GAME ZONE- playground tra scenari virtuali e realtà


Il libro intitolato Game Zone scritto dall’architetto Alberto Iacovoni, tratta il tema delle relazioni che l’architettura intreccia con il gioco. Il concetto di gioco, come funzione dell’architettura, non viene più considerato strumentale a questa ma in grado di cambiare radicalmente il rapporto tra l’uomo e lo spazio.

Per poter comprendere al meglio questo rapporto di intrecci, l’autore ci parla del gioco come un insieme di attività molto vasto.

Pensando banalmente ad un gioco a cui tutti noi abbiamo giocato fin da piccoli, il nascondino, la prima cosa da fare, è quella di accordarsi sul campo, ovvero di decidere la cornice di riferimento e le regole a cui dobbiamo riferirci. Proprio perché si tratta di un gioco, senza questi accordi preliminari, potrebbe diventare mille giochi differenti. Il gioco è in grado di costruire scenari e situazioni molto diversi tra loro e di stimolare emozioni altrettanto diverse. Per questo la parola gioco, ludus in latino, è strettamente legata al concetto di in-ludere, illudere, proprio per la sua capacità di creare l’illusione di una realtà possibile, di un mondo con regole diverse. Il gioco diventa quindi la possibilità di un divertimento consapevole, di ri-creare universi paralleli nei quali liberarsi dall’identità, dalle regole e dalle rigidità del mondo in cui viviamo. Non si tratta però di evasione, ma poiché ci distacchiamo dalla “cornice di riferimento”, dalla vita reale, siamo in grado di superare i limiti che la società ci impone e che dobbiamo rispettare. Diventiamo quindi dei soggetti pensanti e possiamo ribaltare il nostro punto di vista. Per giocare però al nostro gioco, ovvero quello degli architetti, bisogna abbandonare l’in-lusio, caratteristica necessaria ma non sufficiente perché il gioco diventi creativo, e trasformarlo in una narrazione, un’esperienza, attraverso le due parole play e game. Nell’inglese queste due parole esprimono concetti differenti: con la parola game, si intende l’insieme delle regole conosciute e riconosciute mentre con la parola play, si intende un comportamento, una performance, l’azione propria di giocare. Così si crea uno spazio dove attivare un play. In questo campo di gioco, i limiti fisici vengono definiti dall’architettura, ed è quindi essa stessa che crea spazio alla performance dei giocatori. Dopo una prima parte in cui l’autore indaga le diverse componenti sociali, psicologiche e spaziali del gioco, se ne apre una seconda in cui vengono analizzati esempi che ricadono in 6 strutture ludiche diverse, definite dal termine playground.

Con il termine playground si indicano le aree dedicate al gioco per i bambini, nei giardini e nei parchi, delimitate e controllate, protette dall’intrusione del mondo degli adulti spesso con alti cancelli. Le strutture che l’autore ci propone in questa seconda parte sono caratterizzate dall’abbattimento delle recinzioni, dei confini.

Playground01: il gioco dei punti di vista

La prima struttura ludica è quella in cui viviamo ogni giorno, caratterizzata dai vuoti. Lo spazio che ci circonda diventa un insieme di frammenti, mattoni, pedine da utilizzare liberamente per ricomporli in una configurazione differente. L’unica regola che vige è quella di giocare con quello che c’è. È caratterizzata per questo da un basso costo dei prodotti, e ciò che dobbiamo fare, è cambiare punto di vista per superare le “regole” definite dalla relazione tra forma e funzione dello spazio della collettività. Questo concetto di distruzione del mito funzionalista è stato accolto dalle avanguardie del secolo scorso: sull’esempio dadaista, viene preso un oggetto e capovolto, trasformando così un orinatoio in fontana. Con una semplice ma fondamentale operazione, viene stravolta l’identità primaria dell’oggetto e della sua stretta connessione tra forma e funzione. Il raggio d’azione di questo playground si estende al territorio, alla città, dove cambiare punto di vista significa superare le regole dello spazio della vita collettiva. Attraverso lo spaesamento, necessario per spezzare le rigide regole dello spazio urbano, ci si può riappropriare dei territori urbani esistenti, ricostruendo i punti di riferimento e riattivando quei legami che ci sono tra noi e l’ambiente che ci circonda e che avevamo dato per scontato.

