bombardamento. Mi scontro con qualcuno nella nebbia: è un soldato che sta soccorrendo un ferito. Gli chiedo dove siamo, nella fretta mi risponde “Marne”. La Francia sta affrontando il suo momento più difficile: le nuove armi tedesche stanno devastando Parigi, ma i soldati non si arrendono. Stordita dal rumore delle mine, ritorno al treno, quel poco che ho visto mi è bastato.
Come può un uomo sopravvivere a tale orrore? Rileggo la poesia di Ungaretti: “…non sono mai stato tanto attaccato alla vita”.
L’Italia ce l’ha fatta? È questa la domanda che porto con me verso la prossima destinazione. Dopo Caporetto, abbiamo vinto la guerra, ma il risultato non è quello sperato. Da cosa lo capisco? Dalla sconfitta che si vede negli occhi della gente, dalle macerie che restano di alcuni paesini che fino all’ultima battaglia sono stati baluardo della resistenza italiana contro gli austriaci. Tanti sono tormentati dal ricordo di questi anni terribili e la memoria, per loro, è un macigno di cui non sopportano il peso. Le giovani vite entusiaste di affermare l’orgoglio italiano ora rimangono nel ricordo di chi vive ancora: la loro immortalità è il nostro pensiero. Comte la definiva “umanità soggettiva”, perché le generazioni passate, che dimorano nei nostri cuori, sono la fonte del futuro, ed è lì che l’Italia deve guardare ora. È per questo che il nostro popolo, indebolito, ma anelante ad una salvezza, commette un errore: non si accorge del cambiamento, non limita la violenza, si convince delle promesse di chi, invadendo la capitale, persuade con discorsi fulminei, ricchi di entusiasmo e promettenti novità. È così che il fascismo si avventa sul bel Paese, quasi senza che i suoi cittadini se ne accorgano.
Sento un vociare: mi avvicino a un gruppo che, intralciando il passaggio nella cabina, sta parlando animatamente. Sembra che anche in Germania sia accaduto qualcosa di simile: un nuovo leader è appena diventato cancelliere grazie ad un contenuto consenso popolare e un clima di violenza che lì si era creato da qualche anno. Sembra si chiami Hitler; questo nome già lo conosco. Stiamo quindi entrando in una nuova epoca, quella dei totalitarismi, che hanno sconvolto l’uomo del Novecento. George Orwell, con 1984, sembra darcene un esempio: una distopia in cui lo Stato monitora i comportamenti del suo popolo, che è diviso in due, tra chi aderisce al partito e chi, perché ignorante e dunque rivoltoso, è libero di manifestare la sua idea politica, sempre con delle restrizioni. Il condizionamento a cui è soggetto l’uomo che vive in questo Stato è tale da non permettere libertà di pensiero e di espressione, e tutto ciò che gli è negato sapere è considerato un male per le attività del partito. Il cittadino è quindi avvolto da una nebbia di inconsapevolezza che gli impedisce di arrivare alla verità.
Elezioni 1934, Italia
C’è qualcuno che, disinteressato dalla politica, qualche passo più in là, discute di un nuovo illustre personaggio, che pare si stia affermando come fondatore della psicoanalisi. Anche questo nome l’ho già sentito, si tratta di Freud. Finalmente riesco a conoscerlo bene e mi interesso particolarmente ad un aspetto, da lui analizzato, dello sviluppo della psiche umana. Nessuno fuori dal treno, nel periodo che sto attraversando, è arrivato a intuire che un’educazione troppo rigida avrebbe spinto l’alunno alla necessità di essere guidato, per tutta la sua vita, da una figura autoritaria, che si imponesse con le sue regole ferree. Un “legame libidico”: così lo definisce Freud. Si tratta quindi di una volontà, di uno stimolo che nasce nell’inconscio e induce a cercare in qualcosa di esterno al nostro “io” l’idea di autodeterminazione che manca in noi. Freud ha saputo anticipare la motivazione di queste scelte politiche che hanno condotto l’umanità alla sua più grande sconfitta.
