SAN GIOVANNI IN CONCA RIVIVE GRAZIE AD INTERNET
CARAVAGGIO E LA CHIESA DI SAN GIOVANNI IN CONCA
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(L'atto di battesimo di Caravaggio avvenuto nella chiesa milanese di S. Stefano in Brolo. E' del 30 settembre 1571. Vi si leggono i nomi dei genitori "firmo merixio" e "lucia de aratoribus")
E' il 1584. Michelangelo Merisi arriva a Milano, dove era nato, da Caravaggio per iniziare la strada di pittore; nello stesso anno suo fratello minore Giovanni Battista inizia la carriera ecclesiastica. Viene steso un regolare contratto di tirocinio: Simone Peterzano, il maestro, avrebbe ricevuto 24 scudi l'anno per 4 anni e in cambio garantito vitto, alloggio in casa sua e insegnamento dell'arte al giovanissimo allievo (13 anni). Risulta che la madre di Michelangelo dovette poi vendere alcune terre per poter onorare gli impegni presi con il maestro.
E a Milano c'era un palazzo che non poteva non suscitare nel giovane Michelangelo ricordi di famiglia, di legami infantili. E' il palazzo che si vede alla sinistra della chiesa di San Giovanni in Conca e che era di proprietà dei marchesi Sforza di Caravaggio.
(Incisione di Marcantonio dal Re, 1745 circa)
Secondo l'ipotetica ricostruzione del blog "Urbanfile. La voce delle città", intorno al 1570 il palazzo Sforza di Caravaggio e la vicina chiesa si presentavano così. ►
Ma chi abitava, sia pure non continuativamente, quel palazzo? Proprio i nobili di cui il giovane pittore era "suddito", i marchesi della famiglia Sforza-Bentivoglio-Colonna, signori di Caravaggio. Forse non solo un semplice suddito: il marchese Francesco era stato fra i testimoni di nozze dei genitori di Michelangelo; sua moglie Costanza, della potente famiglia romana dei Colonna, aveva scelto come balia per i suoi figli la zia materna del pittore, Margherita, e poi, in seguito, sua sorella Caterina per i nipoti.
IL NONNO E LA MARCHESA
Il nonno materno del pittore, Giovan Giacomo Aratori - secondo gli studi di G.Berra - aveva uno stretto rapporto professionale e di conoscenza con la coppia Francesco-Costanza. Egli era, diremmo oggi, un "agente immobiliare" di successo e godeva di un certo prestigio sociale. Anche dopo la morte del marito, Costanza continuò a riporre piena fiducia nel nonno di Caravaggio e nel suo operato. E così la ritroviamo spesso presente come un'ombra discreta e protettrice nei riguardi del pittore nei momenti difficili che egli attraversò.
CARAVAGGIO (Bergamo). L'aspetto attuale dell'antico Palazzo dei marchesi Sforza di Caravaggio, oggi Palazzo Gallavresi e sede del Comune di Caravaggio.
MILANO. Musei del Castello Sforzesco. Il portale è tutto ciò che resta dell'antico palazzo Bentivoglio-Sforza-Colonna di piazza S.Giovanni in Conca.
1584: proprio nell'anno in cui il Caravaggio entra nella bottega del Peterzano, viene pubblicato a Milano il Trattato dell'arte de la pittura del pittore milanese GIOVAN PAOLO LOMAZZO. Lo avrà letto il giovane Michelangelo? O forse sarà entrato qualche volta in San Giovanni in Conca per vedere le due "Crocifissioni" dello stesso Lomazzo che la chiesa custodiva? O avrà varcato la soglia di Palazzo Sforza per essere ricevuto e magari guardare le opere d'arte possedute dai nobili signori?
Una studiosa, S.Macioce, ha cercato di portare nuova luce sul periodo milanese del Caravaggio, ma i risultati di questi suoi studi, basati su documenti d'archivio, non sembrano da tutti condivisi. Secondo le sue ricerche, Michelangelo Merisi avrebbe lavorato ad alcune pitture a Milano ancor prima del 1584 ed in questo periodo avrebbe alloggiato proprio presso la parrocchia di S. Giovanni in Conca, attigua al palazzo dei suoi protettori.