Playground02: il gioco del corpo nello spazio

La forma del secondo playground rifiuta anch’essa la coincidenza tra forma e funzione, perché apre lo spazio non ad una, bensì a molteplici funzioni. È il corpo che dà forma allo spazio, in quanto è e ha il suo spazio. In questo caso è l’abitante che deve fare una scelta, deve trovare creativamente il proprio spazio per le proprie attività. È il caso di un campo da gioco, che diventa un piano continuo e allo stesso tempo seduta, pavimento, piazza o facciata. Questa libertà, che permette alla forma dello spazio di modificare il nostro comportamento, permette anche di far avvenire il contrario: questo avviene infatti in tutti quei luoghi della città dove comportamenti difformi si appropriano degli spazi della città; dove un muro basso diventa una seduta. Lo spazio, liberandosi dal vincolo di forma/funzione diventa luogo narrativo. Mi vengono in mente quei percorsi, all’interno ad esempio di parchi urbani, interamente segnati dall’uomo. Quando il progetto prevedeva diverse strade per raggiungere un determinato spazio, ma l’uomo, secondo i propri bisogni, ne crea un altro, quello che crede sia migliore. È l’uomo che vive il luogo che così si riappropria dello spazio, intervenendo in prima persona sulla “riprogettazione” di esso.

Playground03: il gioco invade la città

Lo spazio della collettività, al contrario di quello privato in cui l’individuo, essendone padrone, ricostruisce uno spazio a sua immagine e somiglianza, è caratterizzato da delle attività ammissibili al suo interno e da altre attività che sono vietate e ostacolate, attraverso ad esempio, accorgimenti architettonici. Questo dimostra la rigidità e fissità dello spazio, rispetto ad un uso che potrebbe cambiare continuamente con il passare del tempo e a seconda dei desideri dei suoi abitanti. I giochi urbani, che diventano per alcuni architetti una strategia di occupazione dello spazio pubblico, intervengono tra i corpi e lo spazio, estendendo alla collettività la possibilità di diventare giocatori, di partecipare in modo attivo alla creazione di modi e funzioni dello spazio della città. In questo modo, da un lato l’architettura riacquista il proprio ruolo sociale, stimolando nuovi comportamenti e producendo relazioni tra individui e spazio, dall’altro, a partire dal gioco, la collettività produce architettura. Un esempio secondo me significativo in questo senso è il progetto di MA0 della panchina “sitting around” in piazza a Bari, riportato nel libro. Il progetto consiste in uno spazio pubblico continuamente riconfigurabile secondo i desideri dei suoi abitanti: le sedute sono delle panchine rotanti incernierate, che possono essere spostate all’ombra degli alberi nei giorni più caldi, o al sole, nei giorni più freddi, possono essere rivolte verso l’uscita della scuola o verso la via commerciale. L’architettura permette così di essere plasmata secondo le necessità e i bisogni della collettività che ne usufruisce.

Playground04: la città del gioco

Il playground è una città che sa interagire con la naturale mobilità dell’essere umano, dove la permanenza dell’architettura incontra l’impermanenza della vita vissuta, attraverso l’opportunità di un incontro. Per realizzarlo è possibile estendere alla scala urbana alcune caratteristiche dei playground precedenti: costruire spazi indefiniti, spontanei, creare fenomeni di riappropriazione da parte dell’abitante, spazi dove è molto forte il distacco dal concetto di forma/funzione. Si inizia quindi a pensare ad architetture costruite intorno al carattere mutevole e mobile del suo abitante, da incorporare all’interno dei nuovi edifici. Gli Archizoom progettano la no-stop-city, un’immensa città supermercato dove piantare con massima libertà la propria tenda. In questo modo viene completamente annientata la forma attraverso un’adesione radicale ad una funzione indeterminata.

La tecnologia dell’automazione entra a far parte di questo sistema, costruendo spazi collettivi in grado di plasmarsi sui desideri e sulle necessità del momento. L’insieme architettonico potrà cambiare il suo aspetto a seconda della volontà dei suoi abitanti. L’architettura della città del gioco diventa così interattiva, dal punto di vista spaziale, percettivo e sensoriale. Sarà l’abitante a scegliere i propri ambienti, per quanto riguarda i materiali, i colori, e potrà regolare all’interno di esso il suono, la luce, l’olfatto e la temperatura. Queste possibilità, generate grazie alla tecnologia, si scontrano però con il limite della materia stessa o con i costi insostenibili di produzione. Non sarà quindi possibile costruire questi spazi architettonici così fluidi e interattivi, ma sicuramente si potranno realizzare spazi architettonici molto più flessibili.

