Un volo. 239 vite. Una notte come tante. L’8 marzo 2014, il volo “Malaysia Airlines 370" decolla da Kuala Lumpur verso Pechino. A bordo niente sembra fuori posto, fino a quando, nel cuore della notte, l’aereo sparisce dai radar. Esattamente, sparisce. Nessun segnale di emergenza, nessuna comunicazione, nessuna traccia... Solo silenzio. “Goodnight, Malaysia 370”, le ultime parole del pilota, lasciando dietro di sé un mistero che ancora oggi perseguita il mondo. Cosa è successo realmente dopo quell’addio? Qualcuno ha spento intenzionalmente i sistemi di tracciamento? L’aereo ha cambiato rotta, volando per ore in direzione opposta. Era un piano calcolato? O una tragedia inspiegabile? L’Oceano Indiano custodisce i suoi segreti inghiottendo tutto: corpi, vite, verità. Detriti sparsi trovati anni dopo sulle coste del Madagascar, sono l’unica traccia di un viaggio interrotto, ma non bastano a spiegare l’impossibile. Un pilota che nasconde segreti. Un mondo di superpotenze e sorveglianza satellitare che tace! La storia dell’MH370 non è solo una tragedia, ma un labirinto di teorie: sabotaggi, dirottamenti, complotti internazionali, suicidio, omicidio. Ogni risposta porta con sé nuove domande e ogni teoria solleva più paura. Ma alla fine, una sola certezza: 239 persone non torneranno mai più. Una storia vera: un aereo inghiottito, in cielo o in mare? Ma è la terra che si rifiuta di raccontarci il perché. Rebecca: Papà, lo spiegavi l’altro giorno, lo so, ma davvero non capisco. Com’è possibile che un aereo così grande sia sparito senza lasciare traccia? Dove sono finiti i passeggeri, i piloti, i membri dell’equipaggio? Un aereo enorme. ENORME come un Boeing 777, sparito, semplicemente sparito. Intendo... Un aereo, con radar, gps, satelliti, non siamo mica nel Medioevo pa’!
Marco: Hai ragione Rebe, sembra surreale. Ma l’aereo stava volando in una zona dell’oceano poco coperta dai radar, quando i segnali sono stati spenti, nessuno poteva più tracciarlo con precisione.
Rebecca: Ma perchè spegnerli? E poi chi? Chi l’ha spento? Il pilota? Copilota? O qualcun altro?
Marco: Si pensa che sia stato spento manualmente dalla cabina di pilotaggio, forse dal pilota o dal copilota, ma non lo sappiamo con certezza. Potrebbe essere stato un gesto intenzionale...
Rebecca: Ma perché farlo Papà?! Perchè fare una cosa del genere? Se c’era un’emergenza, non dovevano avvisare i soccorsi? Perchè nessuno ha contattato la torre di controllo? E i passeggeri? Perché nessuno ha detto niente?
Marco: Non lo sappiamo Rebecca. Se ci fosse stata un’emergenza, il pilota avrebbe dovuto avvisare l’ATC, chiedere aiuto o seguire le istruzioni per un atterraggio di emergenza.
Rebecca: Quindi vuol dire che non c’era un’emergenza? O che il pilota non voleva aiuto? Ma perché non chiedere aiuto in una situazione dove hai in mano la vita, non solo tua, ma di altre 238 persone?
Marco: Alcuni dicono che potrebbe essere stato intenzionale, che il pilota abbia deciso di portare l’aereo fuori rotta di proposito, magari per suicidarsi.
Rebecca: Non ha minimamente senso questa teoria, se vuoi suicidarti, lo fai da solo! Non trascini tutte queste persone, perchè farlo? E i telefoni papà? Davvero nessun passeggero ha provato a contattare nessuno? C-cioè, se io fossi lì sopra, cercherei di avvisarvi, di-ddiooo non lo so, ma da tutte le teorie sembra che nessuno, NESSUNO, abbia provato a far nulla per evitare ciò.
Marco: Capisco cosa intendi. Ma magari i telefoni non avevano rete, magari erano già troppo in alto, oppure... Oppure potrebbe esserci stato un rapido cambiamento di pressione che ha fatto perdere loro conoscenza.
Rebecca: Come fa un aereo a volare per altre sei sante ore senza che nessuno ne abbia il controllo?
Marco: Rebe in aereo c’è il pilota automatico, può darsi che dopo aver finito il carburante sia schiantato.
Rebecca: Ma perché verso sud papà? Non è strano? C'era solo oceano lì, come se si sapesse che andando verso quella direzione sarebbe stato impossibile trovare delle risposte.
Marco: Probabilmente sì. Se veramente l’aereo fosse sotto il controllo del pilota, si crede che lui lo volesse portare in una zona dove non sarebbe mai stato trovato, per rendere impossibile scoprire la verità, forse era un modo per cancellare tutto.
Rebecca: Ma cancellare cosa, papà? Aveva problemi? Ci sono state indagini su di lui?
Marco: Sì, ci sono state. Hanno trovato un simulatore di volo a casa sua e sembra che avesse provato una rotta simile verso l’Oceano Indiano, la stessa che si suppone abbia percorso il Boeing 777, ma ciò non basta per dimostrare che fosse colpevole.
Rebecca: Quindi potrebbe esser stato pianificato?
Marco: Può darsi. Oppure era solo una coincidenza, non possiamo dirlo con certezza.
Rebecca: Ma se non era il pilota, chi altro? I due con i passaporti falsi? Possibile che fossero terroristi? Cosa ci facevano a bordo? Non ti sembra sospetto?
Marco: Inizialmente si, però da quel che si è detto erano migranti, pare che cercassero solo di raggiungere l’Europa, ma ammetto che la coincidenza fa sorgere molte domande.
Rebecca: E scusa papà, gli americani? Con tutti i loro satelliti, come possono non sapere niente? Quelli mica tengono sotto controllo l’intero pianeta? A momenti ci possono dire pure quante volte andiamo in bagno.
Marco: Alcuni credono che gli Stati Uniti sappiano più di quanto dicano, hanno satelliti che possono vedere persino le targhe delle macchine.
Rebecca: Appuntooo! E perché non parlare allora? Perché non dire la verità se sanno qualcosa? Ci sono delle famiglie pa’, famiglie che non hanno la più pallida idea di che fine abbiano fatto i loro parenti, amici, perchè non dirlo?
Marco: Potrebbe esserci qualcosa di più grande sotto, magari un’operazione segreta, un incidente militare... o forse semplicemente non vogliono ammettere di non sapere.
Rebecca: Ma anche se fosse stato intenzionale, c’è una cosa che proprio non capisco papà: com’è possibile che non abbiano trovato neanche un corpo? Su 239 corpi, neanche uno! UNO PA’. Voglio dire, anche se l’aereo si fosse distrutto, i corpi sarebbero rimasti no?
Marco: È una domanda che si fanno in tanti Rebecca, è forse ciò che lascia più confusi. Il mare è immenso e l’Oceano Indiano è tra i luoghi più difficili da esplorare, è come se l’aereo fosse... fosse stato inghiottito.
Rebecca: È tutto così sbagliato papà, come può un mistero così grande rimanere irrisolto per dieci anni?
Marco: Non lo so Rebe, forse c’è qualcosa che non ci vogliono dire, o forse... E’ il mare e basta... talmente vasto che neanche l’uomo...
Rebecca: Non so papà, a me sembra che ci stiano nascondendo qualcosa e forse... forse non lo sapremo mai.
Tabasum Tanzina
#25novembre: Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto, di Fatima Lamiri, testi selezionati da Sofia Crosio e Camilla Casarini
Tecnica: elaborazione grafica con Canva
Fin dall’antichità il contatto con le altre culture è stato importante per lo sviluppo dell’uomo e della civiltà: basti pensare all’Impero Romano, che, con l’espansione territoriale, incorporò e rese parte della sua cultura conoscenze tecniche, divinità, letteratura, usanze e lingue di altre popolazioni. Questo contatto ha portato l’Impero Romano ad essere uno degli imperi più forti e longevi della storia dell’umanità.
Lo scambio, poi, si trova anche alla base del nostro DNA: con il processo di crossing over, durante la meiosi – ovvero la divisione cellulare nella quale una cellula dà origine a quattro cellule figlie destinate alla riproduzione sessuata e a costituire il feto che, a sua volta, darà origine ad una nuova vita – avviene uno scambio reciproco di segmenti di DNA fra i componenti di una coppia di cromosomi, da cui risulta la ricombinazione di geni materni e paterni nella progenie. Questo processo, in biologia, è fondamentale per permettere la variabilità del patrimonio genetico, eccanismo che consente alle specie di sopravvivere, adattarsi all’ambiente ed evolversi. Questo concetto è stato l'oggetto delle canzoni di numerosi cantautori del secolo scorso: il più importante fu John Lennon, che insieme a Yōko Ono, con la sua canzone Imagine stravolse il mondo. La Ono disse che il messaggio di Imagine si poteva sintetizzare con la frase «siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo».
È con questa premessa che vorrei dare inizio a questa nuova rubrica. Pen Pals: amici dal mondo è un titolo che riassume perfettamente il contenuto di questi articoli: attraverso i punti di vista di più ragazzi da diverse parti del mondo sugli argomenti più disparati, analizzerò e confronterò la situazione italiana con quella di altri Paesi, per consentire una riflessione più approfondita della nostra posizione nel modo più oggettivo possibile.
What’s new?
Inauguriamo questa nuova rubrica con un breve testo che arriva dalla Spagna, precisamente da Madrid, scritto da Sam, una ragazza di 17 anni:
Madrid, the capital of Spain, stands as the second most populous capital city in all of Europe, housing approximately 3,334,730 inhabitants, surpassing the populations of entire countries within the continent. Being this popular, its streets used to be filled with raging car traffic at all times of the day. Not only did this affect pedestrians, but it also caused pollution in the city. As a lifelong resident of Madrid, I've witnessed how the streets were once characterized by chaos, making it challenging for both pedestrians and cyclists to move freely due to heavy traffic. This situation also had a negative impact on tourism: that’s why in 2016 the Spanish government decided to create what’s known as the “eco sticker” (pegatina eco in Spanish), banning all of the cars that were from the year 2006 and lower to enter the parameters of the city center, and banning the entrance of the cars from the years above which didn’t have this sticker. Four variants were created, which are awarded to vehicles based on their emissions level and energy efficiency. The lowest level is the sticker B, which, for now, can enter the city with restrictions but soon is going to be banned from entering.
I personally think that these stickers were an important and necessary measure that had to be added in order to promote environmental awareness and encourage the adoption of cleaner and more efficient vehicles in the city. Since their addition, they have created a more organized environment in the city, and pedestrians and cyclists have had more liberty of movement since. It’s true that traffic still continues to be a problem, but not as big as it was years ago. This has led to more electric cars on the road since they are the only ones who can move freely, meaning pollution levels have become tightly regulated.
Traduzione in italiano
Madrid, la capitale della Spagna, è la seconda capitale più popolosa di tutta Europa, con circa 3.334.730 abitanti, superando la popolazione di altri paesi del continente. Essendo così popolosa, le sue strade erano piene di traffico automobilistico a tutte le ore del giorno. Ciò non ha solo colpito i pedoni, ma ha anche causato un grande problema legato all’inquinamento della città. Da sempre residente a Madrid, sono stata testimone di come un tempo le strade fossero caratterizzate dal caos, rendendo difficile sia per i pedoni che per i ciclisti muoversi liberamente a causa del traffico intenso. Questa situazione ha avuto un impatto negativo anche sul turismo: ecco perché nel 2016 il governo spagnolo ha deciso di creare il cosiddetto «bollino ecologico» (pegatina eco in spagnolo), vietando l'ingresso a tutte le auto, a partire dall'anno 2006, nei parametri del centro cittadino, e vietando l'ingresso alle auto degli anni precedenti che non avessero questo bollino. Sono state create quattro varianti, che vengono assegnate ai veicoli in base al livello di emissioni e all'efficienza energetica. Il livello più basso è l'adesivo B, al quale per ora si può entrare in città con restrizioni ma presto gli sarà vietato l'ingresso.
Personalmente penso che questi adesivi siano una misura importante e necessaria da aggiungere per promuovere la consapevolezza ambientale e incoraggiare l'adozione di veicoli più puliti ed efficienti in città. Da quando sono stati aggiunti, hanno creato un ambiente più organizzato in città e da allora i pedoni e i ciclisti hanno avuto più libertà di movimento. È vero che il traffico continua a essere un problema, ma non così grande come anni fa. Ciò ha portato a un maggior numero di auto elettriche sulle strade poiché sono le uniche che possono muoversi liberamente, il che significa che i livelli di inquinamento sono diventati strettamente regolamentati.
La situazione italiana
Dopo aver letto insieme il racconto di Sam, guardiamo all’Italia.
Sfortunatamente, la situazione italiana non è delle migliori riguardo il tema dei trasporti; soprattutto a Milano, la seconda città più popolosa d’Italia che, come sappiamo, ha grossi problemi nella gestione del traffico. Maggior traffico ha significato più inquinamento: infatti il 21 marzo di quest’anno, Milano è stata la terza città più inquinata al mondo (secondo i dati della piattaforma IQAir, che si aggiornano continuamente in base alle ultime rilevazioni). Non solo: i problemi nella gestione del traffico si ripercuotono anche sui cittadini, a causa della scarsa sicurezza delle strade. Sono almeno 125 i ciclisti morti in bicicletta in Italia dall’inizio dell’anno. E qual è la Regione che conta più vittime? Proprio la Lombardia. A riportare i dati del 2023 è l'Asaps, Associazione Sostenitori ed Amici della Polizia Stradale, la quale rivela che nella nostra Regione, dall’inizio dell’anno ad agosto, sono morti almeno 27 ciclisti. Nonostante il comune di Milano abbia adottato da anni
il sistema delle ZTL (zone a traffico limitato) per contrastare l’emissione di gas di scarico e polveri sottili, promuovendo un ambiente più vivibile e salubre, i dati riportati rimangono allarmanti.
Sofia Defendenti
Caro Mondo ti scrivo di Martina Cucchi
Tecnica: SketchbookIn questo ultimo periodo sono molte le opere d’arte colpite dalle proteste degli attivisti, dai Girasoli di Van Gogh a un’opera di Klimt a Vienna e la domanda che tutti noi ci facciamo è: perché attaccare delle opere d’arte?
Partiamo dal principio: gli attivisti al centro di questa notizia sono ragazzi e adulti di Just Stop Oil, nata nell’aprile del 2022, è una delle diverse associazioni con l'obiettivo di bloccare la distribuzione di benzina nel Regno Unito e più in generale bloccare l’utilizzo dei combustibili fossili, causa maggiore del cambiamento climatico. Per farsi notare utilizzano una tecnica che ha creato molto scalpore tra l’opinione pubblica. Numerose sono le notizie di persone che hanno buttato zuppa su quadri oppure che si sono incollate alle cornici. Gli attivisti di Just Stop Oil puntano sulla vulnerabilità che ci trasmette l’arte: siamo moralmente legati alle opere d’arte, ma perché? L’arte rappresenta la nostra cultura, quindi se dei dipinti vengono rovinati, noi veniamo colpiti. In Italia, come in tutto il mondo, l’arte rappresenta le persone, le culture, le religioni e le tradizioni della società. È ovvio che se viene buttata della zuppa su un Monet diventa uno scandalo a livello mondiale e tutti ne parlano, se invece venisse rovinato un dipinto meno importante, la notizia farebbe meno scalpore. Questo accade perché siamo noi stessi che decidiamo che alcune opere sono importanti e altre no. Il patrimonio culturale di cui molti parlano e che è stato attaccato dagli attivisti, è un’invenzione dell’uomo che ha ritenuto alcuni quadri rilevanti perché emozionanti e pieni di significato. L’arte non è importante a prescindere, l’arte è importante se noi le diamo peso.
Tutti siamo rimasti con il fiato sospeso appena venne pubblicata la notizia della zuppa sui Girasoli di Van Gogh, finché fu detto che il quadro era protetto da un vetro, quindi che non era stato danneggiato. Le attiviste hanno poi dichiarato di aver buttato zuppa sul dipinto consapevoli che fosse protetto da un vetro, in caso contrario non avrebbero compiuto questa azione che pare quindi esser stata ragionata per tempo. Inoltre, pare che la scelta dell’opera d’arte non fosse casuale, bensì voluta. I Girasoli infatti, oltre ad essere una delle opere più famose di Van Gogh, rappresentano una natura morta, come la natura del nostro pianeta se non risolviamo il problema del riscaldamento globale.
“Cosa vale di più: l’arte o la vita? Vale più del cibo? Più della giustizia?”, ecco cosa si e ci chiedono gli attivisti. La risposta più logica sarebbe no: senza cibo e giustizia non si può vivere, ma le nostre reazioni dimostrano il contrario. Perché ci arrabbiamo così tanto per un dipinto che non è nemmeno stato rovinato e non per il riscaldamento globale? Per la sacralità che l’arte rappresenta per tutti noi, sacralità che non può né essere toccata né messa in discussione. Invece, nonostante tutti noi conosciamo i problemi che sta causando e causerà, vediamo il riscaldamento globale come una preoccupazione futura che a noi, per ora, non deve interessare particolarmente. Molte sono le persone che, prima di Just Oil, ci avvertono che abbiamo quasi raggiunto il limite e lo possiamo vedere dalle statistiche: grandi rialzi di temperatura con estati estremamente calde. L’estate 2022 ne è stata un assaggio, raggiungendo in molti stati i 40°C. Ovviamente l’aumento della temperatura ha portato all’aumento dello scioglimento di più ghiacciai e alla secca di molti fiumi, causando anche un rallentamento nei trasporti commerciali.
La domanda a questo punto però sorge spontanea: attaccare l’arte sta effettivamente cambiando qualcosa nelle persone e nella politica? La risposta è incerta. Infatti Just Oil ha ottenuto un riscontro sia positivo sia negativo. Sicuramente se ne sta parlando, ma ci stiamo concentrando principalmente sull’arte e non sullo scopo degli attivisti dell’associazione. Le persone descrivono come scandaloso l’accaduto e i politici consigliano di ignorarlo, evitando di diffondere ulteriormente la notizia. Nessuno però sta parlando di come risolvere effettivamente il problema dei combustibili fossili che stanno portando al sovra riscaldamento e inquinamento del globo. Molti scienziati dicono che siamo arrivati al punto di non ritorno, altri hanno più fiducia, ma tutti sono concordi che dobbiamo agire se non vogliamo arrivare a una situazione dove sarà molto difficile sopravvivere.
Quindi gli attivisti stanno facendo una cosa giusta o sono solo degli incivili? Anche in questo caso non c’è un parere unico: c’è chi dice che sono solo ragazzi che vogliono finire sui giornali e chi dice che sono gli unici che si preoccupano veramente del futuro del nostro pianeta. Chiaramente non c’è un pensiero totalmente corretto e uno totalmente errato, in qualunque caso, questi ragazzi hanno comunicato e si sono esposti. Insultarli, non è più nobile della loro tipologia di protesta. Al di là delle inutili polemiche, è necessario che ora ci si ascolti a vicenda per raggiungere un accordo che aiuti a risolvere il problema del riscaldamento globale, capendo le esigenze delle persone e della Terra e facendo ognuno un piccolo sforzo per migliorare il mondo.
Eleonora Di Bella
Fonti:https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/perche-gli-attivisti-per-il-clima-ora-usano-le-opere-darte-nei-musei-per-attirare-lattenzione-ctrpeu6a?amp=1https://luce.lanazione.it/attualita/influencer-nude-uffizi-ambientalisti-museo-arte/amp/https://www.innaturale.com/che-cosa-e-just-stop-oil-organizzazione-che-protesta-per-ambiente-nei-musei/https://www.parmateneo.it/?p=86346https://www.cosmopolitan.com/it/lifecoach/a40573435/attivisti-clima-incollati-alle-opere-d-arte-news/https://www.instagram.com/reel/CjvFewjIQxz/?igshid=YmMyMTA2M2Y=Alle 8.14 del 6 agosto 1945, “i fisici hanno conosciuto il peccato” (-Robert Oppenheimer): una bomba atomica a fissione venne sganciata sulla città di Hiroshima da un bombardiere statunitense, creando una ferita indelebile nella storia; a soli tre giorni di distanza, come se non fosse stato già sufficiente, un secondo ordigno distrusse la città di Nagasaki.
Le famigerate “Little boy” e “Fat Man”, comunque, non furono né le prime né le uniche esplosioni nucleari viste sul pianeta: dopo il primissimo prototipo del progetto Manhattan “Gadget”, più di altri 2.400 ordigni nucleari sono detonati, in quanto “test” (spesso propagandistici); di questi, circa 520 in atmosfera (prima di essere rilegati sottoterra da Trattato sulla Messa al Bando Parziale dei Test Nucleari), aumentando il fondo di radioattività naturale del pianeta di circa il 7%.
Da allora il “giocattolo mortale di Oppenheimer” (-Russians, Sting) ha gettato continuamente la sua minaccia sulla storia, attraversando la musica e le paure di una generazione “cresciuta … all’ombra del fungo atomico” (-Hammer to Fall, Queen); un pensiero oscuro che si è ormai ampiamente insinuato nella nostra quotidianità.
E a proposito della quotidianità dei nostri dei nostri giorni, preoccupano le recenti affermazioni del Presidente russo Putin, che il 30 settembre scorso ha affermato: “la Federazione russa userà tutte le armi a sua disposizione per difendere il suo territorio”, nel quale vengono comprese anche le regioni del Donbas. Secondo la dottrina di deterrenza nucleare russa, infatti, ogni minaccia all'integrità statale della Federazione potrebbe giustificare l’uso di armi anche nucleari; dunque un tentativo di recuperare le regioni occupate da parte dell’Ucraina basterebbe come pretesto per un contrattacco nucleare. A conferma di ciò, il vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo, Dmitry Medvedev, ha dichiarato che per proteggere i nuovi territori avrebbe impiegato “qualsiasi arma”, comprese quelle “nucleari strategiche”. Il 21 settembre scorso, anche il ministro della Difesa russo Sergej Sojgu aveva parlato di “uso della triade nucleare” di Mosca, ovvero missili con base a terra a lungo raggio, missili lanciati da sottomarini e bombe nucleari lanciate da aerei.
Il generale statunitense David Petraeus cerca invece di rassicurare su una possibile escalation in caso di attacco nucleare russo, affermando che “la Nato risponderebbe in modo massiccio ma convenzionale”: l’alleanza tenterebbe dunque di neutralizzare tutte le forze russe in Ucraina, Crimea e Mar Nero senza utilizzare un secondo ordigno atomico. Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale americana, Jake Sullivan, comunque, "Il rischio nucleare esiste, ma non vediamo al momento nessuna minaccia imminente sull'uso di armi nucleari da parte di Mosca”.
Un’ipotesi degli analisti (fra cui Giorgio Cella) è che la Russia stia applicando la dottrina Gerasimov, cioè semplicemente minacciare l’uso del nucleare per spaventare e “ricattare” gli avversari; a sostegno di ciò, il 27 ottobre, Putin ha affermato che "Non abbiamo bisogno di usare un'arma nucleare in Ucraina, non avrebbe senso, né politicamente né militarmente”. Il 4 ottobre, invece, il Times aveva diffuso un'informativa Nato secondo cui Mosca potrebbe testare il drone sottomarino Poseidon, equipaggiato con una testata atomica, e che la divisione nucleare (responsabile delle armi nucleari e loro gestione) russa sarebbe partito in direzione dell'Ucraina.
Le armi nucleari dunque potrebbero rappresentare l’extrema ratio in caso di disfatta militare per la Russia. Ad esempio nel caso in cui la recente controffensiva di Kiev, sostenuta anche dal corposo invio di armi da parte delle potenze occidentali della Nato, continui con esiti significativi. In questo caso la Nato teoricamente non potrebbe contrattaccare direttamente, poiché l'Ucraina non fa parte dell’alleanza; altrimenti il conflitto sarebbe davvero destinato ad estendersi su scala globale, coinvolgendo direttamente le principali superpotenze militari del nostro pianeta.
Una delle ipotesi più accreditate è che, nel caso decida di attuare davvero un attacco nucleare, Mosca utilizzi armi nucleari tattiche, indirizzandole verso punti strategici del territorio ucraino, luoghi disabitati sul confine o nel Mar Nero (in questi ultimi due casi, si tratterebbe dunque più di una dimostrazione di forza che di un attacco con fini distruttivi).
In base alla potenza e agli obiettivi militari connessi all’impiego armi nucleari, è possibile distinguere ordigni nucleari tattici da quelli strategici. Le bombe tattiche (considerate le più probabili per un ipotetico attacco verso l’Ucraina) hanno una potenza relativamente limitata (da meno di 1 a 200 chilotoni), una capacità distruttiva minore e una gittata corta. La Russia dovrebbe disporne fra le 3000 e le 2000 (più che tutte quelle Nato messe insieme), predisposte per fronteggiare un eventuale attacco dai suoi confini occidentali. Si tratterebbe di una devastante arma militare, poiché creerebbe una sorta di “barriera contaminata” che nessun nemico potrebbe attraversare, bloccandone così l’avanzata; oppure potrebbero essere impiegate per distruggere bunker e punti chiave avversari altrimenti troppo resistenti alle armi convenzionali o, in caso di schiacciante inferiorità numerica, direttamente sullo schieramento nemico.
Per fare un paragone, la bomba “Little Boy” sganciata dagli USA su Hiroshima nel 1945, aveva una potenza di “soli” 15-16 kton: l’esplosione uccise sul colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone e rase completamente al suolo il 90% degli edifici; a fine anno, il numero di vittime salì a circa 200.000 a causa delle radiazioni. Si stima che una bomba simile a Little Boy abbia un raggio d'azione fino a 4,52 km dal luogo dell’esplosione: entro 180 metri dalla detonazione l’onda energetica distruggerebbe letteralmente ogni cosa, mentre l'onda d'urto successiva abbatterebbe gli edifici nel raggio di 340 metri; fino a 1,2 km si assorbirebbero una quantità letale di radiazioni ionizzanti di circa 5000 millisievert; l’onda termica sarebbe mortale per chiunque si trovasse esposto entro 2 km dal punto dell'esplosione.
Gli ordigni strategici invece, come viene sostenuto ormai da tempo e da più parti, esistono per non essere mai impiegati: si tratta infatti di ordigni estremamente più distruttivi, che superano anche i 1000kton di potenza; il loro semplice possesso da parte di uno Stato dovrebbe rappresentare un costante avvertimento-minaccia per scoraggiare aggressioni esterne. La Russia sarebbe in possesso di 3.000-4000 bombe strategiche, ma si stima che circa la metà sarebbero di epoca sovietica, quindi non pienamente funzionanti. Fra queste, la più spaventosa è la Bomba Zar, che nel test del 30 ottobre 1961, emanò un’energia superiore a circa 1.570 volte quella lanciata su Hiroshima: con un potenziale di 100 megatoni. Se scatenata avrebbe un raggio d’azione fino a 91 km, provocando 250.000 vittime e più di 1.100.000 feriti.
In questo clima di generale inquietudine e incertezza va doverosamente ricordato che USA e Russia non sono gli unici Stati in possesso di testate atomiche: all’inizio del 2022, infatti, si sono contate globalmente circa 13,000 armi nucleari, di cui 2000 in allerta operativa (cioè pronte all’uso in breve tempo). A possederne di più è la Russia, con 5,977 armi nucleari (di cui un quarto apparentemente pronto all’uso); seguono gli Stati Uniti con 5,428 e poi Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord.
In questo clima d’incertezza e tensione, possiamo parzialmente rassicurarci sapendo che il presidente russo non può decidere da solo di utilizzare un’arma nucleare: per attivare il lancio è necessario che tre codici differenti vengano inseriti in una valigetta dal Presidente, dal Capo di Stato Maggiore Interforze e dal Ministro della Difesa, che dovrebbero dunque autocontrollarsi a vicenda; al contrario, il presidente USA possiede davvero una valigetta con un “bottone rosso” e la discussione con gli altri organi se premerlo o no è più che altro informale.
Martina Cucchi
Fonti:https://www.youtube.com/watch?v=htuZXVwvf84https://tg24.sky.it/mondo/2022/10/01/guerra-russia-ucraina-nucleare#02https://tg24.sky.it/mondo/2022/10/04/russia-putin-test-nucleare-ucrainahttps://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/10/27/putin-non-useremo-larma-nucleare-in-ucraina_0bac77ae-8aaf-48ac-bb4a-18fa1db9754a.htmlhttps://it.m.wikipedia.org/wiki/Bombardamenti_atomici_di_Hiroshima_e_Nagasaki#:~:text=L'esplosione%20si%20verific%C3%B2%20a,distrutti%20dalla%20forza%20dell'esplosione.https://www.youtube.com/watch?v=oDETa3ktK8Mhttps://www.youtube.com/watch?v=-WPh8rT0wH8https://www.youtube.com/watch?v=VNWX06NkitEhttps://www.focus.it/scienza/energia/che-cos-e-una-bomba-sporcahttps://www.focus.it/cultura/storia/e-se-la-bomba-di-hiroshima-cadesse-su-milanohttps://www.focus.it/cultura/storia/la-mappa-animata-di-tutte-le-esplosioni-atomichehttps://www.focus.it/scienza/scienze/bomba-allidrogeno-che-cose-e-come-funzionahttps://www.focus.it/cultura/storia/le-origini-top-secret-del-progetto-manhattan-bomba-atomicahttps://www.geopop.it/la-bomba-zar-la-bomba-allidrogeno-piu-potente-dellurss/https://www.geopop.it/chi-possiede-piu-armi-nucleari-i-maggiori-arsenali-dei-paesi-nel-mondo/https://www.geopop.it/come-funziona-il-protocollo-russo-per-il-lancio-della-bomba-atomica-e-chi-puo-autorizzarlo/ https://tg24.sky.it/mondo/approfondimenti/effetti-bomba-atomica#08https://www.inquinamento-italia.com/le-esplosioni-nucleari-conseguenze-e-radioattivita-fallout-radioattivo-radiazioni/https://www.ilmessaggero.it/mondo/guerra_nucleare_bomba_atomica_come_funziona_che_effetti_ha_come_salvarsi_raggio_radiazioni-6592424.htmlhttps://www.airc.it/cancro/informazioni-tumori/cose-il-cancro/radiazioni-ionizzanti-cancro#:~:text=Le%20radiazioni%20ionizzanti%20sono%20un,varia%20da%20tumore%20a%20tumore.https://m.my-personaltrainer.it/salute/radicali-liberi.htmlPatrick Zaki è un attivista egiziano, nato a Mansura il 16 giugno 1991, laureato in farmacia presso la German University del Cairo; successivamente si è trasferito in Italia per frequentare un master in studi di genere presso l’università di Bologna. Egli era - ed è tuttora - estremamente interessato alle questioni sociali, tanto da farsene portavoce non solo una volta arrivato in Italia, ma anche quando era in Egitto. Patrick è stato infatti un importante attivista politico e garante dei diritti umani, soprattutto delle comunità copte e della LGBTQ+, durante le elezioni presidenziali egiziane del 2018, ed è associato dell’ EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights), associazione che si propone di difendere i diritti umani in Egitto e in particolare si occupa di diritti dei detenuti, libertà civili, giustizia sociale ed economica. È stata fondata nel 2002 da Hossam Bahgat con l'intento di completare il lavoro delle organizzazioni analoghe in Egitto, concentrandosi in particolare sui diritti della persona e sul diritto all'abitazione.
