L' angolo degli scrittori

UN DELITTO QUASI PERFETTO

Il famoso ispettore David, un grande investigatore pieno di potenzialità proveniente da Londra, fu chiamato una mattina a indagare su un nuovo difficile caso: la morte di George Peacock, un ricco industriale inglese ritrovato assassinato nella sua villa di campagna, dove risiedeva da circa sei mesi con i suoi familiari.

Quando l’ispettore arrivò alla villa si trovò davanti una casa perfettamente normale, non sembrava che fosse appena successo un omicidio. La dimora era isolata dal resto delle case, circondata da un boschetto che la recintava loscamente rendendola buia e inquietante. Si giungeva all’entrata tramite una scalinata sormontata da due grandi colonne di marmo che si erigevano in tutta la loro maestosità.

L’ispettore attraversò il viale di pietra che serpeggiava tra il bel parco curato molto ricco di piante e dotato di svariate tipologie di fiori, salì velocemente la scalinata e bussò alla pesante porta di quercia. Mentre aspettava che gli aprissero si guardò intorno incuriosito dalla notevole varietà di oggetti peculiari che popolavano il portico.

Non ebbe il tempo di riflettere che la domestica, la signora White, aprì la porta e lo accolse in casa con aria triste e sconsolata.

L’investigatore entrò in un ordinato e pulito salone pieno di quadri costosi e soprammobili ricercati, la prima cosa che notò in un batter d’occhio era che l’aria che si respirava era molto tesa. La domestica lo portò verso una grande scalinata di legno che conduceva al piano superiore che si apriva su un lungo corridoio pieno di porte. La domestica attraversò un tratto di corridoio e lo portò all’interno di una stanza sulla destra, si trattava della biblioteca, il luogo in cui era avvenuto il delitto. Era molto grande e alta, infatti era strutturata su più piani e aveva scaffali che correvano su tutte le pareti, osservando la stanza vide che in soppalco erano poste numerose librerie contenenti parecchi libri. Appena David si addentrò nella stanza notò subito il cadavere impiccato penzolante al soppalco. Si avvicinò per osservare attentamente il corpo, notò che gli occhi erano ancora dentro alle orbite e toccandolo sentì che era ancora tiepido: il delitto era avvenuto da poco tempo.

La corda con cui era stato impiccato il signor Peacock era girata attorno al suo collo due volte, la osservò per capirne di più e ragionando gli venne in mente che quello era uno strumento apposta per fare escursioni. Insospettito, formulò una prima ipotesi basata sul fatto che alla vittima piaceva uscire a fare camminate e arrampicate: pensò subito che il signor Peacock si fosse impiccato. Si girò verso la signora White, che aspettava ancora vicino alla porta, e le chiese di radunare tutti i presenti in casa per capire cosa fosse successo realmente.

Nell’aspettare tutti i sospettati, David si guardò attentamente intorno e vide che uno scaffale era leggermente spostato più avanti rispetto a tutti gli altri. Pensò all’istante che qualcuno si era potuto addentrare nella biblioteca e che si fosse celato in questo nascondiglio segreto, secondo David quell’ indizio gli sarebbe stato utile per scovare il colpevole.

In quel momento la signorina White tornò nella biblioteca riscuotendolo dai suoi pensieri, con al seguito cinque persone che fece accomodare sul divanetto lì vicino in modo che fossero tutte pronte per essere interrogate.

L’interrogatorio cominciò con la signora White, che David portò nello studio del signor Peacock.

La signora raccontò che quel mattino aveva apparecchiato la colazione per la famiglia e l’aveva servita nella sala da pranzo come sempre, finita la colazione il padrone di casa si era ritirato in biblioteca per rilassarsi leggendo un libro. Lei invece, si era affrettata a preparare il pranzo al sacco per il Reverendo Green, che sarebbe passato quella mattina a ritirarlo per la sua escursione in montagna. L’interrogatorio continuò con il fratello del signor Peacock, il professore di storia Mister Plum; lui affermò di essere stato a scuola quel mattina a causa di un’assemblea.

L’ispettore decise di proseguire con la seconda moglie del signor Peacock, la signora Peacock; lei confermò di essere stata a letto quella mattina a causa di forti mal di testa. Dopo una breve riflessione l’ispettore si immaginò che gli artefici del delitto non fossero loro.

Il colonnello Mustard, che quel mattino era arrivato nella casa per discutere di alcuni affari con il signor Peacock, si impuntò sul fatto che lui non c’entrava niente riguardo l’omicidio perché al suo arrivo il signor Peacock era già morto.

