Nicole Bartolucci (2AT)
Il signor Pallads non è mai stato un uomo coraggioso. Nessuno della cittadina di Piketown lo ha mai preso in considerazione. Come poteva, pensavano tutti, un uomo piccolo e grassoccio come lui essere d’aiuto alla comunità? Era da sempre considerato come il diverso o l’emarginato. Quando da piccolo giocava con le navicelle spaziali sua madre gli ripeteva sempre: "Attento Craig. Ricordati che i tuoi piedi non toccheranno mai il cielo". Nonostante ciò, Craig sognava di volare. Sognava di lasciare quella inutile città in cui era cresciuto, e di partire verso l’ignoto, visitando posti esotici, in cui l’aria era impregnata di spezie. "Non sto sognando", pensò quando, quella fatidica mattina del 2 Marzo, si imbatté in uno sconosciuto dallo sguardo magnetico. Ormai aveva perso le speranze: il suo sogno di librarsi nel cielo era stato interrotto da una assurda rivolta di un gruppo paramilitare presso la sede in cui lavorava come custode, la Confraternita Tlaloc. "Che nome bizzarro per una scuola!", continuava a ripetersi Craig. Ma ancor più bizzarro fu, a suo avviso, il giovane uomo che quella mattina piovve dal cielo adagiando i suoi piedi lunghi nel corridoio. Era alto, magnifico. I capelli neri e ricci gli accarezzavano il viso, mettendo in risalto il colore degli occhi verdi. Gli ricordava uno di quei suoi soldatini spaziali con cui giocava quando era piccolo. Ma quel giovane uomo non era un soldatino. Lui poteva volare. Al di fuori dell’edificio rombavano nell’aria le urla di gioia dei genitori che vedevano, dopo mesi, i propri figli uscire sani e salvi. Craig sentiva intorno a sé il peso dei cuori angosciati che se ne andava, percepiva l’odore salato delle lacrime e il calore dell’abbraccio. Ma non gli importava. Era paralizzato nell’osservare quel misterioso ragazzo. All’improvviso, la possente figura ricambiò lo sguardo, per un istante che a Craig parve interminabile, e poi scattò con la velocità di una lepre, fendendo l’aria e scomparendo dal raggio visivo del signor Pallads. Nei giorni a seguire il signor Pallads era diventato famoso. Le persone lo degnavano di attenzioni, fermandolo per strada, salutandolo, abbracciandolo. Naturalmente a Craig faceva piacere, ma l’immagine del misterioso ragazzo era impressa nella sua memoria. Durante la notte lo sognava, durante il giorno lo ricordava. Che non fosse qualche assurdo esperimento genetico della Confraternita? I dubbi erano molti, le risposte... nulle! Fino a che, un pomeriggio, Craig stava per tornare a casa dopo ore di faticoso lavoro. "Ormai", pensava, "devo rinunciare all’idea di poter lasciare questo posto". Proprio allora udì un boato improvviso dietro le spalle. Si fermò col cuore in gola. Riconobbe il suono. Certo, l’avrebbe riconosciuto ovunque. Si girò lentamente, mise a fuoco e sgranò gli occhi: il misterioso ragazzo, l’angelo salvatore, era a pochi metri di distanza. "Hai visto troppo quel giorno. Sai troppe cose" affermò il ragazzo. Aveva una voce così dolce, delicata. Ma qualcosa nel suo sguardo era cambiato. Era spaventato? Lo poteva realmente essere? Craig fece un passo e si avvicinò. Aveva la gola arsa, e gli occhi gonfi di lacrime. "Forza Craig!", si continuava a ripetere, "Parla! Dì qualcosa!". Craig ripensò ai soldatini di piombo con cui giocava da piccolo. Non aveva paura dell’ignoto allora. Perché averne adesso? Si decise a parlare. "Chi sei tu? Come ti chiami?" mormorò. La voce del giovane si fece malinconica: "Mi chiamo H01. Sono il primo organismo geneticamente modificato che sia mai stato creato. Sono servo devoto dei membri della Confraternita Tlaloc". Craig si fece coraggio e avanzò ancora. Il suo cuore batteva all’impazzata, i pugni erano chiusi, e digrignava i denti. Il sudore gli cadeva dalla fronte solcando le guance unte e paffute. Ma non gli importava. "Insegnami a volare, come sai fare solo tu" gli chiese deciso. H01 non rispose, si limitò ad avvicinarsi. Craig chiuse gli occhi, finalmente il suo sogno si stava avverando. Avrebbe lasciato la patetica comunità di Piketown e se ne sarebbe andato. Ah! Se sua madre avesse potuto vederlo in quel momento sarebbe stata finalmente orgogliosa di lui. Craig si sentì afferrare il braccio. La mano di H01 era fredda, ferma. Le dita lunghe e forti. Craig mantenne gli occhi chiusi e sentì il vento soffiargli sul volto. I suoi piedi si staccarono dal terreno, e il suo corpo divenne improvvisamente leggero come una piuma. Finalmente stava volando. Si sentiva come uno di quei soldatini di piombo che, presi in mano, prendevano magicamente vita volteggiando nell’aria. Decise di aprire gli occhi e di guardare. Il cielo era rossastro, le nuvole color porpora accompagnavano il Sole morente. Guardò giù, i suoi piedi zampettavano freneticamente come quelli di un cigno nel lago. Ma il terreno era sempre più vicino. Sempre più vicino. S’accorse troppo tardi che la mano di H01 non era più ancorata al suo braccio. ‘Sto toccando il cielo’, questo fu il suo ultimo pensiero prima di schiantarsi a terra. Il cielo rispecchiava il colore del sangue di Craig che si era sparso per la strada. L’ultimo ricordo fu la voce di sua madre: ‘Attento Craig. I tuoi piedi non toccheranno mai il cielo’.
Lo fecero invece, eccome se lo fecero.
Mattia Liuzzi (2AT)
Mercoledì. Nessuno sa di me. Sono nel piccolo soggiorno a casa dei miei genitori e stiamo guardando la tv, in particolare il telegiornale. Questo maledetto coronavirus sta mettendo in crisi molti paesi, per fortuna nel nostro ci sono poche persone affette, mentre invece la criminalità aumenta. Passate un po’ di notizie, appare sullo schermo del televisore un’immagine e sopra scritte bianche su sfondo rosso che riportano: NEWS -NEWS –NEWS e subito iniziano a scorrere le seguenti parole LIBERATI DAL CIELO e sotto si vedono le foto dei militari imbavagliati e legati davanti alla centrale di polizia. La giornalista sta parlando di questi militari, che erano in circolazione da un bel po’ di tempo, e dice per l’appunto che sono stati ritrovati davanti alla centrale della polizia, ma nessuno sa come, perché le forze armate non erano state capaci fino ad allora di catturarli. Ad un tratto intervistano un uomo, che dice di aver visto un ragazzo piombare dal cielo e poi correre via veloce come la luce senza farsi più vedere. A quel punto inizio a sudare, sperando che i miei non se ne accorgano, non perché faccia caldo, ma per il fatto che solo il sottoscritto può sapere cosa sia successo, perché il responsabile della cattura di questi militari sono proprio io.
Innanzitutto mi presento: sono Jeremiah Castillo, per gli amici Jeremi. Vivo a Piketown, Ohio, e ho 24 anni. Stamattina, senza svegliare i miei, sono uscito di casa e sono andato a liberare degli studenti innocenti su cui stavano sperimentando degli elementi chimici che, per questi cosiddetti “paramilitari”, danno superpoteri alle persone umane.
Stamani sono sì atterrato dal cielo, ma pensavo non mi avesse visto nessuno: mi sono sbagliato. E ora i capi di questi criminali mi stanno già dando la caccia. E io sono qui, a vedermi al telegiornale senza sapere cosa fare. Questo non è mai stato un problema, ma sono davvero in dei guai grossi.
In questi giorni ho fatto di tutto per nascondermi dai criminali, ho girato tutta la città per scappare da loro e per ora non sono ancora arrivati. È sera, c’è ancora un po’ di luce, sono nascosto in un vecchio capanno abbandonato, nella periferia di Piketown. Sto per mettermi a riposare dopo che ho camminato tutto il giorno, faccio appena in tempo a chiudere gli occhi, che sento spari dappertutto intorno a me. Non capisco da che direzione arrivino, ma sfrutto il mio superpotere per correre fuori appena prima dell’esplosione. Appena mi fermo me li ritrovo davanti e mi accerchiano. Potrei volare, ma ci sono cecchini ovunque, credo. Panico. Non so cosa fare. Aspetta… ho un’idea, provo a concentrarmi e focalizzare il mio pensiero sui nemici e a un tratto i cecchini si accasciano a terra silenziosamente, senza vita, e tutto sotto di me crolla in una frana circolare, di colpo. Non sapevo di esserne capace, io rimango a mezz’aria, fluttuando… poi buio.
Mi sveglio e guardo l’ora: 7.30 a.m., sono nel letto ma non ricordo come ci sono arrivato, ho un grosso vuoto di memoria su quello che è successo ieri sera. Faccio appena in tempo a guardare il telegiornale e l’accaduto della notte precedente ha già fatto il giro di tutto il paese.