Egli arriva il 7 febbraio del 2020 in Egitto con l’intento di fare visita per un breve periodo alla sua famiglia, ma proprio quel giorno viene arrestato all'aeroporto del Cairo e detenuto per 24 ore illegalmente. Secondo le testimonianze è sottoposto ad un interrogatorio durato diciassette ore in cui subisce torture come l'elettroshock, in cui gli è stato domandato il motivo della sua permanenza in Italia e del suo presunto legame con i familiari di Giulio Regeni. Quest’ultimo è stata la prima vittima italiana del governo egiziano di Abdelfattah al-Sisi, Paese con il quale l’Italia ha importanti rapporti economici.
Il giorno seguente, 8 febbraio è stato condotto a Mansura, davanti al pubblico ministero, dove è stato interrogato, successivamente, secondo la polizia egiziana, portato in arresto ad un posto di blocco, in seguito ad un mandato in sospeso emesso nel settembre 2019, secondo il quale il giovane studente aveva lasciato l’Egitto ad agosto per iniziare gli studi a Bologna, ma secondo gli esperti era stato falsificato.
Il PM ha poi presentato i capi d’accusa contro l’attivista: pubblicazione di voci e notizie false che mirano a turbare la pace sociale e seminare caos (infatti Patrick Zaki interessandosi alla comunità copta egiziana, descriminata tanto quanto qeulla omosessuale, aveva messo in luce dei problemi sociali del Paese); incitamento alla protesta senza permesso delle autorità preposte e competenti, al fine di minare l’autorità statale con il sovvertimento dello Stato; gestione di un account Facebook che mina l’ordine sociale e la sicurezza pubblica; istigazione alla commissione di violenza e crimini terroristici.
Sulla base di queste accuse è stato deciso il carcere cautelare per quindici giorni in attesa di ulteriori indagini, e perciò il rinvio del processo.
Dopo il trasferimento al carcere di Talkha il 25 febbraio, Patrick è stato trasferito nel carcere di Mansura per l’udienza in tribunale il 7 marzo. Successivamente, la sua detenzione è stata prolungata per quindici giorni e, con lo scoppio della pandemia COVID-19, per altri quarantacinque giorni.
L’udienza è stata fissata per il 14 settembre 2021, dove, tra l’infinità di accuse mosse, l’unica accusa che la Procura suprema per la sicurezza ha imputato al giovane durante il processo è stata la diffusione di false notizie fuori e dentro il Paese, in base ad un articolo che portava la firma di Zaki, pubblicato il 2019 su un giornale libanese, in esso venivano riportate le persecuzioni e discriminazioni subite dalla comunità copta egiziana.
Il 9 febbraio a Bologna viene organizzato un flash mob e la Farnesina inizia ad indagare, così come nel 2016 fece per il caso di Giulio Regeni. Oltre all’Italia si mobilita per la scarcerazione di Zaki anche l’Europa, tanto che il presidente del parlamento europeo interviene chiedendo il suo rilascio. Allo stesso modo si sono mobilitati molti personaggi pubblici per sostenere la sua causa, come per esempio Scarlett Johansson. Il 7 dicembre del 2021 riceve la terza udienza, per poi ottenere la scarcerazione avvenuta il giorno seguente, evento atteso da più di un anno e mezzo.
All'udienza hanno partecipato come osservatori i rappresentanti dell'ambasciata italiana, accompagnati dai colleghi di altri Paesi alleati, come segnale dell'interesse che tale caso suscita non solo in Italia, ma nell’intera comunità internazionale. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha parlato telefonicamente all'ambasciatore italiano al Cairo, Michele Quaroni, che sta seguendo il processo di Patrick e, durante il colloquio, lo ha ringraziato per il lavoro portato avanti da tutto il corpo diplomatico. L'avvocata Hoda Nasrallah, che ha curato la difesa di Zaki per conto della Ong Eipr (agenzia che aveva ottenuto il permesso di esaminare il fascicolo dell'accusa) ha oggi presentato la richiesta di avere accesso a tutte le prove, i filmati e i verbali che fanno parte dell'inchiesta a carico di Zaki, sia per dimostrare o confutare le accuse mossegli, sia per verificare la correttezza dell'articolo sui copti alla base del processo.
Dopo l'intervento del legale di Zaki, l'udienza è stata sospesa dopo appena 4 minuti ed è terminata con il rilascio di Zaki e l'aggiornamento all'1 febbraio 2022. "Il giudice - ha spiegato Amr Abdelwahab del movimento Patrick libero - non ha comunicato una risposta in merito all'istanza degli avvocati di poter ottenere i video delle telecamere di sorveglianza dell'aeroporto del Cairo relativi al 7 febbraio 2020, giorno dell'arresto. Non è insolito che i giudici non rispondano alle istanze degli avvocati". Abdelwahab ha citato anche il meccanismo della cosiddetta "porta girevole", una pratica denunciata da organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch, con cui la magistratura egiziana incarcera una persona poche ore dopo che è sopraggiunto il rilascio, l'assoluzione o il termine dei due anni di detenzione preventiva previsti dalla legge. Secondo gli attivisti, queste pratiche giudiziarie rappresentano un modo per "imbavagliare e tenere dietro le sbarre le voci critiche contro il governo".
Il caso di Patrik Zaki può essere visto in ottica più ampia e posto quindi in relazione con il quello di Giulio Regeni. Anch’egli era uno studente che decise di andare in Egitto per approfondire i suoi studi per condurre un dottorato sul Medio Oriente, in particolar modo per approfondire la situazione dei sindacati indipendenti dell’Egitto e si recò presso l’università americana del Cairo. Scrisse sotto pseudonimo per un’agenzia di stampa locale a proposito della difficile situazione dei sindacati dopo la rivoluzione egiziana del 2011. Venne rapito la sera del 25 gennaio del 2016 per poi essere ritrovato senza vita dieci giorni dopo, il 3 febbraio, con gravi segni di tortura su tutto il corpo nella periferia della città del Cairo. Presentava bruciature, un trauma cranico e cicatrici provocate da oggetti contundenti; la morte fu però causata dalla frattura di una vertebra cervicale e venne giustificata dal direttore dell’amministrazione generale delle indagini di Giza come dovuta ad un incidente stradale casuale. Successivamente la polizia del Cairo sostenne che la morte era probabilmente dovuta dal coinvolgimento del giovane studente in traffici di stupefacenti oppure in una relazione omosessuale. Le cicatrici che Regeni riportò sul corpo erano però molto particolari, infatti rappresentavano lettere e parole riconducibili ai servizi di sicurezza dial-Sisi, cosa che fece mettere sotto accusa il suo regime. Le autorità egiziane inizialmente dichiararono la totale disponibilità di collaborare all’indagine, ma subito dopo hanno revocato la loro disponibilità, cancellando numerose prove che sarebbero state essenziali per la risoluzione del caso. Quest’ultimo venne chiuso il 15 maggio del 2021 ma senza giungere ad un’effettiva conclusione. Il caso di Giulio Regeni come quello di Patrick Zaki, per il parlamento europeo non sono situazioni isolate, ma si inseriscono in un contesto di violenze e torture compiute in Egitto negli ultimi anni.
Sofia Beretta e Alessandra Zagaria
Fontihttps://www.amnesty.it/campagne/free-patrick-zaki/https://eipr.org/en/press/2020/02/egyptian-human-rights-defender-disappeared-and-tortured-eipr-gender-rights-0https://it.wikipedia.org/wiki/Detenzione_di_Patrick_Zakihttps://www.avvenire.it/attualita/pagine/zaki-da-gabbia-imputati-sto-bene-grazie-italiahttps://www.rainews.it/articoli/2021/12/Caso-Regeni-Commissione-Responsabilta-grava-su-apparati-di-sicurezza-egiziani-b490e456-1509-44f7-9f00-74015e861919.htmlhttps://www.ispionline.it/it/pubblicazione/egitto-patrick-zaky-e-vecchi-fantasmi-25057?gclid=Cj0KCQiA64GRBhCZARIsAHOLriL0xsndu3ew9cLeIqWVyOUx3xDncPJsRKZnE3wE-AdpsBw0_967tdcaAhhNEALw_wcBBisogna ammettere che usi e costumi si discostano in modo piuttosto evidente da ciò che nell’immaginario comune sono le tradizioni occidentali, eppure Italia e Africa sono, almeno geograficamente, molto vicine (per esempio, lo sapevate che dalla Sicilia alla Tunisia vi sono 145 Km, più o meno la distanza tra Milano e Torino?). Di guerra, purtroppo, sentiamo ormai parlare tutti i giorni, sì, perché è in Europa… Non per sminuire quanto sta accadendo in Ucraina, certo, ma in Africa, negli ultimi due anni, si sono verificati numerosi colpi di stato, di cui si è parlato pochissimo, l’ultimo dei quali, tre mesi fa, in Burkina Faso. Mi è difficile stabilire il motivo per il quale vengano taciuti…(forse l’impatto francese sulle popolazioni del Sahel è più pesante di quanto dovrebbe: molto spesso anche se sotto il nome dell’ONU, le missioni di pace vengono infatti effettuate dalle Ex potenze colonizzatrici. In questo caso, appunto, i nostri vicini transalpini). Il caso del Burkina Faso è indubbiamente particolare: l’avvento della democrazia sta infatti coincidendo con l’esplosione degli attacchi jihadisti; il 23 gennaio l’esercito afferma di aver deposto il presidente Kaborè in maniera non violenta ristabilendo così ‘l’ancien régime’, con la scusa che le manifestazioni dei giorni precedenti confermassero il cattivo governo. La realtà dei fatti è che hanno preso possesso di un potere che la società civile aveva riconquistato appena sette anni fa, dopo la lunga dittatura di Blaise Compaoré, un altro ex golpista, ma il clima di terrore e la povertà hanno fermato il progresso sotto lo sguardo impassibile e indifferente di coloro che, la democrazia, non solo l’hanno in casa (o quantomeno, credono di averne il marchio di fabbrica), ma più volte hanno tentato di esportare.
Francesca Curti
L’ucraina è uno stato dell’est Europa confinante ad est con la Russia, a nord con la Bielorussia e la Russia, ad ovest con la Polonia, la Moldavia e la Romania, mentre a sud è bagnata dal Mar Nero, in particolare dalla parte di mare che si trova compresa tra la Russia, l’Ucraina stessa e la Crimea che si chiama Mar d’Azov e gioca un ruolo importantissimo nelle vicende geopolitiche tra i suddetti stati. Il termine ucraina significa “sul confine” (U Karina), si tratta infatti di uno stato da sempre conteso dai paesi limitrofi i quali, grazie alle sue ampie pianure, lo hanno sempre considerato come “il granaio d’Europa” e, proprio per questa sua conformazione geografica, si è da sempre trovato privo di difese naturali. Per comprendere in maniera completa gli eventi che stanno accadendo in questi ultimi giorni, è necessario fare un salto indietro nella storia travagliata di questo paese, in tutti i conflitti che ha avuto con la Russia e le lotte per la sua indipendenza.
Una data essenziale da menzionare è il 988, quando il principe Vladimir convertì il suo popolo alla religione Cristiano ortodossa, elemento che diede grande unità al popolo ucraino durante il corso della storia.
Nell’ 861 sorse un grande potentato: la Rus di Kiev, si trattava di uno stato costituito dalla coesione di diverse culture e popoli, da una parte quella slava, dall’altra quella scandinava. Questo si stanziò nei territori dell’attuale Ucraina e prese come centro del suo impero Kiev, città che ora è la capitale del paese. Il potere della Rus di Kiev era però instabile, tant’è che dopo pochi secoli (nel 1240) si frantumò in numerosi principati autonomi, da uno di questi sorse il principato di Mosca, che ebbe uno sviluppo distinto avendo come centro Mosca.
Si può quindi osservare come questi stati sorsero dal medesimo nucleo da cui si svilupparono differentemente, seppur percorrendo per circa un millennio strade parallele. Così avvenne anche per le due lingue, il russo e l’ucraino hanno infatti la medesima origine, appartengono al ceppo delle lingue slave, ma con il corso dei secoli si differenziarono notevolmente.
Il territorio ucraino iniziò ad essere conteso poco dopo il crollo dell’impero mongolo, invero tale stato venne spartito tra diversi paesi: la zona occidentale venne affidata al governo polaccho e lituano, un’altra zona rimase sotto al dominio della Rus di Kiev, nella zona orientale i primi ad insediarsi furono i russi ed infine, in mezzo a questi domini diversificati, se ne insinuarono altri due: il Canato d’azov di Crimea, sotto al controllo dei mongoli e il potentato cosacco, governato per l’appunto dai cosacchi.
La Russia, che all’epoca era sotto al controllo zarista, iniziò ad espandere il suo dominio in questi stati già a partire dal XVIII secolo e mise in atto una campagna di russificazione forzata della nazione, impedendo alle popolazioni di parlare l’Ucraino in famiglia, a scuola, non consentendo di leggere o scrivere testi di letteratura in questa lingua.
Con la prima guerra mondiale, l’impero zarista crollò e in Russia, durante il corso del 1917, scoppiarono due rivoluzioni quella di febbraio prima, successivamente quella di ottobre ed in seguito a quest’ultima ci fu la presa del potere da parte dei bolscevichi. Come risposta a questa situazione scoppiò una guerra civile, combattuta tra l’armata rossa e l’armata bianca, guerra che si diffuse in poco tempo negli stati limitrofi, i quali iniziarono a rivendicare la loro indipendenza, tra cui anche l’Ucraina e in particolar modo essa combatté a fianco delle armate bianche. La guerra culminò il 30 dicembre del 1922 quando avvenne la fondazione dell’URSS, che rappresentava la vittoria del comunismo bolscevico in Russia e nei paesi sotto la sua sfera.Tra il 1932 e il 1933 avvenne una grandissima carestia, passata alla storia con il nome di “Holodomor”, che significa letteralmente “morte per fame”, che ebbe delle gravissime conseguenze sia a livello sociale che a livello economico in tutta l’Unione Sovietica. Portò alla morte di milioni di persone e attualmente è ancora aperto un acceso dibattito, infatti questa carestia è considerata in particolar modo dall’Ucraina, (il cui parlamento la condannò pubblicamente nel 2008), come un genocidio e dalla sua parte si schiera anche l’Europa. Sostiene infatti che sia stata alimentata da Stalin il quale non prese delle effettive misure economiche per contrastarla. Dall’altra parte invece si trova la Russia, la quale invece reputa tale carestia come non intenzionale, dunque non un genocidio.
L’1/12/1991 fu un giorno di grandissima rilevanza per l’Ucraina, avvennero infatti le prime elezioni libere e venne fatto un referendum che chiedeva ai cittadini la volontà di separarsi dall’ Unione Sovietica per andare a costituire uno stato effettivamente autonomo e circa il 90% di voti era a favore all’indipendenza. Nacque e si affermò quindi un nuovo stato autonomo ucraino, seppur per molti anni rimase comunque sotto l’orbita Sovietica e questo avvenne per diversi motivi. Innanzitutto l’ucraina, pur essendo diventata indipendente, non aveva un’economia sufficientemente stabile per il sostentamento dei cittadini e dello stato stesso, dunque doveva necessariamente fare affidamento all’economia Russia e dei paesi limitrofi. La seconda ragione è strettamente legata alle principali cause che hanno alimentato le tensioni tra questi due stati, infatti la Russia, dalla seconda metà del secolo scorso, disponeva di un arsenale atomico e gran parte di questo era situato nei territori ucraini e dunque, in seguito alla dichiarazione di indipendenza di tale nazione, questo passò nelle sue mani. Infine, un altro elemento che acuì i dissidi e che costrinse l’ucraina a rimanere nella sfera di influenza Russa è riconducibile al 1954, anno in cui quest’ultimo stato, per celebrare i 300 anni di amicizia con l’Ucraina, donò ad essa un importante porzione di territorio precedentemente possedimento russo: la Crimea. La Crimea è un territorio di grandissima importanza strategica, militare e commerciale grazie al suo accesso al mar nero e proprio in questa regione, più in particolar modo nella città portuale di Sebastopoli, si trovava e si trova tutt’ora, buona parte della flotta militare russa che con l’indipendenza dell’Ucraina finì per essere entro i suoi confini. Per risolvere questa situazione di tensione le due nazioni giunsero ad un compromesso diplomatico: per quanto concerne le testate nucleari si concordò che parte di queste sarebbe tornata alla Russia, parte invece sarebbe stata smantellata, tanto che nel 1994 l’Ucraina aderì al trattato di non proliferazione nucleare che si basava su tre capisaldi: non proliferazione, disarmo e utilizzo pacifico del nucleare.
Invece la flotta militare ritornò per l80% in mani russe e si arrivò a stabilire che la Russia avrebbe potuto mantenere alcune delle sue navi a Sebastopoli, in cambio però pagando una sorta di affitto al governo ucraino e questo accordo sarebbe dovuto durare fino al 2017, ma nel 2010 venne rinnovato fino al 2042. L’Ucraina fece queste concessioni perché dall’altra parte la Russia le consentiva dei prezzi di favore sul gas. Successivamente i due stati firmarono un trattato di amicizia che però nel 2018 non venne rinnovato dall’Ucraina.
Nel 1994 venne eletto come presidente Kuchma, di orientamento filo russo, che però pubblicamente non prese mai una posizione tranchant per la fazione più europeista o per quella più filorussa, successivamente venne però accusato di incapacità e corruzione. Così la sua popolarità crollò a picco e nacque il primo movimento di protesta Ucraino, costituito da tutti gli esponenti politici avversi a Kuchma, provenienti da molte fazioni, anche da quelle più nazionaliste, tra cui emerse la deputata Yulia Tymoshenko, di orientamento europeista.
Nel 2004 si giunse a delle nuove elezioni, il presidente Kuchma si fece da parte, però portò avanti come suo “erede” un nuovo candidato, Viktor Yanukovich anch’egli filo russo, mentre dall’altra parte c’era Viktor Yushenko, europeista. Da queste emerse vincitore l'esponente filo russo, ma poco dopo vennero segnalate violenze, violazioni ai seggi e brogli elettorali, motivo per cui poco dopo scoppiarono numerose proteste a Kiev, in cui si scontrarono coloro che erano a favore di Yanukovich e chi invece sosteneva Yushenko e sono passate alla storia con il nome di rivolte arancioni, per il colore dello stemma del partito a cui quest’ultimo apparteneva. Nel frattempo scoppiarono altre proteste ad est, nella zona del Donbass di prevalenza russofona, le quali invece supportavano Yanukovich e manifestavano la volontà di essere indipendenti. In seguito alle nuove elezioni, il candidato filo europeo ricevette la maggioranza dei voti e divenne presidente e Yanukovich si rifugiò in Russia e fu in questo periodo in cui crebbero gli attriti con Mosca, in quanto il governo si stava iniziando ad avvicinare all’Europa, uscendo dalla sfera di influenza Russa. La Russia iniziò a fare forti pressioni sull’economia dell’Ucraina, lo scopo era infatti quello di destabilizzare fino a farla crollare, in risposta all’avvicinamento europeo del suddetto Stato. Gazprom, la principale azienda energetica Russa che gestisce l’esportazione di gas e petrolio non solo in Ucraina, ma anche in tutt’Europa, fece passare il prezzo di favore del gas che l’Ucraina doveva alla Russia (concordato nel 1994), ad un prezzo di mercato, quadruplicandolo, e in risposta l’Ucraina si rifiutò sia di pagare questo prezzo, sia di acquistare il gas russo. L’Unione Europea dovette intervenire cercando una soluzione di compromesso, dal momento in cui si era vista non più assicurata la fornitura di gas.
Successivamente divenne presidente Yulia Timoshenko che governò fino al 2010 e durante questi anni si impegnò ad avvicinare progressivamente l’Ucraina all’Europa, dal punto di vista economico, politico e commerciale ma nelle elezioni presidenziali del 2010 il blocco europeista, estremamente fragile e frammentato, non riuscì a far fronte alle pressioni di Yanukovich, che divenne presidente, riavvicinando l’Ucraina alla sfera Russa. Egli infatti non si presentò alla firma degli accordi di cooperazione con l’Europa del 2012 e fece arrestare tutti gli avversari politici, tra cui Julia Timoshenko. Scoppiarono così delle proteste a Kiev, nella piazza Maidan contro il nuovo governo e vennero chiamate EUROMAIDAN, iniziate nel novembre del 2013, si diffusero a tal punto da costringere Yanukovich a fuggire da Kiev e si rifugiò in Russia. A queste rivolte si unì anche la Crimea che chiese più indipendenza, il parlamento affermò che l’ucraino sarebbe stata l’unica lingua, gravando negativamente sulle minoranze russofone nei territori ucraini.
In Crimea il 16 marzo del 2012 avvenne un referendum che rendeva manifesta la volontà di indipendenza ed una conseguente annessione alla Russia, cosa che avvenne il giorno seguente ma non fu riconosciuto a livello internazionale perché fu organizzato da una regione e non dal governo centrale. Nel frattempo scoppiarono delle rivolte indipendentiste anche in altri territori russofoni, quali le due province del Donbass Donetsk e del Luhansk che nell’aprile del 2014 sfociarono in un vero e proprio conflitto armato tra le forze autonomiste, sostenute militarmente dalla Russia e l’esercito regolare. I ribelli però presero il controllo della situazione e costituirono due repubbliche ribelli autonome non riconosciute però a livello formale.
L’unione europea intervenne cercando di ripianare i contrasti con gli accordi di Minsk, i quali però fallirono nel loro intento, portarono solo il conflitto ad essere una “guerra a bassa intensità” che viene però ripreso il 24 febbraio del 2022, quando le truppe russe sono avanzate in territorio ucraino.
Ma quali sono le ragioni per cui Putin ha invaso l’ucraina? Le motivazioni che Putin ha utilizzato pubblicamente per giustificare l’invasione ucraina sono legate alla “smilitarizzazione dell’Ucraina”, sentita come un pericolo e alla “protezione degli ucraini filo russi”. In realtà le motivazioni reali sono ben altre, infatti Putin ha come obiettivo quello di riportare l’ucraina nella sfera di influenza di Mosca, con l’instaurazione di un governo filo russo e quello di impedire un ulteriore “avanzamento” della NATO verso est, costituendo una zona cuscinetto tra l’occidente e la Russia. Proprio per questa ragione si può ipotizzare (sono solo ipotesi dei geopolitici) che un obiettivo papabile di Putin sia quello di occupare l’ucraina orientale fino al fiume Dnieper, in modo da annettere quella zona alla sfera di mosca e costituire in questo modo una zona cuscinetto con la parte occidentale ucraina, che si sta progressivamente avvicinando verso l’Europa.
Prima del 2022 ci fu un particolare evento che portò ad un inasprimento delle tensioni non solo con l’ucraina, ma anche con tutto l’occidente. In particolare tra il marzo e l’aprile del 2021, ci fu la mobilitazione di 100.000 soldati russi sul confine con l’ucraina e poco dopo una nave militare russa aprì il fuoco contro una nave della marina militare britannica, questa situazione di grande tensione si risolse momentaneamente con l’incontro di Biden e Putin a Ginevra, ma in realtà i conflitti non furono mai risanati. Il 15 febbraio del 2022 infatti, la duma russa ha approvato la richiesta per il riconoscimento delle repubbliche indipendentiste del Donetsk e del Luhansk e dopo pochi giorni, Putin ha chiesto all’assemblea federale e alla duma, di ottenere un totale controllo dell’esercito per effettuare missioni militari all’estero, missioni da lui definite “peacekeeper” e fu da questo momento che ha iniziato l’occupazione militare dell’Ucraina. Tali richieste mosse dalla Russia hanno portato la violazione degli accordi di Minsk II, stipulati nel 2015 tra Russia, Ucraina e altri stati dell’Unione Europea, accordi che avevano come obiettivo il mantenimento della pace e della collaborazione tra Ucraina e Russia. La risposta occidentale non tarda però ad arrivare, infatti già il 23 febbraio, gli USA hanno annunciato il primo pacchetto di sanzioni tra cui c’è la sospensione di utilizzo del Nord Stream 2, gasdotto che venne ultimato nel settembre del 2021 ma che non entrò mai in funzione. Si tratta del gasdotto più esteso del mondo che ha inizio in Russia arrivando fino in Germania e può portare oltre 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Le sanzioni però non si sono fermate qui, con la progressione del conflitto, anch’esse si sono inasprite, tanto che ora si può parlare di “guerra finanziaria” per il fatto che, come ha affermato la presidente della commissione europea, vanno a colpire diversi aspetti: il settore finanziario, il settore energetico, commerciale, dei trasporti e dei visti. Le sanzioni non mirano unicamente all’economia russa, vanno anche ad isolare i grandi oligarchi dai rapporti commerciali, economici e finanziari internazionali. Alcune delle sanzioni più rilevanti sono quelle che vanno a colpire le esportazioni e le importazioni, quelle che vietano l’accesso alla banca centrale russa, c’è il divieto di investimento nel settore energetico russo ecc… queste però non sono le prime misure che l’occidente ha preso contro l’imperialismo di questo stato, già con l’occupazione del Donbass risalente al 2014, ci fu l’imposizione di alcune sanzioni, come per esempio l’esclusione della Russia dal G8 oppure la sospensione di negoziati per la cooperazione energetica tra il suddetto stato e l’occidente.
Una domanda che sorge spontanea è se le sanzioni stiano davvero funzionando a frenare l’avanzata russa, è un interrogativo molto complesso e seppur le sanzioni non dovessero avere un immediato ruolo fattuale, giocano un ruolo estremamente importante per quanto riguarda il loro valore politico e simbolico. Sono infatti un modo che l’Europa e l’occidente stanno utilizzando per prendere posizione senza però arrivare all’intervento militare, che andrebbe a complicare ulteriormente le cose, fino ad arrivare ad un possibile conflitto mondiale. Si tratta quindi di un modo con cui le potenze si schierano contro l’attacco russo senza farlo passare inosservato.
Dalla fine del primo conflitto mondiale le sanzioni sono state imposte come forma di dissuasione o “punizione” verso tutte quelle nazioni che violano i trattati internazionali, ma finora, esse hanno raggiunto lo scopo solamente ⅓ delle volte. La principale problematica che rende le sanzioni contro la russia meno efficaci è legata al fatto che non sono state applicate globalmente, ci sono infatti alcuni paesi che non hanno aderito, sia che fosse per una neutralità nel conflitto, sia che fosse per un appoggio più o meno silente nei confronti della Russia.
In generale le sanzioni applicate hanno un impatto negativo minore negli Stati Uniti, motivo per cui essi hanno applicato già da tempo un embargo sulle risorse fossili provenienti dalla Russia. Dall’altra parte per l’Europa, soprattutto per alcuni paesi più di altri, è difficile applicare un inasprimento delle stesse, dal momento in cui c’è uno stretto rapporto di dipendenza energetica. Infatti circa il 40% del petrolio e gas naturale che l’Europa consuma è proveniente proprio dalla Russia, in particolare l’Italia importa il 95% del gas che utilizza e oltre ⅕ di questo dipende dal gas russo ed una situazione simile accade anche in Germania. Invece per esempio tutto il petrolio e il gas naturale che la Polonia impiega, deriva da importazioni russe, però è uno degli stati europei che meno dipende da questa, infatti fa uno stretto affidamento alle centrali a carbone, che la rendono pressoché autonoma energeticamente. Ma allora ci sono prospettive di maggiore autonomia energetica per l’Italia e l’Europa?
L’indipendenza energetica non solo dell’Italia ma in generale di tutta Europa è uno degli argomenti maggiormente discussi in questo mese di conflitto e si sa per certo che sul breve-medio periodo è un obiettivo pressoché irraggiungibile ed estremamente ambizioso per il futuro. Da maggio dell’anno scorso le forniture di gas sono state ridotte del 20% circa, mentre prima arrivavano pressappoco 160 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, ora ne arrivano solamente 80. Per sopperire a questa carenza che si fa sentire in modo particolarmente evidente sui prezzi, l’Unione Europea sta cercando di diversificare la sua fornitura energetica incentivando l’utilizzo e l’investimento sulle rinnovabili, oppure ricorrendo al trasporto del gas attraverso le metaniere, le quali fanno arrivare il combustibile allo stato liquido ma a prezzi -ovviamente- più alti. Inoltre, la difficoltà di importare il gas naturale attraverso le metaniere, è il fatto che giungendo allo stato liquido, questo deve poi essere rigassificato e questo procedimento avviene in strutture specifiche denominate rigassificatori ed in Italia ne abbiamo solamente due e la costruzione di nuovi, impiegherebbe diversi anni.
Attualmente l’Europa sta facendo affidamento anche su gasdotti collegati all’Algeria o all’Azerbaigian, anche in questo caso ci sono diverse difficoltà, infatti la capacità massima di tali gasdotti è rispettivamente 11 e 10 miliardi di metri cubi all’anno che, rispetto alle esportazioni russe che si aggirano intorno ai 200 miliardi di metri cubi è davvero poco. La difficoltà maggiore è che non si possono implementare le quantità di gas trasportato nei gasdotti, sia a causa della limitata capacità di trasporto delle stesse strutture, sia per la scarsa disponibilità dei paesi.
Il rischio di vedersi interrompere completamente le forniture di gas è però molto basso per diverse ragioni, soprattutto per il fatto che mosca perderebbe oltre 6 miliardi di dollari al mese, inoltre, buona parte della ricchezza economica e commerciale del suddetto stato, è legata proprio alle esportazioni di gas verso l’Europa ed andrebbe quindi a perdere una grande fonte di reddito.
Si è accennato precedentemente il fatto che non tutto il mondo ha appoggiato le sanzioni imposte da Stati Uniti ed Europa, alcuni stati si sono dichiarati ad esse contrari come per esempio il caso dell’ Etiopia, della Siria e della Bielorussia, altri invece come la Cina e la Turchia non si sono espresse in merito. I rapporti tra Cina-Russia e Turchia-Russia sono particolarmente complessi. Innanzitutto Pechino e Mosca tessono rapporti di collaborazione fin dalla caduta dell’unione sovietica, da una parte la russia fornisce energia, dall'altra la Cina offre i suoi prodotti ad un prezzo di favore, sono dunque alleati commerciali ed economici, ma non militari, ragione per cui in questo conflitto la Cina si è astenuta a supportare militarmente la Russia. Tra i due stati inoltre c’è quasi una necessità di collaborazione, dal momento in cui condividono il confine più esteso di tutto il mondo che si sviluppa per circa 4000 km.
Quello che finora abbiamo avuto modo di osservare, è che in tale rapporto di cooperazione è più la Russia a necessitare del supporto cinese, piuttosto che viceversa, questo è dovuto alla grande crescita economica che la Cina ha intrapreso negli ultimi anni e che si fonda sui numerosi scambi commerciali internazionali.
Data la posizione importantissima che quest’ultimo stato possiede nel commercio internazionale, la Cina non si può permettere di supportare con armi e forze militari la Russia, perchè significherebbe vedersi imporre le numerose sanzioni che l’occidente ha posto alla Russia. Inoltre si vedrebbe tagliata fuori dal mercato internazionale, anch’essa prospettiva inimmaginabile, visto che è la maggiore fonte di crescita economica degli ultimi anni. Allo stesso tempo però non può nemmeno condividere le sanzioni occidentali, perché significherebbe prendere posizione contro un utile alleato economico e geopolitico, ragione per cui in questo conflitto sta assumendo una posizione neutrale e invece di parlare di “guerra russo-ucraina”, parla di “questione ucraina”. Sempre per quanto riguarda i rapporti con la Cina, si è sentito parlare di minaccia di invasione anche per Taiwan, ma è davvero così probabile?