Una degli ultimi sospettati era la figlia, la signorina Scarlett che confermò all’ispettore che quella mattina era uscita tardi per incontrarsi con il suo fidanzato con il quale doveva visitare una villa costeggiante il mare per il loro matrimonio. L’unico problema della villa però era che costava troppo per lei e per il suo fidanzato, perciò avevano chiesto i soldi al padre che però non voleva darli alla figlia, perché pensava che lei dovesse essere indipendenti.

L’ultimo della lunga serie di sospettati era il reverendo del paese, amico di famiglia il Reverendo Green che dichiarò di essere passato per la villa del signor Peacock per ritirare il suo pranzo al sacco per poi andare a fare una delle sue solite escursioni in montagna. Giunto nel luogo di inizio della passeggiata si era accorto di non aver portato con lui la corda, per questo era tornato nella casa del signor Peacock dove aveva scoperto la sua morte.

L’ispettore si illuminò perchè pensava di aver trovato il famigerato colpevole,

disse agli indagati di andarsene dalla stanza, in modo da poter riflettere in pace, ma di stare nei dintorni così che fossero raggiungibili in ogni momento.

Si mise a camminare per la stanza e si ricordò dalla libreria spostata, dove si diresse in un attimo per scoprirne di più ed arrivare fino in fondo a questo mistero. La osservò, si incastrava perfettamente tra i due muri e probabilmente non si sarebbe vista affatto se non fosse stata leggermente in avanti; la scostò del tutto e attraversò il muro che conduceva ad una stanza con scritto sulla porta “Camera di Scarlett”. Che cosa faceva lì quella porta? E come mai conduceva direttamente alla camera della figlia della vittima? Non ci capiva più niente, quel mistero si stava rivelando più difficile del previsto.

Sul parquet della camera c’era un foglietto, il detective lo raccolse e lo aprì, era un preventivo per un matrimonio su una villa al mare che costava veramente tanti soldi.

Ora nella sua mente tutto si faceva nitido, chiamò a questo punto tutti i presenti in biblioteca per esporre loro chi era il colpevole e come aveva fatto l'assassino a uccidere il povero signor Peacock.

Quando furono tutti radunati, l’ispettore cominciò a parlare: “ Miei cari signori e signore sono giunto ad una conclusione, l'assassino è qui tra noi ed ha agito per l’eredità e per poter realizzare un proprio sogno, l'assassino è… la signorina Scarlett. Lei ha rubato la corda del Reverendo Green in modo da far ricadere tutti i sospetti su di lui con lo scopo di distogliere le attenzioni da lei così da poter realizzare il matrimonio tanto atteso. Lei si è messa alle sue spalle e gli ha infilato sul collo un cappio fatto in precedenza, le è bastato tirare per togliergli la vita. Lo ha poi trascinato e legato al soppalco dando così l’impressione che si fosse impiccato“.

Finalmente anche questo mistero era stato risolto dal fantastico ispettore David.