Eccomi sono ancora io, Jeremi, e dal giorno in cui ho sconfitto quei criminali, la gente mi guarda con fiducia, e sanno cosa ho fatto perché ho rivelato la mia identità alla polizia che non sapeva più come ringraziarmi. Ora non lavoro per loro, ma se hanno bisogno non c’è motivo di chiamarmi perché io arrivo lì, veloce come un fulmine, ancora prima che mi avvisino.
Luca Redondi (2AT)
Eh sì, non tutti, anzi nessuno, può fare quello che sono riuscito a fare io, e voi vi chiederete: “Cosa sei riuscito a fare?”. Beh, ve lo dirò dopo, ora voglio parlarvi un po’ di me e della mia storia. Innanzitutto, il mio nome è Oliver, Oliver Thomas, e da piccolo, verso l’età di sette anni, mi innamorai di uno sport, come tutti i bambini. Ecco magari voi starete pensando al calcio, al basket o al nuoto… eh no, cari miei! Io coltivavo dentro di me un amore stratosferico per l’atletica. Il mio idolo, neanche a dirlo, era Usain Bolt, e il mio sogno era quello di diventare non come lui, ma più forte, anzi più veloce. Volevo stabilire un nuovo record. Volevo diventare famoso, ma non troppo. “Cosa vuol dire non troppo?” vi starete chiedendo. A dire la verità, ancora adesso, non lo so neanche io, forse volevo diventare famoso solo per qualche giorno e non per sempre, o forse volevo diventare famoso per la settimana in cui avrei stabilito il record e poi ridiventare un comune cittadino. Ah già! Non vi ho detto dove abito: io vivo a Miami, in Florida. Comunque, non sapevo cosa volevo, come vi ho già detto, ma sapevo cosa non volevo: io non volevo assolutamente tutti i fotografi e i giornalisti intorno a me, volevo solo stabilire un record vivendo una vita tranquilla come una persona normale. Ovviamente questo aspetto del mio sogno fu irrealizzabile, ma non importa, non era certo la fama il mio obbiettivo.
Però, per far sì che il mio sogno si realizzasse dovevo fare fatica, dovevo lavorare, ma soprattutto dovevo mettere passione in quello che facevo, e così fu, perché, in generale, se uno sport ti piace e il tuo sogno è di diventare forte in quello sport, la passione, il lavoro duro, la fatica e il divertimento sono le quattro cose più importanti. Così iniziai ad allenarmi alla Florida Memorial University Sports di Miami e continuai per i 10 anni successivi, cominciai a vincere medaglie di bronzo, argento e oro. Mi ricordo ancora il giorno della mia prima medaglia d’oro: era il 16 aprile del 1994, all’ultimo secondo feci un passo lungo e con la punta del piede riuscii a superare il mio avversario; non ci potevo credere, stavo scoppiando a piangere, quando mi ricordai che non dovevo farmi illusioni se volevo raggiungere il mio obbiettivo principale, quindi salii sul podio, mi premiarono e tornai a casa con la mia adorata medaglia. Continuai ad allenarmi, a vincere gare, tenendo sempre la testa inchiodata sull’allenamento e sull’impegno, restando con i piedi per terra senza illusioni. Un giorno però l’illusione finì: a mezzogiorno del 9 settembre 2001 mi arrivò la chiamata della nazionale statunitense. Non era di certo un bel periodo, quello, per l’America, tutti infatti ricorderete l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre, ecco diciamo che non trovai l’atmosfera che avevo immaginato quando mi era arrivata la chiamata dalla nazionale, però ero al settimo cielo perché il mio sogno si stava per realizzare, servivano solo gli ultimi sforzi.
Starete già pensando:
“È fatta” oppure “Hai raggiunto il tuo obbiettivo” e invece, cari ragazzi, c’erano ancora grandi ostacoli da superare, come quello di affrontare il mio infortunio alla spalla. Dovetti stare a riposo tre settimane, non era nulla di grave, ma pur sempre un ostacolo. Il problema è che mi infortunai quasi subito dopo essere arrivato in nazionale e quindi non riuscii a far vedere al mio allenatore le mie qualità fino a quando non ritornai a correre. Gara dopo gara continuavo a migliorare, fino ad arrivare alle olimpiadi del 2016 dove, all’età di 34 anni, riuscii non solo a battere il record del mio idolo, ma a farlo dimenticare, perché, sentite bene miei cari: 100 metri in 7 secondi e 99 centesimi.
Alla premiazione ebbi anche l’onore di conoscere Usain, che era venuto a godersi le Olimpiadi dopo il suo ritiro. Mi strinse la mano e mi fece i complimenti per averlo battuto, ma il piacere era solamente mio perché senza di lui non ce l’avrei mai fatta, anche solo le sue foto nella mia cameretta mi hanno stimolato a diventare quello che sono diventato.
Finii ovviamente sui giornali per la mia vittoria, partecipai anche ad alcune interviste. Non solo per il record andai sui giornali, ma anche per un altro motivo: un mesetto fa mentre mi trovavo sul mio divano, alle 11 di sera sentii degli strani rumori, andai nella mia camera da letto e… non c’era nessuno. Così mi addormentai. Ma la mattina seguente fui svegliato molto presto, all’incirca alle 6 di mattina, dagli stessi rumori della sera prima e questa volta mi trovai un assassino in cucina con una pistola che voleva uccidermi. Io ero indifeso quindi, essendo, diciamo, abbastanza veloce, scappai. Scappando usai tutta la forza che avevo nelle gambe per sfuggire al ladro che mi sparava da lontano, perché non poteva certo starmi dietro. Scappai oltre ad alberi, dentro castelli, sopra montagne e fu proprio da una montagna che feci un salto di 2000 metri, atterrai proprio accanto a un passante e subito dopo ripresi a correre alla velocità della luce, seminando l’assassino. Ecco spiegato il perché sono finito sul giornale per la seconda volta, ma prima di ora nessuno sapeva che “quell’uomo atterrato dal cielo e superveloce” ero io.
Eh, che dire, adesso che ho 38 anni voglio tornare il solito cittadino che sono sempre stato prima di diventare famoso e godermi la vita in tranquillità dopo essere diventato l’uomo più veloce al mondo, aver battuto un grande record e aver seminato un assassino con la mia abilità quasi paranormale.
Fate però bene attenzione a quello che vi ho detto, il mio insegnamento non è la voglia di vantarsi e fare vedere agli altri quanto sono diventato veloce: il mio è solo un esempio per stimolarvi a non smettere mai di credere nei vostri sogni.
Sophie Dawoud (1CG)
♫ Imagine no possessions
I wonder if you can ♫
La sfera luminosa non era ancora comparsa.
♫ No need for greed or hunger
A brotherhood of man ♫
Iniziai a schiudere i miei occhi felini.
♫ Imagine all the people
Sharing all the world ♫
Finalmente la gigante spense il rumore dall’altra stanza.
Come la udii poggiare i piedi per terra, mi stiracchiai e mi diressi verso di lei con molta calma. Appena sveglia compiva movimenti lentissimi o si bloccava a fissare un punto nel vuoto; io mi divertivo a giocherellare con le sue pantofole turchese. Piano piano prese coscienza ed iniziò a correre per tutto il mio “Casa”, lanciando cose per aria ed evitando gli accatastamenti di disordine. Prima di uscire dal Mondo cambiava la mia acqua e mi metteva i croccantini. Ripeteva queste azioni ogni giorno. Io non avevo mai attraversato la soglia e non ero interessato nel farlo. Passavo il mio tempo ronfando per la casa; i posti che preferivo erano la mia cuccia nera , il divano azzurro e la vasca da bagno ma odiavo il letto della gigante. Quando non dormivo parlavo con le mie piante, Nina e Anna : raccontavo loro ciò che mi appariva nel sonno, cosa aveva indossato quel giorno Augusta, gli mostravo i nuovi giocattoli ed oggetti che trovavo in giro, insomma di un po’ di tutto. Mi piaceva molto anche osservare i quadrati di vetro. Erano in ogni stanza e i loro colori cambiavano più o meno ciclicamente. Quando mi veniva fame mi pappavo i croccantini, rigorosamente quelli verdi prima e quelli marroni dopo.
Era trascorsa una mattina come un'altra. Quando la bacchetta del cerchio colorato si trovò poco dopo il suo primo quarto Augusta rientrò nel mondo. Aveva con sé una gabbietta gialla a cui non feci molto caso dato che lei tornava spesso con nuove cianfrusaglie. Attraversò in fretta tutto il corridoio ed entrò nella sua camera portando con sé l'oggetto. Non mi salutò nemmeno. Io rifeci il suo percorso lentamente e mi sdraiai lungo la porta della sua stanza. Aspettai, ed aspettai ma nell'attesa mi addormentai. Quando aprì la porta saltai in piedi per lo spavento. Si abbassò e mi accarezzò con le sue sottili dita. - Miaoo - appena le vibrazioni di quel suono arrivarono alle mie orecchie pensai di stare ancora dormendo. - Miao - solo al secondo miagolio notai la bestia che la gigante sorreggeva con una sola mano: aveva un folto manto, nero come la mia cuccia, su cui spiccavano gli occhi, gialli come la sfera luminosa quando il quadrato di vetro si dipinge di rosa.