Quinta tappa
Il treno entra in un tunnel; diventa buio. Sto per affrontare l’argomento più intenso di quest’ultimo anno di liceo. Il clima di tensione si percepiva già da qualche mese, ma mai, considerati anche i vari accordi tra Stati, come per esempio il Molotov-Ribbentrop, che sanciva una pace decennale tra Germania e URSS a partire dal 23 agosto 1939, ci si sarebbe aspettati tanto odio. Eppure gli interessi tedeschi verso la Polonia prevalsero, e nemmeno un mese dopo l’accordo, il mondo si preparava a prendere le armi per cambiare definitivamente.
Magari il mio è un pensiero un po’ infantile e poco critico, ma ho trovato la seconda guerra molto più “mondiale” della prima. L’odio nei confronti di una “razza” si è aggiunto alle nuove armi sterminatrici utilizzate al fronte, il coinvolgimento di più Stati ha comportato un legittimità a lottare per l’indipendenza, dove ancora questa non era sancita e, la cosa peggiore, l’idea di poter terminare un conflitto sganciando la bomba atomica sui civili. Insomma, sembrava che al male non ci fosse fine, ma come sempre c’è stato anche qualcuno che è intervenuto al fianco della libertà: si tratta della Resistenza, una rete organizzativa inizialmente solo francese, poi presente in tutti i Paesi sottomessi o invasi dal Reich, che mirava all’allontanamento del nemico in nome di valori quali uguaglianza, patriottismo ed emancipazione.
Giunti alla fine di questo orrore, c’è stato, poi, chi ha voluto raccontare fin da subito la sua lotta per la sopravvivenza nei campi di sterminio, come Primo Levi, o alla liberazione dell’Italia, come i Partigiani, affinché quanto è successo sia un monito alle nostre scelte future.
Finalmente si intravede la luce in fondo al tunnel, siamo nelle mani di chi ha vissuto queste esperienze sulla sua pelle, e ora lotta per un punto di svolta: nel 1947 viene scritta la Costituzione della Repubblica Italiana. Che traguardo! Secoli di storia ci hanno insegnato a imparare dai nostri errori. L’Italia è ora paradossalmente più intraprendente di prima: costruisce un Paese da capo, cosciente di cosa ha perso, ma consapevole di quanto, ancora, c’è da costruire. Inizia una nuova era: quella del miracolo economico italiano. Diventiamo grandi esportatori nel mercato europeo, riceviamo contributi con il piano Marshall, subisce un notevole progresso il settore terziario. Ma è ancora presto per dire che il nostro Paese è forte: solo una piccola parte della popolazione trova vantaggi economici. A livello mondiale, infatti, la diplomazia non sta lavorando efficacemente. Si teme una nuova guerra, quella tra le due superpotenze: USA e URSS. Lo scontro sembra inevitabile, le zone di influenza sono segnate dalla famosa “cortina di ferro” che nel 1961 divide Berlino in due. È ancora l’epoca delle rivalità? Sembra che ci siano ancora tanti obiettivi da raggiungere, come l’indipendenza in alcuni Paesi che non l’hanno ottenuta alla fine della guerra, ma che devono affrontare un’altra lotta per ottenerla, come Corea e Vietnam e Cuba.
Anche l’Italia combatte, ma ora rischia. Gli anni Settanta si aprono in un clima di terrore: la strage neofascista di Piazza Fontana (12-12-1969) sancisce l’inizio della “strategia della tensione”, cui seguono attentati di anarchici e Brigate Rosse che operano in segreto per generare il panico tra la gente, e mette in ginocchio Milano, Bologna, Roma. Il culmine di queste attività terroristiche si ha nel 1979, con il rapimento e la successiva esecuzione di Aldo Moro, capo della DC.
Il treno si ferma, mi gira la testa e noto la stessa sensazione di smarrimento sul viso dei miei compagni di viaggio. Siamo arrivati?
Eric Hobsbawn definì il Novecento il secolo breve: il mio viaggio sicuramente lo è stato perché ho realizzato che sono appena arrivata alla meta, ma non è ancora finito. Vorrei a questo punto richiamare Schopenhauer, che personalmente avevo già incontrato in qualche brano al pianoforte, ma che quest’anno ho avuto la possibilità di approfondire. La sua “volontà di vivere”, quella forza inspiegabile e inconoscibile che invade la nostra anima, è proprio l’aspirazione umana all’evoluzione. Una forza irrefrenabile che ci ha condotto dove siamo ora, e ci spingerà a fare molto di più. Proprio seguendola spero di arrivare alla vera conclusione del mio viaggio.