Adesso, a quanto le fonti dicono, non è plausibile, per lo stesso discorso fatto precedentemente. Dal momento in cui la Cina ha prospettato una crescita del 5% del suo PIL e gran parte di tale crescita avviene grazie agli scambi internazionali, invadere Taiwan significherebbe fare la fine della russia, isolata, sanzionata e contro la NATO, cosa che ora Pechino non si può permettere.
Un’altra situazione non particolarmente chiara è quella con la Turchia, infatti questo stato ha condannato l’invasione russa, ma non ha aderito alle sanzioni internazionali e questo perché da una parte negli ultimi anni le relazioni con Kiev si sono consolidate, sia in ambito energetico che nel settore difensivo, dall’altra parte è una grande alleata commerciale con Mosca in tre settori principali: energia, economia e difesa. Per queste ragioni si trova nella condizione di non voler prendere posizione, tanto che è l’unico paese che insieme ad Israele sta promuovendo un dialogo diplomatico.
Quali sono invece i rapporti tra l’Ucraina l’Unione Europea e la NATO?
Innanzitutto l’unione europea venne fondata nel 1993 con il trattato di Maastricht con l’obiettivo di collaborazione su diversi fronti comuni. L'Ucraina si mobilitò per l’entrata nell’UE già nel 2007 ma a causa dei contrasti interni dovuti dalla contrapposizione tra filorussi e filo europei, nel 2014 vennero interrotti. Nel 2017 entrò invece a far parte dell’ “accordo di associazione” che consentiva un avvicinamento ucraino all’Ue che promuoveva il rafforzamento dei valori comuni. Attualmente il presidente ucraino Zelenski ha chiesto di riprendere i negoziati per l’ammissione del suddetto stato e di velocizzarne le tempistiche, obiettivo però che nel breve periodo non è raggiungibile. Infatti è un processo che solitamente impiega 20-25 anni, in più c’è la necessità che l’ucraina rispetti i criteri di adesione stabiliti nel consiglio europeo di Copenaghen del 1993. Questi ultimi affermano che lo stato che fa richiesta deve avere istituzioni stabili e democratiche, deve essere uno stato di diritto, deve rispettare i diritti umani e le minoranze e su alcuni aspetti, l’ucraina deve ancora lavorare.
Invece per quanto concerne le relazioni con la NATO, durante questo conflitto è emersa da parte di Zelenski, la volontà di aderire al patto Transatlantico e per tale ragione ne ha fatto richiesta, infatti la considera come unica soluzione che può porre fine al conflitto. Con NATO si intende l’organizzazione del trattato atlantico, venne stipulata nel 1949 per la difesa dei paesi membri e come afferma l’articolo 5 del trattato di Washington, in caso di attacco ad un paese membro, tutta l’organizzazione è portata ad intervenire, dal momento in cui si tratterebbe di un attacco all’intera NATO e non solo al paese che l’ha subito. È dunque facile pensare che in caso di adesione immediata di Kiev alla NATO, un attacco della Russia a tale stato potrebbe poi diventare una minaccia all’intera organizzazione, estendendo così il conflitto a livello mondiale. Un ulteriore passo che potrebbe acuire ed estendere la situazione di belligeranza è l’istituzione della no-fly zone, tanto chiesta da parte del governo di Kiev. Infatti questa presuppone il divieto di sorvolare le zone in cui è stata applicata da aerei o droni; ha la duplice funzione di impedire i bombardamenti e demilitarizzare tutte quelle zone che sono sede di conflitti. Il problema maggiore che risiede nella no-fly zone è il fatto che ogni aereo che passa può essere eliminato e abbattere un aereo è una chiara dichiarazione di guerra. Zelenski ha chiesto alla NATO di istituire tale misura per il fatto che sono sospettati crimini di guerra, legati a bombardamenti non solo su obiettivi militari, ma anche su quelli civili, ma è stata aspramente contestata da Biden e Johnson per il fatto che il suo avvio protrerebbe ad un allargamento del conflitto Russo-Ucraino sul piano mondiale.
Oltre ad una guerra militare sul campo, si sta assistendo anche ad una guerra cibernetica, iniziata il 14 gennaio di quest’anno dalla Russia che ha inviato ai siti governativi ucraini la frase “abbiate paura e preparatevi al peggio”. L’occidente si è mobilitato anche in risposta a tali attacchi, per esempio Elon Musk ha fornito a Kiev numerosi mezzi per aggirare gli attentati cyber di Mosca. Un esempio di scontro mediatico in risposta all’invasione Russa è quello messo in atto da Anonymous, quest’ultimo infatti ha intrapreso una guerra telematica contro il Cremlino, diffondendo dati governativi segreti oppure colpendo la banca centrale russa.
Ciò a cui stiamo assistendo ora è la più grande crisi della pace e della stabilità europea vicino ai nostri confini a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, stiamo assistendo ad un cambiamento degli assetti geopolitici ed economici che condizionerà inevitabilmente il futuro del nostro paese.
Alessandra Zagaria
Fonti:https://www.ispionline.ithttps://youtu.be/SVk51EMoKX0https://youtu.be/9plybYkEYh4https://youtu.be/OtTwdyyT7hohttps://youtu.be/XZHsvcGhXm4https://www.studenti.it/cosa-sono-le-sanzioni-economiche-alla-russia-spiegazione.htmlhttps://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/04/07/la-nato-risponde-alla-richiesta-ucraina-adesione/Ricordandoci che la retorica de “l’uomo impara dalla storia” è una totale falsità, non stupisce il naturale parallelismo che si è creato tra Berlino 1936 e Pechino 2022: giochi olimpici usati come una maestosa vetrina di perbenismo, esposizione di democrazia e modernità che, come valori intrinseci, più che la sportività evidenzia un totalitarismo già noto e ampiamente criticato. Non sorprende dunque che, intenti ad opporsi a forze esterne che minano la stabilità della Repubblica , Cina e Russia abbiano messo per iscritto un accordo del tutto antiamericano ma con un’incombente supervisione della situazione geopolitica sia europea che asiatica (per quanto riguarda l’obiettivo dello stato federale, si è concretizzato tra il 24 e il 25 febbraio). Altrettanto tangibile è stata quindi la decisione di Xi Jinping di non includere nel “tavolo di trattative” capi di stato occidentali. Il risultato è un insieme di governanti che in comune hanno ben poco e quel poco sono proprio i principi (fondamentali) di insofferenza nei confronti di Washington e una tutela dei diritti umani non prettamente a norma. Tra questi i principi ereditari di Arabia Saudita e Abu Dhabi, i presidenti di Kazakistan ed Egitto: polveriere, sostanzialmente. L’apparente maratona diplomatica non è altro che un subdolo attentato ad una già vacillante democrazia. Infatti, se dovessimo scriverlo sotto forma di proporzione la Russia sta all’Ucraina come la Cina sta a Taiwan e gli Stati Uniti appaiono impotenti di fronte a queste preponderanti ascese al potere basate su un inesistente diritto di prevaricazione. A questo giro di giostra l’espediente economico non sussiste da solo, questa volta la politica è protagonista, protagonista di un paradossale gioco senza vincitori… sanzioni e crolli di borse per un’egemonia che fa pensare agli intenti espansionistici del secolo scorso. L’evoluzione ha forse inciampato?
Francesca Curti
Sergio Mattarella non rappresenta soltanto la figura del garante della Costituzione, ma, ai sensi dell’art. 87 della stessa Costituzione Italiana, rappresenta anche l’unità nazionale ed è il volto attraverso il quale i Paesi esteri identificano la nostra Repubblica. Difatti, è suo l’onore (e suo l’onere) di ricevere i rappresentanti diplomatici delle altre Nazioni e di ratificare i trattati internazionali; di conseguenza, è doveroso, soprattutto in un mondo così globalizzato, al fine di fare un’analisi dettagliata sull’argomento, capire come le principali testate giornalistiche europee e mondiali abbiano visto la recentissima rielezione di Mattarella a Presidente della Repubblica Italiana.
La prima testata che ha espresso il suo parere riguardante la rielezione di Mattarella è stato il Financial Times, un quotidiano economico-finanziario britannico. Esso ha espresso forti dubbi e perplessità sulla classe politica italiana, colpevole di non aver trovato un’intesa tra i partiti e di aver avuto come unica cosa in comune l’interesse egoistico per la propria sopravvivenza: la rielezione di Mattarella, infatti, evita un disastro a breve termine, ossia – citando dal quotidiano – «il crollo del governo riformista del premier Mario Draghi». Secondo il Financial Times, quindi, i politici italiani hanno deciso di puntare su un secondo mandato per il presidente ottantenne solo perché temevano che qualsiasi altra persona eletta presidente al suo posto avrebbe potuto innescare la caduta del governo Draghi e portare così il Paese a elezioni anticipate. Esplicitiamo: per molti di loro ciò avrebbe comportato il rischio di ottenere un minor numero di seggi parlamentari per il proprio partito e dunque la perdita di potere, privilegi e pensioni.
I partner italiani dell'UE e i mercati finanziari – scrive il Financial Times terminando il suo ragionamento con un risvolto di tipo economico – saranno sollevati dal fatto che, per i prossimi 12 mesi circa, Draghi sarà in grado di consolidare le riforme che ha perseguito da quando è diventato primo ministro un anno fa. Queste riforme, attingendo ai circa 200 miliardi di euro a disposizione dell'Italia dai 750 miliardi di euro del fondo dell'UE per la ripresa della pandemia, rappresentano un'opportunità unica per stimolare la crescita, l'occupazione e l'innovazione in un'economia che ha languito nella stagnazione e nell'elevato debito pubblico dagli anni '90 in poi.
In seguito, la notizia della rielezione di Mattarella ha fatto il giro del mondo fino ad arrivare nel “Paese del dragone”, ossia la Cina. Il Presidente cinese Xi Jinping ha chiamato il Quirinale il 4 Febbraio 2022, dopo quasi una settimana dalla rielezione del nostro Presidente, per congratularsi con lui e sottolineare la grande importanza dello sviluppo della cosiddetta cooperazione bilaterale tra Italia e Cina.
In base a quanto dichiarato dal Presidente cinese, l’unica buona notizia dell’esito dell’elezione presidenziale italiana è la stabilità, elemento cruciale per la politica internazionale di Pechino; inoltre, nel comunicato si pone l’accento sul «profondo fondamento delle relazioni tra Cina e Italia» unite alla «solida base nell’opinione pubblica e al forte legame di interessi, che costituiscono un esempio di rispetto reciproco per la comunità internazionale oltre che di ricerca di un terreno comune conservando le differenze».
Da ultimo, Il Presidente cinese ha anche affermato di attribuire grande importanza allo sviluppo delle relazioni tra Cina e Italia e che è pronto a lavorare con il Presidente Mattarella per consolidare la fiducia politica reciproca tra i due Paesi, ampliare gli scambi, rafforzare la cooperazione in vari campi e promuovere congiuntamente le relazioni bilaterali ottenendo così nuovi risultati a beneficio dei due Paesi e dei due popoli.
Ritornando nel Vecchio Continente, sono diverse - ma tutte, comunque, abbastanza positive - le reazioni della stampa europea riguardo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
I quotidiani francesi, dal conservatore Le Figaro al progressista Libération, sono tutti d’accordo nel porre l’accento sull’incapacità dei partiti italiani di dialogare per arrivare a trovare un’altra soluzione consensuale. Fra colpi bassi, tradimenti e difficoltà dei leader a controllare i militanti del loro partito, secondo i quotidiani francesi l’opinione pubblica italiana ha assistito per una settimana a uno spettacolo pietoso.
I quotidiani tedeschi Handelsblatt e il Sueddeutsche Zeiturg sottolineano come Mattarella sia fondamentale per tenere in piedi il governo Draghi, il quale è considerato dall’Europa il garante della buona gestione economica di quei 200 miliardi ricevuti dall’Italia grazie al Recovery plan.
Dal Belgio, invece, l’attenzione è posta sul sacrificio fatto dal nostro capo dello Stato. Secondo Il quotidiano belga Le Soir, il Presidente della Repubblica ha accettato suo malgrado di succedere a se stesso poiché, dopo una settimana febbrile di voti abortiti in Parlamento, di schede bianche, di candidature respinte poco dopo la loro presentazione, i 1009 grandi elettori sono stati costretti a prendere atto della propria impotenza davanti ai persistenti conflitti tra i vari partiti politici.
Terminiamo, infine, dando un’occhiata al di là dell’Atlantico: l’analisi effettuata dal New York Times, secondo cui Mattarella è rappresentato come il «guardrail della oscillante democrazia italiana», è dura. Secondo la testata giornalistica newyorkese, «l’elezione di Mattarella, 80 anni e riluttante a servire di nuovo, dopo sei giorni disastrosi di voti segreti nei quali la coalizione di governo non ha trovato l’accordo per un candidato, ha rilevato la politica litigiosa e le alleanze fatiscenti che si nascondono appena sotto la superficie del governo di unità nazionale».
Classe 5AT
Afghanistan is located in Southern Asia, near Iran, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan.
The control of its territory has always been disputed by foreign countries for a long time in the past because of its strategic location: it is in the middle of important routes like, for example, the Silk Road, the main caravan route that, for centuries, linked the Far East with Europe. This road has been very important for the cultural and economic development of most of the main Eurasian civilisations, such as China, Persia and Arabia. Furthermore, it has a lot of natural resources such as gas, petroleum and precious stones.
A relevant element is that conquerors weren’t able to maintain Afghanistan under them, because of its geographical features. This state can be divided into three geographical zones: the first one which is in the north, it’s mostly an agricultural region, the second one, which includes most part of actual Afghanistan, is occupied by mountain ranges, known as the Hindu Kush Mountains, part of the Himalayan Mountains. The translation of their name is “Hindu killer”, referring to the fact that they are very rugged and for this reason were protected from conquerors. The third, southernmost, region is mostly dry and deserted, it is located close to Iran and Pakistan.
Moreover, invaders, for profits, started to use fields that were important for the subsistence of the country, with poppy cultivation, feeding the drug businesses and for this factor now Afghanistan depends on importing products.
For what about social elements, there are different ethnic groups and cultures, a consequence of the invaders' diversity and the two official languages are Dari and Pashtu, of the iranian branch of Indo European languages (even if they are mostly written in Arabic script).
Religion has been deeply influenced by his turbulent history; the most professed is actually Islam, but in the past it wasn’t the same. Near 2000 b.C Arii came to Afghanistan and brought with them the vedic tradition that later evolved to hinduism. After being subjected to Persians, the Afghanistan territory fell into the hands of Alexander the Great. The great Greek conqueror also founded many cities that he named after him (many of them still exist today, like Kandhar, ‘Alexandria of the Arians’ and Herat, ‘Alexandria of Arachosia’). Surprisingly enough, the Greek conquest (from 325 BC) lasted several centuries, before being wiped out. In that time the so-called indo-greeks rulers introduced and promoted the spread of Buddhism. Towards the II century AD, Afghanistan reverted to Persian rule, under the Sasanian dynasty, that adopted Zoroastrianism as their state religion. Finally, in 642 a.D. Arab conquest brought Islam into the country.
We probably all know what happened in August 2021: Taliban took control of Kabul and of all the nation, but how did we end up to this point? Afghanistan people strived for centuries to resist foreign invasions, but the power and influence of those countries was too much for them From the beginning of the XI century to XIX , Afghanistan was in Arab dynasties’ hands and in the first years of 1800, started the major conflicts that involved both European and non-European countries such as Russia, Great Britain and US.
In particular, on the 12th of January in 1830 started the so-called “The Great Game”, a struggle that involved Great Britain and Russia for control of Central Asia. The situation between those countries was quite complicated, in fact, Great Britain was afraid that Russia could invade India; otherwise, Russia feared that Great Britain would expand in Central Asia. To protect its possessions in India, Great Britain decided to make a new trade route towards the Emirate of Bukhara, a buffer state located between Uzbekistan, Tajikistan and Kazakhstan. Their purpose was to control Afghanistan and use the Persian empire against Russia’s expansion.
The Great Game caused the first two Anglo-Afghan wars, which were fought because England wanted to ensure its domain over Afghanistan. The first war started in 1839 and ended in 1842, and was also known as “The disaster of Afghanistan” because the British army had unexpectedly big losses. In fact, when the British reached Kabul,the inhabitants put up a strenuous resistance, forcing the invaders to leave the country.
The second war started in 1870 and ended in 1880 and in it, British and Indian armies fought to guarantee the freedom of Afghanistan from Russian meddling and ended with the British's victory. the Treaty of Gandamak, which ended the second Anglo Afghan war and gave Britain control overAfghanistan foreign relations. In 1919 yet again broke out; the hastily signed peace settlement wasn’t well received by the Afghan population and violence spread in Kabul. In February of the same year, the government of Afghanistan rejected the peace treaty, declared independence and Jihad (which means holy war). For the first time the initiative in the conflict was seized by afghans and not by europeans. Facing the open hostility of the majority of the population of Afghanistan, the British army, at last decided to leave (but not before trying to weaken the country and dividing it into many different states). In the beginning, Afghans were winning, but then the British bombarded the capital, Kabul and on the 12 of May was declared peace. Persia, Turkey and the Soviet Union were the first who recognised Afghan’s independence, at the end of the Anglo-Afghan war, the British had the access to Afghanistan’s foreign relations, but in turn the newly formed state would receive a subsidy of 1.2 million rupees per year.
In 1919 Afghanistan was a fragile state, the economy was based mostly on subsistence farming and there was a little sense of national identity. In the late 19th century, Abdulhamid II, sultan of Turkey started a pan-Islamic politic. Pan Islamic is one of the major geopolitical concepts of the First World War which supported a union of all Muslims, called the Ummah, to face European expansion. This became an imperial ideology, ranked first in the ottoman empire’s foreign policy agenda. Fueled by this ideology, and those years was signed a German-ottoman alliance guaranteeing the much needed turkish support of the german efforts in the oncoming war, but also helping ottoman campaign for Jihad against Britain, Russia and France.
In this context began the First World War, in which Afghanistan remained neutral: if Afghanistan would have joined the war, he would have left the country open to a joint Anglo Russian attack. At the end of the war, in 1921, after many conflicts, Britain decided to relinquish control of Afghanistan’s foreign policy and with that Anglo-Afghans tensions came to an end.
After a few years, Emir Amanullah Khan established trades relations with the Soviets and the Weimar Republic of Germany,e proclaimed himself king of Afghanistan and made many innovative social reforms for improving women’s rights, like compulsory education, also for women, abolition of the burka and also abolished slavery. These reforms were not appreciated by fundamentalist religious leaders, who resisted them and for this reason, started the Afghan civil war (1928-1929) which ended with the abdication of the king.
At a later time, Afghanistan remained neutral both in the Second World War and in the Cold War; meanwhile were made other social reforms for women, such as the abolition of purdah, which consisted in eliminating women from public view and also had been allowed them to wear the veil voluntarily, a thing that before was decided by the husband.
Near 1960 started the steady approach to Afghanistan by the Soviet Union, in particular after an event that happened in 1961: Pakistan closed its borders and the Afghans had to depend on Russian trade.
Events escalated in 1973 when the democratic party of Afghanistan took control of the state and made reforms that produced oppression and instability;. In this conflict emerged the mujahideen, an Islamic-inspired guerrillas that opposed the Soviet Union, against ISIS and was also against the Afghanistan Democratic party. They were supported by Pakistan and the United States; in the meanwhile the Soviet Union was supporting the Democratic Party, so the two superpowers were fighting against each other taking advantage of the internal situation of Afghanistan. In December of 1979, the Soviet army invaded the country thus leading to the soviet-afghan war; at the same time the United States were continuing to support the rebels, giving them armies and billions of dollars. The mujahideen’s base was in the northwest of the country, near Pakistan and this place played a role in the promotion of Jihad; even if they fought for the freedom of the nation by soviet control, they were a group that caused rapes, violence and murders in the cities.
Another group that brought a situation of disorder in Afghanistan were the Taliban, who emerged in 1994 and they soon had military support from Pakistan and in a few months took the control of Kabul, establishing an emirate, recognised by Pakistan, Saudi Arabia and the United Arab Emirates. They were condemned because of their interpretation of sharia which ended up in a brutal regime, in particular, were made acts of violence against women.
To fight the Taliban, the central government made the “Northern Alliance'', which was supported by the United States; in October of 2001, the US invaded Afghanistan and the Taliban refused to relinquish Osama Bin Laden, considered the prime suspect of the attack on the Twin Towers (WTO). USA bombarded Al-Qaeda network and military training camps and for a short period Taliban were stopped.
In 2004 the Afghan (US supported) regime promulgated a constitution for trying to rebuild a democratic structure able to fight the Taliban and made many reforms for helping the economical, social and political difficult situation. Moreover, thousands of NATO troops remained in the country for training Afghan forces and in 2018 USA and Taliban started to arrange a meeting with the diplomatic support of Saudi Arabia, the United Arab Emirates and Pakistan that were the only countries to have relations with both of the involved parties. The first deal was signed in February 2020, in which it was decided that the Taliban would stop attacks on U.S. troops and would not support the activity of Al-Qaeda; in turn, the US would withdraw their troops from Afghanistan. On the 14th of April in 2021 NATO decided to retire troops and at this point the Taliban started an attack against the Afghan government, which collapsed.
The date that we remember is the 15th of August when they gained control of part of Afghanistan. In September the Taliban was controlling the majority of the country and in the meanwhile, the president of Afghanistan announced the formation of an anti-Taliban front.
We see a country that for centuries didn’t give up, defending its territories and its citizens in face of foreign conquests. For centuries Afghanistan has strived for maintaining its own identity. The thing that most impressed me is Afghan’s firmness, in particular women's tenacity, they have been deprived many times during the history of their rights. In the first 50 years of 1900, emerged an important figure, Queen Soraya Tarzi, the first queen of Afghanistan, wife of Amanullah Khan, they played an essential role in the improvement of women’s conditions and she has been the first feminist in Afghanistan. In 1978 women could choose their career and the husband and they could attend school. The situation changed quickly when in 1992 the mujahideen took control, reducing the things that women could do: for example, they had to attend just feminine school, they had to wear the mandatory hijab and many other restrictions. But the situation got worse with the arrival of the Taliban (1996-2001): they were obsessed with the woman image which had to be censored and for this reason, they imposed extremist rules. Women couldn’t go out without the company of a male member of the family, the burka became mandatory , they couldn’t use makeup or jewellery or laugh, work or attend any type of school. Women couldn’t appear in the public society like for example in the newspaper, or on television, they hadn’t the possibility to practise sports or talk with men. Basically, they couldn’t do anything.
Then, women reacquired few rights that were lost with the reconstruction of the Taliban regime in 2021. So, in centuries of history and fights, women still don’t have the importance that they deserve.
As Farhad Bitani said in the meeting with the students of our school, women have an essential role in society, as her mother had in his life.
In their hands they have the education of a generation, they have the mind of the future. What Farhad told us is that his mother had an important influence on his choices, she was the one that helped him to find the right path and his morality.
She always said to find the white small spot that is in everyone's heart, which is often surrounded by darkness.
Alessandra Zagaria
Fonti: https://www.britannica.com/place/Afghanistan/Civil-war-communist-phase-1978-92 https://www.nam.ac.uk/explore/third-afghan-war-and-revolt-waziristan https://www.opiniojuris.it/grande-gioco/ https://en.wikipedia.org/wiki/Afghanistan#Objectives_and_Invasions_of_India https://it.wikipedia.org/wiki/Condizione_della_donna_in_Afghanistan https://books.google.it/books?hl=it&lr=&id=EY6NDgAAQBAJ&oi=fnd&pg=PP1&dq=history+of+afghanistan&ots=6MLUgq5oTM&sig=uUxVXWatOg7i_Bg18SxOsJ6Jl6s#v=onepage&q&f=falseVi ricordate cosa successe il 15 dicembre 2019? Ebbene, fu l’ultimo giorno della Cop25, e il 31 ottobre a Glasgow si è aperta l’annuale conferenza sul clima, la ventiseiesima conferenza delle parti, che, nel 1992, firmarono gli accordi di Rio sui cambiamenti climatici.
La Cop26 è stata preceduta dalla sessione preparatoria Pre-COP26 e dall’evento dedicato ai giovani Youth 4 Climate, dal 28 al 30 settembre a Milano, durante il quale circa 400 giovani, due per Paese, hanno discusso dei cambiamenti climatici e di come affrontarli. Successivamente è stato riunito il G20, è il principale forum di cooperazione economica e finanziaria a livello globale, nel corso del quale i leader dei Paesi economicamente più ricchi hanno promesso di impegnarsi a limitare il riscaldamento globale con azioni significative ed efficaci.
La Cop26 conterà più di 190 leader mondiali, negoziatori, rappresentanti di governo e cittadini, per dodici giorni di negoziati.
Ciò che unisce tutti è la straordinaria importanza di questa conferenza, a causa delle catastrofi ambientali dovute ai gas serra e al conseguente innalzamento delle temperature.
Cop 26 di Bice Tarantola
Tecnica: tempere ad olioGli obiettivi di Parigi
Il punto di partenza indispensabile per capire l'importanza della Cop26 di Glasgow è rappresentato dall’Accordo di Parigi sul clima, firmato nel 2015 ed entrato in vigore nel 2016. La Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Rio prevedeva la possibilità di siglare dei «protocolli» relativi alle emissioni, come quello di Kyoto (1997) e poi, appunto, quello di Parigi. L'accordo di Parigi presenta un piano d'azione per limitare il riscaldamento globale.
I suoi elementi principali sono:
un obiettivo a lungo termine – i governi hanno convenuto di mantenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C
contributi – prima e durante la conferenza di Parigi i paesi hanno presentato piani d'azione nazionali globali in materia di clima (chiamati contributi determinati a livello nazionale - NDC) al fine di ridurre le rispettive emissioni
ambizione – i governi hanno convenuto di comunicare ogni cinque anni i rispettivi piani d'azione, ciascuno dei quali fissa obiettivi più ambiziosi
trasparenza – i paesi hanno convenuto di comunicare, l'un l'altro e al pubblico, i risultati raggiunti nell'attuazione dei rispettivi obiettivi al fine di garantire trasparenza e controllo
solidarietà – gli Stati membri dell'UE e gli altri paesi sviluppati continueranno a fornire finanziamenti per il clima ai paesi in via di sviluppo per aiutarli sia a ridurre le emissioni che a diventare più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici
Nel 2015, i Paesi firmatari si sono impegnati a contenere il riscaldamento globale «ben al di sotto dei 2° dal livello pre-industriale» attraverso un taglio delle emissioni di gas serra. Inoltre i Paesi s’impegnarono ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi.
L’impegno di puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi è importante perché ogni decimale di grado di riscaldamento causerà la perdita di molte altre vite umane e altri danni ai nostri mezzi di sussistenza.
Ciascun Paese ha dovuto creare un piano nazionale indicante la misura di riduzione delle proprie emissioni, il cosiddetto Nationally Determined Contribution (NDC) o «contributo determinato a livello nazionale», che va però aggiornato ogni cinque anni. La Cop di Glasgow rappresenta il banco di prova di quest’ultimo impegno. Secondo gli esperti, gli obiettivi indicati nel 2015 devono essere aggiornati, perché ormai insufficienti per limitare il surriscaldamento.
Due anni fa, con la Cop25, non fu concluso nulla, infatti le negoziazioni si protrassero a lungo, ma non si riuscì a trovare un accordo sul tema dei mercati del carbonio, e la questione fu rimandata al summit di Glasgow.
Obiettivi imposti:
- Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Ad ogni Paese è chiesto di presentare obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni entro il 2030 che siano allineati con il raggiungimento di un sistema a zero emissioni nette entro il 2050.
Per raggiungere questi obiettivi ambiziosi, ciascun Paese dovrà:
accelerare il processo di fuoriuscita dal carbone, con la costituzione di un mercato internazionale delle emissioni di carbonio, basato su limitazione e scambio delle emissioni
bloccare la deforestazione
ridurre del 30% le perdite di metano, dall’estrazione ai gasdotti, dannosissime per il clima
accelerare la transizione verso i veicoli elettrici
incoraggiare gli investimenti nelle rinnovabili
- Adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali
Il clima sta già cambiando e continuerà a cambiare provocando effetti devastanti anche riducendo le emissioni.
Con la COP26 bisogna lavorare insieme per incoraggiare i Paesi colpiti dai cambiamenti climatici e metterli in condizioni di:
proteggere e ripristinare gli ecosistemi
costruire difese, sistemi di allerta, infrastrutture e agricolture più resistenti per contrastare la perdita di abitazioni, mezzi di sussistenza e persino di vite umane
- Mobilitare i finanziamenti
I Paesi sviluppati devono mantenere la loro promessa di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima entro il 2020. Il fondo serve per finanziare gli interventi di decarbonizzazione delle economie in via di sviluppo.
Le istituzioni finanziarie internazionali devono fare la loro parte per liberare le migliaia di miliardi che la finanza pubblica e quella privata dovranno impiegare per raggiungere zero emissioni nette globali.
l’informazione e collaborazione
finalizzare il “Libro delle Regole” (“Paris Rulebook”, ovvero l’insieme delle regole per attuare l’Accordo e valutare quanto viene fatto da ciascun Paese.)
accelerare le attività volte ad affrontare la crisi climatica rafforzando la collaborazione tra i governi, le imprese e la società civile
Il problema è l’opposizione di alcuni Stati, infatti i Paesi più ricchi, come gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, hanno già annunciato che aumenteranno gli sforzi per ridurre le emissioni. Resta da vedere se terranno davvero fede agli impegni e quanto velocemente riusciranno a implementare le misure annunciate. Cina, India e altre grandi economie emergenti, invece, sono restie all’idea di decarbonizzare, per timore di frenare il loro sviluppo. Ci sono poi alcuni Paesi che non dispongono delle risorse necessarie per la transizione ecologica, tuttavia la risoluzione del problema si trova nel fondo stanziato annualmente di 100 miliardi.
Le attiviste Greta Thunberg, Vanessa Nakate, Dominika Lasota e Mitzi Tan hanno indirizzato ai leader mondiali un «appello urgente» — pubblicato sul sito dell’ong Avaaz — in cui si legge: «Siamo disastrosamente lontani dall’obiettivo cruciale di 1,5 gradi, mentre i governi di tutto il mondo addirittura accelerano la crisi, continuando a spendere miliardi per i combustibili fossili. Questa non è un’esercitazione. È codice rosso per la Terra. Milioni di persone soffriranno per la devastazione del nostro Pianeta. Le vostre decisioni causeranno o eviteranno questo scenario terrificante. Sta a voi scegliere».
Le grandi emergenze per le quali è stata mobilitata la COP26 sono molte.
Secondo lo State of the Global Climate 2021, il rapporto annuale dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) , gli ultimi sette anni sono stati i più caldi da quando ci sono rilevazioni scientifiche, cioè dalla fine dell’Ottocento.
L’innalzamento del livello del mare ha raggiunto un nuovo massimo, questo sommato all’acidificazione degli oceani e al continuo riscaldamento. Infatti la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera è a livelli record, associata al calore accumulato, avrà forti ripercussioni per le generazioni attuali e future. Il rapporto conferma il degrado degli ecosistemi ad un ritmo elevatissimo, la cui accelerazione è prevista nei prossimi decenni. riscaldamento degli oceani dovuto all’espansione termica dell’acqua di mare e allo scioglimento del ghiaccio terrestre. Misurato dall’inizio degli anni Novanta da satelliti altimetrici ad alta precisione, l’innalzamento medio globale del livello medio del mare è stato di 2,1 mm all’anno tra il 1993 e il 2002 e di 4,4 mm all’anno tra il 2013 e il 2021, un aumento di un fattore 2 tra i due periodi. Ciò è dovuto principalmente alla perdita accelerata di massa di ghiaccio dai ghiacciai e dalle calotte glaciali.