11/04/2022 2B Nina C, Irene G, Aurora C, Ilaria G,Filip K

SANDOKAN, LA TIGRE DELLA MALESIA


Sandokan scomparve in mare davanti agli occhi degli inglesi e rimase sott’acqua per qualche minuto finché i britannici credendolo morto, si allontanarono. Ferito e privo di forze risalì a stento a galla e uscito dalle temibili acque si aggrappò a una asta di legno proveniente dalla sua nave ormai distrutta. Esausto, svenne per la grave ferita riportata in battaglia. Il sangue ancora sgorgava dal petto e Sandokan non aveva più forze né speranze. Sembrava ormai fosse arrivata la fine anche per la Tigre della Malesia. Fortunatamente fu salvato da una imbarcazione mercantile che era nelle vicinanze. Quando riprese i sensi si ritrovò nella cabina del capitano, accudito da un marinaio che gli aveva bendato la ferita. Ancora confuso, Sandokan chiese dove si trovava e il giovane marinaio gli rispose che lo avevano ripescato dal mare e che lo stavano portando nell’isola più vicina dove avrebbe potuto ricevere le giuste cure. Ricordando ciò che gli era successo, il suo cuore si riempì di sete di vendetta per tutti i valorosi uomini che erano caduti per seguirlo. Tra sé e sé si ripromise che avrebbe ritrovato e affondato la stessa imbarcazione degli inglesi e ucciso di persona il capitano di cui si ricordava bene il volto. Travolto da questi pensieri, sprofondò nel sonno più profondo. Nell’isola ricevette tutte le cure necessarie e dopo otto mesi era perfettamente in grado di salpare nuovamente i mari. Tornò al suo nascondiglio e riformò una ciurma di pirati: le nuove Tigri di Mompracem, pronti a seguirlo fino alla morte. Sandokan salpò con il suo nuovo vascello e altri obiettivi non aveva se non quello di vendicarsi. Dopo nove giorni di viaggio, avvistò un incrociatore inglese, ma ben presto si rese conto che non era quello che cercava. Il destino però gli sorrideva, quella era sicuramente un’imbarcazione di grande potenza che poteva tenere testa alla nave da guerra degli inglesi. Fu così che mise in atto un geniale piano. “Ammainate la bandiera da pirata” gridò “Ciurma tutti sotto coperta, che nessuno si muova!” aggiunse. Il capitano dell’altra nave vedendo il vascello alla deriva decise di avvicinarsi per capire cosa fosse successo. La nave sembrava deserta. Appena fu a tiro, Sandokan urlò: “Lanciate le ancore, all’abbordaggio!” In pochi istanti una miriade di uomini si stavano arrampicando come ragni sull’imbarcazione nemica. Gli inglesi furono colti così di sorpresa che non ebbero il tempo di reagire. Inutile la resistenza, ben presto furono fatti tutti prigionieri. “Prendete tutte le baionette, spogliateli delle divise e rinchiudeteli nella stiva!” ordinò Sandokan. Tutto procedeva secondo il piano, si era impossessato della nave che batteva bandiera Inglese, si era procurato le armi e le divise da indossare per far credere al nemico di essere compatrioti. Tutto questo avrebbe sicuramente giocato a suo favore nel momento in cui avrebbe incontrato l’incrociatore che cercava. Infatti due mesi più tardi la fortuna volle che Sandokan avvistasse quella stessa nave che aveva sterminato tutta la sua ciurma. Era arrivato il momento di mettere in azione il suo stratagemma. In effetti il capitano dell’incrociatore inglese osservando al cannocchiale una nave compatriota ordinò di accostarsi. L’incrociatore stava cadendo in trappola, si stava avvicinando senza timore e soprattutto senza essere preparato alla battaglia. Appena a tiro la Tigre della Malesia gridò: “Vira a babordo, affianca la nave” e il nostromo ubbidì. “A me, miei prodi!” urlò Sandokan e aggiunse: “All’arrembaggio!” Furono lanciate le ancore e i pirati, assetati di vendetta, si scagliarono con furore verso la nave nemica. S’arrampicarono agili e veloci come scimmie e si precipitarono sul ponte dell’incrociatore, prima ancora che gli inglesi si rendessero conto di quello che stava accadendo. Sandokan prese una delle corde delle vele e la usò per lanciarsi e raggiungere i suoi uomini sul ponte. Con la Tigre della Malesia al comando si scaraventarono contro gli artiglieri massacrandoli sul posto, sbarrarono poi il passo ai fucilieri a colpi di baionetta. Quando furono scarichi si avventarono sul nemico a colpi di scimitarra mozzando teste e infilzando corpi avanzando sempre di più. Nel frattempo si udì un colpo ravvicinato di cannone che aprì uno squarcio sulla nave inglese e l’acqua iniziò ad inondare le stive. Sandokan si affrettò e si fece strada finché raggiunse il comandante e lo scaraventò con impeto contro la cabina. “Ti ricordi di me?” gli urlò contro Sandokan. “Come potrei scordarti” rispose il capitano “Ma non eri morto?” “Sono tornato dall’oltretomba per prendermi la mia vendetta” gridò la Tigre della Malesia puntando un coltello alla gola del capitano. Con gli occhi sbarrati di paura il capitano supplicò: “Ti prego risparmiami, abbi pietà di me!” Sandokan esitò un momento quel che bastò perché un inglese lo colpisse alle spalle e cadde a terra sanguinante. In quel frangente il capitano gli si scagliò contro con una spada per dargli il colpo finale, ma Sandokan lo evitò prontamente e lo infilzò con il coltello. Il sangue iniziò a sgorgare e in pochi attimi il capitano morì. Nel frattempo le Tigri di Mompracem avevano avuto la meglio sugli inglesi. Tornarono in fretta sulla propria nave e issarono fieri la bandiera dei pirati mentre osservavano la nave inglese un poco alla volta inabissarsi. Quella sera tutta la ciurma festeggiò la vittoria bevendo a fiotti rum fino ad ubriacarsi. In cuor suo Sandokan ripensò ai suoi uomini che mesi prima avevano dato la vita per lui e sussurrò: “Amici miei, riposate in pace, vendetta è stata fatta!”.