Qual è la meta? Scendo dal treno, sono curiosa di sapere dove mi ha portato. Vedo dei volti famigliari, sembra sia tornata a casa. Forse capisco il perché dell’ultima tappa: ciò che ho imparato da questa esperienza è la consapevolezza di essere approdata a un’epoca fortemente segnata dalle crisi e dalle vittorie del passato, dalle cicatrici che portiamo orgogliosi, in certi casi delusi, nella nostra memoria. Ora tocca a noi: solo noi giovani possiamo continuare un cammino che ci vedrà protagonisti per i prossimi anni, sulle orme di chi lo ha percorso prima, siamo noi a dover essere sempre più attenti al cambiamento, per prevederlo e studiarlo aiutandoci reciprocamente, al fine di capire noi stessi e il contributo che possiamo offrire al mondo.
Giulia Degiovanni
Quando si parla di crimini di guerra durante la Seconda Guerra Mondiale a tutti noi balzano immediatamente all’occhio le innumerevoli atrocità commesse dal regime nazista in Europa, ma se vi dicessi che in quegli stessi anni di terrore i metodi nazisti non erano né i più malsani, né i più mortali per quanto riguarda la quantità di vite umane tolte alla Terra?
Mentre l’occhio della stampa, una volta conclusosi il conflitto, condannava, giustamente, i misfatti dei nazional-socialisti, sembrò passare quasi inosservato quanto successo in estremo oriente ad opera del paese del Sol Levante.
Ciò che tutti, in occidente, effettivamente ricordano sono pochi avvenimenti, tra i quali l’attacco a Pearl Harbour e qualche scaramuccia avvenuta tra Stati Uniti e Giappone nel Pacifico. Questo perché da sempre il governo nipponico ha cercato di insabbiare quanto fatto durante un’altra guerra avvenuta durante quegli anni, ovvero la Seconda guerra Sino-Giapponese combattuta contro la Cina tra il 1937 ed il 1945.
Ci troviamo in Manciuria, una grande regione nel nord della Cina al tempo occupata dal Giappone. In queste aree immense convergevano tutti i giorni flussi interminabili di prigionieri russi, cinesi, coreani e mongoli;
questo perché molte prigioni erano presenti in quest’area e venivano continuamente riempite.
Per risolvere il problema, il generale Shirō Ishii decise di creare nuovi campi di prigionia gestiti dai suoi soldati presenti nella zona, ma il suo intento in realtà era un’altro: aveva intenzione di sfruttare quella che lui definiva “carne fresca” per scopi medici e bellici.
Il primo campo fu istituito nel 1932 e convertito poi nel 1936 - quando prese il nome con cui divenne tristemente famoso - la protagonista di questo articolo: l’unità 731.
Immaginatevi qualcosa di così segreto che non necessita di un solo nome falso, ma ben due. Ufficialmente era chiamata “Unità di purificazione dell’acqua per l’esercito Guandong”, mentre ai soldati veniva presentata come “unità di prevenzione delle epidemie” ma il suo corretto e vero nome era “Laboratorio di sperimentazione epidemico e medicinale”.
Era vietato dalla convenzione di Ginevra, firmata anche dal Giappone nel 1925, effettuare esperimenti su esseri umani, questo spiega il motivo della segretezza del progetto.
A questo punto, le autorità più importanti vennero informate delle vere intenzioni e obiettivi del generale e, pensate un po’, vennero appoggiati sia dagli alti capi dell’esercito, sia dall’Università della ricerca giapponese (che poi negò tutto fingendo di non sapere niente riguardo ai veri progetti. Non ci sono effettivamente prove che indichino la loro colpevolezza ma, a logica, perché un’università di ricerca dovrebbe sostenere un semplice centro di depurazione delle acque?).
L’unità 731 aveva un modus operandi molto particolare che consisteva in diverse fasi:
Fase 1: Farsi spedire i prigionieri dai campi di prigionia circostanti
Fase 2: Effettuare gli esperimenti
Fase 3: Spedire i risultati al laboratorio
Fase 4: disfarsi dei cadaveri senza farsi scoprire (di solito con gigantesche fosse comuni)
Fase 5: Ripetere tutto da capo.
Prima vi ho detto del loro vero nome, che riporto qui: “Laboratorio di sperimentazione epidemico e medicinale”.