Il rapporto raccoglie contributi di diverse agenzie delle Nazioni Unite, servizi meteorologici e idrologici nazionali ed esperti scientifici. “Dalle profondità dell’oceano alle cime delle montagne, dallo scioglimento dei ghiacciai agli implacabili eventi meteorologici estremi, gli ecosistemi e le comunità di tutto il mondo vengono devastati, la Cop26 deve essere un punto di svolta per le persone e per il pianeta” così ha affermato il segretario generale dell’ONU Antonio Gutteres.
Il segretario generale della WMO, Petteri Taalas ha continuato: “Gli eventi estremi sono la nuova norma. Con l’attuale tasso di aumento delle concentrazioni di gas serra, vedremo un aumento della temperatura entro la fine di questo secolo di gran lunga superiore agli obiettivi dell’Accordo di Parigi da 1,5 a 2°C al di sopra dei livelli preindustriali”.
Nel 2020, le concentrazioni di gas serra hanno raggiunto nuovi massimi. I livelli di anidride carbonica (CO2) erano 413,2 parti per milione (ppm), il metano (CH4) era a 1889 parti per miliardo (ppb) e il protossido di azoto (N2O) a 333,2 ppb. Rispettivamente, 149%, 262% e 123% superiori ai livelli preindustriali (1750), e l'aumento è previsto durante il 2021.
Quando si parla di riscaldamento globale, infatti sono numerosissimi gli effetti implicati:
La temperatura media globale per il 2021 (basata sui dati da gennaio a settembre) è stata di circa 1,09°C al di sopra della media 1850-1900. Dall’analisi effettuata dal WMO il 2021 è il sesto o il settimo anno più caldo mai registrato a livello globale. Ma la classifica potrebbe cambiare a fine anno. È tuttavia probabile che il 2021 sarà tra il 5° e il 7° anno più caldo mai registrato e che il periodo 2015- 2021 sarà il settennio più caldo mai registrato. Il 2021 è in realtà stato meno caldo degli anni precedenti a causa dell’influenza di una corrente moderata - La Niña- all’inizio dell’anno. La Niña ha infatti un effetto di raffreddamento temporaneo sulla temperatura media globale e influenza il tempo e il clima regionali. L’ultimo evento significativo di Là Niña era stato nel 2011 e il 2021 è risultato più caldo di circa 0,18 ° C - 0,26 ° C rispetto a quell’anno, un decennio giusto fa. Con il calare degli effetti di La Niña, le temperature globali mensili sono poi subito aumentate.
Gran parte dell’oceano ha subito almeno un’ondata di caldo marino “forte” nel 2021, con l’eccezione dell’Oceano Pacifico equatoriale orientale (a causa di Là Niña) e gran parte dell’Oceano Australe. Il mare di Laptev e Beaufort nell’Artico ha subito ondate di calore marine “gravi” ed “estreme” da gennaio ad aprile 2021. L’oceano assorbe circa il 23% delle emissioni annue di CO2 di origine antropica nell’atmosfera e quindi sta diventando più acido. Il pH della superficie dell’oceano aperto è diminuito a livello globale negli ultimi 40 anni ed è ora il più basso da almeno 26.000 anni. E quando cala il pH dell’oceano, diminuisce anche la sua capacità di assorbire CO2 dall’atmosfera, il che si trasforma in un ulteriore spinta al surriscaldamento.
L’estensione del ghiaccio marino artico a marzo (al suo massimo) era al di sotto della media 1981-2010, quindi è diminuita rapidamente tra giugno e inizio di luglio nelle regioni del Mare di Laptev e del Mare di Groenlandia orientale. Di conseguenza, nella prima metà di luglio l’estensione del ghiaccio marino in tutto l’Artico è stata minima. C’è stato poi un rallentamento della fusione ad agosto, e quindi a settembre (dopo la stagione estiva) l’estensione è risultata maggiore rispetto agli ultimi anni (4,72 milioni di km2). È comunque stata la dodicesima estensione di ghiaccio minima più bassa nel record satellitare di 43 anni, ben al di sotto della media 1981-2010. Nel Mare di Groenlandia orientale l’estensione del ghiaccio marino ha raggiunto un minimo record. Nell’oceano antartico è stata intorno alla media 1981-2010, con un’estensione massima raggiunta alla fine
La perdita di massa dai ghiacciai nordamericani si è accelerata negli ultimi due decenni, quasi raddoppiando nel periodo 2015-2019 rispetto al 2000-2004. Un’estate eccezionalmente calda e secca nel 2021 nel Nord America occidentale ha avuto un impatto brutale sui ghiacciai montani della regione. L’estensione dello scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia è stata vicina alla media a lungo termine all’inizio dell’estate, ma le temperature e il deflusso dell’acqua di disgelo erano ben al di sopra della norma nell’agosto 2021 a causa di una forte incursione di aria calda e umida a metà agosto. Il 14 agosto è piovuto per diverse ore alla Summit Station, il punto più alto della calotta glaciale della Groenlandia (3.216 m), per la prima volta nella storia nota, e la temperatura dell’aria è rimasta sopra lo zero per circa nove ore. È la terza volta negli ultimi nove anni che il vertice ha sperimentato condizioni di fusione.
Ondate di caldo eccezionali hanno colpito il Nord America occidentale nei mesi di giugno e luglio, con record di innalzamenti medi tra 4 e 6° C, che hanno causato centinaia di decessi correlati al caldo. Lytton, nella Columbia Britannica, il 29 giugno ha raggiunto i 49,6°C, battendo di 4,6°C il precedente record nazionale canadese e il giorno successivo l’area è stata devastata da un incendio. La Death Valley, in California, ha toccato i 54,4°C il 9 luglio, il più alto registrato al mondo almeno dagli anni Trenta. È stata l’estate più calda mai registrata in media negli Stati Uniti. Ci sono stati numerosi incendi di grandi dimensioni, come quello di Dixie nel nord della California, che ha bruciato circa 390.000 ettari tra il 13 luglio e il 7 ottobre. Il caldo estremo ha colpito anche la regione del Mediterraneo. L’11 agosto una stazione agrometeorologica in Sicilia ha raggiunto i 48,8°C, record europeo, mentre Kairouan (Tunisia) ha toccato i 50,3°C. Grandi incendi si sono verificati in Algeria, Turchia meridionale, Grecia e Italia. A metà febbraio, condizioni di freddo anomalo hanno invece colpito molte parti degli Stati Uniti centrali e del Messico settentrionale. Gli impatti più gravi si sono verificati in Texas. E un’anomala "epidemia di freddo primaverile” ha colpito molte parti d’Europa all’inizio di aprile.
Piogge estreme hanno devastato la provincia cinese di Henan dal 17 al 21 luglio. Le inondazioni improvvise hanno provocato oltre 302 morti, con perdite economiche di 17,7 miliardi di dollari. L’Europa occidentale ha subito alcune delle inondazioni gravi, mai registrate prima, a metà luglio. La Germania occidentale e il Belgio orientale hanno ricevuto da 100 a 150 mm di pioggia su un’ampia area il 14-15 luglio, su terreno già saturo, causando inondazioni e frane e oltre 200 morti. Le precipitazioni giornaliere più elevate sono state di 162,4 mm a Wipperfürth-Gardenau (Germania). Le inondazioni hanno colpito anche l’Amazzonia e parti dell’Africa orientale, in particolare il Sud Sudan.
La siccità ha colpito gran parte dell’America latina subtropicale per il secondo anno consecutivo, provocando significative perdite agricole, aggravate da un’epidemia di freddo alla fine di luglio, che ha danneggiato molte delle regioni di coltivazione del caffè del Brasile. I bassi livelli dei fiumi hanno anche ridotto la produzione di energia idroelettrica e interrotto il trasporto fluviale. I 20 mesi da gennaio 2020 ad agosto 2021 sono stati i più secchi mai registrati per gli Stati Uniti sud occidentali, oltre il 10% in meno rispetto al record precedente. Una crisi di malnutrizione associata alla siccità ha colpito parti dell’isola del Madagascar nell’Oceano Indiano.
Aumento della fame e, di conseguenza, hanno minato decenni di progressi verso il miglioramento della sicurezza alimentare. Dopo un picco di denutrizione nel 2020 (768 milioni di persone), le proiezioni indicavano un calo della fame globale a circa 710 milioni nel 2021 (9%). Tuttavia, a ottobre 2021, i numeri in molti Paesi erano già superiori a quelli del 2020 Questo sorprendente aumento (19%) è stato avvertito soprattutto tra i gruppi già colpiti da crisi alimentari o peggio, passando da 135 milioni di persone nel 2020 a 161 milioni entro settembre 2021 .Fame e crollo totale dei mezzi di sussistenza hanno colpito principalmente Etiopia, Sud Sudan, Yemen e Madagascar (584.000 persone). Il clima estremo durante la stagione 2020/2021 di La Niña ha alterato le stagioni delle piogge contribuendo a interrompere i mezzi di sussistenza e le campagne agricole in tutto il mondo. Siccità consecutive in gran parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina hanno coinciso con forti tempeste, cicloni e uragani, che hanno influito in modo significativo sui mezzi di sussistenza e sulla capacità di riprendersi dagli shock meteorologici ricorrenti. Eventi e condizioni meteorologiche estreme, spesso esacerbate dai cambiamenti climatici, hanno avuto impatti importanti e diversificati sullo spostamento della popolazione e sulla vulnerabilità delle persone già sfollate durante tutto l’anno. Dall’Afghanistan all’America centrale, siccità, inondazioni e altri eventi meteorologici estremi stanno colpendo coloro che sono meno attrezzati per riprendersi e adattarsi.
Come ha affermato il leader Boris Johnson “Se fallisce Glasgow, sarà un fallimento per tutto il mondo, l’umanità ha esaurito il tempo; per invertire la rotta sui cambiamenti climatici resta un minuto prima della mezzanotte, se non saremo seri per i nostri figli sarà troppo tardi”.
Sofia Beretta
Fonti:https://ukcop26.org/it/gli-obiettivi-della-cop26/ https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2021/11/26a-conferenza-delle-parti-sul-cambiamento-climaticoIl premio Nobel è un riconoscimento di valore mondiale che viene assegnato annualmente agli individui che si sono maggiormente distinti in diversi campi, riuscendo, in un modo o nell’altro, a dare un contributo alla società tramite scoperte, invenzioni, rivoluzioni ecc…
Esistono diversi tipi di premi Nobel, ognuno riguardante un campo diverso: per esempio il premio Nobel per la Chimica, per la Letteratura e per la Pace. Quest’ultimo è davvero un importante riconoscimento, in quanto, è assegnato a chi, durante il corso dell’anno, si è dedicato a portare avanti l’idea di pace nel mondo.
La “Pace” è un concetto che, sin da quando eravamo piccoli, ci è sempre stato spiegato e che ci fa capire come l’umanità non sia perfetta ma, al contrario, sia molto crudele e spietata. Purtroppo le belle parole non bastano, perciò serve qualcuno che metta in atto tutte le idee, qualcuno che ci “metta la faccia” e che lotti, esponendosi a grandi rischi, pur di continuare a portare avanti ciò in cui crede; serve una persona forte, determinata e motivata che, al giorno d’oggi, è rara da trovare.
Siamo sempre stati abituati a vedere grandi nomi affiancati alla targa “premio Nobel per la Pace”: Barack Obama, Martin Luther King, Nelson Mandela e molti altri. Quest’anno, però, il Nobel è stato assegnato a due persone che, forse, sono un po’ meno conosciute rispetto ad altri precedenti vincitori, ma che se lo sono davvero meritato. Maria Ressa e Dmitry Muratov sono i vincitori del premio Nobel per la pace 2021. Il premio è stato dato ad Oslo, in Norvegia. Il riconoscimento gli è stato assegnato “per i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione che è precondizione per la democrazia e per una pace duratura”.
Maria Ressa è una donna filippina co-fondatrice del giornale Rappler, che si occupa di denunciare il crescente autoritarismo nelle Filippine e che, come viene riportato tra le motivazioni, “usa la libertà di espressione per denunciare abusi di potere, uso della violenza e crescente autoritarismo nel suo paese natale”. La giornalista ha anche documentato come, sui social media, siano diffuse centinaia di fake news al giorno, con lo scopo di manipolare la popolazione e cambiare l’opinione pubblica. Nel 2018 è stata eletta come persona dell’anno per il Time, insieme ad altri giornalisti che denunciano fake-news. Purtroppo nel 2019 è stata arrestata per diffamazione online, a causa di alcune informazioni pubblicate da Rappler riguardanti un ricco e potente uomo d’affari.In passato ha ricevuto molti premi come il John Aubuchon Press Freedom Award, il Most Resilient Journalist Award, il Tucholsky Prize, il Truth to Power Award e il Four Freedoms Award. Nel 2020 è stata nominata Journalist of the Year.
Dmitry Andreyevich Muratov ha combattuto per la libertà di parola in Russia per anni, nonostante le difficili condizioni. Nel 1993 fondò il giornale Novaja Gazeta, che è considerato il giornale più indipendente in Russia, con un atteggiamento fondamentalmente critico nei confronti del potere. Il suo giornalismo “basato sui fatti” lo ha reso un’importante fonte di informazioni che, in altri giornali, sono raramente menzionate. La testata ha pubblicato, fin da subito, degli articoli critici su argomenti che vanno dalla corruzione, alla violenza della polizia, agli arresti illegali, alle frodi elettorali, all’uso delle forze militari russe sia all’interno che all’esterno della Russia. Questi articoli hanno scatenato l’ira degli oppositori che hanno risposto con minacce, violenze e omicidi. Tutto ciò però non ha fermato Muratov che ha sempre ribadito il diritto dei giornalisti di scrivere tutto ciò che vogliono e su ciò che vogliono, purché rispettino gli standard professionali ed etici del giornalismo. Muratov non si è fatto intimidire e ha sempre continuato per la sua strada, meritandosi questo riconoscimento.
I due vincitori dichiarano che il premio gli dà la forza per continuare a combattere per la verità e per la giustizia e che cercheranno di cambiare questo mondo corrotto con tutte le loro forze.
Andrea Pisati
In questo articolo vorremmo trattare il conflitto arabo-israeliano per non dimenticare. Ormai già adesso, dopo pochi mesi dai bombardamenti alla striscia di Gaza non si parla di più di cosa sta succedendo in Isarele e vorremo sensibilizzare le persone a continuare ad interessarsi alla questione. Nell'articolo non parleremo degli ultimi avvenimenti, bensì sarà nostra premura spiegare le radici del conflitto, per permettere a tutti voi lettori di farvi una vostra idea ed informarvi a dovere.
Non importa, infatti quanto ci si informi sull'attualità, se non si conoscono adeguatamente le origini di ciò che si legge è molto facile prendere posizioni frettolose.
Lo stato d'Israele fu uno stato che venne delimitato sotto il dominio inglese. In ambito geografico è per la maggior parte desertico con però una zona più fiorente e coltivabile situata al nord dove è anche collocata la maggior parte della popolazione totale. Nel 1881 il 90% della popolazione era di etnia araba. Il tempo in cui questo territorio era abitato in maggioranza da popolazione ebraica era ormai terminato da secoli per merito delle cosiddette 'diaspore', ovvero migrazioni lontano dalla terra d'origine per via di pressioni e persecuzioni (in questo caso addirittura risalenti all'impero romano). Alla fine del 1800 emerse in Europa il sionismo, ovvero un movimento politico e religioso nato con l'inasprisi dell'antisemitismo. Il suo fondatore, Theodor Herzl, puntava a costruire in Palestina uno stato che offrisse agli Ebrei dispersi nel mondo e da millenni perseguitati e ostracizzati una patria comune (Per la verità inizialmente il sionismo non riteneva necessario che il nuovo stato ebraico si creasse proprio lì. La scelta simbolica della Palestina si affermò in un secondo momento). Questo movimento, come è facilmente intuibile, aveva bisogno di fondi e sostegno politico. Sostegno che grazie al successore di Herzl, Chaim Weizmann,non tardò ad arrivare: egli riuscì, con una richiesta al governo inglese, ad ottenere supporto per la creazione e realizzazione di questo movimento. Per la Gran Bretagna, però, queste promesse sono da leggersi nel contesto della prima guerra mondiale: Siria e Palestina, sotto il dominio dell'impero ottomano erano appena a nord dell'Egitto, controllato dal Regno Unito e le due grandi potenze si trovarono ad essere nemiche nella grande guerra. Gli inglesi dunque, per indebolire gli avversari, non si preoccuparono di promettere anche ad altri quel territorio: a loro volta siglarono vaghe promesse agli arabi di aiuto e sostegno nella loro lotta per l'indipendenza dall'impero (turchi e arabi, sebbene entrambi di fede islamica, mal si sopportavano infatti).
A sua volta questo patto si dimostrò falso sin dal primo momento, dato che gli inglesi elaborarono un piano segreto con i francesi per spartirsi il medio oriente.
Dopo la caduta dell'impero ottomano alla fine della guerra, gli inglesi e i francesi si spartirono quei territori secondo copione, a discapito degli arabi. Sin da subito gli ebrei ottennero il permesso di insediarsi da parte delle autorità britanniche: le immigrazioni in quel periodo furono attestate ad una media di circa 8000 persone l'anno
Le condizioni del resto, erano assai vantaggiose; ad aspettare gli ebrei in quella terra c'era infatti un fondo nazionale e molti privilegi sullo sfruttamento delle risorse idriche, dimostratisi fondamentali quando in quegli anni a causa di grandi periodi di siccità gli arabi si trovarono a vendere moltissimi dei loro terreni incolti agli ebrei per sopravvivere. Questa concatenazione di fattori quali le ondate migratorie e l'impoverimento della popolazione araba diede vita a due ideologie estremiste ben distinte, la prima, quella degli ebrei, che consisteva nella volontà di sentirsi effettivamente riconosciuti a livello mondiale e in quanto stato anche tramite l'uso delle armi e la seconda, quella degli arabi, che sarebbe stata disposta ad usare le armi pur di evitare che lo stato che sentivano loro di diritto non diventasse uno stato fantoccio o, peggio ancora, totalmente ebraico. Entrambe le popolazioni non riconoscevano il diritto dell'altra e la soluzione più ovvia, ovvero la coesistenza pacifica, era in gran parte rigettata da entrambe. Gli inglesi, dopo una serie di sommosse armate, istituirono una commissione per appianare i conflitti. Dal lato ebraico venne avanzata una proposta di dividere il territorio in due stati, uno ebraico e uno palestinese-arabo. Proposta che però fu prontamente rifiutata dagli arabi sia per una questione di principio, sia per paura che con il passare del tempo il delinearsi di uno stato tutto loro avrebbe portato gli ebrei ad avere mire espansionistiche e ad annettere ad esso anche il resto della Palestina.
Alla fine la spartizione dello stato in due divenne realtà, agli ebrei sarebbe toccato meno di un quinto del territorio, coerentemente con le proporzioni delle due popolazioni. Ma i territori in mano agli ebrei erano perlopiù gli unici fertili, cosa che certo non poteva essere accolta con favore dagli arabi.
Gli inglesi raccomandarono un graduale scambio di persone da entrambi gli stati in modo che ognuno potesse vivere in quello per cui si sentiva di appartenere. Chiaramente, però, la fame di terre da un lato e il rifiuto di abbandonare le proprie case dall'altro resero tale raccomandazione difficile da mettere in atto.
La rivolta degli arabi, durata fino al 1939, portò gli inglesi a stralciare la precedente divisione; limitarono le immigrazioni ebraiche ad una soglia massima e riproposero il progetto di una Palestina unita, con garanzia rappresentazione di ambo le parti sotto la propria giurisdizione. La scelta di limitare l'immigrazione però arrivò proprio nel momento in cui la Germania nazista si stava sempre di più ingrandendo e inglobando sempre un maggior numero di ebrei che non avevano una nazione in cui fuggire. Dopo la seconda guerra mondiale, gli ebrei in cerca di una nuova casa dopo le persecuzioni subite erano un numero vastissimo e il senso di colpa delle potenze vincitrici di non aver impedito la Shoah, altrettanto grande.
Con la nascita dell'ONU venne cercata e approvata una soluzione per questi territori, ovvero dare il 44% agli ebrei e il 55% percento agli arabi, il restante 1% ovvero Gerusalemme dichiarata zona internazionale. La cosa non piacque agli arabi dato che la popolazione degli ebrei era molto minore al territorio che era stato loro affidato. Ma trovare la forza di negare agli ebrei il diritto di insediarsi in Palestina era psicologicamente molto complesso, all'indomani delle immani stragi della seconda guerra mondiale.
Il periodo successivo venne chiamato dagli arabi "Nakba" che vuol dire catastrofe: molti vennero costretti a emigrare per povertà, mentre gli ebrei si affrettavano a costruire uno stato che fosse il più possibile a loro economicamente favorevole.
Negli anni successivi accaddero ancora moltissimi avvenimenti: vi furono ben tre guerre (più un conflitto nel vicino Libano) tra Israele e gli stati arabi confinanti, rivolte palestinesi in territori che poi saranno tristemente famosi quali la striscia di Gaza e la Cisgiordania, governati da gruppi autonomi con attualmente ancora moltissime rivolte armate che hanno portato a condizioni pietose e numerosissimi estremismi. La storia dello stato di Israele sarebbe ancora lunga ma noi ci fermiamo qui.
Lo scopo di questo articolo è stato di spiegare le radici storiche e meno conosciute per il quale è nato questo conflitto, che si ripercuote ancora adesso e per ricordare che la realtà è molto più complessa di quel che sembra e soprattutto che ancora una volta è stato anche a causa dei conflitti tra le grandi potenze che la Palestina e chi vi abitava o voleva abitarvi si è ritrovata attualmente in tali condizioni.
Simone Banfi e Aya Mourid
A diciotto anni pensi di poter spaccare il mondo, sei legalmente libero di prendere le redini della tua vita e manovrarle a tuo piacimento. Ma a diciotto anni, in un paese con tradizioni e costumi diversi dal tuo paese di origine, potrebbe essere difficile estraniarsi da una omologazione che, però, rispecchia i tuoi desideri. E' così sbagliato, anche solo per un attimo, essere come coloro che ti circondano?
Saman Abbas è una ragazza nata in Pakistan, trasferitasi in Italia prende la licenza media, ma non prosegue gli studi a causa dell’avversione dei genitori poco colti sia dal punto di vista educativo che da quello culturale-islamico, in quanto è importante ribadire che nell'islam è affermata obbligatorietà d’istruzione.
Si orientano verso l’organizzazione di un matrimonio programmato, nonostante la ragazza stesse frequentando un ragazzo, anch'egli di origine pakistana, conosciuto sui social. Il padre non accetta il fidanzamento, imponendo violenze fisiche alla ragazzina dopo che questa si era rifiutata di interrompere il rapporto.
Saman è stata in grado di scappare in una comunità protetta, ma dove si è rifugiata non sono stati in grado di fornirle l’aiuto che necessitava per una completa emancipazione. La ragazza non era in possesso dei suoi documenti, rimasti nell’abitazione dei genitori, ma, se avesse saputo che essendo maggiorenne avrebbe potuto tranquillamente rifarli senza renderne conto a nessuno, forse, sarebbe potuta scappare. Invece, con il solo aiuto del fidanzato, anche lui straniero e senza conoscenze di tipo giuridico, è stata costretta a rientrare in casa, dopo un messaggio ingannevole inviatole dalla madre, dove, a causa del suo comportamento 'disdicevole', è stata uccisa. Saman si era infatti rifiutata di tornare in patria per sposare un uomo che la sua famiglia aveva scelto per lei, disonorando, così, il suo nome. L’inchiesta non è ancora chiusa e, grazie alla testimonianza, inizialmente riluttante, del fratello, sarà possibile estradare lo zio, quasi certamente artefice dell’omicidio.
La speranza è che dal tragico epilogo di questa storia, che ha scosso le cronache, si possa trarre qualcosa: il suo non è un caso isolato, è la quotidianità silenziosa di tante ragazze, pertanto una completa assistenza dovrebbe essere immediata.
È stato facile per una gran parte dei media e dei commentatori, sui social e non, additare questo efferato omicidio a dei fattori religiosi e culturali. Quando persone 'diverse' dalla cultura dominante compiono un delitto, sembra una prassi consolidata darne colpa appunto alla loro 'diversità' sia essa culturale o religiosa. Ma, fermiamoci per un istante a domandarci se, effetivamente, quello della famiglia Abbas fosse effettivamente Islam o, meglio ancora, se quella della famiglia Abbas fosse effettivamente cultura pakistana. Bene, per quanto possa essere deludente per molti leoni da tastiera, la risposta, in entrambi casi è un netto no. E' necessario sottolineare che le motivazioni di questo reato non sono collegati né a principi islamici, né alla cultura pakistana, dove i femminicidi, più in generale gli omicidi, non sono una consuetudine né più né meno che nella cultura europea. La ragione di questo crimine è strettamente legata ai valori della sola famiglia Abbas, i quali non accettavano i diversi ideali della figlia.
Francesca Curti e Koolsum Haider
Ci sono paesi di cui si parla costantemente, ogni cambiamento, piccolo o grande che sia, diventa un affare internazionale. Ma perché su alcuni paesi, invece, nonostante avvenimenti gravissimi si sorvola, passano inosservati, come se i loro abitanti fossero “i dimenticati”. Il caso Navalny ha fatto un gran rumore, mentre di Bobi Wine, non ne ha parlato nessuno. L’Uganda è un paese dell’Africa Orientale e, come in tanti altri stati, nel 2021 ci sono state le elezioni, Yoweri Museveni è stato eletto per la sesta volta. Prima del voto nel paese si è verificato un blackout generale di Internet, il tempo necessario per assediare la casa dell’oppositore politico Bobi Wine che del 91% delle schede scrutinate aveva raccolto il favore del 34,5%. La stampa era ferma, nessuno ha rilasciato dichiarazioni. Nonostante fosse già stato arrestato nel novembre precedente, il rapper non si è lasciato intimorire, non ha mai smesso di denunciare la dittatura. Per essere al centro dell’attenzione ci sarebbe “dovuto scappare il morto”? No, ci sono state diverse vittime, ma non essendo l’Uganda uno stato rilevante, il loro dramma viene semplicemente omesso. Può essere ridotto tutto ad una questione di soldi? Possibile, probabile forse, se i massacri non bastano per far cambiare le cose dovremmo chiederci se non c’è qualcosa di più radicato e intrinseco alle nostre vite, ad un mondo che, forse, deve girare così. Ignoriamo una realtà ancora più complicata di quanto già non appaia perché la semplificazione di “buono e cattivo” ci viene propinata sin dall’infanzia, e in fondo, ci basta così; ma senza un’analisi completa dei candidati, della situazione politico-economica generale non saremo mai abbastanza oggettivi ed esperti per comprendere delle dinamiche così complesse.
Francesca Curti
Il tema del razzismo sugli asiatici è nuovo per gli americani; di solito I “non bianchi” o si integrano, assimilando lingua e comportamenti occidentali, o si isolano.
Gli asiatici non fanno eccezione a questo schema, motivo per il quale molti genitori orientali che vivono negli USA evitano di insegnare la loro lingua madre ai figli, per evitare problemi di integrazione a scuola; altri invece non mangiano cibo orientale al di fuori della loro casa per timore dei commenti della gente.
Infine, la rinuncia peggiore di tutte, il dover cambiare il proprio nome per renderlo comprensibile o pronunciabile.
A differenza dei neri, che sono arrivati in America come schiavi incatenati, gli asiatici si erano spostati dalle loro terre per le guerre, le tirannie e per avere migliori possibilità di vita (se non per loro, almeno per I loro figli); quindi, a detta degli intellettuali bianchi degli anni Sessanta, gli asiatici erano un popolo molto ridotto nei numeri, ma che lavorava sodo e non si lamentava mai.
Essi usarono, fin da quando arrivarono in America, la 'tecnica del silenzio', per evitare situazioni di imbarazzo con il proprio accento. Ma il silenzio si accumula negli anni, si amplifica, facendoli diventare fraintesi e mal interpretati; coloro che erano considerati gli “immigrati modello” in realtà tuttora nascondono tanto dolore.
La storia degli asiatici negli Stati Uniti è piena di ingiustizie, violenze e – appunto - silenzio.
Un esempio di tutto questo possono essere I cinesi che arrivarono in California a fine ottocento. Essi venivano mandati nelle miniere, ormai vuote e piene di polvere, da cui tutto l'oro era ormai stato estratto ed era finito in mano agli americani, per lavorare con paghe irrisorie, in una condizione molto vicina alla schiavitù; o ancora, quando durante gli Los Angeles Riots del ‘92, la maggior parte dei negozi saccheggiati e incendiati furono di proprietari coreani.
Tornando indietro nel tempo, uno degli episodi più vergognosi nella storia degli asiatici negli USA avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale; dopo l'attacco di Pearl Harbour, per ordine di Roosevelt, vennero rinchiusi in campi di internamento più di 110.000 giapponesi residenti in America. Erano considerati 'il nemico' e per questo deportati in luoghi isolati (ad esempio il deserto dell’Idaho) lasciando abitazioni, aziende, fattorie e tutto ciò che possedevano.
Il problema è però più che mai attuale: il Coronavirus ha alimentato l'odio contro i popoli asiatici, che vengono da molti considerati “coloro che ci hanno portato il virus”.
Persone educate, sane e che rispettano le regole si sono sentite chiamare sporche, colpevoli, o gli è stato urlato contro per qualcosa che non hanno fatto e che di sicuro nessuno voleva.
Purtroppo c’è chi, con quest’odio, si è spinto oltre alle semplici parole. Il 28 Gennaio 2021, In piena paranoia da Covid, un anziano asiatico è stato ucciso 'per una spinta'.
È assurdo che il signor Vicha Ratanapakdee – questo il nome del defunto –, ottantaquattrenne thailandese, abbia dovuto pagare con la vita l’intenzione di far visita alla sua famiglia, residente a San Francisco.
Per fortuna l’attacco venne registrato dalle telecamere di sorveglianza di un vicino, il che aiutò molto l’individuazione dei colpevoli di questo atroce atto.
Due giorni dopo venne arrestato Antoine Watson, un ragazzo bianco di 19 anni che viveva a Daly City, con l’accusa di omicidio e abuso di anziano; in tribunale l’imputato si dichiarò non colpevole, ma il suo avvocato ammise che in quel momento il suo cliente avesse avuto uno “scoppio di rabbia”.
Successivamente Chesa Boudin, il procuratore distrettuale di San Francisco, disse che la morte del signor Vicha è stata atroce, ma che non c’erano prove che dimostrassero fosse stato un omicidio a sfondo razziale.
La sua uccisione, per quanto sia stata orribile, ha tuttavia dato il coraggio a tutte le vittime di queste violenze a parlarne, portando alla luce questo problema, fin troppo a lungo ignorato.
Giorgia Serra
Fonti:https://www.marieclaire.com/it/attualita/news-appuntamenti/a35882476/per-capire-il-razzismo-asiatico-in-america/ https://www.nytimes.com/2021/02/27/us/asian-american-hate-crimes.htmlNell’ultimo periodo la chiaccheratissima legge Zan ha fatto il giro dei social.
Molti dei commenti alla legge, che potremmo definire “fake news” non criticano il contenuto effettivo del disegno presentato, ma piuttosto utilizzano alcune fallacie logiche per delegittimarlo a livello politico.