1^D Sofia. C 4/04/2022

Noi ragazzi di terza abbiamo studiato la Prima Guerra Mondiale in storia e abbiamo prodotto un tema al riguardo. Prendetevi del tempo e leggeteli, meritano!!

Caro figliolo,

non so bene che giorno sia oggi.

Qui i giorni sono tutti uguali, i rumori, i colori.

La guerra ti fa perdere la cognizione del tempo.

Ti svegli a tarda notte a causa degli spari e delle granate lanciate al fronte;

osservo l’orizzonte con il binocolo attraverso una stretta fessura tra i sacchi che proteggono e rinforzano il buco in cui viviamo.

Si vive, si mangia, si dorme sul fango, sporchi come animali dalla vita in giù, senza poterci lavare.

Dormo su una vecchia branda, arrugginita, con spuntoni e filo di ferro spinosi.

Si respira un’aria densa, sporca. Il clima è umido, piove frequentemente e fa molto freddo a causa della forte aria pungente.

Ho i geloni alle mani e ai piedi.

Fin da piccolo, a casa, nella bella campagna sandricense, andavo a caccia con mio padre oppure mi faceva tirare con un vecchio fucile addosso a dei bersagli.

Per la mia buona mira mi hanno affidato una delle mitragliatrici sull'ala destra della trincea.

Il mio compito è di coprire i miei compagni dalle retrovie, facendo fuoco sui nemici, invece, in caso di assalto.

I superiori restano in contatto con noi trasmettendo ordini attraverso una radio.

La loro vita è più facile, al quartier generale, non hanno mai visto veramente questo inferno, non sanno cosa vuol dire vedere morire compagni, amici, persone come noi, con cui avevamo parlato o bevuto il caffè poco prima dell’assalto. Morire per un motivo non ancora chiaro a nessuno.

Dalle retrovie vedo uomini morire e dissanguarsi, cadere e non rialzarsi.

Ho la consapevolezza di sparare a uomini come me, impauriti e speranzosi che questa guerra abbia fine.

Abbiamo il naso tormentato dall’odore di bruciato e puzza derivante dalle scorte di cibarie, se così si possono chiamare. Nelle orecchie rimbombano gli spari, le urla e le esplosioni delle bombe a mano.

Caro figliolo, ti scrivo perché sto bene e soprattutto per farti capire che la guerra non è una bella cosa, è solo un mezzo, un modo per una nazione per affermare la sua forza bellica e la sua superiorità.

Anche se per molti la guerra sembra una cosa positiva, un’occasione, io la ritengo solo una corsa al massacro, un modo orribile e indegno di morire perché si è uccisi da una persona tale e quale a noi, l’unica differenza è il paese in cui è nata.

Certe cose si possono capire solo se vissute, ma spero che tu non debba mai passare un’esperienza simile a questa.

Ci rivedremo presto, statemi bene.

Tornerò a Sandrigo, non perdete la speranza.

Giulio

Giulio Peron 3B

16 novembre 1917

Carissimi genitori,

vi scrivo seduto sul fango, chinato sulle mie ginocchia, accanto ad un sacco riempito di sabbia fino all’orlo su cui poggerò la testa appena potrò riposare. Immagino il sollievo brillare nei vostri occhi stanchi e stremati dalla situazione leggendo questa mia lettera, un autentico pezzo di storia che narra l’attualità che sto vivendo. L’ambiente è costantemente malinconico e dopo la disfatta di Caporetto nemmeno ai più giovani nazionalisti, partiti volontariamente col pensiero fosse una guerra giusta e inevitabile, quella fiamma contenuta nel loro animo che rappresenta la speranza è rimasta accesa. Persiste fioca in qualcuno ma io non sono tra quelli. Ogni avanzata è una corsa contro la morte. Sfondare le linee nemiche è fonte di soddisfazione, ma perdere quei pochi metri conquistati ti abbatte. Vicino a me dorme un calabrese, è arrivato da poco, dopo la leva dei ragazzi del ‘99 e ha un viso spento e impaurito. Capita che ci scambiamo qualche parola, nonostante il mio veneto e il suo accento meridionale fatichino a capirsi e stonino un po’. Imbraccio un fucile quasi sempre e se mi vedessi tu, mamma, non penseresti più a me come al tuo bambino. Mi manca andare a messa nella bellissima Chiesa di Santa Maria e Santi Filippo e Giacomo ogni domenica. Ho sempre freddo e solo il rancio riesce a scaldarmi lievemente, anche se non sempre comprendo cosa io stia ingoiando, sono consapevole che senza morirei. L’altro giorno per levare il corpo di un mio compagno che giaceva a terra, sotto la pioggia, trafitto da un proiettile nemico, ci sono volute ore e non era affatto piacevole stargli accanto. Talvolta mi capita di soffermarmi a riflettere su quelli che il caporale chiama nemici, che descrive brutalmente seppure non siano altro che ragazzi come me, contro cui non ho nulla. Questa cosa mi intristisce e confonde. Così come questa guerra che inizia a pesare come il piombo sul ghiaccio fine. Non dimenticatevi di salutarmi le mie sorelle, che ora saranno a giocare in via San Gaetano come ogni pomeriggio con i cugini, e riferite loro di restare forti per me. Quando tornerò sarà tutto così immensamente diverso che faticherò a riconoscere la gente. I luoghi invece no, perchè Sandrigo non è possibile che io me la possa scordare! Spero di rivedervi presto, non mi rimane altro che lottare per rimanere vivo.