Come si fa a testare un medicinale su una persona che non ne ha bisogno? La risposta fu semplice per il generale Shirō Ishii: “Faremo ammalare i prigionieri artificialmente e testeremo i medicinali nelle fasi più critiche delle malattie che avremo loro inferto”.
Questa è una morte molto più atroce, se pensiamo alla veloce morte per asfissia nelle camere a gas, per quanto paradossale possa sembrare.
Ma il generale, uno dei più grandi detrattori dei diritti umani che abbia mai visto sorgere il sole, dopo gli scarsi risultati iniziali, pensò che il problema non fosse il metodo ma l’impossibilità di vedere come il farmaco operasse “ALL’INTERNO” del corpo del paziente.
Dal 1940 diede infatti il via ad una nuova modalità molto più dolorosa:
dopo aver infettato il malcapitato e aver testato il medicinale, i medici avrebbero dovuto vivisezionare il paziente per vedere dove la malattia colpisse e come il medicinale funzionasse e, per giunta, senza alcuna anestesia, perchè ovviamente le anestesie conosciute all’epoca erano troppo costose per quelli che venivano considerati “inferiori” dai nipponici.
Secondo gli ordini del generale i pazienti dovevano essere rigorosamente vivi perché si pensava al processo di decomposizione come un grave problema e complicazione agli studi.
Come se non fosse abbastanza, in questa unità si procedeva ai test bellici di nuove armi (come il lanciafiamme) su soggetti vivi e legati ad appositi pali nella grande proprietà del laboratorio esterno, venivano infettate di proposito pulci con malattie infettive pronte ad essere aviotrasportate sulle città cinesi e, per non farsi mancare nulla, venivano progettate camere a gas efficienti per testare quale fosse la sostanza più nociva per l’essere umano.
Probabilmente sarete stanchi di leggere tutte queste atrocità compiute e avrete già capito di cosa si tratta, ma vi chiedo un ultimo sforzo per ciò che reputo la peggiore nefandezza compiuta da questi scienziati, ovvero i test su donne appositamente ingravidate per scoprire i risultati delle malattie e dei raggi x sul feto, che veniva spesso “deformato” da queste procedure.
L’unità 731 fu ufficialmente chiusa dopo la fine della guerra Sino-Giapponese e della ben più nota Seconda Guerra Mondiale.
I suoi lavoratori che fine fecero? Solo una decina vennero processati dalle autorità sovietiche e giustiziati, mentre la maggior parte vendettero a Russia e Stati Uniti i risultati delle ricerche per “comprare” un nuovo nome ed una vita nella comunità civile giapponese.
Sinceramente mi provoca un po’ di shock pensare al fatto che un uomo, che fino a qualche giorno prima vivisezionava persone senza anestesia, o che effettuava deformazioni volontarie ai feti di donne appositamente messe incinta si sia trovato all’interno di una normale società e abbia potuto vivere una vita felice. Sono queste le cose che mi fanno capire in che genere di mondo viviamo.
Alessandro Rossi
Ramadan è il nome del nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano, nel quale, secondo la tradizione islamica, Maometto ricevette la rivelazione del Corano “come guida per gli uomini di retta direzione e salvezza” (Sura II, v. 185). È il mese sacro del digiuno, dedicato alla preghiera, alla meditazione e all’autodisciplina.
Il mese di Ramadan non cade sempre nello stesso periodo del calendario gregoriano, perché quello degli islamici è un calendario lunare (l'anno lunare dura circa 11 giorni meno di quello solare), e la numerazione dell'anno non coincide perché i musulmani iniziano a contare dal nostro 622 d. C. , quando Maometto lasciò la Mecca per recarsi a Medina (egira o hijra).
Il Ramadan dipende dunque dalle fasi lunari o - più precisamente - dell'osservazione a vista della luna crescente (hilal) che avviene l'ultimo giorno del mese di Shaaban.Questo fatto ha due conseguenze. La prima è che il Ramadan può iniziare (e finire) in date diverse da Paese a Paese. In Italia, per esempio, quest'anno è cominciato il 24 aprile e dovrebbe concludersi il 23 maggio. La seconda è che ogni anno il Ramadan inizia prima dell'anno precedente, infatti indietreggia di 15 giorni ogni anno, così come tutti i mesi islamici, e ci sono anni in cui viene celebrato in inverno, quando le giornate sono più corte (e dunque anche il digiuno).