Potreste pensare che nel disegno si parli di “utero in affitto” (o più correttamente “maternità surrogata”), l'adozione gay e il “gender” nelle scuole? (tratto dalla pagina di Pillon, uno dei più fermi oppositori al disegno).
Non soffermiamoci ora sulle false argomentazioni (dovremmo approfondire il concetto di famiglia, le questioni sull’adozione e l’inesistenza di una teoria del “gender” che si materializza solo in bocca a chi vi si oppone): no, vedremo il contenuto di questa legge per permettere a tutti i nostri lettori di poterla criticare (se non volessero sostenerla) nel merito.
Per descrivere il disegno di legge proposto da Alessandro Zan dobbiamo fare qualche passo indietro parlando della legge Mancino, datata 1993, che condanna qualsiasi azione che ha il fine di incitare all’odio, alla violenza o alla discriminazione per motivi etnici, razziali o religiosi agendo, di fatto ratificando ed eseguendo la convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, pubblicata in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.337 del 23-12-1975 - Suppl. Ordinario.
Legge Mancino Art. 604-bis.
(Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa)
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:
a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.
Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
Come il decreto Zan, la legge Mancino agiva sulla scorta di un “straordinaria necessità ed urgenza di apportare integrazioni e modifiche alla normativa vigente in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, allo scopo di apprestare più efficaci strumenti di prevenzione e repressione dei fenomeni di intolleranza e di violenza di matrice xenofoba o antisemita”. Anche oggi infatti assistiamo a un acuirsi dei crimini d’odio verso la comunità LGTBQ+, come riporta Will Media. Inoltre l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), assicura lo svolgimento di una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale (art. 10).
Bisogna sottolineare che anche gli attivisti delle comunità LGBT ecc e disabile, reclamano a gran voce attenzione in merito alle difficoltà e aggressioni quotidiane, siano l’omolesbobitransfobia che l’abilismo. Infatti all’interno della proposta di legge presentata il 2 maggio 2018 troviamo in modo evidente la necessità di tutelare la comunità LGBTI e attuare un intervento che sanzioni le condotte dettate da intento persecutorio nei confronti delle persone omosessuali o transessuali. In questo modo può essere garantita un’adeguata protezione anche ai soggetti più vulnerabili in un paese che, legislativamente parlando, non è riuscito ad aggiornarsi davanti alla richiesta della Corte di Strasburgo di promulgare normative che possano includere anche minoranze omosessuali, transessuali e via discorrendo senza lasciare nel dimenticatoio nessuno.
Vediamo in concreto quali sono le modifiche previste agli articoli 604-ter e 604-bis del codice penale, vale a dire l’aggiunta come aggravanti ai crimini d’odio l’orientamento sessuale, l’identità di genere e la disabilità nel seguente modo.
Art. 2.
(Modifiche all’articolo 604-bis del codice penale)
1. All’articolo 604-bis del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, lettera a), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
b) al primo comma, lettera b), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
c) al secondo comma, primo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
d) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».
Ci sembra opportuno riportare e provare a scardinare la principale opposizione alla proposta, cioè il riferimento all’articolo 21 della Costituzione, che afferma quanto segue: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”
I detrattori, quindi, paragonano, le modifiche che abbiamo sopra spiegato a una limitazione del pensiero personale. Tuttavia, l’incostituzionalità, analogamente a quanto avvenne per la legge Mancino, è infondata perché non esiste realmente una minaccia alla libertà personale, infatti già con la legge Mancino, la Corte Costituzionale aveva ritenuto che una simile interpretazione non è conforme all'intenzione del legislatore, che non vuole tanto vietare o punire le manifestazioni del pensiero quanto le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista. Infatti l'eliminazione dei disabili ritenute inferiori alla razza e degli omosessuali era un uno degli obiettivi programmatici del partito punto per diversi decenni l'opinione pubblica non ha però saputo riconoscere una pari dignità a questi gruppi emarginati. Non limita la libertà di pensiero, ma quella di aggressione e odio.
Tanto che l’articolo 4, cosiddetto “salva idee”, dice:
Art. 4.
(Pluralismo delle idee e libertà delle scelte)
1. Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.
Infine, all’interno del decreto, si stabilisce anche la giornata contro l’omolesbotransfobia (art. 7) e un piano di sensibilizzazione a livello nazionale (art. 8).
Speriamo di aver contribuito al dibattito chiarendo il contenuto effettivo della proposta di legge, ora: a voi il dibattito!
Rebecca Urso
FontiLa battaglia tra Donald Trump e Joe Biden è stata lunga e sfiancante, e ha finalmente visto la sua fine con l’elezione di Biden a 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Le tensioni causate dalla rivalità tra i due, tuttavia, hanno origine ben prima dell’elezione del nuovo presidente e si sono prolungate ben oltre.
Il vero e proprio dibattito tra i due ha inizio nell’ottobre 2020, durante i duelli che hanno visto i due avversari come protagonisti. Le discussioni sono state numerose e hanno trattato dei più disparati argomenti, su cui i due rivali politici si sono spesso schierati in posizioni del tutto opposte.
Uno dei temi che è stato dibattuto per primo è stato, chiaramente, il Covid-19. Trump ha apertamente ammesso di aver minimizzato la pericolosità del virus, eppure ha continuato a mostrarsi contrario all’uso obbligatorio delle mascherine, lasciando la decisione ai singoli Stati – così come per quanto riguarda i test diagnostici. Si è inoltre dichiarato in disaccordo con la riforma sanitaria firmata da Barack Obama, chiedendo alla Corte Suprema la sua cessazione, senza però presentare un piano alternativo. Biden, invece, ha affermato che, in caso di vincita, avrebbe imposto l’uso delle mascherine a livello nazionale, con l’intenzione di rendere i test diagnostici una priorità e aumentare il numero di tamponi. Al contrario del suo avversario, si pronuncia favorevole all’Obamacare.
Per quanto riguarda l’economia, i due si sono trovati più d’accordo: entrambi hanno affermato di voler alzare la paga minima a quindici dollari l’ora e di avere l’intenzione di firmare una legge per impedire gli sfratti degli affittuari insolventi durante il periodo della pandemia.
Anche sui trattati internazionali hanno condiviso la stessa idea: entrambi si sono detti favorevoli al trattato tra USA, Messico e Canada sul commercio all’interno del Nord America.
Molto diversi sono invece i programmi sulla tassazione: se, da una parte, Trump ha approvato una riforma con consistenti tagli fiscali alle classi più agiate e all’industria, dall’altra Biden ha dichiarato di voler modificare radicalmente la riforma di Trump, in modo tale che siano le aziende stesse a contribuire maggiormente alle spese per limitare l’impatto della crisi climatica, all’educazione e alla sanità pubblica. Biden si è infatti dimostrato coinvolto nella questione ambientale, proponendo un piano da due miliardi di dollari per ridurre le emissioni di CO2, oltre ad affermarsi contrario all’estrazione di petrolio e al fracking, metodo di estrazione del gas che non rispetta il sottosuolo.
Nell’ambito della giustizia, i due opponenti si sono ritrovati a concordare su un punto soltanto, e cioè sul non togliere i fondi alla polizia; i pareri divergono invece sulla pena di morte, sulla privatizzazione delle carceri e sulla libertà su cauzione, con Trump favorevole e Biden contrario.
Contrastanti sono anche in parte le opinioni sulla politica estera: sul conflitto yemenita, Trump ha mostrato l’intenzione di continuare a sostenere l’Arabia Saudita, idea non condivisa da Biden, che invece vorrebbe tornare ad alleggerire le relazioni tra USA e Cuba inasprite da Trump. Entrambi concordano, infine, sulle politiche riguardanti l’Afghanistan, da cui rientreranno tutte le truppe, e sugli accordi tra Israele ed Emirati Arabi, a cui sono favorevoli.
Nel corso del loro duello, in particolar modo in quello finale, non sono ovviamente mancati commenti e provocazioni tra i due avversari, che si sono accusati reciprocamente di incompetenza, razzismo, corruzione, tenuti a bada solamente dall’intervento della moderatrice Kristen Walker.
Lo stesso spirito di rivalità cominciato con i dibattiti si è enormemente diffuso anche tra i sostenitori dei due candidati, fra cui sembra essersi combattuta una vera e propria guerra (specialmente sullo sfondo dei social network). A partire da innocue provocazioni fino ad arrivare ad attacchi, insulti o addirittura minacce, la battaglia non ha fatto altro che aumentare la sua intensità con l’avvicinarsi delle elezioni, accompagnandosi a una tensione sempre più crescente. Con l’arrivo dei risultati, che hanno visto Biden vincitore, la situazione pareva aver trovato un suo equilibrio, nonostante per i sostenitori di Trump (e per Trump stesso) la perdita non sia stata semplice da affrontare. Dopo settimane di polemiche sollevatesi dall’accusa di un ipotetico e fittizio trucco dei voti, i “Trump supporters” sembravano tuttavia aver accettato, seppur con estrema riluttanza, la sconfitta dell’ormai ex-presidente.
Tutto è però precipitato il 6 gennaio quando i sostenitori di Trump, mentre il Congresso era impegnato nel processo per la ratifica della vittoria di Biden, hanno invaso il Campidoglio, armati e determinati a impedire l’ufficializzazione della vittoria del presidente eletto. Immediato è stato l’intervento della polizia; a Camera è stata evacuata e il Congresso sospeso, ma ciò non ha impedito di causare diversi feriti e, addirittura, la morte di una donna. Un assalto senza precedenti è stato quello organizzato dai sostenitori di Trump, inizialmente incoraggiati e poi, invano, spronati a fermarsi dallo stesso ex-presidente. È di un vero e proprio colpo di stato di cui li accusano i democratici, oltre che di un gravissimo attacco alla democrazia. Considerato responsabile e istigatore di questo assedio, (nonostante l’opposizione di Biden), la procedura del secondo tentativo di impeachment per Donald Trump è stata avviata il 13 gennaio. Un mese più tardi, dopo che la procedura è stata passata al Senato, l’ex-presidente è stato assolto con 57 voti a favore e 43 contrari, non arrivando al numero necessario di 67 e non escludendo, dunque, la possibilità per Trump di ricandidarsi alle elezioni del 2024.
Una volta che Biden, a gennaio, è entrato nella Casa Bianca – senza che il suo predecessore non mancasse di mostrare il suo malcontento invece che accoglierlo, come vuole la tradizione – ha da subito iniziato ad attuare le prime riforme del suo governo. Affermando che “non c’è tempo da perdere”, il neo-presidente si è immediatamente mosso a firmare degli atti esecutivi volti a modificare il corso della crisi legata al Covid-19, rendendo ad esempio obbligatorio l’utilizzo delle mascherine. Sempre mantenendo le promesse precedentemente fatte, ha firmato per rientrare nell’accordo sul clima di Parigi e ha inoltre emesso un ordine per contrastare il cambiamento climatico. Tra le ordinanze riguardanti l’immigrazione, Biden ha revocato la dichiarazione di emergenza di Trump servita a finanziare la costruzione del muro al confine con il Messico, e ha inoltre messo fine al muslim ban, il divieto di ingresso ai viaggiatori provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana. Altre azioni non meno notevoli comprendono l’annullamento del divieto di servizio militare per i cittadini transgender e l’inversione di una politica che blocca i finanziamenti statunitensi per i programmi all’estero legati all’aborto. Questi sono soltanto gli atti del primo giorno, definiti da lui i punti di partenza che contengono la promessa di un futuro di progresso, tolleranza e uguaglianza per gli Stati Uniti d’America.
Elisa Fiandro
Fonti dal Web:www.repubblica.it www.ansa.it www.money.it www.internazionale.itOggi vi voglio parlare di una donna nata in Sudafrica, quando ancora era una colonia britannica, che si è distinta per la sua temerarietà e per la sua musica in un periodo in cui essere di colore era sinonimo di inferiorità. Il suo nome è Miriam Makeba e lei ha lottato con tutta se stessa per farsi conoscere nel mondo dove essere donna era difficile. Lei non si è mai piegata al mondo maschilista che cercava di spezzarla, un mondo che l'avrebbe costretta a lasciare la sua casa per trovare rifugio altrove. Non ha mai smesso di cantare e registrare le sue canzoni, anche quando non erano ben viste dall'apartheid. E non ha mai smesso di lottare anche quando il mondo le cadeva addosso. Questo sono gli esempi da seguire, da cui prendere ispirazione. E da festeggiare.
Miriam Makeba nacque il 4 marzo 1932 a Prospect, un quartiere segregato di Johannesburg.
Divenne una delle artiste sudafricani più importanti nel 20° secolo nota come “Mama Afrika”.
Crebbe a Sophiatown, un comune fuori dalla capitale Sudafricana che era una delle poche aree dove tutte le diverse etnie del paese potevano vivere insieme.
Già in tenera età il suo amore per la musica la fece entrare nel coro scolastico e, nel 1947, tenne il suo primo assolo nel coro della chiesa durante la visita dei reali inglesi.
Nel 1964 sposò il trombettista Hugh Masekela, ma due anni dopo divorziarono, pur mantenendo uno stretto rapporto professionale.
Successivamente, nel 1968 si sposò con l’attivista nero americano Stokely Carmichael. Ciò comportò il declino della sua carriera musicale; venne infatti messa sotto stretta osservazione da parte del governo statunitense, tanto da doversi stabilire in Guinea. Ottenne però così un enorme successo in Africa, che la spinse a continuare a registrare e fare tournée nel continente africano e in Europa e svolgere un notevole ruolo simbolico come militante panafricana, ovvero come rappresentante di tutti i popoli africani.
Nel 1988 pubblicò la sua biografia, in cui si racconta il periodo difficile passato negli anni ‘80 per via della tragica morte della figlia Bongi (avuta all’età di diciassette anni),il divorzio con Carmichael, l’abuso di alcol e un cancro cervicale.
Morì nel 2008, all'età di 76 anni, dopo aver avuto un attacco di cuore, dopo un'esibizione di 30 minuti in un concerto per Roberto Saviano vicino alla città di Caserta.
Iniziò la sua professione con i Manhattan Brothers e, in seguito, fondò il quartetto femminile The Skylarks.
Diventò una cantante professionista nel 1954, grazie alle esibizioni fatte principalmente nell’Africa meridionale e, verso la fine di quel decennio le sue canzoni la resero famosa in tutto il Sudafrica. Nel 1959 si recò al Festival del cinema di Venezia per la sua apparizione nel film documentario “Come Back, Africa”, che la fece conoscere in tutto il resto del mondo, attirando l’attenzione di Harry Belafonte e altri artisti americani.
Deve la sua fama a canzoni Xhosa e Zulu, due delle lingue native del Sudafrica, e canzoni che criticavano l’apartheid, una politica estremista, fatta dalla minoranza bianca, che discriminava e perseguitava la popolazione di colore dello stato del Sudafrica.
Agli inizi degli anni ‘60 si trasferì negli Stati Uniti, dove intraprese una carriera di successo come cantante; si esibì al Madison Square Garden per l’ex presidente John F. Kennedy nel 1962.
Nel 1965 vinse un Grammy Award con Belafonte per la migliore registrazione folk nel loro album “una serata con Belafonte/Makeba”.
“Pata Pata” e “Click Song” sono le sue canzoni più conosciute a livello internazionale facendola diventare la prima donna di colore ad avere una hit mondiale nella Top-Ten: entrambe esibivano caratteristici suoni di clic che fanno parte della sua lingua nativa, lo Xhosa.
Nell’arco della sua carriera, realizzò 30 album originali, oltre a 19 compilation e apparizioni nelle registrazioni di molti altri artisti.
Nel 1987 si unì al tour di grande successo ‘Graceland’ del cantante folk americano Paul Simon in un appena indipendente Zimbabwe. Il concerto presentava suoni multiculturali e un’attiva attenzione sulle questioni politiche razziali ancora esistenti in Sudafrica. Dopo Graceland era molto richiesta da diversi capi di stato e persino dal papa.
Nel 2005 Makeba annunciò il suo ritiro dalle scene, continuando a partecipare ad eventi più ridotti.
Durante tutta la sua carriera di musicista insistette sul fatto che la sua musica non era consapevolmente politica.
Non smise di essere presente nello scenario mondiale attraverso il suo lavoro umanitario e la sua Fondazione Zenzile Miriam Makeba e il suo Centro di riabilitazione Miriam Makeba per ragazze vittime di abusi. Sostiene anche campagne contro l’abuso di droghe e per la sensibilizzazione sull’HIV/AIDS.
Per via delle sue canzoni critiche sull’apartheid, nel 1960 le fu negato il rientro in Sudafrica, rifiutandole il rinnovo del passaporto e costringendola a vivere in esilio per i tre decenni seguenti.
Per questo motivo fu la prima musicista nera a lasciare il Sudafrica, seguita negli anni successivi da molti altri artisti.
Con il sostegno della Guinea, nel 1963 e nel 1971 tenne un discorso alle Nazioni Unite. Grazie alla notorietà assunta dopo questa circostanza, venne nominata “Donna del secolo” dalla Bedford Stuyvesant Community di New York e ricevette anche il titolo di Comandante dell’Ordine delle Arti e delle Lettere e della Legion d’Onore francese.
Nel 1990, l’attivista sudafricano Nelson Mandela incoraggiò Miriam a tornare in Sudafrica, dove si stabilì dopo trent’anni di esilio a lavorare con le sue fondazioni di beneficenza.
Francesca Stelitano
Fontihttps://www.britannica.com/biography/Miriam-Makeba https://en.unesco.org/womeninafrica/miriam-makeba/biography https://www.sahistory.org.za/people/miriam-makebaBobi Wine è il nome d’arte di Robert Kyagulanyi, cantante rapper ugandese nato e cresciuto a Kampala, nella capitale del Paese, candidatosi nelle elezioni presidenziali del 2021 per il ruolo di leader dell’Uganda, come forza politica di opposizione al presidente Yoweri Museveni. Quest’ultimo, infatti, al potere dal 1986, ha governato per 35 anni ininterrottamente ed è stato rieletto per il sesto mandato presidenziale. Considerato ora un dittatore, in origine egli è stata una figura di grande importanza: è riuscito infatti a riportare una certa stabilità tra le numerose guerre civili che stravolgevano l’Uganda negli anni ‘80. Tuttavia, secondo Bobi Wine e i suoi giovani sostenitori, è necessaria una nuova figura politica, in grado di rappresentare tutta la popolazione, che rispetti e tuteli i diritti umani, aspetto non sempre garantito con tale presidente.
Il rapper, così, al fine di vedere un Uganda più democratica ed unita, nel 2017, dopo aver ottenuto un seggio in Parlamento, inizia la sua carriera politica.
La sua vita politica è alquanto travagliata: infatti è stato spesso arrestato, la prima volta con l’accusa di aver guidato proteste antigovernative nelle città senza autorizzazione, le altre perché probabilmente era un elemento di intralcio per il potere dittatoriale. Nonostante le difficoltà incontrate, tra cui anche torture e pestaggi ad opera delle forze armate e l’uccisione del suo fedele autista, Bobi Wine decide di candidarsi nelle elezioni presidenziali del 2021 (come si è già detto, in veste di principale oppositore di Museveni), tenute il 14 gennaio. Dalle urne è risultato sconfitto, ricevendo complessivamente il 34% di voti contro il 58% ottenuto dal suo avversario. La campagna elettorale dell’anno precedente si è contraddistinta per le numerose violenze attuate dalle forze dell’ordine nei confronti dell’opposizione. Inoltre il dittatore, per assicurarsi ulteriori mandati, ha fatto modificare la Costituzione, abolendo una legge la quale stabiliva un’età massima del presidente che doveva essere non superiore ai 75 anni e lui, al momento delle elezioni, ne aveva 74.
Più di un terzo dell’intera popolazione ugandese è riuscita a vivere solamente sotto il governo di questo presidente (Wine per esempio, aveva appena quattro anni quando Museveni è salito al potere). Esistono visioni contrastanti della politica di quest’uomo: da alcuni viene ritenuto il “garante della pace”, mentre da altri un dittatore che ha monopolizzato l’economia dell’Uganda, soggiogando l’opposizione e qualsiasi tipo di espressione di identità diverse. Per questo motivo Bobi Wine da alcuni anni sta cercando di far sentire la sua voce, non solo a livello nazionale, ma mondiale. Egli si definisce “the ghetto President”, poiché ha conosciuto la vita dei quartieri più poveri delle città e la sua più grande ambizione è quella di tutelare ed aiutare tutte le persone provenienti dal ghetto.
Moltissimi giovani ugandesi sognano di vedersi rappresentati da un presidente con cui si identificano: «Especially through his music, you could clearly see that he understood the social issues that young people were facing, especially young people from the ghetto.» («Soprattutto attraverso la sua musica, si poteva vedere chiaramente che comprendeva le questioni sociali che i giovani stavano affrontando, soprattutto i giovani del ghetto».)
Alla violenza si risponde con la pace, alle armi con le parole. Questo è ciò che sostengono Gandhi, Nelson Mandela ed anche Kyagulanyi. Il leader dell’opposizione alle innumerevoli violenze perpetrate contro i suoi collaboratori ribatte con una politica non violenta. Come ha affermato in un’intervista, crede nell’“alzarsi in piedi” per rivendicare i propri diritti e far sentire la voce di ciascuno. Per rompere ulteriormente le leggi autocratiche, inoltre, utilizza per il suo partito come “simbolo della resistenza”dei berretti rossi, di cui è stato vietato l’uso ai civili perché considerati “proprietà dello stato” e per cui i trasgressori potrebbero essere puniti anche con l’ergastolo. Il basco rosso, indossato dai soldati, è considerato una parte dell’abbigliamento militare.
Il cantante si fa difensore dei diritti di gran parte della popolazione, lasciando però escluse le persone appartenenti al movimento LGBTQ+. Spesso infatti, nei testi delle sue canzoni, emerge evidente una posizione omofoba e discriminatoria nei confronti degli omosessuali, fino al punto da giungere a pronunciare parole molto forti nei loro confronti.
Dopo molteplici incontri con esponenti di tale comunità, è giunto alla conclusione di «non apprezzare le minoranze sessuali»; in ogni caso però, ritiene giusto “impegnarsi nel difendere i diritti di tutti i cittadini”.
Nonostante l’apparente tolleranza di Bobi Wine per il movimento LGBTQ+, è innegabile la difficoltà e la pericolosità di essere gay in Uganda.
“Quando sei gay in Uganda non sei considerato una persona”. Così afferma Raj Juuko a cui, insieme a Ssenyonga ed altre centinaia di persone, è stato impedito di vivere liberamente un sentimento così forte e magico come l’amore. Ssenyonga è stato costretto a due reclusioni in carcere in soli tre mesi perché accusato di aver rubato una TV; la sua unica vera “colpa” però era quella di essere gay.
L’ostilità verso le persone omosessuali non si è placata nel corso del tempo, ma si è progressivamente inasprita, fino a che il parlamento non ha proposto la pena di morte per chiunque fosse sospettato di essere gay, tale legge però è stata eliminata nel 2014.
Legati, picchiati, torturati, lapidati: queste non sono le condizioni in cui un essere umano deve vivere. Che sia eterosessuale, omosessuale, di carnagione bianca o scura, è un essere umano e necessita di rispetto.
Quello di Wine, insomma, è un inno alla democrazia: «Voglio che la voce della gente sorpassi quella delle pistole».
La libertà di parola deve essere concessa a chiunque e mi auguro che, se il leader dell’opposizione dovesse mai ottenere un potere riconosciuto legalmente, perseveri con quegli ideali di pace da cui era originariamente partito.
Alessandra Zagaria
Fonti: https://www.theguardian.com/global-development/2020/nov/23/nowhere-to-go-the-young-lgbt-ugandans-outed-during-lockdownhttps://www.bbc.com/news/world-africa-55550932https://www.africarivista.it/bobi-wine-mi-candido-alla-presidenza-ugandese/143999/https://www.nigrizia.it/notizia/uganda-berretti-rossi-al-bando-per-i-civili-smacco-alloppositore-bobi-winehttps://www.theguardian.com/world/2014/aug/13/uganda-bobi-wine-denied-uk-visa-homophobiIn quanto donna è forse più difficile ottenere la confidenza della gente e forse talvolta gioca un ruolo negativo una certa forma di gelosia; ma quando raggiungi un certo livello di professionalità non è più una questione di essere uomo o donna.
Margaret Bourke White è stata una fotografa statunitense. Fu la prima fotografa straniera ad aver avuto il permesso di scattare foto in URSS, sul campo di battaglia e la prima donna a scattare per il settimanale Life.
Nata nel Bronx nel 1904, studiò scienze naturali alla Columbia University e, al contempo, frequentò dei corsi di fotografia. Non contenta del suo corso di studi, cambiò università diverse volte, fino alla laurea avvenuta nel 1927. Nel 1925 si sposò con Everett Chapman, con il quale divorzia solo due anni dopo.
Nel 1928 iniziò la sua carriera, si trasferì in Ohio e aprì uno studio fotografico. In questo periodo la sua fotografia venne indirizzata verso gli edifici industriali. Margaret venne definita una delle migliori fotografe in questo campo (la fotografia industriale illustra le aziende ed i diversi processi produttivi svolti per realizzare dei prodotti) e fu, effettivamente, la prima ad avergli dato un rilievo artistico. L’ambizione la portò a cercare sempre nuove tecniche, scattando anche in ambienti pericolosi, tanto da salire sui cornicioni dei palazzi più alti e spingersi nelle zone più pericolose delle fabbriche (come, ad esempio, spingendosi molto vicino agli altiforni delle acciaierie, incurante delle alte temperature). La sua prima collaborazione avvenne nel 1929 con la rivista, basata sul business globale, Fortune. Nel 1930 si recò in URSS per realizzare un reportage sull’industria sovietica. Successivamente, nel 1935, entrò, chiamata dal caporedattore Henry Luce, nella redazione fotografica della rivista Life.
Dal mondo industriale la sua fotografia si spostò progressivamente verso le persone e la loro storia, in questo periodo, infatti, il suo obiettivo rimane puntato verso l’emergenza sociale presente negli Stati Uniti, . Nel 1937 pubblicò insieme allo scrittore Erskine Caldwell, il quale diventerà suo marito, un volume illustrato chiamato “You have seen their faces”, che mostrava le disastrose condizioni di vita nelle campagne distrutte dalla siccità e dalla carestia. In questi stessi anni fu mandata in Europa per documentare l’ascesa del nazismo e il pericolo di un’imminente guerra. Tornò a Mosca nel 1941, insieme a Caldwell, dove venne sorvegliata rigidamente dai servizi e per questo fotografò soprattutto la vita cittadina.
Nel 1941 Margaret assistette al primo bombardamento da parte dei tedeschi su Mosca, riuscendo ad immortalare tutto questo dal tetto dell’ambasciata americana, commentando che quella poteva essere “una delle notti eccezionali della sua vita”.
Una volta rientrata negli Stati Uniti Margaret impose la sua volontà di diventare reporter in prima linea sul fronte di guerra. Prima d’ora nessuna donna era stata mandata sul campo di guerra insieme all’esercito americano, ma la sua ostinazione e ambizione riuscirono a farle raggiungere il suo obiettivo. Margaret si unì alla troupe fotografica dell’esercito e venne mandata in prima linea.
Margaret diede il suo meglio nell’ambiente di guerra come fotografa. Le fu inoltre attribuito il soprannome “Maggie l’indistruttibile” per il coraggio che dimostrò quando, volando su un aereo da bombardamento, quest’ultimo venne attaccato e distrutto, oppure quando, in viaggio verso il Nord Africa, la sua nave venne colpita da un siluro e dovette passare una notte ed un giorno su una scialuppa di salvataggio. La sua fotocamera inquadra il Nord Africa, l’Italia e la sua lenta rinascita dopo lo sbarco in Normandia; più di ogni altra cosa immortalò i tragici avvenimenti nei campi di concentramento e l’arrivo degli americani nel campo di concentramento di Buchenwald. Margaret dichiarò che, davanti alle atrocità che catturò con il suo obiettivo, scattava senza guardare e che la fotocamera le serviva da barriera tra sé stessa e l’agghiacciante verità che le si presentava davanti. Le sue immagini ritraggono i volti increduli dei prigionieri, le baracche dei campi e i forni crematori.
Si ritrovò a viaggiare in Pakistan e in India nel 1947, dove la nascita dei due stati creò un nuovo centro di tensioni. Intervistò e fotografò Gandhi poche ore prima della sua uccisione, e, nonostante Margaret fosse abituata a condizioni di lavoro difficili, riuscire a fotografare Gandhi fu un’impresa piuttosto complicata, tanto che egli le fece una proposta: avrebbe lasciato che Margaret lo fotografasse solo dopo che la donna avesse imparato ad usare l’arcolaio. La sua richiesta fu accontenta e, con difficoltà, Margaret imparò ad usarlo. La fotografia scattata dalla donna è ancora adesso la foto più rappresentativa che abbiamo di Gandhi, in cui egli siede in secondo piano mentre in primo piano si trova proprio l’arcolaio, la rappresentazione materiale dei suoi ideali e della sua lotta (simbolo dell’importanza dell’artigianato in una società che si sta evolvendo). Pochi anni dopo, nel 1950, andò in Sud Africa dove documentò l’apartheid e, scendendo due miglia sotto terra, immortalò i lavoratori nelle miniere d’oro. Ancora una volta riprese l’ambiente di guerra, questa volta in Corea, subito dopo l’armistizio.
Nel 1953 le venne diagnosticato il Parkinson; nel 1959, quando non fu più in grado di lavorare, si sottopose ad un intervento al cervello. L’attività della fotografa si ridusse drasticamente e si dedicò alla scrittura. Nel 1963 pubblicò la sua autobiografia Portrait of myself. Trascorse gli ultimi anni della sua vita ritirata nella sua casa in Connecticut e morì sola il 27 agosto del 1971.
Tra le figure più rappresentative del fotogiornalismo, Margaret Bourke White è uno degli esempi più importanti per quanto riguarda l’emancipazione femminile, soprattutto in un periodo storico in cui le donne avevano difficoltà ad affermarsi in qualsiasi settore lavorativo. Riuscì a dimostrare come anche una donna, grazie alla propria passione, ambizione e tenacia, può raggiungere i suoi obiettivi e ispirare altre donne a fare lo stesso. Margaret era una donna determinata, voleva essere la migliore in tutto quello che faceva e ci riuscì. Il suo unico intento era quello di trovare sempre qualcosa di nuovo da fotografare e di farsi ispirare dal mondo circostante, ma allo stesso tempo, di poter documentare ciò che ancora non era stato mostrato con chiarezza o era stato nascosto. Non solo un simbolo dei suoi tempi, ma anche ai giorni d’oggi dovremmo lasciarci ispirare dalla sua storia e dalla sua ambizione.
Agnese Lovati
Fonti: wikipedia, enciclopediadelledonne, ilpostIl 14 gennaio del 2021 il Premier irlandese Michael Martin, in Parlamento ha manifestato pubblicamente le sue scuse ai superstiti e alle vittime delle Mother and Baby Homes. (Repubblica, 12/01/2021)
le scuse riguardano i misfatti accaduti nel 1922, ben settant’anni fa, quando nella nascente e fragile Repubblica Irlandese, mancavano fondi e c’era un profondo stato di povertà, per evitare la crisi si appoggia all’istituzione più solida e forte dell’epoca, la Chiesa. In quell’anno Stato e Chiesa diedero inizio ad un progetto che prevedeva non solo di raccogliere fondi, ma di purificare ed evangelizzare una società di per sé ottusa, primo passo segregare i bastardi e le loro madri peccatrici.