La presenza di questo essere mi colse di sorpresa e mi allontanai frettolosamente nel corridoio, facendo una caduta rovinosa. Il pavimento aveva deciso di essere scivoloso proprio nel momento sbagliato! Augusta si avvicinò con grandi passi calmi e comprensivi tenendo in braccio la palla di pelo. Una volta soddisfatta della nostra distanza cercò di avvicinarmela. Fui preso dal panico: chissà cosa mi avrebbe fatto quella bestia se solo glielo avessi permesso. Feci l’unica cosa di cui ero in grado: iniziai a soffiargli contro con tutte le mie forze. La creatura si dimenava tra le braccia della gigante . Di sicuro avrebbe voluto raggiungermi. Lo scontro sembrò durare infinitamente. Augusta ne decretò la fine riportando lo straniero nella sua camera. Io ero molto sconvolto, così andai a raccontare tutto a Nina e Anna.
“Ragazze! non crederete mai a ciò che è appena successo! “.
Attesi un attimo poi ripresi: “Il nostro mondo è stato invaso da una creatura. Augusta è caduta nel suo tranello, quindi possiamo contare solo su di noi”. Continuavo a camminare avanti e indietro con gli occhi spalancati. “Cosa potremmo fare per mandarlo via? Qualche idea?”. Le osservai in silenzio. “ Funzionerà per certo! ”.
La gigante si era svegliata prima della sfera luminosa e io ,come di consuetudine, l’avevo seguita in tutte le sue azioni. Sfortunatamente quella strana creatura pelosa era ancora lì a perseguitarmi. Ormai era passato un po’ di tempo e grazie alla mia intelligenza avevo appreso che il suo nome era Cane.
Poi come sempre, quando i grandi quadrati di vetro si dipinsero di sfumature arancioni la gigante uscì dal nostro mondo, lasciandomi solo con quella piccola bestia. Decisi che era il momento perfetto per attuare il mio piano: la palla di pelo se ne sarebbe presto andata dal mio “Casa”. Uscì con estrema lentezza dal salotto, arrivai nell’ultima stanza del Mondo e mi appostai davanti al suo contenitore di rifiuti, che per la cronaca erano molto più puzzolenti dei miei. Quando si allontanò saltai dentro alla scatola ed iniziai a scalciare con le mie zampe posteriori. Ottenni proprio il risultato che volevo: intorno al suo contenitore era pieno di sabbia ed espulsioni. Un odore terribile invase la stanza. Per completare l’opera aggiunsi pure i miei rifiuti. Ammirai il tutto soddisfatto. Avrebbe funzionato di sicuro. Infine me ne tornai in salotto, lasciando una scia di sporco sul pavimento senza prestarci attenzione.
Quando Augusta tornò a casa e si accorse del pasticcio che c’era in quella camera ebbe una reazione che non mi aspettavo affatto: cacciò un urlo e venne a cercarmi. Mi prese le zampe, ancora lercie , ed iniziò a gridare frasi che non ricordo neanche: ero intento a pensare alla punizione che avrebbe inflitto alla bestia. Più tardi quando fu ora di mangiare diede la scatoletta a Cane ma non a me. Che ingiustizia! Quel malscanzone non solo stava nel mio Mondo e seduceva Augusta, ma mi rubava anche il cibo !
Una vecchia scatola di cartone era diventata la mia nuova casa quando Augusta Canterville mi vide per la prima volta. Nella mia breve vita avevo appreso solo due cose su di me: ero un gatto ed ero nero. Non ricordavo com’ero finito lì , sapevo soltanto di essere rimasto solo. Quel giorno indossava una lunga gonna ocra e un maglioncino verde acqua da cui spuntava una camicia bianca spiegazzata. Aveva una figura esile e slanciata. I suoi piccoli occhietti verdi mi osservavano attentamente da dietro le lenti dei grandi occhiali che poggiavano sul suo nasino. Continuava a sistemarsi dietro alle orecchie i biondi ricci ribelli. Lei mi accolse nel negozio in cui lavorava. Era un posto pieno di polvere e oggetti d’epoca. Passai la giornata a giocherellare con una pallina gialla di stoffa. Augusta era molto indaffarata, ma cercava comunque di prestarmi attenzione. Mi affezionai subito a lei e la cosa fu reciproca, però, quando rimanemmo soli mi rinchiuse in una gabbietta. La paura riprese a dominare i miei pensieri, non riuscivo a comprendere il suo gesto. Mi portò fuori dalla bottega, poi mi poggiò sui sedili posteriori di una macchina azzurra molto vissuta. Ancora una volta ero costretto a vivere passivamente il mio presente.Prima di mettere in moto si voltò verso di me e pronunciò queste parole : - Gatto sarà felice di conoscerti ! -. Posso dire per certo che non andò proprio così. Appena varcai l’entrata del suo appartamento, ancora terrorizzato, vidi un grassottello gatto adulto a pelo corto, probabilmente un Munchkin. Era bianco come la neve e le sue iridi erano verdi come quelle di Augusta. In seguito tentò di farci conoscere. Gatto mi soffiava senza sosta spaventandomi molto. Lei mi teneva in braccio a fatica. Dopo quell’incontro sfibrante mi riportò nella sua stanza dove mi aspettava una cuccia confortevole. Trascorsi i primi giorni rintanato lì. Uscivo solo ogni tanto quando Canterville si trovava a lavoro e Gatto dormiva. Era un piccolo bilocale al quarto piano di un palazzo vetusto. Rispecchiava la personalità di Augusta: era colorato, accogliente e disordinato. Gradualmente mi adattai e iniziai a prendere parte alla loro vita. Ogni mattina quando la sveglia suonava scattavo in piedi per seguire Augusta. Gatto mi evitava : nutriva un evidente ostilità nei miei confronti e in più non parlavamo la stessa lingua. Pssavo il tempo giocherellare con le cianfrusaglie di Canterville.
Un giorno la casa venne invasa da un orribile odore di escrementi: Gatto aveva combinato un casino nella mia lettiera. Augusta si era infuriata con lui e per punizione lo aveva lasciato senza cena. Per tutta la durata del mio pasto era rimasto nella penombra dell’angolo della cucina a lanciarmi occhiatacce. Io gli rispondevo con uno sguardo di sfida , anche se in fondo ero un po’ spaventato. Quella sera non accadde nulla, ma la mattina seguente mentre seguivamo Augusta, iniziò ad andarmi contro. Lei ci divise quando arrivammo ad azzuffarci. Io non avevo niente contro Gatto ma lui mi aveva classificato come un nemico fin da subito.
I quadrati di vetro erano diventati di un blu scuro. Augusta era andata nella sua camera e fissava quell'oggetto nero che chiama "TV". Entrai nella sua stanza con il mio solito passo lento, mi avvicinai al suo letto e con un saltello ci salii sopra, sprofondando nel materasso. Notai che le sue gambe formavano una conca da sotto le coperte e mi accovacciai lì. Lei prese a farmi i grattini , per ricompensarla iniziai a sussurrare. Avevo compreso che diventava felice quando lo facevo, anche se il perché non mi era chiaro. Poi mi addormentai. Adoravo quel momento della giornata. Ad un certo punto sentii dei rumori seguiti dal leggero traballare del letto; subito dopo silenzio. Stavo per ricadere nel mondo dei sogni, quando percepii la bestia appoggiarsi su di me. Mi irrigidii all’istante : ogni pelo del mio corpo si rizzò e spalancai gli occhi.Come si permetteva quella palla di pelo? Stava rovinando il mio momento con Augusta.
Trascorsi un po' di tempo immobile in quello stato. Mi accorsi per la prima volta che Gatto aveva un manto sofficissimo e ,nonostante i suoi rifiuti puzzassero in una maniera allucinante, lui emanava un odore gradevole. In quella posizione riuscivo a sentire i battiti regolari che provenivano dal suo petto ed era molto rilassante. Dovevo ammettere che in fondo quella situazione non era sgradevole. Piano piano il mio corpo uscì da quello stato di tensione e mi riaddormentai. Mi ricredetti: forse Cane non era così male, forse mi sarebbe piaciuta la sua compagnia. Effettivamente avevo incontrato solo Nina , Anna e Augusta nella mia vita, non avevo mai conosciuto nessuno come me; mi ci sarebbbe voluto del tempo per abituarmi. Diversamente dal mio solito, più tardi non tornai nella mia cuccia ma rimasi lì con loro fino alle prime ore di luce
Mi risvegliai di fianco ad Augusta abbracciato a Gatto, che stranamente la sera prima non mi aveva allontanato. Il telefono di Augusta suonò diverse volte prima che si alzasse, e noi con lei. Come al solito la seguimmo per tutto il suo appartamento, ma questa volta senza bisticciare: niente sbuffi, niente soffi, niente schiaffi. Poi verso le otto lei andò a lavorare. Io e Gatto rimanemmo a fissarci. Dopo non so quanti minuti, mantenendo lo sguardo su di me lui mi lanciò la pallina gialla di stoffa con aria di sfida e iniziammo a passarcela. Correvamo da una parte all'altra della casa: avanti e indietro per il corridoio, poi tra le sedie della cucina, un salto nelle vasca da bagno , a recuperare il giocattolo dietro le tende delle finestre, ecc… Era la prima volta che giocavamo insieme ed ero felice che non ce l'avesse più con me, anche se era strano.