Il digiuno è un obbligo per tutti i musulmani praticanti adulti e sani che, dalle prime luci dell’alba(che corrisponde alla preghiera del Fajr) fino al tramonto(che corrisponde alla preghiera del maghrib)non possono:
• mangiare
• bere
• fumare
• praticare sesso.
Ogni musulmano si deve dedicare soprattutto alla preghiera e alla lettura di tutto il corano (i cui 30 capitoli corrispondono ai 30 giorni del mese del Ramadan). Inoltre è preferibile se durante questo mese le ragazze escano con il velo (anche se in genere non lo portano) e soprattutto non devono utilizzare profumo o truccarsi pesantemente perchè tutto ciò attira.
l'attenzione degli uomini e interromperebbe (anche in modo “inconsapevole”) il digiuno sia della ragazza che attira l’attenzione, sia del ragazzo che la guarda.
Dal digiuno sono esentati i minorenni,ma dai 10 anni i loro genitori devono abituarli a digiunare a partire da poche ore al giorno man mano crescendo fino a digiunare tutto il giorno circa all'età di 14 anni,i vecchi malati e i malati in generale, le donne in gravidanza e le persone che fanno lavori pesanti, come lavori sotto il sole.Le donne durante il ciclo mestruale e chi è in viaggio sono solo temporaneamente esentati.Alla fine di questo mese sacro ogni giorno in cui non si è digiunato si recupera.
Al tramonto il digiuno viene interrotto con 3 datteri (o una quantità dispari qualsiasi) e un bicchiere d’acqua. Poi segue il pasto serale (iftar). In totale d'estate, in Italia ad esempio, un musulmano digiuna intorno alle 15/18 ore (in estate l'ora della preghiera ritarda di 1 minuto ogni giorno, mentre in inverno torna indietro di 1 minuto, di conseguenza ora, a maggio, il digiuno viene man mano interrotto più tardi).
Vivo in Italia da 17 anni perchè sono nata qui, ho iniziato a digiunare all'età di 14 anni e quando ho iniziato il Ramadan cadeva ancora in estate,o in generale c'erano giorni molto caldi. Per me, ma come per ogni musulmano, vivere il Ramadan in Italia è una cosa molto difficile perchè con il caldo, le lunghe giornate in cui non sai più che fare e la sete che ti assale non è mai stato facile. L'anno scorso il Ramadan era iniziato a maggio, e per noi ragazzi che dobbiamo andare a scuola è stato molto difficile: era un mese caldo ma soprattutto vedevamo in nostri amici mangiare e bere davanti ai nostri occhi cercando di resistere alla tentazione di interrompere il digiuno "perché tanto lo recupero dopo". Da quando è iniziata la quarantena è tutto più facile. Io sta a casa non faccio sforzi e non mi affatico di conseguenza non sento di avere fame o sete e non vedo nessuno mangiarmi davanti agli occhi.
Eid al-Fitr è una festa gioiosa, durante il quale Musulmani, dopo i sacrifici del mese di digiuno, rendono grazie a Allah per averli sostenuti nello sforzo. La festa si celebra la mattina con una preghiera di gruppo.L'imam della moschea recita le preghiere che si chiamano Takberat Al Eid. Successivamente si visitano parenti e amici per pranzare insieme con un piatto tipico a base di carne di agnello(che si sacrifica lo stesso giorno)riso e pane: fattah. I più giovani, nel mio paese ad esempio non dormono,stanno svegli fino alla mattina per andare a pregare e uscire con gli amici.
N.N.
Ritornare, un verbo così frequente nella Quaresima, ci fa intuire che questo tempo, fin dalle sue origini, non è lontano dalle esperienze di oggi caratterizzate da parole, ben più note e attuali, come quarantena, fase e distanziamento.
È curioso notare come la Quaresima sia un tempo per prepararsi a una festa, anzi, alla madre di tutte le feste, la Pasqua, termine che, in ebraico, significa passaggio: la sua meta è un passaggio, l’inizio di un ulteriore cammino, di un tempo e di un percorso nuovi. La Quaresima serve proprio ad annunciare che esiste una fase 2, ma che questa è tutta da vivere e scoprire, da verificare nella vita di ogni persona.