Così nacquero su tutto il territorio le Mother and Baby House, dei centri di segregazione ed espiazione per giovani donne nubili che avevano avuto un figlio illegittimo. In questi centri, gestiti da suore o preti, le donne e i loro figli erano spesso maltrattati, e la violenza era giustificata dal credo, era considerata il giusto mezzo per cancellare il peccato commesso. Le donne e le ragazze che giungevano lì spesso erano accompagnate dalle stesse famiglie d’origine; erano per lo più donne vittime di violenza, incesti, amore non protetto, ma tutte considerate non “degne”, in quanto non maritate e quindi solo motivo di derisione per le famiglie e per l’intera società.
Il primo passo che compivano una volta oltrepassato il cancello era spogliarsi di tutti gli averi incluso il proprio nome, prendendone uno, detto “della casa”. A quel punto diventavano vittime di abusi psico-fisici, maltrattamenti e malnutrizione, come forma di punizione. La sorte delle madri single dopo la “purificazione” era quella di essere reinserita all’interno della società. Una domanda legittima è «Non potevano scappare?»
La risposta è no, non tanto perché non ci fosse la volontà, o le ragazze fossero rassegnate, ma perché il destino che le attendeva al di fuori di quella prigione era peggiore. Infatti la società appoggiava queste Case, e nessuno si sarebbe opposto alla loro opera; la ragazza fuggita non avrebbe trovato appoggio dalla famiglia e nemmeno un lavoro, o qualcuno disposto ad affittarle un appartamento, sarebbe stata denigrata e segnalata alla Casa.
Un trattamento migliore non era certo riservato ai “figli del peccato”, che molto spesso non superavano l’anno di vita, per il freddo, malnutrizione, malattie non curate adeguatamente come gastroenterite o infezioni respiratorie. I dati rivelano che il tasso di mortalità, in quegli anni già molto elevato all’interno della società, nelle “case per ragazze madri” era circa il quadruplo.
Quando queste case furono chiuse, si stima che in diciotto istituti, morirono due bambini alla settimana, su 57.000 bambini il 15% morì tra il 1922 e il 1998, quando queste case furono chiuse, con un totale che ammonta a 9.000 tra bambini e neonati, molti dei quali sotto gli otto anni. La cosa più sconcertante era che le autorità erano a conoscenza dell’alto tasso di mortalità, e che quindi non era chiara l’omertà sia a livello sociale che istituzionale.
Una volta nati, i piccoli erano separati dalle madri, che non potevano neppure allattarli, venivano mantenuti dall’orfanotrofio fino a circa otto-nove anni, l’età massima per l’adozione, alla quale la madre era costretta ad acconsentire. Le adozioni avvenivano sotto pagamento, la maggior parte delle famiglie adottive erano irlandesi statunitensi: era così che le Mother and Baby House mantenevano le loro casse piene.
Poiché nati bastardi e illegittimi ai sopravvissuti e non adottato era riservato il medesimo trattamento delle madri e, a dimostranza della complicità statale, ai maschi non sarebbe stato consentito di entrare nelle forze armate, poiché indegni.
Ma non basta. Molti bambini vennero usati come cavie per sperimentare i vaccini, poiché “non sarebbe stata una perdita”, e inoltre spesso erano dati in adozione o peggio ancora sepolti, all’insaputa delle madri, che vivevano con la speranza di poterli ritrovare un giorno.
Solo nel 2014 tali nefandezze iniziarono a venire a galla grazie alle ricerche di Catherine Corless a Tuam, nella contea di Galway trovò 800 certificati di morte ma solo uno di sepoltura. Così fu aperta un’inchiesta, portata avanti dalla Mother and Baby home Commission of Investigation, che nel 2017 ha trovato nel giardino dell’ormai 'ex "Bon Secours Mother and Baby Home" gestito dalle suore cattoliche, in una struttura fognaria sotterranea, una fossa comune contenente corpicini di ottocento bambini, senza un nome e un’identità.
Dopo questa scoperta, sono nate diverse associazioni che hanno cercato le superstiti e i bambini, ora adulti, come la Irish First Mother, che si batte per la giustizia e la tutela di queste persone. Persino l’industria cinematografica ha deciso di dare voce ad una realtà che è stata taciuta fin troppo, attraverso il film Philomena, la storia di Philomena Lee.
La donna, ora settantottenne, racconta la sua storia, tragica e senza un lieto fine; lei è la testimonianza vivente della tragedia di molti ragazzi e ragazze che le hanno chiesto aiuto per cercare le proprie madri biologiche.
«“Forse mia madre era con te”. Ma io non sono in grado di aiutarli perché nessuna di noi conosceva la vera identità delle altre. Quando eravamo in quel collegio, tra le altre cose ci imponevano di rinunciare al nostro nome e di usarne uno inventato. Per tre anni io sono stata Marcella. Provavamo una tale vergogna, che ci tenevamo tutto per noi, compreso il nostro vero nome. Ero molto amica in particolare di una ragazza, ma non l’ho mai potuta ritrovare perché nemmeno di lei ho mai saputo come si chiamasse davvero».
Sono state raccolte testimonianze dei figli, che una volta raggiunta la maggior età, hanno saputo la verità da parte della famiglia adottiva. Fionn Davenport, figlio della diciannovenne Jane, ha rilasciato in un‘ intervista:
«Subito dopo la mia nascita, la mamma ha cambiato idea e ha detto di voler tenere il bambino, ma le suore hanno detto di no, non ti è permesso, hai firmato i documenti, hai firmato i moduli, quindi hai rinunciato a tutti i tuoi diritti su questo bambino.
Ci sono voluti 40 anni, a me e a mamma, per scoprire che questa era una terribile bugia, che le hanno mentito. In base alla legge sulle adozioni del 1952, la madre naturale ha sei mesi di tempo per cambiare idea sul futuro del bambino. E le suore naturalmente lo sapevano»
Anche Mary ha affermato:
«Mia mamma aveva fatto a maglia i miei vestitini e dopo che mi avevano consegnato alla mia madre adottiva, le suore hanno riportato i vestiti che mia mamma aveva fatto per me, glieli hanno gettati in faccia e hanno detto: a Mary non serviranno più, ora ha dei vestiti veri! E questo ha spezzato il cuore di mia mamma».
Dopo ben 5 anni di indagini, la commissione ha consegnato nelle mani dello Stato irlandese, un fascicolo contenente i risultati di indagini, testimonianze e scoperte, che entro il 30 ottobre avrebbe dovuto essere reso pubblica, così che chiunque potesse attingerne, ma così non è stato.
L’ex vice primo ministro Joan Burton, nata nel 1949 in una di queste Case, ha dichiarato all’ Irish Indipendent: «questo rapporto rivelerà, in particolare a una nuova generazione di giovani, ciò che l’Irlanda ha fatto una volta alle donne che hanno avuto l’audacia di amare al di fuori del matrimonio e di avere figli a cui è stato necessario ‘rinunciare’».
Nel frattempo il Parlamento irlandese ha compiuto una manovra antitetica, infatti è stata approvata la legge che sigilla per ben trent’anni i dati raccolti per quanto riguarda le adozioni forzate, i maltrattamenti e tutta la documentazione raccolta, questo perché, a detta del ministro dell’infanzia O’ Gorman: «tutelare i dati personali.»
Paul Radmon, presidente della Coalizione dei sopravvissuti, ha detto: «‘negare finché non muoiono’, lo Stato è terrificato dal costo delle riparazioni. Intanto i sopravvissuti continuano a morire senza avere né giustizia, né delle scuse ufficiali o alcun tipo di risarcimento. Non hanno mai voluto collaborare con noi.»
Così hanno deciso di fare appello ad organizzazioni sovranazionali per avere la giustizia negata, facendo ricorso alle Nazioni Unite e alla Commissione internazionale dei giuristi.
Anche altre organizzazioni, come la Coalition of Mother and Baby Home Survivors si è lamentata, dicendo le seguenti parole: «il rapporto incompleto in quanto ignora la questione più ampia, quella della separazione forzata delle madri single e dei loro bambini sin dalla fondazione dello Stato.»
Nel frattempo l’arcivescovo di Dublino, rappresentante della Chiesa cattolica, Dermon Farell ha detto: «Non possiamo più fuggire da verità estremamente dolorose su come, collettivamente e individualmente, non siamo riusciti a prenderci cura delle donne vulnerabili e dei loro figli. Sia la Chiesa che lo Stato hanno ora il dovere di porgere profonde scuse a tutte le donne e ai bambini che sono passati per queste case, alle loro famiglie e alla gente del paese. […] abbiamo avuto cura di alcuni bambini e delle loro necessità, mentre altri sono stati trattati come problemi. Siamo scioccati dal fatto che questi luoghi esistessero, e la loro esistenza è un’accusa schiacciante della società irlandese […] La nostra fede cristiana ci chiede di prendere la croce per non imporla agli altri.»
Intanto l’opposizione parlamentare si è rivolta al premier, al fine di far rilasciare la documentazione, anche se incompleta, poiché non vi sono tracce degli abusi subiti. La risposta è stata “no”, poiché tutt’ora nessuno può accedervi, e le vittime non hanno ancora trovato pace.
Ed ecco la ciliegina sulla torta, criticata da alcuni ed apprezzata da altri, il discorso che il Premier irlandese Micheal Martin ha rilasciato in parlamento il 14 gennaio. In parte del discorso afferma,
«Mi scuso per il torto generazionale inflitto alle madri irlandesi e ai loro figli che sono finiti nelle ‘mother and baby home’ o in istituti di contea. Come dice chiaramente la commissione, non avrebbero dovuto essere lì. Mi scuso per la vergogna e lo stigma a cui sono stati sottoposti e che per alcuni rimane un peso ancora oggi. E scusandomi, voglio sottolineare che ognuno di voi era in uno di questi istituti per colpa di qualcun altro, ognuno di voi è irreprensibile, ognuno di voi non ha fatto nulla di sbagliato e non ha nulla di cui vergognarsi.»
La più forte critica che ha scaturito, è stata quella da parte della Coalizione dei sopravvissuti che ha affermato: «la colpa alla società irlandese del periodo, è sembrata fuorviante visto che rendere tutti responsabili difatti non rende nessuno davvero responsabile.»
La questione è ancora aperta e incandescente più che mai, poiché è tutto contrastante, l’accaduto si commenta da solo, ma certamente è necessaria una riflessione da parte di tutti voi.
Sofia Beretta
Fonti:https://espresso.repubblica.it/internazionale/2020/12/03/news/ragazze-madri-prigioniere-nelle-case-cattoliche-1.356746https://www.quotidiano.net/spettacoli/2014/02/07/1022140-philomena-lee-project-frears.shtmlhttps://it.euronews.com/2021/01/13/mother-and-baby-homes-cattoliche-adozioni-illegali-e-fosse-comuni-l-irlanda-si-scusaMolly Gibson è nata il 26 ottobre 2020 in Tennessee, da un embrione congelato per 27 anni; con la sua nascita ha stabilito ben 2 record:
- essere stato un embrione congelato molto a lungo;
- aver superato la sorella Emma, che deteneva il primato di embrione congelato da 24 anni.
Le due bambine sono sorelle per ben due volte, perché nate da ovuli impiantati nella stessa madre (Tina Gibson) e perché condividono lo stesso patrimonio genetico, in quanto create dall’unione della stessa coppia nell’ottobre del 1992.
Gli embrioni delle sorelline, sono stati donati alla Nedc (National Embryo Donation Center), una onlus cristiana di Knoxville (Tennessee) che conserva gli embrioni congelati delle coppie, che dopo aver seguito il percorso di procreazione assistita, decidono di non utilizzare quelli avanzati donandoli.
Questi embrioni possono successivamente, essere donati a coppie con problemi di sterilità, come Tina e Ben Gibson.
I signori Gibson, pur essendo giovani (lei 29 anni, insegnante di scuola elementare e lui 36 anni, analista di cybersicurezza), hanno tentato per 5 anni di avere un figlio, ma si sono dovuti arrendere nel momento in cui è arrivata la diagnosi di infertilità; dopo aver visto una trasmissione televisiva, nella quale si parlava della Nedc, decisero di contattarli per chiedere l’adozione di uno degli embrioni.
Con la prima donazione nasce Emma nel 2017 e quest’anno arriva Molly.
"Non ci importa a chi assomigliano queste bambine e da dove arrivino - racconta Tina Gibson - abbiamo giusto dato il nostro peso ed la nostra altezza per cercare un minimo di somiglianza; somiglianza che ovviamente c'è tra le due sorelle".
(da “la Repubblica” 03 Dicembre 2020)
La Nedc è stata fondata circa 17 anni fa ed è riuscita a far adottare oltre mille embrioni (con tanto di baby counter sulla loro pagina web: 1012 bambini nati) e ad oggi gestiscono circa 200 transfer all’anno; a loro si rivolge circa il 95% delle coppie con problemi di infertilità.
Funziona proprio come nelle adozioni di bambini già nati, dove la coppia può decidere se avere un’adozione aperta o chiusa (aperta: la famiglia naturale può continuare a partecipare alla vita del bambino – chiusa: i rapporti tra il bambino e le sue origini vengono troncati), l’unica differenza è che l’associazione lo fa senza scopo di lucro.
Tra le tante nascite di embrioni congelati, quella di Molly pone ora una domanda: quanto a lungo può rimanere congelato un embrione prima di essere impiantato?
Il caso della bimba americana è una testimonianza di quanto questo tempo possa essere lunghissimo: Laura Rienzi, della Società Italiana embriologia, riproduzione e ricerca spiega che poiché la conservazione in azoto liquido degli embrioni è quasi vicina allo zero assoluto, per essere più precisi a –195 gradi, in quelle circostanze le attività degenerative della cellula si fermano, rimanendo limitatamente attive solo le mobilità cellulari, permettendo così così che la cellula rimanga viva; di conseguenza 21, 27 o più più anni, non cambiano nulla.
Un recentissimo studio, pubblicato nell’ottobre 2020 su Human Reproduction, spiega che alcuni scienziati di Shanghai, dopo aver analizzato più di 24.698 pazienti e aver indagato sull’effetto del congelamento dell’embrione sulla gravidanza, sono arrivati alla conclusione che:
“Più il tempo di conservazione si allunga, più si nota una lieve riduzione del tasso di gravidanza - precisa Rienzi - ma patologie neonatali, peso del bambino e altre variabili, sono assolutamente identiche rispetto ai transfer da embrioni freschi, non congelati".
Ad oggi molti stati avanzano nella ricerca su questo tipo di gravidanza assistita permettendo a molte coppie di avere figli e di far adottare i loro embrioni; in Italia invece la possibilità di dare vita ad un embrione congelato non è possibile. Nel nostro paese vigono ancora regole etiche legate alla fede, regole che non permettono di adottare un embrione congelato, regole che costringono le coppie a sapere che i loro embrioni resteranno “sospesi” per sempre.
Giorgia Serra
Informazioni e dati presi dall’articolo di “la Repubblica” del 03 Dicembre 2020Il 19 settembre 2020, in Time Square a Manhattan, New York, gli artisti Gan Golan e Andrew Boyd svelano agli occhi di tutto il mondo il Climate Clock, un enorme orologio digitale che annuncia “minacciosamente” quanto poco tempo resta all'umanità prima di precipitare in una irreversibile catastrofe ambientale che stravolgerà la nostra intera esistenza (perché dire “ci ucciderà tutti” è drammatico e anche un po’ cliché).
Il tempo segnato sull’orologio subito dopo l’attivazione era: 7yrs, 102days, 14h, 20mins e 35sec.
Il conteggio dei dati si basa su una serie di calcoli condotti dall'ONU sull'attuale tasso di emissioni di CO2: senza gli adeguati interventi, entro il 2028 la temperatura terrestre arriverà a 1.5° sopra il normale, il limite massimo stabilito dall’Accordo di Parigi.
Questo countdown apocalittico (the final countdown) è l’ennesimo tentativo degli ambientalisti per mettere in allarme i governi, le industrie e tutti quanti noi sull’attuale gravità della crisi climatica, ma sembra non funzionare: ci si dovrebbe aspettare che le persone, passando davanti, si fermassero per poi restare lì, scioccate, piangendo per i soli sette anni di vita che ci restano, andando subito a protestare sotto le sedi dei governi. Invece, le persone continuano a passare, con passeggini, cani, indifferenti.
Ora che dobbiamo affrontare un’emergenza senza precedenti con pochissimo tempo a disposizione le persone smettono di agire, si rifugiano nel loro privato, si sentono impotenti di fronte a una cosa così grande. Così prosegue il circolo vizioso: più la gente si mette sulla difensiva, più gli ambientalisti alzano la voce, gridando più forte e continuando tuttavia a essere (relativamente) ignorati.
Nel cervello umano, la motivazione nasce solo quando c’è speranza. Può essere un barlume minuscolo, può persino essere uno spazio psicologico, illusorio, ma se non c’è le persone non agiscono.
“Perché io dovrei scomodarmi per una causa che è già persa in partenza?”
Questo è ciò che la gente pensa.
Gridare a chi si vuole coinvolgere che in poco tempo saremo spacciati uccide la speranza, uccide la motivazione, e siamo punto a capo.
Forse gli ambientalisti (enorme categoria di cui faccio parte) dovrebbero trovare altri metodi per sensibilizzare sulla questione ambientale, parlando non di catastrofi ma di un futuro roseo se ci mettiamo tutti di impegno.
Cosa si può fare allora? Come si può rompere questo circolo vizioso?
In primis, sarebbe un gran passo avanti se la politica si prendesse carico dell’emergenza, per sollevare un po’ del peso che grava sulle spalle di chi si sta impegnando per fare la differenza, per rendere l’allarme concreto agli occhi di tutti e prendere dei seri provvedimenti al riguardo.
Anche i media hanno un grande potere: diffondere le giuste informazioni e sensibilizzare sull’argomento, magari senza pressare sull’apocalisse perché titoli come “siamo finiti”, “la terra sta bruciando” etc. etc. servono solo ad aumentare un’angoscia che, come abbiamo visto prima, fa più danni che altro.
E noi, anche se probabilmente siamo enormemente stufi di quegli articoli e video “10 cose che possiamo fare per preservare l’ambiente”, dovremmo davvero metterci al lavoro tutti insieme per costruirci un futuro vivibile.
Giulia Perlo
Fonti: https://www.lifegate.it/climate-clock-new-york https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/04/climate-clock-il-riscaldamento-globale-affligge-soprattutto-noi-e-rassegnarsi-non-e-la-soluzione/5951695/Sono passati più di quattro anni dalla strage di Nizza, avvenuta il 14 luglio 2016, cinque dagli attacchi di Parigi di cui il 13 novembre cade l’anniversario, quasi sei dall’attacco alla sede di Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015. Sembra essere trascorsa una vita. Il ricordo degli attentati è sbiadito nella nostra memoria, e, se ci capita di parlarne, introduciamo il discorso con: “Ti ricordi quando…?”
Ci siamo cullati in una falsa sensazione di sicurezza, nella nostra arroganza di essere il superiore mondo occidentale; ci siamo creduti capaci di far fronte ad ogni male, di essere gli eroi dall'armatura scintillante che ricacciano i cattivi nelle tenebre. Eppure, in meno di due settimane, la Francia è stata colpita da due attentati, entrambi legati a nomi già tristemente famosi.
Il venerdì 16 ottobre, un professore di storia e geografia è stato brutalmente assassinato a Conflans-Sainte-Honorine, vicino allo stabilimento scolastico in cui lavorava. È stato ucciso per aver insegnato e tenuto conferenze su uno dei pilastri della nostra democrazia: la libertà di parola. Samuel Paty, professore di storia e geografia aveva, il 6 ottobre 2020, mostrato due vignette di Maometto da Charlie Hebdo in un corso di educazione morale e civica sulla libertà di parola, azione che ha fatto arrabbiare il genitore musulmano di uno studente. Quest'ultimo ha così pubblicato, nei giorni successivi, su vari social network, video infamanti su Samuel Paty. Questi video hanno scatenato l’odio di molti nei confronti del professore, ben prima che fosse assassinato.
Appena tredici giorni dopo, un altro attacco ha ucciso tre persone a Nizza. L'attacco è avvenuto nella basilica di Notre-Dame de l'Assomption. L'attentatore, Brahim Aouissaoui, un tunisino di 21 anni, è stato ferito prima di essere arrestato
Questi due tragici eventi ci hanno fatto rendere conto che il problema del terrorismo è ben lungi dall’essere risolto, ci hanno fatto mettere in discussione le nostre certezze. A distanza di più di una settimana, ancora ci portano a farci domande, ad affrontare importanti tematiche, che vengono discusse praticamente ogni giorno, e tra queste troviamo il valore della tolleranza, la libertà di parola…
Può un mondo “civilizzato” come il nostro permettere che delle persone muoiano per una battuta?
Le vignette pubblicate da Charlie Hebdo saranno pure di cattivo gusto, offensive, blasfeme e anche disgustose, ma sono vignette. Sono disegni, dei semplici tratti di colore su un foglio di carta e non possono e non devono essere pagati col sangue.
E se un professore viene decapitato per aver tentato di discutere su questo concetto con la sua classe, allora non c’è libertà di parola.
E questa è una cosa che noi non possiamo permettere, perché, senza la libertà di parola, perdiamo ciò per cui abbiamo lottato per secoli: la libertà.
Sono morte decine, centinaia di migliaia di persone per renderci in grado di dire la nostra opinione, di eleggere i nostri governanti, di scegliere in che cosa credere. Abbiamo combattuto per creare stati laici, per dare a tutti la libertà religiosa e ora rischiamo di perdere questo dono immenso per colpa di pochi estremisti che scambiano la violenza per il volere di Dio.
Forse è anche colpa dei media, che usano la parola “islamici” prima ancora che terroristi. No, non sono islamici: saranno anche convinti di agire nel nome della fede, ma non ne possiedono che una visione distorta, che nulla ha a che vedere con l’islam.
Sono terroristi e, come tali, non fanno altro che seminare paura nei cuori delle persone. Ed è per questo che è così importante combatterli: è proprio questa paura che sta facendo incrinare la tolleranza religiosa di cui abbiamo goduto per un tempo che sembra infinito, pur essendo ancora troppo breve.
Sempre più persone identificano l’islam con “persone brutte e cattive che uccidono la gente”. Sempre più persone guardano ai migranti con sospetto, perché provengono dalla stessa parte del mare dei terroristi. Sempre più persone parlano di “noi” e di “loro”.
E, per quanto irrazionale e sbagliata ci possa sembrare, questa reazione è umana. È umano avere paura quando senti di gente uccisa solo perché si trovava al posto sbagliato al momento sbagliato. È umano aver paura quando la Morte si siede a braccia conserte e aspetta e sembra più vicina di quanto non lo sia mai stata.
Ed è proprio perché reagire così è estremamente umano e estremamente diffuso, che è vitale estirpare la ragione di questa paura.
E in fretta, perché il sospetto verso il “loro” fa presto a trasformarsi in odio e questo odio nato dalla paura, è sentimento estremamente pericoloso, perché potrebbe costarci ciò che siamo. La paura è, infatti, il terriccio dove gli estremisti di qualsiasi ideologia piantano i loro semi, innaffiandoli, poi, con l’odio da essa generato.
E ciò dovrebbe spaventarci di più dei camion sulle folle e dei fucili d’assalto dei terroristi. Dovrebbe terrorizzarci, perché la storia insegna che, ogni qualvolta un estremista sale al potere, la libertà muore.
I nostri antenati ci hanno fatto il dono più grande che mai riceveremo: ci hanno dato la libertà, gratis, servita su un piatto d’argento, quando loro hanno dovuto lottare per essa con le unghie e con i denti, con le penne e con le spade, con il sangue e i compromessi.
Ed è per questo che, se la libertà è un nostro diritto, difenderla è un nostro dovere. Lo dobbiamo a tutti coloro che sono morti per darcela e a tutti coloro che continuano a morire per averla, in paesi meno fortunati del nostro. E lo dobbiamo anche a noi stessi: figli della libertà, non conosciamo altro che essa ed è per questo che, forse, non ne apprezziamo appieno il valore.
Benita Sagbohan ed Elisa Frigerio
Il 20 e il 21 settembre i cittadini italiani sono andati alle urne: dopo più di tre mesi di attesa sono stati chiamati al voto. Per quale motivo?
Stiamo parlando del famoso e tanto discusso taglio dei parlamentari, che, stando ai risultati, verrà effettuato.
Innanzitutto si è trattato di un referendum senza quorum. Essendo un referendum di tipo costituzionale, infatti, non c’era un tetto minino di partecipanti affinché la votazione fosse presa in considerazione: in questa tipologia vince, indipendentemente dal numero di votanti, la maggioranza.
Quando c’è l’intenzione di modificare una legge costituzionale, viene applicato il così detto “procedimento aggravato”: si tratta di un processo che prevede due delibere da parte di entrambe le camere. La prima viene effettuata a maggioranza semplice, ossia il 50% + 1 dei presenti in aula; trascorsi tre mesi, durante i quali i parlamentari possono modificare la propria opinione, sono chiamati a votare nuovamente. A questa votazione devono aderire almeno i due terzi più uno dei parlamentari.
A questo punto 500.000 elettori, un quinto di una delle due camere, oppure cinque consigli regionali, sono portati a chiedere un referendum al Presidente, il quale ha il dovere di indirlo.
In seguito a questo referendum verranno apportati dei cambiamenti agli articoli 56, 57, 59 della Costituzione, con la riduzione dei deputati da 630 a 400, dei senatori da 315 a 200, e con la riduzione a 5 senatori a vita.
La motivazione iniziale che ha spinto i proponenti era semplice e chiara: nonostante il grande numero di cervelli all’interno di una sola struttura, non vi era un alto grado di produttività, e poiché il numero non fa l’efficienza, ma è la qualità, sono state prese in mano le forbici.
Questo non è, tuttavia, il primo referendum che volge al taglio dei parlamentari, infatti il 4 dicembre 2016, con la riforma costituzionale Renzi-Boschi, era stato chiesto ai cittadini di votare per la riduzione dei senatori a 100, per eliminare il bicameralismo perfetto e per avere la soppressione del CNEL; quattro anni fa il NO vinse al 59,12%.
Adesso invece è stato il SI vincitore di questo referendum, scelto da 17 milioni di cittadini per una percentuale del 69,64% . Anche in questo caso si è scatenata una polemica su cosa fosse giusto votare. Il dibattito che vi è nato ha preso in considerazione vari aspetti:
il SI afferma che dal punto di vista monetario vi sarebbe un risparmio trai 60 e i 100milioni annui, circa mezzo miliardo in un quinquennio di legislatura; infatti i parlamentari italiani prendono stipendi molto elevati rispetto ad altri stati: l'Italia stipendia i propri politici annualmente con 132.203 euro netti, la Germania 83.700 euro, la Francia 62.577, l’UK circa 73.129 euro, la Spagna li paga 31.908 euro e, per uscire dall'Europa, il Canada 110.324 e gli Stati Uniti 126.312 euro all’anno. Il NO, invece, afferma che le cifre guadagnate siano state pompate, e che si tratterebbe soltanto di 57 milioni netti, un risparmio irrisorio per il quale non varrebbe la pena effettuare il taglio.
Per quanto riguarda la rappresentatività delle camere, le due fazioni sono molto discordi. I difensori del taglio affermano che in questo modo le camere saranno composte solo da rappresentanti scelti, eliminando le frammentazioni e i continui dibatti all’interno dei partiti. Ogni partito darebbe precedenza solo ai più qualificati.
Ogni soggetto sarebbe ben distinto e il suo compito facilmente individuabile, ci sarebbe più trasparenza, con un’agevolazione sui compiti dell’aula, e una valutazione dei cittadini. Il SI continua affermando che ci sarebbe un parlamentare ogni 100.000 elettori circa: ciò vale a dire che i cittadini sarebbero largamente rappresentati dal momento che in stati quali Francia, Regno Unito, USA, e Germania, il numero di parlamentari non raggiunge comunque quello dell’Italia.
Il NO non concorda, ricordando che non sempre i membri più qualificati siano quelli scelti, citando come esempio il celebre (soprattutto per le imitazioni su di lui) Razzi, che, pur essendo un uomo pittoresco e a tratti imbarazzante, ha dato una certa visibilità al suo partito, facendo parlare di sé; oltretutto il NO vede il taglio come una forma di sotto-rappresentanza di alcune regioni: interi pezzi di Paese rischiano in questo modo di non essere rappresentati, soprattutto le minoranze.
Questo porterebbe ad ulteriore indebolimento nel rapporto tra eletti ed elettori. Il SI ribatte, affermando che in realtà il taglio porterebbe a riequilibrare le discrepanze numeriche; il Molise, con 305.617 abitanti, oggi ha due senatori, e tali rimarrebbero con la riforma, per un rapporto 1 senatore ogni 151 000 abitanti, mentre la Basilicata, con 562.869 abitanti, ne ha sette, per un rapporto 1 a 80 000. Il taglio porterebbe la Basilicata ad un rapporto di 1: 185.000, e non andrebbe comunque a discapito delle regioni che hanno pochi rappresentanti.
Infine, per quanto riguarda l’efficienza dell’organo parlamentare, ognuno porta avanti le proprie ragioni ostinatamente. Il SI confermando quanto detto in precedenza, ossia che questo taglio, porterebbe ad una responsabilizzazione dei rimanenti componenti del Parlamento, mettendo fine alla diserzione del 30% dei suoi membri, che avviene una votazione su tre. Inoltre eviterebbe una proliferazione di leggi 'inutili' e l’ostruzionismo. Si tratta di un meccanismo per il quale la minoranza ostacola le deliberazioni della maggioranza con continue interruzioni, proponendo sospensive o con interventi fiume di oratori. Il NO conclude la sua battaglia dicendo, viceversa, che il taglio non risolverà i problemi, in quanto questi sono di natura qualitativa e non quantitativa, inoltre dissente all'idea che ciò sia uno strumento efficace per sconfiggere l'ostruzionismo.
Un esempio: nel 2015 Roberto Calderoli presentò 82 milioni di emendamenti alla riforma Renzi-Boschi grazie all’aiuto di un semplice algoritmo elaborato al computer. Il problema non è, per il NO, il numero dei parlamentari, quanto piuttosto la loro responsabilizzazione (detto in parole povere, se sono meno, non diventano tutti all'improvviso più bravi).
Ma quando avverrà questa modifica?
Ovviamente, ci vorrà tempo. Questo taglio verrà effettuato dopo lo scioglimento delle Camere, e non prima che siano decorsi i sessanta giorni necessari per l’entrata in vigore della legge.
Sofia Beretta
Nella giornata di martedì 22 settembre presso il Cortile del Castello Visconteo ad Abbiategrasso si è tenuto un incontro con la psicologa Giulia Tracogna riguardante le tematiche LGBTQ+, tra cui identità di genere e orientamenti sessuali e/o affettivi. Grazie all’associazione La Salamandra di Abbiategrasso (in collaborazione con Iniziativa Donna e L’altra Libreria) - di cui lasciamo i nominativi Instagram per permettervi di spulciare qualche altra iniziativa simile (Associazione La Salamandra, iniziativadonna, laltralibreria) - abbiamo potuto immergerci, per “Fai la differenza. Emancipazione, studi di genere e scelte non conformi”, in tre giornate consecutive, nella crescita civile delle donne nel secondo dopoguerra con la storia di Franca Viola (la prima donna che ha detto di no al matrimonio riparatore in Italia), nella sessualità del mondo antico con un intervento della prof.ssa Berlinzani e nella comunità LGBTQ+.