Il vostro Marco

Linda Guerra 3B

5 maggio 1915

Cara Maria,

mi manchi davvero tanto.

Non sai quanto mi dispiace di essere partito per questa guerra lasciandoti sola in casa con due figli da accudire e tanto lavoro da sbrigare, ma non avevo altra scelta.

Mi è stato detto di prepararmi militarmente per la guerra che da lì a poco avrei dovuto affrontare, e così ho fatto.

Ho preferito non dirti nulla per non farti soffrire e perché probabilmente mi avresti implorato di non partire, perché sarei andato incontro a morte certa.

Forse mi odierai per questo, ma era il mio destino e non potevo oppormi.

Sappi che qui la “vita” è dura, si cerca semplicemente di non morire.

Siamo obbligati ad atti atroci e orribili contro il nemico, che a noi personalmente non ha fatto nulla di male, è solamente un altro uomo come me che è stato costretto a lasciare il suo paese, i familiari e la vita quotidiana per andare in guerra, e ora siamo costretti ad ucciderci a vicenda per conquistare qualche metro di terreno.

Ora ti sto scrivendo da una trincea, buche che scaviamo noi soldati quando riusciamo ad avanzare in territorio nemico e che ci riparano dagli attacchi degli avversari.

La notte ci diamo i turni per dormire, qualcuno deve restare di guardia in caso i nemici attaccassero a sorpresa nel bel mezzo della notte.

Stanotte sono di guardia insieme ad altri miei compagni e visto che al momento sembra tutto tranquillo mi sono nascosto dietro a dei sacchi di grano per scriverti.

Le condizioni qui sono davvero pessime, si sentono bombardamenti di continuo, vedo molti dei miei compagni morire, ho costantemente paura di attacchi a sorpresa, la notte si muore di freddo e i posti dove dormiamo sono scomodissimi, quando non dobbiamo attaccare possiamo mangiare qualcosa, di solito pane o cibo inscatolato.

Non sai quanto mi piacerebbe tornare alla normalità, nella nostra casetta a Sandrigo, andare in chiesa ogni domenica e riunirmi in piazza con i miei amici.

Spesso faccio fatica a dormire vedendo ogni giorno cadaveri di uomini morti per la loro patria, con mille speranze e sogni infranti.

Non metto in dubbio che in questo momento sia dura anche per te, cara Maria, che qualche mese dopo aver comprato una casa tutta nostra e aver avuto il secondo figlio ti sei ritrovata sola, senza il mio aiuto e appoggio, dovendo anche lavorare in fabbrica. Ma sei una donna forte e sono sicuro che riuscirai a trovare una soluzione.

Ricordati che ti amo tanto e che se ogni giorno mi alzo con la forza per andare a combattere è solamente pensando a te e ai nostri figli, che siete a casa ad aspettarmi.

Non vi posso promettere che tornerò a casa, ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza, non so precisamente da quanto tempo sono qui e per quanto ancora devo restare, ma vi prometto che resisterò e combatterò con tutte le mie forze per poter tornare ad abbracciarvi.

Sta per sorgere l’alba e tra poco dobbiamo prepararci per avanzare, ti scriverò ogni giorno così saprai che sono ancora vivo e quella fiamma di speranza sarà sempre accesa in te.

Spero che i bambini continuino ad andare al parco in via San Gaetano, per respirare quella libertà di cui io sono privo.

Maria, Sofia, Francesco, mi mancate moltissimo.

Un abbraccio, tuo marito Antonio.


Nora Piantanida 3B