Stavamo sollazzando sul tavolo della cucina quando urtai un bicchiere che cadde a terra frantumandosi in mille pezzi. Osservammo ciò che rimaneva del bicchiere con noncuranza e tornammo a divertirci . Una volta scesi dal tavolo fummo attenti a evitare le scaglie di vetro ma non fu abbastanza: io mi ferì una zampa. Fortunatamente non era niente di grave: un semplice taglietto, non era nemmeno rimasta incastrata la scheggia, però mi faceva un po’ male. Mi assalì un forte senso d’ansia. Gatto nel frattempo era andato avanti senza accorgersi della mia assenza. Si voltò e vedendomi sofferente si avvicinò con aria preoccupata; esitò un attimo. Nei suoi occhi potevo leggere una grossa indecisione sul da farsi. Poi mi leccò la ferita. Questo suo gesto mi stupì molto: solo un giorno prima se né sarebbe andato via. Aveva cambiato la sua opinione su di me, non ne capivo veramente il motivo. Non mi fu mai chiaro. Finalmente non mi vedeva più come un nemico, mi aveva accetto.
La nostra amicizia non era iniziata nel migliore dei modi, ma da quell’inizio un po’ incerto nacque una relazione piena d’affetto. Grazie ad Augusta e Gatto trovai il mio posto nel mondo.
Chiara Barletta (1CG)
Charles mai si sarebbe aspettato che, da un momento all’altro, potesse accadere una cosa del genere. Era una tranquilla giornata d’Estate e nello sperduto villaggio tutte le famiglie erano riunite. Il sole stava tramontando ed era ora di cena, un momento per passare del buon tempo in compagnia.
Charles stava conversando insieme ai suoi genitori, raccontandogli cosa fosse accaduto durante la sua giornata, quando improvvisamente, degli estranei, entrarono bruscamente dalla loro porta. Erano quattro uomini adulti, alti e muscolosi. Indossavano degli scarponcini neri, una divisa verdastra e un cappello del medesimo colore. Si avvicinarono al padre e gli dissero che era arrivato il momento di partire. La madre subito intuì di cosa si trattasse e il suo volto si incupì, ma cercò di non smuoversi, per non far preoccupare i figli. Il padre li abbracciò uno per uno e con un triste sorriso se ne andò, promettendo di tornare il più presto possibile.
Charles è un bambino estroverso e allegro, ha undici anni e vive in Africa, presso un piccolo villaggio sperduto. Abita in una vecchia capanna, assieme a sua madre, suo padre e a Sarah, sua sorella più piccola. Il padre però, è ormai partito da qualche settimana per la guerra, ma di questo Charles ne è all’oscuro.
La sua giornata inizia all’alba e subito si reca al pozzo per riempire qualche secchio d’acqua, che possa bastare a bere e lavare per tutta la giornata. Torna a casa e prende la strada che lo porta a scuola, distante quasi un’ora e mezza a piedi. Una volta arrivato si siede sul suo banco e insieme ai suoi compagni iniziano le lezioni, che durano fino a tardo pomeriggio. Da solo ritorna al villaggio e dopo aver cenato qualche insipida zuppa, passa del tempo con la sua famiglia, cantando canzoni e raccontandosi storie divertenti. Quando arriva il momento di andare a dormire, viene preso dalla malinconia per il padre e inizia a piangere disperatamente, senza capire per quale motivo se ne sia andato. Solo dopo qualche ora riesce ad addormentarsi, grazie agli abbracci e alle carezze della madre.
Erano ormai passati mesi e il padre non era ancora tornato, perciò Charles decise di scrivergli una lettera, per chiedergli dove fosse, cosa stesse facendo e quando sarebbe ritornato a casa.
Iniziò scrivendo queste parole:
Caro Papà, come stai?
Oggi a scuola abbiamo imparato a fare le addizioni e sono riuscito a capirle subito, la mamma è molto orgogliosa di me, ma io sono comunque triste. È da tanto tempo che non torni al villaggio e sto iniziando a preoccuparmi che ti sia accaduto qualcosa.
Mi manchi tantissimo, ogni mattina devo andare a scuola da solo. Come vorrei abbracciarti, mi sento solo senza di te. Perfavore rispondi a questa lettera, dimmi dove ti trovi e torna al più presto, abbiamo bisogno del tuo affetto.
Ti voglio tanto bene e spero stia andando tutto nel verso giusto, la mamma dice di essere felice ma io li vedo i suoi occhi sempre spenti.
Non desidero niente di più che poterti rivedere e passare una delle nostre serate insieme, sdraiati nel prato a guardare le stelle.
Charles.
Presto la lettera scritta dal figlio arrivò e venne consegnata al padre, che dopo averla letta, si sentì in dovere di rivedere la sua famiglia, anche solo per qualche ora. Decise di mostrarla al generale e lo implorò di poter inviare al figlio una lettera di risposta, ma non ci fu alcun modo di convincerlo.
Gli disse che non sarebbe mai potuto ritornare a casa e che probabilmente non avrebbe mai più rivisto sua moglie e i propri figli, perciò scrivere una lettera rassicurante, li avrebbe solamente illusi del suo possibile ritorno al villaggio. Era ormai sera e il padre, esasperato , tornò dai suoi compagni e decise di coricarsi, ma si addormentò dopo qualche ora, senza aver trovato un modo per rivedere la sua famiglia.
I mesi passavano e il padre riceveva continuamente lettere.
Ogni volta le mostrava al generale, senza mai ottenere il permesso di rispondere o di rivedere sua moglie e i suoi figli.
Era mattino presto quando ricevette l’ultima lettera da Charles. Non ne poteva più di continuare a leggere le disperate parole del figlio e capì, che chiedere il permesso al capo era stato uno sbaglio: sarebbe dovuto scappare di nascosto, all’insaputa di tutti. Sapeva che ormai la sua famiglia aveva perso quasi del tutto la speranza, da quello che scrivevano su quei fogli deduceva che pensassero non fosse nemmeno vivo. Prima di fuggire decise di salutare la persona che gli era stata vicina per mesi, con la quale si era confidato nei momenti più oscuri. Il suo nome era Josh, un uomo di quasi quarant’anni, padre di una bambina ancora piccola. Quando gli riferì che sarebbe partito per rivedere i suoi cari, Josh rimase immobile e soltanto dopo qualche minuto rispose, con una frase che il padre non si sarebbe mai aspettato di sentire: “vengo con te“.
Insieme controllarono che nessuno li stesse guardando e con cautela si avvicinarono al filo spinato. Con pietre e ferraglia scavarono una buca, passante sotto la barriera e in poco tempo riuscirono ad oltrepassarla. Non ci furono intoppi e nessuno li vide, dovevano solamente fare attenzione alle telecamere. Si rimisero in sesto e fuggirono. Il viaggio sarebbe durato all’incirca tre giorni per entrambi, dato che i villaggi dove abitavano non erano distanti fra loro. Non dovevano attraversare il mare, il tragitto era uno e continuo. Stavano ormai camminando da ore, il cielo era scuro, illuminato a tratti dalle stelle. Regnava la pace e a tutti e due sembrò un buon luogo per riposare.
Furono svegliati dalla luce dell’alba e subito dopo essersi alzati, notarono nelle vicinanze un misterioso furgone bianco.
Con prudenza si avvicinarono e il signore alla guida gli propose di salire, promettendo che li avrebbe accompagnati ai rispettivi villaggi.
Josh e il padre accettarono la proposta, pensando che così sarebbero tornati a casa in minor tempo. Ma non appena salirono, affianco al conducente videro il generale, che si voltò, e in un millesimo di secondo sparò a entrambi. Le famiglie non seppero nulla dell’accaduto, non ricevettero nessuna lettera e niente le venne mai comunicato. Restarono per sempre all’oscuro della morte dei loro familiari e Charles non rivide mai più suo padre.
Margherita Cattaneo (1DL)
Caro papà,
Oggi come stai? Ti sto scrivendo ancora con il fiato corto dopo la corsa: ancora una volta ho finito i profiteroles del ristorante della mamma, non ho resistito, e la zia Rosetta mi ha dato filo da torcere con le ortiche, voleva ancora strofinarmele sul polpaccio: una volta ci riuscì e mi grattai le gambe per quasi quattro ore, da quel momento ho imparato e anche stavolta ho vinto io: siamo 105 a 1.
Mi chiedo cosa tu stia facendo ora, di bello o brutto, e dove: magari sei in India, preghi e fai “ooommm” con le tuniche arancioni da monaco. Magari stai facendo un provino per una parte in un film importante di Hollywood, o ancora uno spazzino che pulisce le strade di New York al mattino presto.
Non vedo l’ora di rivederti, mi manchi. Sai, quando dico a tutti che in realtà non sei su in cielo, ma sei solo dovuto scappare da quei delinquenti, mi credono pazza. Mi chiedo perché tu non abbia lasciato, però, neanche una lettera. So che quei due ladri ti stanno ancora tenendo in ostaggio, ne sono certa, ma se non chiedono un riscatto, cosa vogliono da te? Non gli hai detto che tua figlia ti aspetta ancora, a casa, ogni Natale (o in qualsiasi altro giorno) per fare i biscotti con la glassa di cioccolato insieme? Non gli hai detto che tua moglie probabilmente piange nel letto tutte le sere, distruggendosi per la tua presunta morte? (questo è uno spoiler, la mamma lo fa tutte le sere quando pensa che io stia già dormendo, così durante il giorno si mostra sempre forte, ma nonostante siano passati tre anni ci soffre ancora, lo capisco da come guarda la foto in soggiorno del vostro matrimonio: peccato non si veda la tua faccia, avrei un ricordo in più e non farei così fatica a disegnarti) Intanto, per ingannare l’attesa, guarda il dipinto: oggi ti ho immaginato monaco buddista che fa “ooommm”.