La psicologa Tracogna ha cercato di spiegare con parole scientifiche, definizioni dettagliate ed esempi concreti le questioni e i luoghi comuni riguardanti gli orientamenti sessuali e/o affettivi e le varie identità di genere.
Tra pregiudizi e stereotipi, ci siamo addentrati nel mondo LGBTQ+ , così ignoto ancora adesso a molte persone. Durante questo incontro abbiamo potuto notare una grande novità: i presenti erano per lo più persone adulti, tra la fascia di età cinquanta-sessanta, e questo ci dà prova di un crescente interesse da parte di quest’ultimi su tematiche abbastanza distanti dalla loro epoca. Tale fenomeno è completamente opposto a quello di pochi anni fa, che è ancora in evidenza nella maggior parte dei mass media. Troppo spesso, infatti, le notizie giornalistiche, in questa nuova era di comunicazione digitale, si basano su situazioni pruriginose e di conflitto, senza dare spazio alle innovazioni e al cambio di mentalità, non più chiusa e spaventata dal diverso, ma aperta e pronta a imparare, dimenticando il reale significato della divulgazione.
Attraverso molte slide, la psicologa ha fornito varie definizioni partendo proprio dalla sigla LGBTQ+ (Lesbian Gay Bisexual Trans Queer +), aggiungendo alcune delle molte etichette presenti in questa lunga sigla (acronimo di tutte le identità di genere e di tutti gli orientamenti sessuali conosciuti fino ad ora). E ha mostrato le diverse affermazioni offensive e stereotipate, che continuano a essere usate verso persone appartenenti a questa comunità, fornendo delle prove scientifiche su quanto queste siano infondate e solo futili pregiudizi. Ha usato, come esempio, lo stereotipo dell’uomo che segue meno il concetto di mascolinità classica - ora indicata anche con il termine di mascolinità tossica- e per questo è visto come un uomo gay. Ovvero l’uomo un pò più femminile, attento nel vestire, che gesticola molto è etichettato come omosessuale. Grazie, però, alla separazione, spiegata dalla dottoressa, tra identità di genere e orientamento sessuale, abbiamo potuto comprendere che queste sono due cose ben distinte, che non richiedono una connessione. Smontato questo pregiudizio, inizieremo a vedere questo esempio come, semplicemente, un modo di comportarsi, che non dovrebbe essere più categorizzato come distintivo tra uomo e donna - sebbene, purtroppo, lo sia ancora - e che non designa l'orientamento sessuale di un individuo.
Riportiamo qui di seguito un glossario delle varie definizioni fornite dalla dott.ssa Tracogna, per comprendere meglio su quali argomenti si è basato l’incontro informativo di martedì sera:
Orientamento sessuale: con questo termine si indica l'attrazione sessuale di una persona verso determinati generi.
Orientamento romantico: con questo termine, invece, si indica l’attrazione romantica (che spesso coincide con l’orientamento sessuale e porta questo determinato orientamento, solo romantico, ad essere poco conosciuto) di una persona verso determinati generi.
Omosessuale: persona che prova attrazione solamente verso persone del suo stesso genere.
Bisessuale: persona attratta da due generi, non necessariamente all’interno del binarismo di genere, cioè uomini e donne. Infatti, una persona si definisce bisessuale anche essendo attratta da, ad esempio, uomini e persone non-binary.
Inoltre, la psicologa ha accennato, anche, alla poca visibilità che hanno le persone bisessuali.
Transgender: persona che non si riconosce nel sesso assegnatogli alla nascita. Il termine Transgender è un termine ombrello (che viene convenzionalmente usato per racchiudere tutti gli altri) per chiunque non si identifichi nel binarismo di genere.
MtF(male to female) e FtM(female to male): questi termini indicano rispettivamente una transizione da uomo a donna e da donna a uomo.
Inoltre, le donne e gli uomini trans non sono uomini e donne a metà, ma sono vere donne e veri uomini.
La psicologa ha parlato, anche, di eventi di attualità, come lo scandalo di Maria Paola e Ciro, ragazzo trans.
Transessuale: persona transgender che ha intrapreso un percorso di transizione, includendo terapie ormonali e operazioni per il riassegnamento del sesso.
Asessuale: persona che non prova attrazione sessuale verso nessun genere. Gli asessuali possono, però, avere una relazione perché possono provare un’attrazione romantica.
Intersex: persone che nascono con caratteri sessuali che non sono definibili esclusivamente maschili o femminili. Esistono variazioni rispetto ai cromosomi, agli ormoni, agli organi riproduttivi, ai genitali e all’aspetto somatico di una persona.
La psicologa, inoltre, ha fornito, come esempio, l’esperienza di un uomo, ormai settantenne, che, durante un intervento, ha scoperto di avere l’utero.
Identità di genere: è il senso di appartenenza di una persona ad un determinato genere con il quale ci si identifica (uomo, donna o altro).
Non-binary: con il genere non binario si identificano quelle persone che non si riconoscono nel singolo binarismo di genere (uomo/donna). Chi vive questa identità non si sente esclusivamente uomo o donna, ma si può percepire come entrambi, una combinazione dei due, nessuno dei due o direttamente “altro”.
Agender: questo termine fa riferimento ad una delle sfumature del non-binarismo al quale si identificano le persone che non hanno un’identità di genere.
Poliamore: è il desiderio di una persona di avere più relazioni contemporaneamente, nel pieno consenso di tutti i partner coinvolti.
Teoria gender: è un’ideologia coniata in ambienti conservatori usata per riferirsi in modo critico agli studi di genere. Infatti, chi sostiene questa teoria afferma che questi studi mirino alla distruzione della famiglia tradizionale.
La psicologa, durante l’incontro, ha dimostrato che questa non esista, infatti si parla solo di identità di genere degli individui e di studi di genere.
Sesso assegnato alla nascita: diverso dal sesso biologico in quanto il sesso assegnato alla nascita «riguarda l’osservazione dei genitali da cui ne consegue la categorizzazione maschio/femmina», come spiegato testualmente dalla psicologa.
Sesso biologico: il termine «si riferisce, invece, al complesso quadro biologico-genetico inerente lo sviluppo sessuale delle persone (che solitamente non è preso in considerazione nel sesso assegnato alla nascita)».
Per concludere questo lungo e intenso elenco, la psicologa ha esposto il problema del minority stress. Questo termine si riferisce a condizioni sociali stressanti che possono determinare effetti negativi sulla salute fisica e mentale della persona coinvolta. In particolare, lo stress sociale ha un forte impatto su quei soggetti appartenenti a categorie sociali stigmatizzate (le minoranze), come nel caso dell’identità di genere e degli orientamenti sessuali.
Infine, vorremmo spendere due parole su una questione ancora molto controversa: l’esistenza di due sole categorie (uomo e donna cisgender - che si sentono appartenenti al sesso assegnatogli alla nascita- ). La pressione sociale di questa tendenza a identificare tutti gli individui come solo donne o solo uomini annulla i vari spettri delle identità di genere e degli orientamenti sessuali. Questo schiacciamento ha portato alla nascita di queste numerosissime etichette, inventate per proteggere e proteggersi dai pregiudizi, dalle discriminazioni e dalla violenza che le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ subiscono dalla società stessa. La società, infatti, pone ancora molte limitazioni, cercando di conformarsi alla tradizione storica, e fin troppe - inutili - regolamentazioni di cosa è ammissibile e lecito fare e/o essere.
Come se togliere diritti, discriminare, infamare, maltrattare e picchiare degli individui solo per ciò che sono sia “lecito” e “ammissibile”! Un vero e proprio controsenso a dir poco disumano: è sbagliato amare una persona o cambiare sesso, ma è assolutamente giusto e doveroso discriminare e indurre all’odio contro altri individui etichettati come diversi, sbagliati, malati e problematici.
Forniamo ora degli esempi più concreti di tale disputa.
Le persone bisessuali vengono discriminate e dette "confuse" perché, appunto, attratte da due sessi. Questo avviene perché non è ancora concepibile come un individuo possa provare attrazione sessuale e/o romantica verso due sessi. Capita, inoltre, che queste persone siano definite più propense al tradimento. Ovviamente questo luogo comune è un futile pregiudizio per il semplice fatto che il tradimento è un’azione personale e soggettiva, che accade, anche, in coppie eterosessuali.
Come altre persone di orientamenti sessuali diversi dall'eterosessualità, gli asessuali sono soggetti a discriminazioni e violenze. Molte persone, spinte dall'ignoranza e dall'odio verso la diversità, considerando l'essere asessuali innaturale e “sbagliato”. In una società ipersessualizzata come quella odierna, spesso gli asessuali vengono visti come esseri meno “umani” degli altri e sono soggetti a violenze fisiche ed emotive.
In particolare, è piuttosto comune che gli asessuali siano sottoposti alla minaccia, se non addirittura all'attuazione, del cosiddetto stupro correttivo: alcuni individui pensano che siccome un asessuale non ha alcun desiderio nell'intraprendere una relazione fisica, il motivo sia che non hanno mai provato l’atto sessuale o che abbiano avuto delle esperienze negative. La soluzione che viene, quindi, loro in mente è forzare e, a tutti gli effetti, violentare la persona asessuale in questione per “guarirla”.
Mara Ranzani e Lucrezia Lupo
di Emanuela Moia
di Sara Zanaschi
Spesso le persone comprano cani, credendoli una decorazione, divertimento, come compagnia, senza mai accostare la parola “compagno”.
Spesso le persone pensano di fare il bene del loro compagno comprando i migliori croccantini, i migliori vestiti, collari o pettorine, dando loro i migliori giochi e le migliori palline, spesso lasciate lì perché gli umani hanno poco tempo per giocare con loro.
In città, spesso la situazione dei cani è questa, chiusi in appartamento per la maggior parte della giornata, perché l’umano di turno lavora o studia; la legge dice che sì bisogna assicurare che il cane abbia un comportamento adeguato alle specifiche esigenze di convivenza con persone e animali rispetto al contesto in cui vive, ma ci siamo mai messi nei panni dei cani o dei gatti che vivono in un appartamento, uscendo pochissimo?
Oppure, ci siamo mai messi nei panni di un pesce rosso? Costretto per tutta la sua vita a vagare in uno spazio ristretto?
“Basta cambiargli l’acqua una volta ogni tanto, dargli un pizzico di cibo una volta al giorno ed il pesce rosso starà bene!”
È vissuto un anno? Due? Benissimo, quanti sanno che il pesce rosso vive fino a 30 anni? Beh, più di un cane o di un gatto, no?
Sapete che la crescita dei pesci rossi tenuti in una boccia si fermerà mentre i loro organi interni (meno colpiti dagli effetti del nanismo) continueranno a crescere?
Esattamente, quante volte rechiamo sofferenza agli animali senza rendercene conto?
In questo momento, tanto alieno quanto delicato, possiamo comprenderlo un po’ meglio, dato che siamo stati chiusi anche noi in appartamenti e case, senza quasi poter uscire.
Eppure, ci sono esempi e modelli di relazione completamente diversi! Questo, infatti, non è il caso di Reinhold, un cane che vive sulle montagne con il suo umano, vagando per vette e boschi, godendosi appieno la sua libertà, come dovrebbero fare tutti gli animali.
Un cucciolo, ultimo di una grande cucciolata, un incrocio tra un pastore maremmano e un bovaro del bernese, regalato, per puro caso, ad Aldo Massa, un ragazzo che, sin da subito, l’ha trattato come un compagno.
Reinhold, tra corse, montagne e passeggiate nel paesino di San Romolo, frazione di Sanremo situata nell'entroterra ligure (di cui è un famosissimo cittadino), piano piano è cresciuto, diventando grosso e pesante. Nonostante tutto, nonostante l’indole di un incrocio tra pastore maremmano e bovaro bernese, ha continuato ad accompagnare il suo umano a comprare il pane in paese.
Non ha mai visto collare o pettorina (anche perchè ha fatto i capricci), e nonostante questo, anche in presenza di suoi simili, rimane saldo al suo posto, calmo e fermo, dimostrando ancora una volta che un cane cresciuto con un’educazione alla libertà e alla reciprocità con l’umano, batte in buone maniere un cane tenuto in un piccolo appartamento e trattato come divertimento secondario o, addirittura, come compagna unilaterale.
Premessa: i cani abbaiano, è un dato di fatto, ma ormai ci siamo abituati a vedere molti cani abbaiare a qualsiasi essere vivente; secondo uno studio, un cane equilibrato, con giuste attenzioni e giusta dose di movimento (nonché sia solito ad uscire abbastanza da stancarsi), capisce che non è necessario esagerare con queste richieste di attenzioni.
Nonostante l’hobby preferito di Reinhold sia cercare di buttare a terra il suo umano, non si può non notare il suo sguardo felice in mezzo alla natura, dove può giocare ed esprimere la sua di natura.
Viviamo in uno stato dove la legge considera gli animali “beni mobili”, quindi al pari di quella sedia che avete in cucina e che, ovviamente, non prova sentimenti nel momento in cui ci si siede sopra, e molte persone non calcolano il fatto che anche gli animali provino sentimenti, come noi.
Ci sono persone che fanno vedere ai loro cani cemento, cuscini in casa, lampioni, ma davvero definireste in linea con le necessità di un cane una vita fatta unicamente di passeggiate a guinzaglio tra le vie di una metropoli trafficata?
Consiglierei questo articolo per chi vuole prendere un cane e non sa cosa aspettarsi: http://www.tipresentoilcane.com/2013/10/03/dieci-buoni-motivi-per-non-prendere-o-non-prendere-ancora-un-cane/ questo, per chi vuole prendere un gatto: https://www.tuttosuigatti.it/consigli-per-gatto-in-appartamento.html
E così via.
Camilla Scuri
Il racconto di una tradizione agricola da riscoprire nella giornata mondiale delle zone umide (2 febbraio 2020).
A causa della meccanizzazione dei metodi agricoli e dell’arrivo dell’agricoltura intensiva e non più di sussistenza (o forse grazie ad esse), le marcite sono scomparse lentamente, lasciando a pochi superstiti l’abilità di tramandare un’usanza che potremmo definire millenaria.
Il due febbraio, la redazione ha partecipato ad un progetto di Aretè alla scoperta delle marcite, al fine di sensibilizzare i cittadini dell’area del Ticino a riscoprire la propria terra e al modo migliore in cui potremmo sfruttare al meglio ciò che la natura ci ha offerto.
Il progetto "Aretè, acqua in rete: gestione virtuosa della risorsa idrica e degli agroecosistemi per l'incremento del capitale naturale” ha organizzato un incontro presso il Palazzo Archinto a Robecco sul Naviglio, dove alcuni esperti e i rappresentanti di Aretè hanno introdotto le marcite anche grazie all’ausilio di video molto interessanti che lasciano immergere lo spettatore nel paesaggio meraviglioso delle campagne milanesi nel pieno della stagione estiva.
Il clima di febbraio, tuttavia, ci ha riportati con i piedi per terra nel percorso sino a Casterno, dove ci attendeva la seconda parte della giornata: un incontro diretto con chi le marcite le ha viste e create da quando era un bambino. I gentilissimi signori delle cascine circostanti l’area di Casterno ci hanno raccontato la loro esperienza: le marcite sono andate in disuso con l’avanzare del tempo, nonostante possano offrire erba fresca e di qualità tutto l’anno. Ciò che oggigiorno fa storcere il naso alle aziende casearie è proprio il colore del latte prodotto da mucche nutrite con quest’erba, ovvero un colore tendente al giallo che spesso viene frainteso come sinonimo di un latte scadente o andato a male.
"Durante l'estate la marcita non differisce sostanzialmente da un comune buon prato naturale irriguo. Ma d'inverno essa assume il suo speciale carattere mantenendosi verde e producendo erba che, in più volte, viene falciata al principio e alla fine dell'inverno. Ciò è dovuto all'acqua che, specie se di fontanile, ha una temperatura relativamente elevata, circa 10°; scorrendo di continuo sulla superficie, impedisce il raffreddamento della pelliccia del prato, e permette all'erba di crescere, anche se la temperatura dell'aria è molto bassa." (Treccani)
Questo metodo fu introdotto in Pianura Padana intorno all’anno mille per merito delle popolazioni contadine lombarde e piemontesi. A quei tempi l’agricoltura era di sussistenza e i monaci cistercensi affinarono le pratiche agricole preesistenti, diffondendo ciò che facevano tramite i loro testi. Ancora oggi possiamo individuare i nuclei di marcite nei pressi dei centri religiosi come, ad esempio, l’Abbazia di Morimondo.
Negli anni Novanta il Parco del Ticino decise di intraprendere un percorso di collaborazione a sostegno del mantenimento delle marcite, dando un contributo economico agli agricoltori che accettarono di salvare un’area complessiva di 300 ettari di marcite. Grazie a questa particolare attenzione per la salvaguardia della terra del Ticino, sono ormai trent’anni che sopravvivono ambienti unici in Pianura Padana, a testimonianza di un mondo agricolo capace di donare di generazione in generazione un patrimonio dalle radici antiche, costituendosi anche culle ideali per la biodiversità.
D’altro canto, la marcita richiede una particolare quantità di lavoro manuale: il "camparo" ha il ruolo di controllare molto attentamente e in continuazione la circolazione dell’acqua nel campo coltivato, munendosi degli adeguati attrezzi materiali. L’aspetto fondamentale è sicuramente anche la qualità che viene richiesta dal lavoro manuale, perché per quanto possa essere banale, l’arte del badile e la sapienza nel controllare il movimento dell’acqua non sono innate, ma devono essere tramandate in parte dai nostri anziani, ma anche coltivate dalla voglia e dall’impegno.
In conclusione, non sempre l’innovazione è un bene, come in questo caso: sempre meno agricoltori conoscono questa tecnica che quindi nel giro di quindici o venti anni andrà nel dimenticatoio. Si dice che entro il 2030 la maggior parte dei lavoratori avrà un’occupazione che ancora non è stata inventata; tuttavia, senza la manodopera eseguita nel settore primario, è impossibile pensare ad un’economia stabile.
Tornare in contatto con i lavori agricoli, come quello del camparo, può presentare numerosi vantaggi come il contrasto alla disoccupazione giovanile (ed era così già nel 2013, come ci racconta Repubblica). Una possibile conseguenza del riscoprire occupazioni ormai scomparse negli ultimi decenni, infatti, è ottimizzarle e affiancarle a sostegni tecnologici (come ad esempio l'ecommerce per la vendita di prodotti artigianali e locali).
Può inoltre contribuire all’inclusione sociale di gruppi marginali - come ad esempio extracomunitari o tossicodipendenti in fase di riabilitazione - attraverso diversi progetti che si sono stati presentati.
Senza dimenticare i benefici di un rinnovato contatto con la natura, l'attività all'aria aperta e la conoscenza profonda dei sistemi di produzione agricola.
Mai come in questo periodo storico abbiamo l’occasione e la necessità di tornare alle origini e rimboccarci le maniche, magari intraprendendo un lavoro come quello dei campari che porta con sé più di mille anni di esperienza.
Il progetto Areté è cofinanziato da Fondazione Cariplo, guidato dal Parco Lombardo Valle del Ticino e Legambiente Lombardia Onlus con i seguenti partner: Ente di gestione delle aree protette del Ticino e del Lago Maggiore, Provincia di Pavia, Associazione Irrigazione Est Sesia, Consorzio di Bonifica Est Ticino Villoresi, Università degli Studi di Milano, Istituto di Ricerca sulle Acque – Consiglio Nazionale delle Ricerche, Società Cooperativa Sociale Eliante Onlus e Società di Scienze Naturali del Verbano Cusio Ossola.
Per approfondire il tema, vedere gli interessanti video di Aretè e la mostra dedicata, consultare questo link e questo link.
Qui invece per vedere il servizio di TgR Edizione delle 19:30, andato in onda il 2 febbraio 2020 [min 12.10] .
Rebecca Urso
Foto per gentile concessione di Matteo Pozzetti (Legambiente Terre dei Parchi) e Ivonne ZavaIllustrazione di Bice Tarantola
Ebbene sì, gli astronomi della NASA hanno annunciato che il prossimo 29 aprile un asteroide dalle dimensioni pari a quelle del Monte Everest sfiorerà la Terra. Questo però, non significa che ci troviamo davanti ad una emergenza su scala interplanetaria, ma piuttosto un piccolo allarme verso il quale possiamo stare tranquilli.
L'asteroide in questione non è a noi sconosciuto, bensì fu osservato per la prima volta nel 1998 mentre vagava nello spazio ed è tuttora catalogato “52768”. Non solo, le sue dimensioni ne fanno uno degli asteroidi più grandi che si siano avvicinati alla Terra negli ultimi decenni. È stata misurata, con precisione di centimetri dai satelliti in orbita terrestre, un'estensione di 8.848 metri, il che rende l'asteroide grande quanto l'Everest.
L'asteroide “52768" non colliderà con la Terra, ma passerà alla distanza di 6 milioni di chilometri da noi, transitando alla velocità di 8,7 chilometri al secondo. Nonostante questa sia per noi una distanza significativa, è una distanza minima in termini astronomici, considerando che un milione di chilometri è poco più del doppio della distanza Terra-Luna. Ecco spiegato perché viene utilizzato il termine “ sfiorare”.
Ma cosa succederebbe se l'asteroide dovesse infatti entrare in collisione con la Terra? I ricercatori statunitensi della NASA sostengono che se dovesse succedere gli effetti sarebbero paragonabili a quello, celebre, di 65 milioni di anni fa, che portò alla fine dei dinosauri e di quasi tutte le specie viventi sul nostro pianeta.
Anche se l'asteroide catalogato “52768" non distruggerà il nostro pianeta, gli astronomi spiegano che statisticamente, c’è una possibilità da 50 a 70.000 che un asteroide di grandi dimensioni possa colpire la Terra nell'arco di un secolo. Di questa statistica fa parte l'asteroide (o nucleo di comete) come quello che nel 1908 distrusse molti chilometri quadrati di Tundra a Tunguska, zone fortunatamente disabitate. Niente paura però, perché vi sono astrofisici di mezzo mondo che da tempo monitorano la situazione “asteroidi” e mobilitano centri di ricerca e istituzioni per tenerli sotto controllo e come intervenire.
Se un asteroide dovesse minacciare la Terra l'opzione al momento più concreta, sarebbe quella di inviare dei missili contro di esso per deviare la traiettoria. Come si dice, la realtà, supera la fantasia (dei registi hollywoodiani).
Martina Bianchi
Messina, Sicilia
Il 15 gennaio del 2020 è stato riportato al telegiornale di una retata andata a buon fine, che ha visto coinvolti novantaquattro soggetti arrestati dai carabinieri e dalla guardia di finanza, accusati di aver intascato cinque milioni di euro illegalmente.
Stavolta non si parla di traffici di droga, né di armi: si parla di appropriazione illecita di soldi destinati agli agricoltori della zona che, a giudicare da questo avvenimento, da quattro anni a questa parte non hanno mai visto.
Per la precisione, stiamo parlando della PAC ossia la politica di agricoltura comune. Non che cosi abbia assunto un significato molto più chiaro, ma passo a passo ci arriviamo. La PAC è stata varata nel 1962 ed è l’insieme di regole con cui l’Unione Europea controlla e sostiene il settore agricolo di tutti i paesi membri. Fu istituita in un momento storico in cui c’era carenza alimentare; la priorità era quella di assicurare dei prezzi ragionevoli e allo stesso tempo un tenore di vita equo ai produttori, perciò eccoci qua.
I suoi obiettivi sono, come già accennato, di garantire il benessere degli agricoltori, stabilizzare i mercati, garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, assicurare prezzi ragionevoli. In sostanza, questo insieme di norme da' la possibilità all’Unione Europea di sapere ciò che viene prodotto, sia come quantità sia come qualità, permettendole così di mantenere salde le redini di una fetta dell’economia.
Una volta poste delle regole, in modo tale da avere una sicurezza sul mercato, da' a sua volta un contributo annuo ad ogni agricoltore per ogni ettaro di terreno coltivato, un po’ come fosse uno stipendio che arriva in base al lavoro svolto per un’intera annata. Non dobbiamo però immaginarci che da Bruxelles vengano inviati su ogni conto corrente di ogni produttore i propri soldi; piuttosto, l’UE incarica di questo compito AGEA, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, che paga i produttori con i fondi che l’Unione Europea ha stanziato.
Questa la teoria. Ma passiamo alla pratica, ossia a questo misfatto cosi poco gentile, oserei dire, nei confronti dei disgraziati agricoltori messinesi.
Come già detto si parla di appropriazione illecita di una quantità di denaro esorbitante, ma il fatto sconvolgente di questa frode, nella quale vediamo protagonisti i clan di Tortorici e Nebrodi è che nella retata organizzata e tanto attesa dalle forze dell’ordine , tra i responsabili vi fossero anche funzionari pubblici che si sono intascati un bel gruzzoletto, ovviamente a discapito di chi quei soldi li attende ancora.
Malauguratamente, la credibilità del nostro Paese sta affondando come Atlantide , e la causa è anche dello Stato. La mafia è una piaga che esiste e che si è insidiata prima e più a fondo di quanto si immagini, ma è un colpo basso quello di trovare direttamente coinvolti in un reato di questa portata un capo dell’amministrazione comunale, diversi pubblici ufficiali, notai ed imprenditori.
Mi limito, senza alcuna intenzione di influenzare il giudizio dei lettori, a ritenere l’accaduto come qualcosa non solo di sbagliato, ma anche di profondamente irrispettoso nei confronti di chi fatica tutto l’anno, per poi non avere un profitto e non nemmeno poter cenare serenamente con i propri cari...
Sofia Beretta
Da luglio a questa parte, nel territorio di Abbiategrasso si è sentito parlare diverse volte dell’idea di costruire sul terreno noto come “Pagiannunz” (Parco Giardino dell’Annunciata) che comprende il verde e la zona umida tra Viale Giotto e Viale Paolo VI (per intenderci: tra l’Annunciata e la circonvallazione verso Albairate), per convertirlo in una Mecca commerciale dei fine settimana per residenti e non, con numerosi negozi e spazi adibiti al cinema e al ristoro, parcheggi e palazzi residenziali. Sembra una buona idea: multisala, nuove case, nuovi negozi di grandi marche, nuovi posti di lavoro...
Tuttavia, da numerose parti si sono sollevati dubbi… per esempio la vicina area dismessa della ex Siltal rimane così com’è, e una domanda sorge spontanea: perché non viene riutilizzata un’area già presente senza dover cancellare un rifugio naturale per numerosi animali? cosa avverrà delle numerose case sfitte in città? e i negozi del centro? tutti gli impegni che contro il consumo usa e getta?
Innanzitutto le proposte di costruzione sono di privati e su terreni privati. E la questione cruciale, a nostro parere, è proprio questa: quanto un privato ha diritto di portare avanti un progetto tanto impattante per una comunità se parte di tale comunità vi si oppone? quanto ha diritto una comunità, attraverso i suoi rappresentanti, a interferire con il provato?
E, ancor di più, cosa sa veramente la cittadinanza di quello che sta accadendo?
La prima proposta è avanzata da ESSEDUE Srl (una società difficile da rintracciare) e porterebbe alla costruzione di dodici edifici commerciali, la seconda è della più conosciuta BCS, che intende portare tre edifici e un multisala nell’abbiatense e i cui capannoni sono già visibili nei progetti depositati. Il piano attuativo comprende 189.000 m2 tra parcheggi ed edifici residenziali e non, costruendo circa quattro ettari di verde nel Parco del Ticino. Difficile immaginare l’impatto di queste opere sulla città di Abbiategrasso e sul suo territorio.
Per provare almeno a visualizzare la zona di costruzione e i capannoni che costituiranno il parco commerciale, vi proponiamo l'elaborazioni prodotte da Legambiente Terra dei Parchi.
Durante gli anni, questa parte di terra, che sembrava dimenticata da tutti, è diventata luogo di vita, di riproduzione e di passaggio di tritoni crestati, ramarri occidentali, rospi smeraldini, orbettini, biacchi, natrici dal collare, raganelle. Al Pagiannunz è facile incontrare anche volpi, germani reali, gallinelle d’acqua, cavalieri d’Italia, garzette, aironi, barbagianni. Insomma, il Pagiannunz, radicatosi laddove l’uomo aveva immaginato colate di calcestruzzo, è diventato una culla della biodiversità.
Un territorio che già era stato con forza protetto dagli attivisti del Comitato per la Difesa del Territorio Abbiatense, prima della distruzione del suo delicato equilibrio da parte della società ESSEDUE a settembre del 2013, devastazione seguita da un’ordinanza comunale arrivata troppo tardi.
Quest’anno altri movimenti si sono mobilitati e sono nati per opporsi alle iniziative dei costruttori, riuscendo, con non poche difficoltà, a far convergere punti di vista molto diversi.
Bisogna evidenziare la forte presa di posizione dell’associazione dei commercianti e della sua segretaria abbiatense, Brunella Agnelli, i movimenti storici NO-TANG, chiamati in causa dalla comune mission di salvaguardia del territorio, Legambiente Terra dei Parchi, gli agricoltori (che hanno in parte boicottato persino la Fiera di Ottobre) e il nuovo comitato cittadino Abbiategrasso che vorrei.
Anche le opposizioni in consiglio comunale si sono fatte sentire con forza, davanti a un momento delicato per la giunta Nai, che ha proseguito con rapidità nel portare avanti i progetti delle due società, sebbene in questi mesi abbia avuto delle “perdite”, prima fra tutti l’assessore all’ambiente, Cristiana Cattaneo, che si è dimessa a dicembre dissociandosi dalle azioni della sua giunta proprio in merito al parco commerciale.
In “tempi non sospetti” (A.S. 2018-2019) anche il Bachelet si è interessato alla zona e ha realizzato e pubblicato “Abbia3grasso - Tre visioni inedite del territorio abbiatense” in collaborazione con il Comune di Abbiategrasso e all’interno del PON (Programma Operativo Nazionale "La Scuola per lo Sviluppo").
Durante il progetto sono state analizzate tre zone del territorio abbiatense e progettate e proposte valide idee su come queste potrebbero essere valorizzate in modo sostenibile, in chiave didattica.
Partendo dall’ex Siltal, gli studenti e il Prof. Brugnerotto hanno pensato di trasformare un edificio fatiscente in un centro per persone di tutte le età in cui sono presenti tensostrutture, due piscine, un cinema, una pista GoKart e una zona ristoro.
Per quanto riguarda l’area umida, invece, il nostro istituto ha puntato sul ruolo educativo che essa potrebbe avere: l’introduzione di stazioni di rilevamento non invasive per l’analisi dell’acqua e dell’aria, percorsi naturalistici ed eventuali gite scolastiche per ogni grado di istruzione.
La terza zona interessata è la Cascina Prinetti situata tra l'abbiatense e il magentino.
Inutile dire che abbiamo l’esclusiva della pubblicazione consegnata anche al sindaco Nai in occasione della mostra PONte delle idee, tenutasi l’11 e 12 gennaio nei sotterranei del Castello e che voi potete vedere qui a lato!
Gentile concessione del prof. Silvano Brugnerotto
Immagini e pubblicazione per gentile concessione del prof. Silvano Brugnerotto
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La prima: una richiesta ecologica di grandissima attualità di protezione del verde abbiatense, situato in una posizione geografica particolarmente delicata per l’inquinamento e la salute dei suoi abitanti.
C’è poi da tenere in considerazione una visione artistico paesaggistica, che deve rendere conto alla Soprintendenza delle Belle Arti, data la vicinissima presenza del complesso dell’Annunciata, punta di diamante negli ultimi anni del turismo abbiatense, mai “sfruttata” al colmo delle sue possibilità.