Per essere più precisi, la Quaresima nasce per accompagnare i catecumeni e i penitenti, coloro che si stanno preparando per ricevere il battesimo e per chi invece si è separato dalla Chiesa, quindi per i lontani e per quanti si sono allontanati, per coloro che vogliono rientrare nell’abbraccio della comunità. Era un tempo per coloro che vivevano realmente un distanziamento sociale. Tuttavia, proprio la fatica della separazione serviva a comprendere il peso delle relazioni, crescere nel desiderio della comunione, gustare meglio gli incontri, liberarsi da pesi che opprimevano il cuore o a prepararsi ad accogliere con gioia una novità di vita. Ben presto, ci si è resi conto che questo percorso non poteva rimanere una prerogativa per pochi, ma conteneva un’indicazioni per tanti.
In questi mesi, ognuno di noi si è trovato immerso in una situazione di lontananza, di separazione, in un deserto, immagine per antonomasia della Quaresima. La prima volta che mi sono recato in Medioriente sono rimasto fortemente impressionato dai vari deserti attraversati per la varietà dei lori paesaggi: questi spazi sconfinati e apparentemente monotoni si rivelano ben presto ricchi di sfumature, di colori, di immagini, di configurazioni e di panorami mai identici tra di loro. La Quaresima è un deserto per permettere all’uomo di allontanarsi da tante cose che lo distraggono perché possa tornare a vedere tante realtà che altrimenti gli sfuggirebbero. Anche questo lockdown è stato per noi un deserto da attraversare che ci ha permesso di cogliere tanti aspetti delle nostre giornate, esigenze, eventi, sentimenti e pensieri cui difficilmente diamo ascolto. È questa la distanza dalle cose che ci fa desiderare maggiormente di abbracciarle, che ci fa conoscere sempre più profondamente che cosa abita il nostro cuore.
Nella comunità nella quale abito questo deserto ha reso molti più attenti al desiderio del proprio cuore di non essere soli e per, questo, più attenti al bisogno delle persone di non essere abbandonate anche in questo frangente. Da qui è sorto l’impegno di molti giovani nel rendersi disponibili per ascoltare le persone sole; poi improvvisamente è arrivata la proposta di raccogliere cibo nei vari supermercati della città, da quel momento si è messa in moto una rete di incontri, di relazioni con persone in difficoltà e con tanti altri disponibili ad aiutarle, arrivando a risultati del tutto imprevisti rispetto a quanto si era immaginato in partenza. Anche in questo caso, è stato proprio il deserto della distanza a rendere lo sguardo più attento a quello che avveniva e capace di assecondare passo dopo passo quello che avveniva.
prof. Sergio Arosio
“Cronache del ghiaccio e del fuoco” (conosciuto maggiormente come “Game of Thrones”, poiché è il nome della serie TV ) è la saga del famoso scrittore George R.R Martin.
E così, per i numerosi amanti della saga, racconteremo alcuni particolari poco noti.
Tra guerre medievali, violenza, potere e intrecci, ecco qui la storia dietro alla famosa saga.
“Chissà come gli sarà venuto in mente di strutturare così la storia?” non è forse una dei più comuni interrogativi che accomunano le grandi saghe?
Eppure, dietro ad ogni grande saga, c’è una grande ricerca di informazioni e, spesso, l’ispirazione arriva proprio dalla storia stessa.
Chi avrebbe mai detto che George R.R Martin si fosse ispirato proprio a due delle più grandi guerre del Medioevo per scrivere Game of Thrones?
Eppure, non solo quello: Brienne di Tarth non ricorda vagamente Giovanna D’arco?
Per fare una (abbastanza) accurata analisi, però, bisogna partire dagli spesso citati 7 regni e dalla configurazione di Westeros, che sembra quasi ispirata alla parte inferiore della Gran Bretagna e all’Irlanda capovolta.
La precedente divisione dei domini dei continenti occidentali ricorda vagamente l’Eptarchia (dal termine greco “sette sovranità”).
È usato dagli storici per indicare Northumbria, Anglia Orientale, Mercia, Essex, Sussex, Wessex, Kent, ossia il modo in cui era divisa l’Inghilterra nel periodo storico compreso tra la conquista da parte di Sassoni, Angli e Iuti. (ossia dopo la ritirata delle legioni romane del 500 d.C e l’invasione da parte dei Danesi nell’850 d.C).