A presto,
Georgia
PS: ti disegno sempre con un sopracciglio un po’ più alto dell’altro perché né la mamma né la zia (che dicono che in realtà esagero con la differenza, e forse hanno ragione) lo hanno, mi piace l’idea che io lo abbia preso da te.
La piccola legò con le sue piccole dita la busta finemente decorata a mano al filo di nylon alla cui sommità vi era un palloncino gonfiato ad elio: con il suo piccolo sguardo innocente era riuscita a fare breccia nel cuore di pietra del signor Ugo, che abitava di fianco all'uscita del paesello in cui abitava, (il quale vantava l'età media più alta di tutta la Sicilia, immaginate la moltitudine di bambini con cui avrebbe potuto giocare) che le regalò una pompa di elio che la bimba utilizzava sempre per inviare le lettere al papà.
Dopo aver compiuto il suo rituale giornaliero, rigirò la testa e lo sguardo verso il paesello e cominciò a correre: per quanto la confusione la spaventasse, la completa solitudine lo faceva altrettanto. Il suo mantello, sapientemente ricavato da un centrotavola di lana della nonna, forse troppo largo per essere chiamato tale, ondeggiava alla fresca brezza primaverile; le sue gambe, esili e al contempo definite come quelle di una piccola rana, correvano veloci, aiutate, secondo ciò che pensava Georgia, dai suoi mitici leggins decorati a fantasia militare, punteggiati da piccole stelle rosate.
Dopo pochi minuti di corsa, girò il chiavistello del piccolo appartamento in cui abitava con la madre e la zia, fece attenzione ad aprire la porta, per non farla sbattere contro il diviano-letto, la quale gamba destra era ormai quasi disintegrata, alzò lo sguardo e vide le due donne singhiozzare e soffiarsi il naso davanti alla televisione: il film "Città di Carta" stava ormai volgendo al termine, e il lavoro del protagonista si era rivelato, agli occhi della bimba, vano. Nonostante ciò, le fornì lo spunto che di lì a poco avrebbe svoltato e modificato radicalmente la vita e l'impressione delle persone che aveva accanto: se il padre le avesse lasciato degli indizi? Se l'universo stesse tramando, come diceva il suo libro preferito, "L'alchimista", per farle conseguire il suo obbiettivo? Non poteva perdere un'occasione simile, avrebbe cominciato la ricerca nel luogo dove tutto era finito: il mercato.
La data dell'inizio della sua "spedizione" era stata fissata: sarebbe stata quella precedente al giorno del suo compleanno, che per tradizione era il giorno di riposo ancora più sentito e venerato da lei e dalle vecchiette del paese della domenica. L’avrebbe fatto. Sapeva che quel punto sarebbe stato quello di partenza, quello decisivo.
La mattina del 15 Aprile, prese un respiro profondo e si immerse nella folla del mercato. Nella stretta viuzza numerose bancarelle dai mille colori erano addossate le une alle altre lasciando solo uno spazio largo, al massimo, un metro e mezzo, in cui la miriade di persone, con il loro camminare, formava un fiume la cui corrente trascinava via la piccola Georgia: ”uno, due,tre, inspira, espira, inspira, espira” si ripeteva continuamente, come un mantra, poiché il ricordo dell’accaduto pian piano si insinuava nella sua testa: la mano del padre che abbandonava la sua, il suo urlo, quando quattro mani gli tapparono la bocca nel vicolo, i suoi occhi sbarrati. Cercava di concentrarsi su altre sensazioni: un artigiano pubblicizzava i suoi tappeti, un pescivendolo con voce sonora il suo pescato, un ragazzo litigava con il fruttivendolo poiché il prezzo delle fragole era aumentato troppo. Intanto la folla l’aveva condotta al punto critico, il famoso vicolo: esso si allargava in una nicchia vuota, dalla quale i due ladri erano spuntati, portandole via il padre. La sua testa la riportò immediatamente a quel giorno.
Camminava fiera, al fianco del suo babbo, salutando con la sua piccola mano tutte le persone che facevano all’uomo un gesto di riverenza: mano nella mano si sentiva protetta, al sicuro e al riparo da qualsiasi pericolo, come se avesse un grande scudo tutt’intorno. Egli svoltò in una piccola viuzza, con la scusa di dover contare dei soldi. Fu proprio nel momento che girò la testa per prendere il portafoglio dal borsello che due uomini coperti di passamontagna gli tapparono la bocca e lo trascinarono via. Georgia non fece in tempo a terminare un urlo straziante, né a vedere dove lo portassero perché un terzo uomo le schiacciò qualche vena particolare, gesto sufficiente a far svenire per una mezz’ora buona una piccola bimba di cinque anni. Quest’ immagine le balenò in testa per un secondo, quantità di tempo necessaria per raggiungere il limite e perdere di vista l’obbiettivo: trovare il primo indizio. L’urlo straziante della piccola la fece ripiegare su sé stessa, non sentì né vide più nulla. Il vuoto.
Quello che forse non si può intuire e che quindi rivelerò è che la nostra piccola Georgia, non si sa né come né perché, cadde in un profondo coma, un coma che di solito segna un punto di interruzione o addirittura la fine di qualcosa, ma che in questo caso divenne l’inizio e il “punto di partenza” che cercava.
Quello che non sapeva era che, sdraiata nel suo letto d’ospedale, immobile, al riparo da tutto e da tutti, stava per affrontare qualcosa di ben più grande di lei: la sua vita stava per essere stravolta, e se in bene o in male, solo il destino poteva saperlo. Nel suo coma il suo "io" si era frammentato in tante piccole parti, ed era come se lei fosse in ogni posto che desiderava e voleva senza che coloro che erano al centro della scena lo sapessero: sentiva le conversazioni, sapeva già la strada per arrivare ad un determinato luogo, era persino capace di vedere eventi passati, come dei veri e propri flashback. Il suo io le fece vedere un insieme di scene e immagini che si succedettero come un flusso di coscienza che, purtroppo, non fece gli interessi di chi, inconsciamente, lo aveva mandato.
La prima scena si aprì sul volto di un uomo dalla carnagione olivastra, occhi di un blu ghiaccio, quasi inquietante, con capelli e barba scura, sulla trentina. Sorride e porge un anello alla mano dell’osservatore:
«Signor Giovanni D’Amazzano, vuole lei prendere per sposa la signora Teresa Mincietti?» diceva un prete.
Georgia si trovava nel corpo della madre. Tutto intorno i parenti applaudivano e si levavano grida sonanti:
«Viva gli sposi!»
Il cuore delle piccola non fece in tempo a provare tutta la gioia che avrebbe dovuto, dopo aver rivisto il papà e la mamma insieme, che subito la sua visione cambiò: vedeva dall’esterno sé stessa, pochi anni prima, mentre imparava a camminare : i genitori le prendevano la mano e le rideva, rideva talmente tanto che le lacrime agli occhi le offuscavano la vista. Anche tutte le visioni successive parlavano della sua infanzia e le mostravano quanto e come essa fosse cresciuta: il primo disegno, la prima pedalata in bici, il suo quinto compleanno, quando fece cadere le candeline sul pavimento che ancora oggi conserva una macchia scura bruciata. Le scappò un sorriso, almeno la torta si era salvata!
La scena ad un tratto si fece quasi più cupa, come se il sole fosse calato, ed infatti era così quando vide il padre avvicinarsi, nel cuore della notte dopo la festa, appena fuori alla porta di casa, a due loschi individui; non fece in tempo a tirare le tasche fuori dal giubbotto che subito essi gli tirarono due pugni e continuarono a percuoterlo, lasciandolo a terra dicendogli solamente:
«O abbandoni la mogliettina e la figlioletta, inscena la tua morte, fai quello che ti pare, o sei morto. A te la scelta. Sapevi che questo gruppo non avrebbe perdonato: se vorrai continuare a vivere, presentati domani al mercato. Insceneremo un tuo rapimento»
Il giorno seguente, Georgia insistette per andare a prendere le ciliegie con lui.
Si trovò successivamente in campagna, nello stesso campo in cui era solita lasciare i suoi palloncini: il papà camminava a testa bassa, quando uno di essi, ormai sgonfio di tutto l'elio, gli si posò davanti, lo afferrò, aprì la busta, e in quel momento il cuore di Georgia si fermò per un attimo, il tempo necessario all'uomo per richiuderla e bruciarla appena dopo aver estratto un vecchio accendino.