GLI ANNI DELLA PESTE
Nell'incisione si vedono, lungo la strada, lugubri carri carichi di morti appestati. Davanti alla prima colonna un sacerdote sta celebrando la Messa.
La peste di Milano del 1630 ridusse gli abitanti della città di quasi una metà. E' conosciuta come "la peste dei Promessi Sposi" e la documentazione di cui disponiamo permette di ritrovare qualche traccia che porta, come si vedrà, proprio fin dentro il convento dei Carmelitani di S. Giovanni in Conca.
█ 2018: ritrovato il batterio della peste nelle carte dell'Archivio di Stato
Fondamentale, durante la pestilenza il ruolo dell'arcivescovo Federico Borromeo, che cerca di organizzare in tutti i modi forme di assistenza spirituale e materiale e, al tempo stesso, vede nell'epidemia un castigo per i peccati e la corruzione del mondo. Lo stesso Federico narra che un frate carmelitano di San Giovanni in Conca aveva la lingua così orribilmente piagata da un'ulcera causata dalla malattia, che morì d'inedia, non riuscendo a mangiare nulla.
۞ Federico nutrì le incertezze e le idee di gran parte delle persone colte del suo tempo sulla peste. Non credette in un primo momento nella contagiosità del morbo, ma poi condivise la credulità nelle "unzioni" pestifere, sia pure con la riserva che vi fosse molto di inventato, come scrive in un suo interessante trattatello. ۞
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◄ Un editto ("grida") del Governatore dello Stato di Milano contro gli "untori" (13 giugno 1630). Vi si legge: "...sono stati unti li muri delle Case, molte Porte, e Cadenazzi di esse, con unzioni di colore parte bianco e parte giallo, e il travaglio d'animo e spavento che questa mala azione ha cagionato al Popolo, per il timore concepito, che sia stata fatta per aumentar la peste..."
Il 22 giugno 1630 Guglielmo Piazza viene arrestato con l'accusa di essere un untore; il 26 segue l'arresto di Giovanni Giacomo Mora accusato di essere un "fabricatore" di unguenti pestiferi. Interrogatori, torture, testimonianze... Nel mese di luglio altri arresti, fra cui, il giorno 8, quello di un certo Giacinto Maganza. Un piccolo abituale delinquente, a quanto pare, che racconta... racconta... Interrogato sulla sua paternità, Giacinto risponde: "Io mi chiamo Giacinto Maganza e sono figliuolo di un frate che si chiama frate Rocco, che di presente si trova in San Giovanni in Conca e sono milanese e molto conosciuto in porta Ticinese". Anche lui, come altri, giustiziato non molto dopo. Considerando anche l'epoca, una vita probabilmente difficile...
FEDERICO BORROMEO era nato nel 1564 a Milano ed era cugino di S. Carlo Borromeo (che fu Arcivescovo di Milano dal 1564 alla morte). Anch'egli ricoprì lo stesso incarico dal 1595 per trentasei anni. Nella sua opera si ispirò chiaramente al modello del suo predecessore Carlo.
Ripercorrendo a ritroso la vita di Federico Borromeo, una traccia porta in San Giovanni in Conca. Un suo biografo, F. Rivola, narra che fin da giovanissimo era assiduo frequentatore di chiese: “Celebravasi con solennissimo apparecchio e con incredibil concorso di gente nella chiesa di San Giovanni in Conca la festa di quel glorioso Apostolo, quando egli in su l’ora del Vespro accompagnato da quella comitiva di servidori che lo stato suo richiedeva colà si condusse….”
E' dunque il 27 dicembre, festa di San Giovanni. La distanza fra Palazzo Borromeo di Contrada Rugabella e la chiesa è poca: l'adolescente Federico entra, si raccoglie devotamente, ma una banda di nobili giovinastri cerca di disturbare la sua preghiera e la sacra funzione. Invano... perché Federico lancia su di loro uno sguardo profondo che li turba. Ed essi, allora, "confusi e compunti si partirono". [Alessandro Manzoni conosceva l'episodio, ma decise poi di non utilizzarlo per la redazione definitiva dei "Promessi Sposi"].
UN GIOVANE "PLAGIATO" DAI FRATI DI SAN GIOVANNI IN CONCA ?