Successivamente, l’idea di preservare una cittadina a misura d’uomo - da non trasformare in “paese-dormitorio”, come tanti comuni di Città Metropolitana - dove i piccoli negozi locali sono il cuore pulsante della vita di comunità, che però necessita di maggiori servizi, soprattutto per i giovani, ma anche per tutti i cittadini, come una piscina, un nuovo cinema, un teatro e luoghi sicuri di aggregazione per le fasce più fragili della popolazione: bambini, anziani, disabili.
C’è anche un forte baluardo legislativo: la Legge regionale per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato n. 31 del 28 novembre 2014 introduce nel governo del territorio nuove disposizioni mirate a limitare il consumo di suolo (visibile qui: https://www.regione.lombardia.it/wps/portal/istituzionale/HP/DettaglioRedazionale/servizi-e-informazioni/Enti-e-Operatori/territorio/governo-del-territorio/legge-regionale-riduzione-consumo-suolo/legge-regionale-riduzione-consumo-suolo), grazie al quale il comune pavese di Borgarello ha condotto (e vinto) una simile battaglia contro la costruzione.
Da settembre le iniziative sono state molte per sensibilizzare la popolazione e anche le azioni della giunta, ecco una piccola cronistoria:
il 19 settembre 2019, nei sotterranei del Castello, i ragazzi e le ragazze del Fridays For Future si sono riuniti insieme ai movimenti locali per confrontarsi sull’emergenza climatica mondiale e le possibili soluzioni alle ulteriori costruzioni in territorio abbiatense;
il 3 ottobre 2019 un consiglio comunale aperto sulla questione, con le interrogazioni delle opposizioni e le osservazioni del pubblico;
c’è stata poi la manifestazione del 15 dicembre 2019, dove tutti i movimenti e le associazioni interessate hanno attraversato Abbiategrasso, per arrivare davanti all’Annunciata e chiedere al comune di intervenire;
con deliberazioni di Giunta Comunale n. 171 e 172 del 18 dicembre 2019, l'Amministrazione del Comune di Abbiategrasso ha adottato i Piani Attuativi della zona ATS 2 di BCS relativi alle aree comprese tra viale Papa Paolo VI, viale Giotto e la ferrovia e Roggia Boschetto (visibili qui: http://www.comune.abbiategrasso.mi.it/Comunicazioni-istituzionali/Piani-attuativi-ATS-2);
subito dopo l’adozione numerosi (e rumorosi) cittadini e movimenti hanno partecipato al consiglio comunale giovedì 19 dicembre;
il 27 gennaio 2020 Abbiategrasso che Vorrei ha consegnato, con un flash mob in piazza Marconi, 4786 firme raccolte in due mesi per portare all’attenzione della giunta l’opposizione di parte della cittadinanza (protocollate il lunedì successivo);
fino al 5 febbraio 2020 (termine di legge) sono state presentate numerosissime osservazioni
Anche la pagina Instagram autonoma degli studenti Bachelet (https://www.instagram.com/bacheletmemeofficial), nel mese di gennaio ha proposto un sondaggio sulle Instagram Stories riguardante le opinioni degli studenti sull’imminente arrivo di un parco commerciale: 112 voti a favore, 96 contro. Una situazione, tutto sommato, abbastanza equilibrata!
Ma, impegnati nella stesura di questo articolo, ci siamo resi conto della complessità di comprendere appieno il progetto e il suo impatto (positivo o negativo) sulla città e sulla nostra vita. Ci siamo chiesti: la nostra reazione (per il sì o per il no) è dettata da un’opinione informata o da un desiderio istintivo (W H&M! o W FFF!)? E quanti tra coloro che hanno risposto al sondaggio sapevano di cosa stavano parlando?
Abbiamo allora pensato di scrivere questo articolo… e di continuare a informarci e a informarvi per poter poi dare, tutti noi, una vera risposta: siamo favorevoli o contrari a questo progetto?
Rebecca Urso
La terra dei fuochi è una fetta del nostro stivale, la quale si estende nell’area tra la provincia di Napoli e Caserta, in territorio campano.
Quest’area è soggetta a una grande quantità di discariche, contenenti rifiuti di ogni tipo e percorsa da roghi attraverso i quali viene smaltita l’enorme quantità di rifiuti.
Purtroppo i roghi appiccati non sono soltanto illegali, ma comportano conseguenze nettamente più gravi, in quanto rilasciano quantità di diossina che porta a sua volta a malattie gravi e talvolta mortali. Il fautore di questo disastro è la camorra, la quale gestisce lo smaltimento illecito di rifiuti e che con questo ha fatto fior fior di quattrini, sostenuta peraltro dalle industrie, che hanno preferito appoggiare quest’attività in quanto apparentemente richiede un dispendio minore di denaro per lo smaltimento di sostanze nocive, piuttosto che munirsi di dispositivi a norma di legge.
E lo Stato non interviene? Beh che dire, diciamo che lo Stato ha mollato la presa nel momento in cui sembrava tutto fatto, rendendo vani gli sforzi di riqualificazione. Infatti le zone bonificate e messe in sicurezza erano soggette ad atti vandalici, probabilmente ordinati da chi suppone di essere padrone di quella zona e che in effetti si è dimostrato purtroppo tale. Di fatto le bonifiche sono state sospese e l’intenzione non è quella di riprenderle: la motivazione della scelta è intuibile. Sembra quasi che lo Stato non voglia inimicarsi un sistema così potente e preferisca “lavarsene le mani”, in quanto può sembrare una battaglia persa; oppure la corruzione in Italia è tale che la Camorra va a braccetto con lo Stato (questa non è un ipotesi poi così insensata).
Un’altra domanda che può sorgere lecitamente è questa: dopo la discesa in campo di gruppi di attivisti che si sono battuti e che tutt’ora lottano contro lo scioglimento delle calotte polari, al surriscaldamento terrestre o verso l’inquinamento, o ancora, per i recenti fatti che hanno colpito l’Australia… Nessuno ha pensato all’imminente aiuto di cui necessita, non solo il territorio in sé, ma anche gli abitanti di quella regione, che rimangono sempre più spesso vittime di malattie incurabili?
Ebbene, sembra quasi impossibile dirlo, tuttavia non ci sono stati grandi passi avanti dagli anni scorsi ad oggi: ci sono ancora incivili che, pur essendo a conoscenza di questo disastro ambientale, lasciano in discariche abusive ugualmente il proprio pattume.
Difatti i vigili del fuoco hanno fatto una scoperta al quanto allarmante: è stato trovato un lago di rifiuti pieno di plastiche,sacchetti, elettrodomestici e carcasse d’auto galleggianti all’interno di una cava dismessa, presso San Felice a Cancello in provincia di Caserta. La quantità impressionante di rifiuti è segno che il bacino è stato utilizzato come discarica.
La scoperta di questa nuova discarica è molto recente – risale al 13 gennaio – e ciò dimostra soltanto che la sensibilità della gente verso questo problema e verso, più generalmente, alla decadenza ambientale è quasi del tutto assente oppure si sposta su problemi esteri ma non sui nostri. Perché insomma “ si può risolvere”, “non è così grave”…
Sono anni orma che questo fenomeno ha preso piede e altrettanti anni in cui se ne parla nei telegiornali o nelle scuole. Tuttavia non c’è interesse nei riguardi delle avvertenze date e dei piccoli passi che si sono compiuti.
Non si possono biasimare alcuni atteggiamenti presi dai casertani che rimangono succubi e sono le marionette di un sistema che crea timore. Un sistema che impone, che spaventa e che contraria atteggiamenti opposti al suo volere. In altre parole, non sempre gli abitanti di quelle zone possono scegliere di agire a loro piacimento, se ci tengono alla loro pelle e a svegliarsi la mattina.
In conclusione per eliminare la così detta “terra dei fuochi” bisognerebbe prima estirpare alla radice un paradosso ancora più grande. La domanda è: c’è a volontà di farlo? Io non credo.
Sofia Beretta
Nella sezione News dal mondo un formato inedito: un articolo "allo specchio" sui recenti avvenimenti bellici in Iran.
Di seguito a confronto due delle nostre migliori penne: Riccardo Toresani e il prof. Paolo Maltagliati
Spiegare in maniera chiara quello che sta accadendo nel Vicino oriente (sì, l'idea di chiamarlo Medio Oriente è di fabbricazione americana. Per noi europei è 'Vicino'. Molto vicino. Persino troppo) non è esattamente semplice.
Ogni 'perché è successo questo?' ne porta a un altro, ogni risposta richiede di spostare indietro le lancette dell'orologio per essere trovata.
Ma proviamo rapidamente a percorrerlo, questo cammino a ritroso.
Il primo quesito è ovvio: 'Chi è Soleimani?'
Qasem Soleimani è (era) un generale dell'esercito iraniano, che, lo scorso tre Gennaio, è stato ucciso dalla aviazione degli Stati Uniti d'America con l'utilizzo di bombe sganciate da un drone (un velivolo senza pilota), nella città di Baghdad, capitale dell'Iraq, per ordine del presidente Donald Trump.
Semplice? Non proprio. Già così il gioco delle domande inizia a farsi complicato:
'Perché gli americani hanno ucciso un generale iraniano?'
'Cosa ci faceva un generale dell'IRAN in IRAQ?'
Qualcosa chiaramente non quadra.
In realtà, vi è un'unica e - apparentemente - semplice spiegazione per entrambi i quesiti.
Gli Stati Uniti d'America ritenevano, come del resto ritengono tuttora - a ragione o a torto, non spetta a noi dirlo – che Soleimani fosse coinvolto nell'attacco da parte di milizie sciite all'ambasciata americana di Baghdad del 31 dicembre 2019.
Ma, soprattutto, all'attacco del 27 dicembre a una base aerea irachena a Kirkuk, nel nord dell'Iraq, in cui venne ucciso un cittadino americano (era un contractor, ossia fondamentalmente un soldato mercenario) e feriti altri quattro, oltre a due soldati iracheni.
Ma, ripetiamo la questione: cosa c'entra l'Iran con l'Iraq? E gli Usa?
Finora abbiamo fatto un salto all'indietro solo di qualche giorno, dal 3 gennaio al 27 dicembre. Ora si fa sul serio.
Andiamo al 2003. Nella primavera di quell'anno gli Stati Uniti d'America, accusando il dittatore iracheno Saddam Hussein di aver prodotto e di nascondere armi chimiche potenzialmente a fini bellici ostili, gli mossero guerra per deporlo e 'ripristinare la democrazia'.
O almeno, quella era l'idea.
Saddam venne scalzato dalla sella piuttosto in fretta, ma gli americani scoprirono molto presto che uccidere un dittatore non risolve con la bacchetta magica i problemi di un paese...
Anzi, semmai, rischia di togliere il coperchio di colpo da una pentola di acqua che bolle.
Perché tutte le divisioni etniche, religiose, politiche che la comune paura della repressione da parte del tiranno teneva sopite, riemersero con tutta la violenza di una bottiglia di coca cola agitata per anni e, di colpo, finalmente, aperta.
Giunti a questo punto della lettura potreste dire – e avreste ragione a dirlo – che non ho spiegato ancora un bel niente, se non il motivo per cui dei soldati americani sono andati in un paese del Vicino Oriente nel 2003, hanno detto che se ne ritiravano nel 2011 ma che, tuttora, non vogliono (o non possono, per paura del caos che ne seguirebbe), andarsene definitivamente.
Il generale morto è iraniano! Va bene che il nome del paese è simile, cambia solo la lettera alla fine, ma perché questo ci parla di Iraq?
Calma, ci arriviamo.
Altro giro di lancette. Un'altra ventina abbondante di anni nel passato.
Siamo nel 1979-1980. Iran e Iraq si fanno guerra. Eh, sì, i due paesi confinano e, all'epoca, non si sopportavano gran che. Ma, anche in quel caso, c'era dietro ben più di una zampina americana.
Nel 1979, infatti, in Iran avvenne una rivoluzione (che cambiò anche il nome della nazione, dato che prima era universalmente conosciuta come Persia) che cacciò il re, Shah Reza Pahlavi.
Dovete sapere che lo Shah era molto amico degli americani, se non altro perché aveva concesso loro lo sfruttamento di diversi pozzi petroliferi del suo paese. Inutile dirlo, gli Usa non presero bene il cambio di governo... Per cui divennero all'improvviso molto amici del paese vicino, l'Iraq, tanto da spingerlo alla guerra contro la Pers- ahem, l'Iran.
Fu una guerra sostanzialmente inutile, in cui non vi furono né vincitori né vinti, ma solo migliaia di morti lasciati sul campo dall'una e dall'altra parte. E – nota a margine – fu proprio in quella guerra che si distinse un giovane generale iraniano. Sì, proprio lui. Qasem Soleimani.
Chiaro no?
Eppure una cosa non quadra ancora. Se ricordate, prima si è detto che, per il presidente Trump, Soleimani organizzava azioni terroristiche contro gli americani in Iraq assieme a delle milizie locali.
Perché degli iracheni dovrebbero mettersi con un iraniano, se quaranta anni fa i due paesi si odiavano a tal punto da farsi una guerra?
Ultimo balzo. Molto, molto indietro. Le lancette questa volta girano vorticosamente. Cinquanta... Cento... Cinquecento... Mille...
Mille e trecento anni fa. Anno più, anno meno. Guerra della Fitna, 661 dopo Cristo.
Fu in quegli anni che la religione islamica si divise in due grandi branche: sciiti e sunniti. Senza stare a complicare le cose, basti sapere che i secondi divennero la professione maggioritaria dell'islam in quasi tutti i paesi musulmani. Meno che, guarda caso, negli attuali Iran (tutto quanto) e Iraq centro-meridionale.
Soleimani, come la stragrande maggioranza degli abitanti del suo paese, era sciita. E da bravo sciita, stava sostenendo, stando a quanto afferma il governo iraniano, gli sciiti iracheni contro i terroristi sunniti dell'ISIS, non certo preparando attentati contro gli americani.
Cos'è l'ISIS? Ah, no, questa è un'altra storia...
prof. Paolo Maltagliati
Salve carissimi, dovete sapere che c’è un motivo per cui amo scrivere questi articoli, io godo nel parlare di ciò che mi dà fastidio, mi piace crogiolarmi con inutili discorsi fini a loro stessi che somministro in serata a poveri amici i quali vorrebbero solo dimenticare il tre preso nella versione di Seneca.
Ma poiché per questo motivo tutti mi hanno abbandonato, sono costretto a parlarne qui. Quindi senza altri inutili presse, oggi si parla dei recenti avvenimenti in Medio Oriente.
Il 3 gennaio, un drone Statunitense inviato da Trump si è fatto un bel viaggetto sulla città di Baghdad e - come un Babbo Natale in ritardo - ha sganciato un bel regalino sull’aeroporto internazionale della città, uccidendo 13 persone, tra cui il simpatico generale Iraniano Soleimani, morto per l’incendio causato dalla bomba. E quando l’ho saputo ho subito pensato:
Ma è legale sta cosa? Ma l’ONU sta lì a guardare? Ma la gente può dormire può dormire tranquillamente sapendo che gli Stati Uniti può sganciare una bomba in ogni parte del mondo senza dire niente a nessuno?'
Perché, analizziamo i fatti, le alte gerarchie del governo degli Stati Uniti hanno preso la decisione, senza chiedere né al parlamento né a nessun altro (questa sarebbe la democrazia?), di bombardare un aeroporto israeliano al fine di uccidere una persona, senza che sia stata processata e tantomeno senza che sia stata condannata a morte da nessuno.
Immaginiamo una situazione opposta: facciamo finta che domani il capo di stato iraniano decida che, poiché gli Stati Uniti hanno effettuato un attentato terroristico (perché di questo si tratta) contro un generale in carica dello stato, decida di inviare un drone alla Casa Bianca facendola esplodere ed eliminando il presidente Trump; credo che da dopodomani potrei direttamente cancellare l’Iran dal mappamondo, perché non credo che gli Americani la prenderebbero molto bene.
Non voglio discutere sul fatto che Soleimani fosse o no un terrorista e quindi un effettivo pericolo per gli Stati Uniti (ricordandoci però che egli è stato fondamentale per la guerra contro l’Isis), soprattutto perché non sappiamo e mai sapremo i reali interessi dietro questo attentato; posso però utilizzare la logica e capire che questo avvenimento, che sia fondato o infondato, è a tutto tondo un crimine contro i diritti umani e uno scavalcamento di qualsiasi legge, nazionale o internazionale, che esista a questo mondo.
Riccardo Toresani
Durante lo scorso mese, abbiamo sentito parlare ripetutamente da vari giornali e in televisione del MES e delle sue controversie in Italia. Ma in cosa consiste esattamente?
Il MES, ovvero il Meccanismo europeo di stabilità è un’organizzazione intergovernativa istituita nel 2012 con sede a Lussemburgo per aiutare finanziariamente i Paesi dell’Eurozona che si trovano in gravi difficoltà finanziarie o ne sono minacciati.
Ne sono membri 19 Paesi: Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna.
Il capitale sottoscritto totale è di circa 704 miliardi di euro mentre il capitale versato dagli Stati membri è di circa 80 mila euro. A livello di contributori, la Germania è al primo posto con il 27% del capitale, mentre l’Italia è al terzo posto con quasi il 18%. Ad oggi sono stati concessi prestiti a Cipro (€6,3 miliardi), Grecia (€61,9 miliardi), Irlanda (€17,7 miliardi), Portogallo (€26 miliardi) e Spagna (€41,3 miliardi).
Stati membri del MES (in blu)
Nel concedere un sostegno, il MES copre completamente i costi operativi e di finanziamento, e ha una capacità minima di prestito pari a 500 miliardi di euro, cifra che viene analizzata almeno ogni 5 anni.
Un altro modo in cui vengono raccolti i fondi è emettendo prestiti con scadenze fino a un massimo di 30 anni ad istituzioni finanziarie o altre parti.
Il MES è costituito da un Consiglio di governatori (Ministri responsabili delle finanze degli Stati membri della zona euro e il Presidenze dell’Eurogruppo), da un consiglio di amministrazione e da un direttore generale.
Le decisioni più importanti, comprese quelle relative alla concessione degli aiuti finanziari, sono adottate dal Consiglio dei governatori secondo comune accordo.
A partire dal 2017 si è iniziato a discutere su una possibile revisione del trattato istitutivo, ed è stato trovato un accordo politico sull’insieme di correzioni da apportare, ma per entrare in vigore occorre la conferma dei parlamenti dei singoli stati.
A dicembre dello scorso anno, Lega e Fratelli d’Italia hanno accusato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte di non avere rispettato le direttive dell’allora Maggioranza Lega-M5s che chiedeva al governo di non dare il via libero alle modifiche del trattato e di aggiornare il Parlamento prima di compiere qualsiasi azione. Secondo il leader della Lega Matteo Salvini e la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, il Presidente del Consiglio Conte avrebbe firmato un trattato “di notte” circa la forma finale del MES.
Il due dicembre, Conte smentisce i tweet fatti dai due leader alla Camera.
"Mi sono sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini - continua Conte - la cui 'disinvoltura' a restituire la verità e la cui 'resistenza' a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni" nel "diffondere notizie allarmistiche, palesemente false" sul Mes. Ad esempio, aggiunge il premier, "è stato anche detto che il Mes sarebbe stato già firmato, e per giunta di notte. Anche chi è all'opposizione ha compiti di responsabilità". E aggiunge: "Mi sembra quasi superfluo confermare a quest'Aula un fatto di tutta evidenza, ossia che né da parte mia né da parte di alcun membro del mio Governo si è proceduto alla firma di un trattato ancora incompleto: nessun trattato è stato infatti ancora sottoposto alla firma dei Paesi europei”.
«Rivendico un metodo inclusivo nelle decisioni europee», sottolinea il premier per mettere in guardia da intenzioni egemoniche o da fughe in avanti. Sul Mes la posizione del governo è netta: «Non bisogna insinuare dubbi negli italiani. Alcune posizioni sono mirate a portare l’Italia fuori dall’euro. Se così fosse, bisogna dirlo chiaramente. Io e il ministro Gualtieri abbiamo dimostrato che la riforma non apporta modifiche sostanziali e non introduce alcun automatismo nella ristrutturazione del debito ma lascia all’Ue il fondamentale ruolo di valutarne la sostenibilità e di assicurare la coerenza complessiva delle analisi macroeconomiche effettuate sui Paesi membri».
Infine, per chiudere sul tema il premier assicura: «Il Governo continuerà a operare secondo una logica “di pacchetto”, assicurando l’equilibrio complessivo dei diversi elementi al centro del processo di riforma dell’Unione economica e monetaria e valutando con la massima attenzione i punti critici. Nel caso di eventuale richiesta di attivazione del Meccanismo europeo di stabilità, il Parlamento sarà pienamente coinvolto, con una procedura chiara di coordinamento e di approvazione».
Ma la polemica delle destre italiane entra nel merito non solo delle modalità di firma del trattato, ma di quanto esso, a detta loro, danneggi gli interessi dello stato italiano. In termini semplici, le clausole per ottenere un prestito da parte del MES sono talmente stringenti da vanificare l'ingresso stesso del paese nel trattato, trasformandosi solamente in una perdita netta di capitale: un po' come se, per ottenere un prestito per comprare una casa, una persona dovesse dimostrare alla banca di non avere necessità di chiederlo, quel prestito.
La posizione del primo ministro italiano, come si è vista, è invece quella di spegnere eventuali allarmismi: come si può vedere dalle parole che abbiamo riportato, infatti, a suo modo di vedere non esiste nulla di particolarmente nuovo o insolito nel MES, rispetto a quello che già si fa normalmente in ambito internazionale europeo.
Sia come sia, il dibattito è figlio della 'solita' (ma importantissima) questione: noi italiani vogliamo oppure no "essere europei"?
È una domanda su cui, senza pregiudizi o posizioni ideologiche, dovremmo tutti noi ragionare insieme. Ne va del nostro futuro.
Rebecca Urso
L'auto cinese supera L’auto europea?
Negli ultimi anni, la Cina ha aumentato sensibilmente le esportazioni di vetture prodotte a livello nazionale. Il tasso di queste esportazioni, secondo quanto dichiarato, risulta superiore a quello rilevato in Germania, Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. Tra il 2013 e il 2018, infatti, c'è stata un crescita dell'export del 32%,passando in cinque anni da 46 a 60,6 miliardi di dollari di fatturato miliardi di dollari di fatturato. Non solo, già oggi 28 milioni di veicoli su un totale di 93 milioni all’anno sono cinesi.
Perché L'auto cinese supera L'auto europea?
Pechino è riuscita a fare un buon profitto ultimi due anni, dopo l'iniziale rallentamento della domanda interna di autovetture, a seguito della richiesta di autovetture straniere a marchio di lusso. Richiesta fatta dalla nascente classe media, che si era prima motorizzata con prodotti nazionali.
Ad aiutare il successo dell'auto cinese sono le autorità statali, che hanno incentivato il decollo dell'auto elettrica. Le aziende automobilistiche della Cina sono entrate in questo modo in uno stato di progresso tecnologico tale da essere competitive a livello mondiale. Un altro vantaggio di queste aziende è la differenza di prezzo fra i loro prodotti e quelli “Premium Green” pensati dall'Europa, in quanto sono nettamente più economici.
Un accordo con gli Stati Uniti?
Il 15 gennaio alla Casa Bianca, dopo una battaglia dai toni aspri, Stati Uniti e Cina hanno firmato la “fase 1" di un accordo commerciale che pone fine ai dazi. Ma non è tutto. Secondo indiscrezioni, Pechino dovrà inoltre accettare 200 miliardi di dollari di prodotti statunitensi da acquistare entro due anni. In cambio di questo acquisto, l'amministrazione di Trump ha rinunciato all'imposizione di nuove tariffe e di dimezzare quelle imposte il 1 settembre su miliardi di dollari dai cinesi. Successivamente , nel 2020 cesserà il vincolo del “Venture Cap”. Il vincolo da a ogni marchio straniero l’obbligo di formare joint venture paritetiche con aziende nazionali, come condizione per vendere sul mercato cinese.
E noi Europei, che faremo per contrastare queste manovre?
Martina Bianchi
Per migliorare le condizioni del settore dell'apicoltura e la commerciazione dei relativi prodotti, Bruxelles cofinanzia i programmi apicoli, che sono furmulati a livello nazionale in collaborazione con esso.
La commissione europea afferma, in una relazione sull’attuazione dei programmi apicoli messi in piedi dall’UE, che dopo anni di segnali preoccupanti si è visto un aumento di api in tutta l’Unione europea, nonchè di alveari e, di conseguenza, anche un aumento nella produzione di miele. Bruxelles stima un incremento della produzione del 16% tra il 2014 e il 2018.
“Il settore dell'apicoltura è fondamentale per l'agricoltura e per la biodiversità in generale. Dobbiamo incoraggiare gli apicoltori in tutta l'Ue”. Queste sono le parole del commissario europeo per l'agricoltura di origine polacca, Janusz Wojciechowski.
I programmi apicoli hanno una durata di tre anni. Nel triennio 2017-2019, sono stati messi a disposizione dall’UE 36 milioni di euro. Mentre per il triennio 2020- 2022, l’UE ha aumentato il tributo annuale mettendo a disposizione da 36 ai 40 milioni di euro. I fondi sono assegnati a ciascuno stato membro sulla base del numero di alveari comunicato all'Ue.
Fonti: https://amp.agrifoodtoday.it/filiera/api-miele-fondiue.htmlMartina Bianchi
#api #natura #unioneeuropea #miele #Bruxelles #news #dalmondo
15 dicembre 2019: nell'ultimo giorno della Cop 25, si è alla ricerca di un accordo sul clima.
"Sembra che la Cop 25 stia fallendo proprio ora. La scienza è chiara, ma viene ignorata. Qualunque cosa accada, non ci arrenderemo mai. Abbiamo appena iniziato", ha twittato l'attivista svedese per il clima Greta Thunberg. Dopo altre trentasei ore di negoziati, i Paesi firmatari dell'accordo di Parigi cercano ancora di raggiungere un'intesa e rispondere alle richieste dei giovani di tutto il mondo per mettere in atto scelte più radicali in favore del clima.
Ma cos’è COP?
La Cop 25, che nasce come organismo decisionale dell'UNFCC, in altre parole la Convenzione Quadro dell'ONU sui cambiamenti climatici, è la conferenza mondiale sul clima. Per la precisione, Cop è l'acronimo di 'Conferenza delle parti': si è scelto questo termine, al posto di 'Conferenza delle Nazioni', perché possono prendervi parte indipendentemente anche singoli comparti degli Stati, per esempio le città, provincie o regioni.
Dalla prima Cop del 1995, i governi mondiali si sono incontrati ogni anno per discutere l'emergenza climatica e trovare possibili soluzioni per la riduzione delle emissioni di gas serra. La Cop del 2015, ha portato al famoso accordo di Parigi del medesimo anno, quando le nazioni si sono impegnate a mantenere il riscaldamento globale a non più di 2°C sopra i livelli preindustriali. Si tratta dell'unico forum sulla crisi climatica in cui le opinioni dei paesi più poveri hanno lo stesso peso di quelle delle maggiori economie, come Stati Uniti e Cina. Il vertice punta a un accordo finale, cui si arriva però solo per consenso della maggioranza dei partecipanti.
A quanto pare le manifestazioni contro il cambiamento climatico e tutte le sue conseguenze per il nostro pianeta e per le biodiversità non hanno smosso nulla tra quei grandi uomini politici e capi di stato che non riescono ad accordarsi su cosa sia più giusto fare, non solo per loro e per il loro Stato ma primariamente per la Terra, che è la prima a soffrirne.
Forse è arrivato il momento di chiedersi cosa sia necessario, per far arrivare a chiunque l’idea che ci voglia concretezza in ciò che si promette ed è arrivato il momento di attuare un piano in favore della difesa climatica, perché l’accordo di Parigi del 2015 non ha prodotto grandi risultati.
In realtà, il timore più grande degli stati,che li spinge a un disaccordo, è che, oltre alla salvaguardia ambientale occorra ragionare sul mantenimento di un’economia florida: se il prezzo della scelta di uno stile di vita più sostenibile e della riduzione dell'utilizzo di combustibili fossili (come petrolio o carbone) è una riduzione del proprio benessere e della propria ricchezza, allora non tutti sono disposti a pagarlo a cuor leggero.
Tuttavia, anche per questa problematica, delle soluzioni ci sono: non è stato chiesto ad alcun Paese di arrestare totalmente l’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili, proprio perché si può comprendere quanto sia complicato e improponibile una richiesta simile, ma si parla di una conversione graduale dei consumi, con la scelta di materiali riciclabili e maggiori controlli sulle industrie, per consentire il rispetto da parte di queste dei limiti di consumi e emissioni consentite.
Dunque il dubbio è uno soltanto a questo punto: perché i Paesi, compresi anche quelli che non si trovano in situazioni economicamente difficili, non s’impegnano per limitare il più possibile l’emissione di sostanze nocive e mantenere gli obblighi seriamente?
A nostro avviso, le risposte possono soltanto essere di due tipologie:
la prima è che il concetto di cambiamenti climatici imponenti non tocchi personalmente e da vicino (non ancora almeno); per questo non si ritiene necessaria un’azione decisa.
Probabilmente molti suppongono che tutto ciò che sta accadendo intorno a noi sia ingigantito per fare “gossip”.
La seconda (e a mio parere probabilmente la più veritiera) è che, dietro al consumo e alla vendita di petrolio e carbone ci sia un mercato vastissimo, in grado di creare un profitto talmente elevato che nessuno intende rinunciarvi per perseguire un fine, sì, più giusto, ma meno proficuo.
Dunque, a causa di molteplici e contrastanti interessi personali, all’alba dell’ultimo giorno a disposizione per trovare un accordo sul clima la situazione è sconcertante, ma, si spera, ancora salvabile.
Sofia Beretta
#ambiente #ecologia #scienze #news #dalmondo
A questa domanda non pretendo una risposta, anche perché è obiettivamente improbabile trovarne una. Molti penseranno che ragionare per assurdo per rispondere ad una domanda ipotetica sia da idioti…
Peccato che centinaia di persone ci facciano i conti tutti i giorni.
Eh sì, perché nella regione dello Xinjiang sono tornati di moda i campi di concentramento (ammesso che se ne sia mai andata): stavolta le vittime sono i musulmani di etnia uigura, che vengono “rieducati” e indottrinati attraverso lavori forzati.
Per intenderci, non è necessario che sia tu ad aver commesso un reato (come abbandonare il paese) ma basta che l’abbia fatto un tuo parente, per essere internato.
È difficile pensare che nel 2019 questo sia ancora possibile, ma di fatto in Cina non esistono leggi che lo impediscano anzi, essendo ancora in vigore la pena di morte - la Cina vanta il primato di esecuzioni nel 2018 (e presumibilmente resterà in vetta anche nel 2019, battendo la concorrenza nella di Iraq, Iran, Pakistan e Arabia Saudita, i paesi che attualmente la seguono in questa macabra top dove).
Considerate che la Cina non solo fa parte dei BRICS, ma è anche in lotta con gli USA per aggiudicarsi il primato geopolitico del 21° secolo. Questo dato, in particolare, mi fa riflettere:
Onestamente, che lo 'stato guida' del secolo in cui vivo sia un paese sì, certo, emergente, tecnologicamente avanzato, economicamente stabile ma al prezzo di migliaia di vite umane…
Beh, non mi alletta per niente.
Non credo che gli Usa siano un’opzione tanto migliore... ma questa è un’altra storia.
N.N.
#cina #geopolitica #news #dalmondo