I pezzi del puzzle si incastravano. Il mondo che credeva esistesse, le sue convinzioni, tutte le idee possibili che si era fatta sull’uomo che le aveva donato la vita e la speranza che egli fosse ancora con lei (in senso morale) vacillarono, fino a crollare completamente. Il suo corpo, che le persone all’esterno vedevano immobile, dentro fremeva, si agitava, la sua testa lavorava e cercava di razionalizzare il più possibile, mentre sul suo viso bruciavano copiose le lacrime che si sentiva scendere dagli occhi. Il papà l’aveva abbandonata. La mamma, che aveva sempre creduto indifferente nei confronti suoi e del marito scomparso, era in realtà l’unica donna che, come le mostrarono dei flashback successivi, l’aveva sostenuta, supportata, insegnato i valori e le nozioni che la rendevano la bambina vivace e particolare che era: il padre era la cornice, l’utopia di un’infanzia non ancora terminata che sarebbe stata perfetta se avesse avuto a fianco l’ideale del genitore che in realtà non aveva.
Questa valanga di pensieri fu interrotta dall’interruzione stessa dei flashback, sostituita dalla sopracitata “frammentazione dell’io”: si spostò in casa, dove sentì dei passi e la porta aprirsi di scatto. In quell'istante entrarono nel piccolo soggiorno i due uomini che avevano minacciato il padre. La madre e la zia si alzarono, con le facce tese, gli occhi che trapelavano paura, riuscendo solo a balbettare:
«Ch…ch...che piacere ve..ve..vederla, spero che il boss s...stia bene. A...a...avevate bisogno di qualcosa?»
Uno dei due farabutti, quello più basso e tarchiato dalla voce severamente inquietante le ammonì:
«Saltiamo i convenevoli, donna. La vostra piccoletta è stata avvistata in zone di nostra competenza. Probabilmente ha origliato qualcosa, o forse no, non ci interessa. Si ricorda suo marito? A meno che non vogliate fare la sua stessa fine, sapete come comportarvi»
Con un ghigno malevolo l’uomo alto e magro, che fino a quel momento era stato in silenzio, scoppiò in una fragorosa risata, inquietante. Dopodiché prese due o tre bottiglie di vino dalla dispensa, un barattolo di ‘nduja e si congedarono come se nulla fosse. Le due donne piangevano.
Georgia li seguì: destra, dritto per cento metri, alla rotonda della piazza la seconda a sinistra, percorrevano poi la strada che andava verso la campagna e la frazione del paese vicino: lì un gruppetto fitto di casupole di contadini oscurava un vicolo cieco al cui termine vi era una piccola finestrella di una taverna, che venne aperta dai due scagnozzi: all’interno un sontuoso studio arredato con costosi mobili d’epoca , scarsamente illuminati da leggere luci soffuse aveva al centro una grande scrivania di legno di cedro sapientemente intagliato: dietro di essa si trovava il padre di Georgia che, dopo uno sguardo di intesa con l’ometto tarchiato disse: “Dobbiamo farle fuori”.
La macchina che segnava i battiti cardiaci, dal ritmo lento tipico del coma, di colpo accelerò quei ticchettii, il pollice della mano sinistra si mosse impercettibilmente così come, con uno scatto fulmineo, il piede destro: ecco che i grandi occhi azzurri della piccola si spalancarono, con grande gioia della madre: era passata una settimana.
Georgia non riusciva a smettere di pensare a ciò che aveva visto, sentito, provato. Mai nella vita si era sentita talmente sola ed impotente, cercava di scacciare quelle orribili immagini dalla sua testa ma ciò che la assillava continuamente, oltre a quello che aveva visto e sentito, era un discorso successivo al verdetto del padre, di cui non riporterò neanche le parole: basti sapere che scossero profondamente nell’animo una bimba di nove anni, in modo irreversibile.
I giorni passavano, telefonate al numero fisso di casa si facevano sempre più frequenti ed insistenti, la mamma e la zia apparivano di rado in pubblico, stavano spesso chiuse in casa: i loro visi erano solcati da profonde occhiaie, le loro parole si fecero sempre più sporadiche nonostante però cercassero di mostrarsi sempre propositive e contente di fronte alla piccola, la cui sensibilità, purtroppo per loro, era ben di sopra alla media dei suoi coetanei. Non capiva il perché di questi strani comportamenti, ma qualcosa nel suo animo la convinceva sempre di più che, in qualche modo, centrassero i due scagnozzi e, indirettamente, il padre: si era ripromessa che non gli avrebbe più scritto nulla, che la sua testa si sarebbe impegnata a fondo per minimizzare i pensieri inerenti a lui e alla sua immagine, ma in quel momento il benessere della mamma e della zia, che avevano iniziato a proibirle di uscire se non per andare a scuola, veniva prima di tutto.
Convinse il signor Ugo a falsificare la firma della madre su un’autorizzazione per uscita anticipata a scuola e, intenzionata a scoprire cosa tramassero in quel bunker, percorse il tragitto che i due farabutti avevano fatto nella visione, fino a giungere alla piccola finestrella, che ora presentava un’inferriata che minimizzava la visione: nonostante ciò, era aperta. Accostando l’orecchio riusciva a sentire offese, accuse, parole brutali di ogni genere: scostò lievemente la tendina e un gruppo di uomini infliggeva ogni genere di torture al signor Trezza, il panettiere che ogni mattina le regalava un pezzo di focaccia sulla strada di scuola. Continuavano a domandargli qualcosa che c’entrava con “commissario”, “pistola”, “debito”. Quelle visioni erano troppo per Georgia, non capiva cos’avesse fatto di talmente orrendo per meritarsi un dolore simile.
«Basta! Basta! Pover’uomo, smettetela!» gridò.
Dieci occhi, più due, contando quelli del prestinaio, si girarono verso la finestrella, per capire da chi provenisse quella piccola vocina. Dalla scrivania di cedro, che prima di allora era rimasta nascosta alla sua vista, si alzò il padre, i cui occhi azzurri incrociarono quelli della figlia: gli balenò in testa l’immagine della sua piccola qualche anno prima, con qualche dente in meno e il suo solito sorriso a trentadue denti, sostituita ora da un’espressione mista tra la meraviglia, che cercava di nascondere, e il disgusto, l’orrore, la tristezza che prevalevano.
«Ciao Georgia» disse.
La piccola sbatté le palpebre per capire se stesse sognando, poco prima di riaprirle non si accorse che il padre, dall’aria terrorizzata ma decisa, estraeva qualcosa dalla tasca posteriore dei jeans. Si sentì un rumore sordo, secco, i piccioni che stavano sul tetto spiegarono le loro ali, i pastai smisero di impastare, la maestra della scuola accanto di spiegare, il postino fermò la sua motocicletta e il neonato di piangere: quel qualcosa era successo a qualcuno, tutti lo sapevano.
Poi si risentì il rombo del motore ripartire e le parole dell’insegnante rifluire, seguite allo stridere del gesso sulla lavagna; solamente una cosa era cambiata: il mantello di lana era di colore rosso fuoco.
Azurea Codegoni (1DL)
Cara Elodie,
ero giovane e solo e con un sogno che non avevo il coraggio di seguire.
La mia memoria sta iniziando a venire meno a causa dell'età e l'ultima cosa che voglio è dimenticare ciò che ha reso la mia vita degna di essere vissuta.
Scriverò. Ogni volta che potrò prenderò carta e penna e farò sì che il tuo ricordo resti indelebile nel tempo, perché mai voglio scordare ciò che hai fatto per me, e che ti ha resa così importante ai miei occhi.
Per sempre tuo,
John
Cara Elodie,
Ricordi quando eravamo giovani e tu eri l'unica a credere in me? Tu sola prendevi sul serio il mio desiderio di studiare falegnameria e non mi consideravi uno svitato; mi spronasti a rendere la mia passione un lavoro, e a non lasciare che il mio talento andasse sprecato.
Allora desideravo ardentemente poter affinare la mia tecnica e imparare ciò che ancora mi era ignoto, ma come ben sai la mia non era un'ambizione ben vista gli occhi dei miei genitori, per i quali era una perdita di tempo e un capriccio di un ragazzo che non ha ancora capito come funziona la vita.
Tu però eri dalla mia parte, anche quando non c'eri fisicamente, so che mi supportavi e credevi in me, ed è grazie a te che non ho mollato; se non ci fossi stata tu avrei abbandonato ogni speranza dal principio, credendo ai miei genitori e rinunciando a tutto ciò che la vita mi ha dato, te compresa.
Non ti ringrazierò mai abbastanza.
Per sempre tuo,
John
Cara Elodie,
Oggi ho dato una sistemata allo studio e ho ritrovato una vecchia scultura. Ti ritrae.
Quella fu la prima volta che intagliai una persona. Avevo sempre creduto di non essere abbastanza capace e soprattutto sapevo che non sarei mai riuscito a riportare la tua bellezza in un ciocco di legno, non ci riesco tutt'ora dopo anni di esperienza, perché non potrò mai riprodurre il fascino del tuo mondo interiore, che vedo guardando nei tuoi occhi, e che è ciò che ti rende più bella.
Quel giorno ti offristi di farmi da modella; non so se lo notasti, ma ricordo che il cuore iniziò a galopparmi nel petto, come se avessi appena corso una maratona. Non osai guardarti negli occhi e mormorai un timido sì, tirando fuori dallo zaino logoro una vecchia sgorbia e prendendo il pezzo di legno che mi porgevi.