(Da più di 4 secoli, enormi tele appese all'interno del Duomo di Milano stupiscono i fedeli e perpetuano l'immagine monumentale di Carlo Borromeo, grande Vescovo, pastore instancabile sino all'eroismo.)
Nel 1584, poco prima di morire, S. Carlo Borromeo deve affrontare un "caso" delicato. Un giovane di 14-15 anni, Carlo, era stato ammesso nel convento dei Carmelitani di S. Giovanni in Conca ed aveva ricevuto l'abito. Ma i parenti si erano opposti, sostenendo che era stato in qualche modo plagiato. Il ragazzo invece protestava che da più di sei mesi gli era venuta l'ispirazione di farsi frate di S. Giovanni in Conca e chiedeva di non essere più molestato dalla famiglia. Precisava inoltre di aver preso la decisione all'insaputa della madre.
Non apparteneva ad una famiglia umile e, a quanto pare, era l'unico figlio maschio: la madre era Ersilia Visconti di Saliceto, il padre Alessandro Cremona, un gentiluomo di Senago. La questione si complica: i frati, i parenti, persino una magistratura milanese si rivolgono al Papa. La decisione di Roma arriva il 30 ottobre: Gregorio XIII ordina che il giovane sia consegnato all'Arcivescovo che lo interrogherà e deciderà secondo coscienza.
Come andò a finire? I documenti al momento disponibili in rete tacciono, ma alcune tracce sembrerebbero indicare un destino ben diverso. Lo si ritrova a Roma intorno al 1590, amico e confidente della bellissima Laura Maccarani, per la quale si struggevano d'amore gentiluomini ed ecclesiastici (tra cui il giovane cardinale Odoardo Farnese). E, a quanto pare, si sposò ed ebbe una figlia. Laura fu la madrina di battesimo...
A partire dal 1857 il sacerdote ARISTIDE SALA pubblicò alcuni volumi di Documenti circa la vita e le gesta di S. Carlo Borromeo, in cui si trovano anche numerose lettere scritte e ricevute dal Borromeo. Come archivista della Curia Arivescovile fece anche un importante riordino di tutte le carte d'archivio.
QUANTE "ANIME" AVEVA LA PARROCCHIA DI S. GIOVANNI IN CONCA
Per far luce sulla storia di una parrocchia è di grande importanza consultare anche le carte d'archivio delle "visite pastorali" che il Vescovo (o un suo delegato) ha l'obbligo di compiere periodicamente. La visita che San Carlo Borromeo fece nel 1567 a S. Giovanni in Conca ci offre, fra l'altro, il dato numerico delle "anime" presenti nel territorio della parrocchia: 300, numero forse inferiore alla realtà, considerati i criteri non sempre precisi delle registrazioni del tempo.
S. D'AMICO ha calcolato poi che nel 1610 il numero era salito a 584 (ma non era ancora arrivata la peste...) Per il Settecento si hanno questi dati: 490 anime circa per il 1769, 600 circa per il 1783. Non è un numero elevato: nello stesso 1783 le parrocchie vicine presentano cifre più alte: S. Nazaro in Brolo 5700, S. Giovanni Itolano 2240, S. Maria presso S. Satiro 1552, S. Alessandro 870.
Si può ragionevolmente supporre che i Carmelitani (insediatisi a S. Giovanni in Conca dal 1531) contassero fra i loro parrocchiani parecchi esponenti di famiglie nobili (ed i loro servitori): Visconti, Sforza di Caravaggio, Cicogna, Cusani, Erba-Odescalchi...
Alle spalle di S.Giovanni in Conca si trovavano un quartiere poi distrutto (il Bottonuto) ed una chiesa non più esistente oggi: S. Giovanni Laterano. Per saperne di più...
UN "AFFITTA-LETTI" DEL '400: A Milano, Maestro Giacomo da Turate è un fabbricante di strumenti musicali della parrocchia di San Raffaele che, secondo l'uso del tempo, ospita ed istruisce in casa sua alcuni apprendisti, sulla base di un ben preciso contratto scritto (in caso di malattia, ad esempio, l'apprendista era tenuto a rimborsare il maestro ed a pagarsi medico e medicine). In più, Maestro Giacomo affitta letti in una casa vicina a San Giovanni in Conca: la coperta costa lire 8, un copertone lire 16, i lenzuoli lire 16, i cuscini lire 4, il letto con il materasso lire 40 (contratto del 1487, regolarmente sottoscritto presso un notaio). →
ALBERGHI, OSTERIE...