Seguendo le tradizioni tribali germaniche, in quel periodo le monarchie non erano ereditarie, ma bisognava essere eletti.
Il lignaggio dei governanti si succedeva in base ai rapporti tra i vari clan: per decidere il nuovo re, spesso si scatenava una guerra.
Nella storia della Gran Bretagna, così come in quella parallela scritta da George Martin, avere un regnante tra i propri avi era d’aiuto nella gara di corsa al trono.
Come i Sette Regni del Trono di Spade, anche quelli d’Inghilterra si batterono costantemente, susseguendosi nella supremazia, fino a quando vennero riuniti sotto Re Egbert del Wessex, sovrano di tutta la parte meridionale dell’isola (sarà un caso che la parte meridionale della Gran Bretagna assomiglia alla parte nord di Westeros?).
Come Aegon il Conquistatore, primo re unico di Westeros e fondatore della dinastia reale dei Targaryen, Re Egbert ha unito le terre in conflitto tra loro, ma la pace non può essere raggiunta così facilmente.
Guerre
Lannister come Lancaster, Stark come York: la fantasiosa guerra che mise le due potenti famiglie di Westeros riprende la guerra realmente combattuta tra i due rami del lignaggio dei Plantageneti in lotta per il trono Inglese del 1400.
Lo scrittore Walter Scott chiamò questa guerra “Guerra delle Due Rose” (la rossa e la bianca), facendo riferimento agli stemmi delle due famiglie.
Per una trentina d’anni, Lancaster e York, discendenti di Edoardo III, si contesero il trono inglese.
Nel 1455 le pretese di Riccardo, duca di York, diventarono contrastanti con quelle di re Enrico VI Lancaster, provato dalla guerrae psicologicamente altalenante, e della moglie Margherita d’Angiò.
Dopo una lunga sequela di intrighi, alleanze e battaglie, l’incoronazione del discendente degli York Edoardo IV, la sua morte e mille vicissitudini, nel 1483, suo fratello, Riccardo (di Gloucester), decise di liberarsi dei nipoti (legittimi eredi), dichiarandoli illegittimi.
Intanto, divenne re con il nome di Riccardo III.
Enrico Tudor, discendente dei Lancaster, nel 1485 riuscì ad uccidere Riccardo in battaglia e sposò la figlia di Edoardo IV, Elisabetta di York, riparando la scissione tra le famiglie e inaugurando una lunga era di pace.
Bisogna dire però che, in Game of Thrones, gli Stark non sembrano bramare molto al trono, contenti del loro antico ruolo di Protettori del Nord.
Eddard Stark accetta controvoglia l’incarico di Primo Cavaliere del Re che il modesto sovrano Robert Baratheon gli richiede (Riccardo di York viene invece preposto come Lord Protettore del Regno dopo il manifestarsi della pazzia di Enrico VI).
Solo come conseguenza all’uccisione a tradimento di Eddard e la dispersione della sua famiglia, gli Stark sono obbligati al “gioco dei troni” in contrapposizione ai Lannister e i loro alleati.
Sembra molto valido il parallelismo tra Eddard e Riccardo di York: tutti e due sono guerrieri esperti e uomini d’onore, ed tutt'e due finiscono decapitati e con la testa imbucata su una picca.
Il giovane e spietato re, Joffrey Baratheon, sembra essere il figlio di Enrico VI, Edoardo di Lancaster: illegittimo, dissennato e tendente al sadismo.
Riccardo III sembra essere quasi Tyrion Lannister, ma personalmente lo immaginerei più come Stannis Baratheon, il fratello di Robert: dopo il decesso del consanguineo, dichiara i nipoti illegittimi e pretende il trono.
Dall’altra parte, la regina Cersei Lannister sembra essere stata ispirata a Margherita d’Angiò. Entrambe determinate e sostenitrici della causa della loro stirpe.
Daenerys, ultima dei Targaryen, per quanto impossibile, sembra incarnare la versione femminile di Enrico Tudor: un lungo bando oltremare, una datata rivalsa, un trono da riottenere.
Tyrion Lannister - Illustrazione di Alessandro Pace
Nozze Rosse e Cena Nera
Il massacro delle Nozze Rosse emerge per la sua barbarie soprattutto nella versione televisiva.