Poche settimane dopo quell'episodio la mia stanza era piena di tuoi ritratti, tentativi vani di cogliere la tua bellezza, e in quegli stessi giorni mi giunse la notizia della tua partenza.
Ricordo la rabbia; gli occhi mi bruciavano e sentivo le orecchie fischiare.
Non lo venni neppure a sapere da te; una mattina sentii le tue amiche che ne parlavano tranquillamente nell'atrio della scuola, come se fosse ormai qualcosa di scontato.
Corsi. Rimembri quando ti giunsi di fronte? Non ho mai dimenticato il dolore impresso nei tuoi lineamenti; sussurrasti un flebile “mi dispiace”, sentii il pianto nella tua voce e vidi gli occhi arrossati dalle lacrime trattenute.
Entrai in classe, superandoti; so che in quel momento ti sgretolasti alle mie spalle, e non averti tenuta fra le mie braccia è uno dei più grandi rimorsi della mia vita; avremmo potuto chiarire, ma vedevo rosso dalla rabbia, e non pensai a come le mie azioni avrebbero potuto creare una crepa nel nostro rapporto.
Tu scappasti in bagno e io ti lasciai andare, pensando solo a come mi avevi tradito non raccontandomi della tua partenza.
Non ci parlammo per una settimana, fino a quando una manciata di giorni ci separava dal tuo volo. Una fredda domenica mattina bussasti alla mia porta; eri avvolta in una pesante sciarpa e ti stringevi in un lungo cappotto che ti faceva sembrare Sherlock Holmes; mi spiegasti tutto: tuo padre era stato trasferito in un'altra sede dell'azienda per cui lavorava e temevi di parlarmi della partenza per timore della mia reazione, non pensando a come il rimandare la conversazione avrebbe rischiato di intaccare irrimediabilmente il nostro rapporto; ti sei scusata più e più volte con le lacrime agli occhi, e a guardarti mi piangeva il cuore.
Tornammo a piccoli passi al punto della nostra relazione in cui eravamo prima, ma il tempo non era a nostro favore, e prima che ce ne accorgessimo tu eri partita; mi mancasti, lo sai? Passavo i pomeriggi a disperarmi, perché anche se ci scrivevamo e sentivamo per telefono mi mancava poterti tenere la mano mentre passeggiavamo in centro o il semplice guardarti con la coda dell'occhio durante le lezioni. Smisi di intagliare. Non riuscivo a prendere in mano gli attrezzi senza immaginare il tuo viso prendere forma nel legno. È stato un periodo buio, ricordi? Ad un certo punto iniziai ad ignorarti, sperando di riuscire a dimenticare te e il dolore che la tua partenza mi aveva provocato, ma non sentirti mi faceva solo penare di più ed eri sempre nei miei pensieri, te l'ho mai detto?
Durante quel brutto periodo le vecchie sgorbie presero polvere nascoste nel cassetto della mia scrivania e senza di te a sostenermi iniziai a pensare che forse i miei genitori avevano ragione e il mio era il capriccio di un giovane incosciente che non pensava al suo futuro; ma il desiderio di seguire i miei sogni persisteva nel mio cuore, mancavi solo tu per aiutarmi a tirarlo fuori nuovamente.
Tuo per sempre,
John
Cara Elodie,
È notte fonda. Le fiamme danzano nel caminetto, illuminando flebilmente le pareti di gesso e proiettando ombre sul tuo viso intagliato nel legno. La penna che scivola sulla carta porosa e lo scoppiettio della brace sono gli unici rumori che mi tengono compagnia, salvo l'occasionale grido di qualche gufo appollaiato sui rami della magnolia.
Fuori dalla piccola finestra appannata le stelle punteggiano di bianco il cielo. Non vedevo una notte così limpida da anni.
Ricordo una sera primaverile, quando ormai eri partita da un paio di mesi; mi erano sembrati un'eternità senza di te e, durante quella settimana, avevo deciso di cercare di dimenticarti, inutilmente aggiungerei.
Quella sera stringevo al petto un cuscino, ignorando le continue notifiche che illuminavano lo schermo del mio cellulare. Guardavo fisso fuori dalla finestra della mia camera, ammirando la luna piena e la spolverata di stelle attorno ad essa, la cui luce argentea era l'unica fonte di luce a permettermi di distinguere i contorni della mobilia che occupava la stanza. Le stelle mi ricordavano le tue lentiggini.
Rimuginai per ore su te, sul mio futuro, su tutto ciò che stava cambiando; mi sentivo svuotato da ogni energia, esausto. Mi ripetevo che non valeva la pena soffrire in questo modo per una ragazza, ma, nonostante tu fossi la causa principale della mia angoscia, c'era dell'altro. Non solo ti avevo persa, ma avevo anche abbandonato la speranza di perseguire il mio sogno; avevo rinunciato a tutto ciò che riguardava la falegnameria. Non avevo più certezze e sicurezze.
Ma poi qualcosa scattò e capii.
Eri tu. Tu mi infondevi fiducia e mi spingevi a fare ciò che amavo. Tu mi avevi convinto che sarei riuscito a fare del legno un lavoro. Avevo bisogno di te, perché compensavi le mie mancanze e mi spronavi a fare meglio.
Presi il telefono e ti chiamai. Era tardi. Rispondesti. Parlammo fino all'alba.
Per sempre tuo,
Jhon
Cara Elodie,
Col tempo capii che la distanza non conta. Tu c'eri sempre stata, indipendentemente dai chilometri che ci separavano. Capii che anche se non eri al mio fianco mi sostenevi, e questo bastava.
Presi una decisione. Parlai con i miei genitori. Volevo inseguire il mio sogno.
Se mi concentro riesco ancora a sentire le urla e a vedere la disapprovazione impressa nei lineamenti duri di mio padre e il dolore negli occhi dolci di mia madre. Volevano solo il mio bene, ma avevamo un concetto di bene diverso.
Presi il borsone che da piccolo utilizzavo per la divisa di calcio e vi infilai alla rinfusa abiti, attrezzi per intagliare e il portafogli; recuperai il cellulare e le chiavi e me ne andai.
Sapevo che non sarebbe stata una situazione permanente; prima o poi avrei dovuto risolvere e parlare con loro, ma in quel momento volevo solo fuggire. Salii sul primo autobus che mi avrebbe portato da te.
Era tarda sera quando bussai alla tua porta, trafelato e con le guance macchiate dal pianto; venne ad aprirmi la porta tua madre e quando mi vide mi strinse al suo petto, chiamandoti a gran voce.
Non ti vidi entrare, ma sentii le tue dita che disegnavano leggere piccoli cerchi sulla mia schiena, mentre canticchiavi nel mio orecchio una vecchia ninna nanna. Mi prendesti per le spalle, convincendomi a seguirti in camera tua; lasciai cadere il borsone a terra e mi aiutasti a levarmi la giacca di jeans, accompagnandomi poi al bagno e, mettendomi un asciugamano tra le dita, mi dicesti di darmi una rinfrescata.
Quando uscii dal bagno mi stavate aspettando al tavolo. Spiegai cosa fosse successo a casa mia quella sera, e i tuoi genitori accettarono di farmi restare per un paio di giorni, a patto che poi mi riappacificassi con la mia famiglia.
Quella notte non dormii, ma avevo te a farmi compagnia.
Due giorni dopo tornai a casa.
Con i miei genitori la tensione era palpabile, ma avevano accettato la mia richiesta di iscrivermi in una scuola di falegnameria e, sebbene controvoglia, mi sostenevano.
Dopo un mese mi giunse la notizia del tuo ritorno, tanto inaspettata quanto piacevole, e non appena arrivasti in città corsi da te, abbracciandoti stretta come non mai.
Per sempre tuo,
John
Fabio Florian (3CT)
In una noiosa giornata primaverile, Giovanni Achilli, quindicenne studente al Liceo scientifico Taramelli di Pavia e residente a Vigevano, decide di andare a camminare alla pista di atletica del suo paese.
Quel giorno al campo si stanno svolgendo gli allenamenti della squadra locale, la Virtus Vigevano, allenata da Santo Malaga. Giovanni resta tutto il tempo ad ammirare i ragazzi correre e, a fine allenamento, decide di scambiare due parole con il DS Malaga.
“Buongiorno mister, mi chiamo Giovanni volevo provare a fare qualche allenamento con voi” chiede con voce tremolante il ragazzo.
“Ciao Gio, non è un problema, ti do il borsone e domani ti devi presentare alle 15 e 30 al campo” risponde Malaga.
“Certo Mister, a domani!”.
Il giorno dopo il ragazzo si presenta al campo alle 15 e 30 come aveva detto Mister Malaga, portando a mano il grande borsone della Virtus Vigevano.
Entra nello spogliatoio con tutti gli occhi carichi di presunzione dei suoi futuri compagni addosso.
Giovanni rimane in silenzio, si prepara, ed esce dallo spogliatoio seguendo gli altri ragazzi.
Iniziano con un paio di giri di campo e Giovanni, volenteroso di mettersi in mostra, inizia a correre come un dannato, arrivando sfinito a fine riscaldamento.
Il mister indica ai ragazzi i lavori da fare, partendo con un giro di pista cronometrato.
Tutti si preparano ai blocchi, ma Giovanni non sapeva come fare!