Le vie attorno a S. Giovanni in Conca sembrano aver avuto, in passato, una vocazione "alberghiera" (nel '600 Porta Ticinese e P. Romana erano le zone con il maggior numero anche di osterie e taverne). Celebre l'albergo "dei Tre Re", dove nel 1492 alloggiarono gli ambasciatori di Venezia, e poi nobili, ecclesiastici... Nell'Ottocento esso era il capolinea delle vetture a cavallo che giungevano dall'Italia, dalla Svizzera e dalla Germania. Un nobile patrizio genovese, ospite dell'albergo nel 1609, lamenta però di essere stato assalito da "una turba crudel di cimicioni".
L'albergo dei "Tre Svizzeri" all'inizio dell'Ottocento, si trovava proprio nel "Vicolo San Giovanni in Conca" e l'albergo "Reale" si trovava appunto in via Tre Alberghi...
Data la posizione di S. Giovanni in Conca sulla direttrice da e per Roma, è possibile supporre che un certo flusso di pellegrini abbia in qualche modo interessato la nostra chiesa.
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← È l'"Archivio storico lombardo" del 1907 a fornirci questi dati su Maestro Giacomo da Turate: si tratta di una rivista preziosa e indispensabile per chiunque voglia fare ricerche storiche in ambito milanese, e non solo. Molte annate di questa rivista sono oggi consultabili direttamente in rete. Per saperne di più
UN OSPITE DEL CONVENTO DI S. GIOVANNI IN CONCA
"Alloggiai in convento nostro di religiosi 35 e vi steti sei giorni e fui trattato assai bene in tutto. La chiesa dei nostri Padri, detta in Chonca, è di tre navate et alla processione della nostra Beata Vergine del Carmine li fossimo (fummo) a servire et li fecero un rinfresco assai civile et io come forastiero e pellegrino so che li feci onore nel mangiare e bere" [dunque nel 1717 i frati di San Giovanni in Conca erano 35]
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(Fra Giacomo Antonio Naia, Carmelitano, in pellegrinaggio verso Santiago di Compostela nel 1717, alloggiò presso i suoi confratelli del Convento di S.Giovanni in Conca. Lasciò un diario del suo pellegrinaggio.
SAN GIOVANNI IN CONCA "CHIESA DEI TEDESCHI" ?
Entriamo in un giorno imprecisato verso la fine del '500 nella chiesa, seconda cappella a destra, la Cappella della Santa Croce: sull'altare una "Crocifissione" del Lomazzo. Il pittore dice di averla dipinta per il nipote del celebre artista tedesco Albrecht Dürer. E questa stessa cappella aveva come suo "patrono" la comunità dei mercanti tedeschi di Milano, i quali avevano elargito offerte ai frati di San Giovanni per la celebrazione di Messe e potrebbero essere i committenti del quadro.
Una studiosa (L. Lanzeni) in un saggio documentatissimo ha avanzato l'ipotesi che San Giovanni in Conca potesse essere un punto di riferimento per la comunità tedesca presente a Milano nella seconda metà del Cinquecento, così come Santa Maria della Pace era la chiesa della comunità spagnola.
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Giovan Paolo Lomazzo, il pittore che diventò cieco all'età di 33 anni, è un'originalissima figura del nostro Cinquecento. Per saperne di più: Wikipedia
Mute ma, in qualche modo, presenze... Un'indagine, anche molto limitata come questa, su coloro che sono stati sepolti in San Giovanni in Conca, può essere utile per approfondire alcuni aspetti della sua storia. I più famosi sono naturalmente Bernabò Visconti e la moglie.