Con quel bagno di sangue si chiude l’insurrezione del Nord, che era ancora leale agli Stark.
Robb Stark, figlio di Eddard, è essere ospite di di Walder Frey in occasione del matrimonio dello zio Edmure Tully.
Non era a conoscenza che Walder, a causa di un torto subito, cercava vendetta.
Viene dato il segnale d’inizio del massacro.
Robb, sua madre e a molti dei suoi soldati vengono brutalmente assassinati.
George Martin ha riconosciuto di aver preso ispirazione da alcuni avvenimenti lugubri avvenuti in Scozia.
Ad esempio, nella “Black Dinner” del 1440, la “Cena Nera”: due ragazzi clan dei Douglas, William, 16 anni, e suo fratello David, sono invitati a cena al castello di Edimburgo dal sovrano Giacomo II di Scozia, anche lui molto giovane.
Durante il pasto fu servita a William la testa di un toro nero, cupo simbolo di morte; in seguito furono condotti nel giardino del castello e successivamente decapitati.
Vallo di Adriano e Barriera
Nella saga, la barriera è considerata una delle nove meraviglie create dall’uomo. Costruita 8.000 anni prima, alta oltre 200 metri, lunga circa 500 chilometri e costruita grazie all’aiuto di creature mostruose e pratiche magiche, la Barriera è il titanico baluardo che difendere Westeros.
Protegge il regno dal Popolo libero: gruppi di cacciatori primitivi (dalle usanze abbastanza barbare), che la popolazione dei Sette Regni ha denominato Bruti.
Ma non solo: ci sono gli Estranei, esseri dai cupi occhi blu e con capacità sovrumane, come rianimare i morti e trasformarli in una schiera di zombie di ghiaccio, totalmente assoggettati al loro sovrano.
A controllae i dintorni della Barriera, c’è la confraternita dei Guardiani della Notte; chi di loro prestava giuramento, rinunciava ad avere famiglia e giurava di servire la causa fino alla morte.
Ovviamente, anche in questo caso, lo scrittore ha preso spunto dalla storia passata, ma andando ancora più indietro rispetto al Medioevo.
Quella Barriera non ricorda quasi il famoso Vallo di Adriano, l’antico baluardo in pietra del II secolo d.C. che divideva in due l’isola per circa 120 km e teneva separate la Britannia e la Caledonia?
Ma non solo: le fortezze che punteggiano la Barriera sono proprio 19, lo stesso numero di quelle presenti lungo il Vallo di Adriano.
Anche qui le analogie sono evidenti: la filosofia di vita dei Bruti sembra avere punti in comune con quella dei Pitti, un popolo autoctono della Scozia che, nel corso degli anni, divenne fastidioso per i romani.
Detto questo, "Winter is coming”: ecco qui alcune delle frasi più belle di George R.R Martin:
“Verrà il giorno in cui sarai convinta di essere al sicuro, di essere felice, ma di colpo la tua gioia si trasformerà in cenere. E allora saprai che il debito sarà stato pagato. “
“La lunga chioma della cometa lacerava l'alba, un rosso squarcio sanguinante sugli aspri artigli di granito della Roccia del Drago, come una ferita nel cielo dalle sfumature cremisi e violette. Maestro Cressen rimase immobile sulla balconata spazzata dal vento su cui davano le sue stanze. Era là che arrivavano i corvi messaggeri, al termine di un lungo volo. I loro escrementi punteggiavano i doccioni alti dodici piedi che torreggiavano ai lati dell'anziano sapiente: rappresentavano un cerbero e un grifone, due dei minacciosi bassorilievi che incombevano a migliaia dalle mura dell'antica fortezza. Al suo arrivo alla Roccia del Drago, molto tempo prima, quell'esercito di mostri di pietra l'aveva messo a disagio ma, con il passare degli anni, si era abituato a loro, fino a considerarli vecchi amici. Il saggio, il cerbero e il grifone continuarono a scrutare insieme il cielo, gravati da uno strano presentimento.”
“Mai dimenticare chi sei, perché di certo il mondo non lo dimenticherà. Trasforma chi sei nella tua forza, così non potrà mai essere la tua debolezza. Fanne un'armatura, e non potrà mai essere usata contro di te.”
Camilla Scuri e prof. Paolo Maltagliati