Playground05: il gioco dell’architettura istantanea

La materia, data dall’ambiente fisico dove soddisfare i bisogni concreti dell’uomo, le sue necessità, e lo spazio tecnologico, ben più vasto, caratterizzato da dispositivi e interfacce, generano una sorta di architettura istantanea dove non si può separare il dato percettivo da quello spaziale. È un’architettura in cui l’uomo cambia il contesto in una configurazione che non sarà mai più la stessa. Se l’obiettivo di un’architettura ludica è quello di riconciliare l’individuo con il suo ambiente, superando quella rigidità data dagli spazi concepiti secondo la logica di forma/funzione, è proprio grazie alla tecnologia, che questa diventa uno strumento potentissimo di modulazione dello spazio. Il campo d’azione dell’architettura si espande al mondo sensoriale, mescolandosi con la chimica, l’elettronica e gli stati d’animo delle persone. La progettazione deve considerare tutte le componenti del comfort ambientale: la luce, il suono, la temperatura e sono proprio questi componenti a deciderne la forma. Si arriva ad un’architettura immateriale, non-fisica, dove un ambiente può essere definito dalla luce o dai raggi laser. Un’altra conseguenza dell’innesto della tecnologia nell’architettura è proprio la possibilità di trasformare un ambiente in un’esperienza spaziale interattiva e collettiva. L’architettura oggi è fatta di informazioni, ed è solo uno dei tanti mezzi di comunicazione della tecnologia. Queste possibilità però si spengono quando arriva la comunicazione paritaria ed orizzontale, data dalla rete, che inizia il percorso che ancora oggi stiamo intraprendendo, dove l’architettura sta sviluppando le sue capacità creative in relazione ad uno spazio che si espande sempre di più.

Playground06: invasori dello spazio

Nel 1971 viene prodotto il primo videogioco dalla Atari, grande come la dimensione di una cabina telefonica, che avrà un grandissimo successo. Questo videogioco rappresenta, però, solo l’inizio di un cammino verso la creazione di uno dei più vasti e potenti playground che l’uomo abbia mai creato. Si tratta della stessa tecnologia, quella delle stimolazioni audiovisive, che gli architetti avevano integrato per la creazione degli spazi non-fisici, e che poi si era spenta alla fine degli anni ’60. Questo nuovo spazio dei videogiochi è uno spazio tutto visuale, in-lusio, dove per la prima volta è possibile far interagire il nostro doppio, ovvero un simbolo, all’interno del videogioco, che rappresenta noi stessi. Per i primi trent’anni di vita di questo nuovo mondo, si cerca di migliorare le qualità spaziali e percettive della scena sullo schermo. Da uno spazio bidimensionale, si passa molto rapidamente ad uno tridimensionale, in cui si stabilizzano subito alcune tipologie di gioco come il labirinto. Si inizia a capire la direzione verso cui si stava andando, ovvero quella della costruzione di ambienti verosimili, e ciò era possibile solamente attraverso la costruzione di patterns che utilizzavano i pixel. Questi sono in grado di simulare lo spazio reale, rappresentandone le qualità cromatiche e tattili, come l’erba di un prato o un muro costruito in mattoni. Quando la potenza di calcolo lo permette, il pattern viene sostituito dalla texture: si possono ora applicare, sulle facce dei poligoni che definiscono gli elementi tridimensionali del gioco, immagini fotografiche di un materiale, reale o di invenzione. Con l’aumento della potenza di calcolo e delle capacità grafiche dei pc, si arriva ad avere un doppio identico alla realtà. Anche la rete permette, progressivamente a più persone, di essere collegate, entrando negli spazi sempre più privati di milioni di persone. Si creano in questo modo universi paralleli, in cui i doppi digitali dei giocatori si incontrano per giocare. Questi incontri, anche se virtuali, coinvolgono il giocatore nella sfera sempre più privata e possono trasformarsi così in incontri reali. Lo spazio del videogioco, da privato diventa pubblico, mescolando la vita al di là e al di qua dello schermo. Ma la potenza di questi giochi non è data soltanto dal poter creare ed “incontrarsi” in universi paralleli, ma dal fatto che i confini di questo spazio vanno sempre più sfumando, e si ha l’impressione di essere in uno spazio infinito. Si sta dunque assistendo ad una mutazione dello spazio del videogioco: da privato a pubblico, da finito a infinito, dove si può, come nella vita reale, costruire relazioni e anche sperimentare l’infrazione delle sue regole e degli spazi che la definiscono.

Queste grandi possibilità offerte dallo spazio di videogioco possono essere superate ed applicate, grazie alle nuove tecnologie, alla costruzione di un playground esteso di interconnettività. Si apre così un nuovo territorio, che è spunto di riflessione per l’architettura, che supera la progettazione della semplice architexture dei giochi, e che può creare un luogo veramente interattivo, aperto a molteplici livelli di comunicazione e costruzione di situazioni in continuo mutamento.