█ UN ARCIVESCOVO █
Il 23 dicembre 1740 si celebrano in San Giovanni in Conca i funerali solenni del cardinale BENEDETTO ERBA ODESCALCHI, di nobile famiglia comasca e arcivescovo di Milano dal 1712 al 1736. Costretto ad abbandonare il governo della sua diocesi per gravi motivi di salute, continua a vivere nel palazzo di famiglia, che sorgeva proprio a due passi da San Giovanni in Conca nell'attuale via Unione. E nel testamento vuole che le esequie siano celebrate non in Duomo ma nella "sua" chiesa, dove chiede di essere sepolto. La sua salma sarà infatti deposta al di sotto della scalinata per la quale si saliva all'altar maggiore. In seguito i suoi resti furono traslati in Duomo.
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D. O. S.
IO. BEBVLCO MEDIOL. PATRICIO
SVMMO INTER INSVBRES MERCATORI
AC QVAESTORI REGIO
NEC NON NOBILISS. MATTHAEAE
MARLIANAE POSTERISQUE SVIS
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█ UNA VEDOVA █
A G. PIETRO GALLARATI, sepolto in S.Giovanni in Conca, la vedova Clara dedica nel 1604 una lapide sepolcrale con parole di vivo dolore, in cui ricorda i 25 anni vissuti insieme. Nel suo testamento (1624) Clara Delfinoni lascia alcuni beni all'Ospedale Maggiore di Milano (fra cui una casa sita nel territorio della parrocchia di San Giovanni in Conca). Alla chiesa destina poi la somma di L. 6000 per la costruzione di una cappella intitolata ai santi Chiara (il suo nome) e Pietro (il nome del marito morto anni prima) da erigersi in San Giovanni in Conca.
Un video su Palazzo dei Giureconsulti, l'opera forse più significativa di Vincenzo Seregni a Milano, iniziata nel 1562 ↓
Un particolare della facciata del Palazzo dei Giureconsulti nell'attuale via Mercanti →
█ UN MERCANTE █
Non era di famiglia nobile GIOVANNI BEOLCHI. Un ricchissimo "uomo nuovo", al servizio degli Sforza: appaltatore del sale, mercante, finanziere, informatore politico. Per lui (e per la madre) il figlio Francesco nel 1500 pone una lapide tombale in San Giovanni in Conca. La sepoltura qui e la lapide indicano che il processo di "nobilitazione" è ormai completo, dato che viene definito "patricius". San Giovanni in Conca era pur sempre una sorta di "chiesa di famiglia" per i Visconti-Sforza e dunque un luogo ancora prestigioso per una sepoltura.
█ UN ARCHITETTO █
VINCENZO SEREGNI, alla sua morte (1594) volle essere sepolto in S. Giovanni in Conca. Architetto del Duomo, attivo in molte importanti "fabbriche" di Milano e del milanese, fu una personalità molto significativa dell'architettura del '500. Si sentiva probabilmente molto legato ai Carmelitani di San Giovanni in Conca, a quella chiesa e a quel convento che aveva così profondamente rinnovato.
La tomba cui apparteneva questa lastra era stata dedicata nel 1586 da Francesco Bernardino Grassi alla defunta moglie Chiara Cermenati, in attesa che vi trovassero riposo anche le sue spoglie e quelle dei loro eredi. Il Grassi aveva disposto anche un lascito per i frati Carmelitani di San Giovanni in Conca perché celebrassero una messa ogni anno nel giorno della morte di Chiara.
La lastra costituiva la chiusura di una tomba a parete e dal testo si apprende che i coniugi erano stati uniti per 35 anni. Nella parte inferiore della lastra, qui riportata, al centro si trova lo stemma di famiglia. Esso è affiancato da due angioletti (che rimandano ai geni funebri classici) con il braccio appoggiato sopra fiaccole rivolte verso il basso (la vita che si spegne). Al di sopra festoni di fiori e frutti.
IL CIMITERO DI S. GIOVANNI IN CONCA. E certo le sepolture all'interno di una chiesa o di una cripta erano quelle più ambite, anche se davanti a S. Giovanni in Conca (come accadeva per molte altre chiese) era posto un vero e proprio cimitero. Nel 1581, su disposizione arcivescovile, esso fu recintato mediante colonne. Era forte in quel periodo la preoccupazione di sottolineare la "separatezza" e la "sacralità" dei cimiteri, per evitare che essi fossero utilizzati come luogo di riunioni pubbliche, di conversazione o, (ancor peggio) che gli animali vi avessero libero accesso.