Al fischio tutti partono e il giovane cerca di dare il meglio di sé, ma era davvero troppo stanco dopo il riscaldamento, quindi arriva ultimo con molto distacco.
I compagni ne approfittano per scherzare su di lui e deriderlo. Giovanni si rifugia nello spogliatoio, ove il Sig. Brusini, signore sui 70, presidente della squadra ed ex allenatore della nazionale Italiana, gli si siede accanto.
In effetti Brusini aveva visto nel ragazzo un ottimo potenziale e non si è fatto scappare l’occasione per scambiare quattro parole. Giovanni, con le lacrime agli occhi, dice al presidente di non volere continuare ad allenarsi perché i compagni lo deridono in continuazione. Brusini sa benissimo di non potersi far scappare un ragazzo con dei mezzi simili, quindi decide di farlo allenare in solitaria, e gli dà appuntamento per il giorno seguente sempre alle 15.30.
L’anziano decide di andare direttamente fuori da scuola a prenderlo e si ritrova davanti ad una rissa.
Chi c’è in mezzo? Neanche a dirlo, Giovanni.
Il vecchio decide di restare in auto e di andarsene al campo ad attendere il ragazzo.
Quando Giovanni si presenta al campo con un vistoso occhio nero, vede il presidente appoggiato ad un pilastro a braccia conserte e con un’aria tra l’arrabbiato ed il turbato. Il ragazzo esordisce con un timido: ”Buongiorno Mister” a cui Brusini non risponde, voltandosi lentamente e incamminandosi verso quello che lui chiama “il mio ufficio”.
Entrano in una stanza con una vetrata enorme che si affaccia sulla pista di atletica. Il mister si siede alla sua scrivania e, senza guardarlo negli occhi, dice a bassa voce a Giovanni “Riscaldati”.
Il ragazzo con tono turbato gli domanda: “Devo fare qualche giro?”
“Riscaldati, non te lo ripeto un’altra volta” replica l’anziano.
Giovanni inizia a fare un paio di giri ma, questa volta, con un passo medio, avendo imparato la lezione il giorno precedente.
Brusini, sempre con aria scura, si alza ed esce dal suo locale. Ferma il ragazzo e lo fa sedere sull’erba del campo da calcio all’interno della pista.
“Lo vedi?” inizia il vecchio allenatore.
“Cosa?” risponde quasi spaventato Giovanni
“Il campo. LÌ dentro, se hai dei problemi con qualcuno, puoi entrargli in scivolata sperando si faccia male”
“Quindi?” risponde sempre più confuso Giovanni
“Ora guarda la pista. Non hai modo di entrare in contatto con altri, che ti stiano simpatici o antipatici” spiega Brusini
“Vero, ma dove vuole arrivare con ciò Mister?”
“Voglio farti capire che in pista la rabbia devi sfruttarla per battere tutti. Se normalmente dai il 90% qui devi dare il 120%, perché gli avversari o le persone in generale, devi zittirle in pista”
“Capito Mister… “
“Ora fammi 400 metri a fuoco, ti cronometro”
Giovanni si prepara al blocco, e al fischio di Brusini parte con una corsa scoordinata ma efficace. Finito il giro il cronometro segna 50” e 30’, un tempo mica male per un principiante.
“Tieni il busto fermo, muovi le braccia in modo coordinato e spingi con tutto il piede seguendo una linea la più dritta possibile” spiega il tecnico.
“Va bene mister, il tempo com’era?” chiede curioso il ragazzo
“Si può fare di meglio. Ascoltami bene: immagina di essere nella corsia centrale, e di avere alla tua destra il ragazzo che fuori da scuola ti ha picchiato. Alla tua sinistra c’è Andreotti quello che ieri ti derideva. Corri con loro di fianco e immagina che pur aumentando loro rimangano al tuo fianco. Adesso è il momento di dare il 120%”
“Ma quindi lei era fuori da scuola oggi?!”
“Vai a prepararti”
Giovanni va verso i blocchi, con uno sguardo serio e gli occhi semichiusi a mostrare una grande concentrazione.
Adesso sì che sa come mettere i piedi per partire. Pone il destro sul blocco anteriore, e il sinistro in quello posteriore.
Mette le mani appoggiate alla pista, guarda a destra negli occhi del bullo, si volta a sinistra per scrutare Andreotti. Ora scruta dritto avanti a sé. Il mister mette il fischietto in bocca. Giovanni alza il bacino verso l’alto. PUM! Il tempo inizia a scorrere, Giovanni mette in atto i consigli di Mister Brusini coordinando gli arti e spingendo con tutto il piede. All’uscita dalla prima curva Giovanni si volta e vede ben presente la figura di Andreotti al fianco suo, e nell’altro fianco può vedere Manzini, il bullo. Intorno a loro sembra esserci il silenzio di un campo deserto, ma in realtà sono avvolti da migliaia di grida di tifosi provenienti da tutto il mondo. Decine di telecamere seguono i loro movimenti e li trasmettono in diretta tv in centinaia di paesi. La pista di Tokio è famosa per essere tra le più veloci al mondo, infatti il tempo scorre e loro sono già all’uscita dalla seconda curva. Le medaglie sono quasi sicuramente dei tre italiani, ma la lotta è serratissima. Giovanni in pochi secondi rivede la sua adolescenza, le risse con Manzini, le risate di Andreotti ad ogni suo errore. Quegli attimi gli danno una forza supplementare, come aveva detto il mister Brusini ormai dieci anni prima. Sotto il traguardo Giovanni passa per primo fermando il cronometro al sensazionale tempo di 42’’ e 55’, un nuovo record del mondo! Passato il traguardo l’ormai uomo di 25 anni si sdraia per terra e scoppia in un pianto liberatorio. In pista entra un uomo anziano, con una lunga barba grigia seduto su di una carrozzina. Si avvicina a Giovanni a lo abbraccia.
“Complimenti ragazzo, non sai quanto mi riempia d’orgoglio vederti vincere una gara del genere!” dice l’anziano
“Grazie Signor Brusini” dice piangendo il vincitore dei 400 metri alle olimpiadi di Tokio 2020.
“Chiamami Antonio, ragazzo”.
Carolina Rivolta (1CG)
Aveva un naso minuto e arrossato come se si fosse soffiato il naso in fretta e furia, i suoi occhi erano tremendamente enormi, aperti per scrutare ogni dettaglio del mondo,dei riccioli spettinati e neri come la fuliggine del camino li accarezzavano il viso, le labbra erano rosate e molto carnose.
Marco aveva 13 anni,era un ragazzo minuto di bassa statura,reputato da tutti i suoi compagni divertente, piacevole e molto colto in ambito di natura e animali, aveva un animale preferito un pò insolito,il polpo e sapeva raccontarti ogni particolare della sua vita, a primo impatto era un fanciullo molto timido ma appena entravi in confidenza ti raccontava tutti i suoi segreti, anche quelli più intimi…
Sento la sveglia suonare e apro gli occhi, un profumino delizioso attraversa le mie narici,scendo dal letto e mi dirigo in cucina, proprio come pensavo mamma sta preparando i suoi deliziosi pancake,ne divoro due e corro a prepararmi, infilo i vestiti, mi lavo il viso e i denti, prendo la cartella ed esco di casa.
Mamma mi accompagna a scuola,non è molto distante,arrivato la saluto e scendo dalla macchina,mentre mi incammino all'entrata vedo Luca scendere dalla macchina di suo padre, aveva gli occhi arrossati,e una chiazza rossa simile a un pomodoro sulla guancia sinistra, era sicuramente uno schiaffo, Luca è il bullo della scuola, maleducato, arrogante e violento.
Concluse le lezioni salgo in macchina e torno a casa.
La mattina dopo, arrivato a scuola, mi dirigo subito ai servizi, ho un forte dolore allo stomaco, papà ha preparato i pancake, ma erano un po' crudi,mentre sono in bagno sento dei lamenti, è qualcuno che piange, abbasso la testa e intravedo le scarpe di Luca, gli chiedo quale fosse il motivo di tale dispiacere ma non risponde, al contrario controbatte, mi dice di andare via e lascarlo stare.
La sera continuo a pensare a Luca nei bagni che piange.
Il giorno seguente, arrivato in classe, mi avvicino a Lucas e gli dico: "Puoi parlare di qualsiasi cosa con me",mi guarda in modo pensieroso,si gira verso Giovanni e Alberto,due suoi compagni, scoppia a ridere e mi tira una cinquina in faccia, deluso e addolorato mi volto e me ne vado.
Tornato a casa verso le 8, scrivo a Giovanni se in questi giorni aveva trovato strano Lucas, dopo due ore di attesa mi risponde dicendo di no e che però aveva litigato pesantemente con i suoi genitori.
I giorni seguenti vedo il padre di Lucas e una donna discutere, comincio a sospettare che i suoi genitori stessero divorziando.
È lunedì mattina sento la sveglia, apro gli occhi, mi preparo e esco di casa, scendo dalla macchina e corro verso il bagno, so di trovarlo li, entro in bagno, è girato di spalle di fronte a me, esercito una lieve pressione sulla sua spalla, e appena si gira lo abbraccio. In quel istante, lo so, lo vedo benissimo, i suoi sentimenti cambiano colore come quando un polpo si mimetizza sui fondali marini.