Si arriva finalmente a quello che più si avvicina ai nostri giorni: il playscape. Possiamo dunque appropriarci di spazi mai uguali a loro stessi, dalle forme instabile e fluttuanti, architetture in continua trasformazione, in grado di cambiare pelle e struttura a seconda delle stagioni, che possono muoversi e riconoscersi nei propri abitanti. In questo contesto l’architettura diventa catalizzatore interattivo, in grado di generare relazioni tra individui ed oggetti, restituendo all’abitante il potere di dare alle cose, forme, usi e significati. Ognuno di questi playground è in grado di incidere sulla realtà, con i propri strumenti, in modo molto significativo. Il suo spazio non è solo prodotto ma anche produttore e riproduttore di nuove relazioni che si possono creare con l’ambiente circostante. Il mondo che ci circonda è quello in cui la teoria funzionalista e quella ludica appaiono realizzate entrambe. Se fino ad ora si rifiutava il mito funzionalista ricercandone invece uno mentale, multisensoriale, liberato dalle costruzioni, dagli anni ’90 si vuole invece riportare l’architettura nella complessità del territorio, cercando uno spazio operativo dove liberare la naturale tendenza dell’uomo a costruire il proprio spazio privato e collettivo. È lo spazio delle relazioni umane che va sottratto al pianeta. I playground dovranno aprire e allargare, all’interno dello spazio sociale, “buchi positivi”, dove riacquistare forma e funzione e che restituiscono al suo abitante capacità appropriative e creative. Il terrain vague è uno spazio spontaneo dove gli abitanti diventano attori attivi nel processo di costruzione collettiva dello spazio pubblico e privato. È una forma a basso costo e di enorme successo dello spazio di gioco, fatto di scarti e rifiuti. Progetti che si fanno terrein vague, per andare oltre le irriducibili contraddizioni tra mobile e statico, chiuso e aperto, finito ed indefinito. L’architettura si propone dunque di coniugare gli opposti, e la possiamo definire informale, in cui un abitante le restituisce, insieme all’utilità, anche il piacere della forma. Si ricerca quindi un equilibrio tra la spontaneità incontrollata, play, e il game rigido e autoritario. Il playscape è infine pieno di significati, di usi e di identità, dove l’uomo può plasmare lo spazio in cui vive. L’architettura dovrà trasformarsi in un play continuo che non può mai finire proprio perché il suo obiettivo è il superamento della distanza tra sé stessa e la realtà della vita vissuta.

Un esempio di terreins vague è a Campo Boario, una piazza a ridosso del centro storico di Roma, nel complesso dell’ex-mattatoio. Questo luogo, abbandonato e mai riqualificato, ha visto nascere spontaneamente un centro sociale e diverse comunità. L’obiettivo è stato quello di realizzare un centro culturale, aperto alla sperimentazione e al confronto tra culture, attraverso un processo di trasformazione diretta dello spazio che ha coinvolto architetti e artisti ad intervenire. Il progetto è stato realizzato dal 1992 al 2002.

L’architettura oggi si sta muovendo completamente nel campo della tecnologia, che si è radicata profondamente al suo interno, attraverso continue e sempre migliori innovazioni tecnologiche. Abbiamo visto come l’uso del BIM, il Building Information Modeling ha permesso a professionisti dell’architettura, dell’ingegneria e delle costruzioni, di generare un modello digitale che contiene le informazioni sull’intero ciclo di vita dell’opera, dal progetto alla costruzione, fino alla sua demolizione e dismissione. Con il BIM è possibile creare un modello informativo dinamico, interdisciplinare e condiviso: il Digital Twin, il gemello digitale del progetto che contiene dati su geometria, materiali, struttura portante, caratteristiche termiche e prestazioni energetiche, impianti, costi, sicurezza, manutenzione. L’importanza di questa nuova metodologia di lavoro è sottolineata soprattutto dal ruolo dell’informazione che ha al suo interno. Tutto ruota attorno ad essa che ne va a costituire il più grande valore. L’informazione sta cambiando il modo di intendere l’architettura e di concepirne gli spazi, e stiamo assistendo ad una vera e propria “rivoluzione informatica”, ma quale direzione prenderà?

Ho trovato questo libro molto interessante poiché mi ha permesso di comprendere meglio con quali modalità la tecnologia è entrata nel mondo dell’architettura e di come, fin dall’inizio, l’ha modificata. La difficoltà per la concezione e la realizzazione dei primi sistemi digitali e il rapido raggiungimento di un modello digitale della realtà perfettamente identico, fa capire a quanta velocità la tecnologia sta procedendo. Come l’architettura sia fortemente legata al concetto di gioco e come questo sia in grado di modificare i rapporti con lo spazio, trova molteplici e differenti applicazioni grazie alla tecnologia. Gioco, tecnologia ed architettura vanno a costituire così gli elementi fondamentali per una ri-concezione dello spazio in cui viviamo. L’uomo viene messo al centro di tutto questo processo.