Sindrome del Burnout

In: Quale Psicologia, N° 16, Giugno 2000, p.61-89

LA SINDROME DEL BURNOUT NEGLI OPERATORI

SOCIO-SANITARI CHE ASSISTONO GLI ANZIANI

Albani F., Aveni Casucci M.A.

E` soltanto da pochi anni che si è compresa la necessità e l'importanza di avere personale qualificato al servizio degli anziani. Come afferma Aveni Casucci (1984, 1992), per lavorare con persone anziane, anche in condizione di parziale non autosufficienza, sono necessari una approfondita conoscenza delle dinamiche psicologiche dell'anziano e del longevo, delle tecniche di intervento igienico-sanitarie, delle modalità di approccio, del significato e degli obiettivi del Servizio di Assistenza Geriatrica, oltre alle competenze specifiche di ogni mansione.

Uno degli aspetti più problematici per chi lavora con gli anziani è il rapporto stesso con la "vecchiaia": la relazione quotidiana con l'anziano provoca una serie di ansie e paure, in quanto costringe l'operatore a porsi interrogativi che anticipano mentalmente la sua stessa vecchiaia, a temere che sia piena di acciacchi, a pensare di poter essere abbandonato dai figli, a prefigurarsi la malattia, il deterioramento, la morte.

In ambito geriatrico entrano anche in gioco, come difese, i pregiudizi e gli stereotipi che il personale medico, paramedico e socio-assistenziale ha sulla vecchiaia. Esiste una opinione sociale intorno alla vecchiaia che ancor oggi è fondata sul posto che occupa il vecchio in relazione al processo produttivo e legata alla passività, alla malattia e alla inutilità. Considerato come un malato, un portatore solo di bisogni di dipendenza e di assistenza, un peso morto per la società, l'anziano viene emarginato. Se poi egli è effettivamente malato, e spesso soffre di una polipatologia che tende alla cronicità, provoca nell'operatore scoraggiamento, poiché non assiste ad alcun progresso, e frustrazione, nel notare il graduale deterioramento cui l'anziano può andare incontro.

Tutto ciò è sentito come una sconfitta personale, in quanto la preparazione professionale è eminentemente orientata sulla necessità di sconfiggere il male, non di curarlo semplicemente. Se la malattia è considerata come ineluttabile, correlata all'età, ne consegue che il lavoro di assistenza con gli anziani sia sentito di qualità inferiore. L'atteggiamento adottato nei confronti dell'anziano può oscillare da un'eccessiva protettività tanto da stimolarne maggiormente la dipendenza, a modalità dirette di rifiuto e diniego.

Un aspetto peculiare della vecchiaia è la naturale prossimità alla morte. L'operatore non dovrebbe farsi travolgere dall'evento e da quanto può scaturirne, ma dovrebbe porsi davanti al morente con un atteggiamento autentico, evitando un eccessivo coinvolgimento emotivo o forme estreme di razionalizzazione, oppure atteggiamenti di rifiuto o di delega.

Tutte queste preoccupazioni e questa ansia incidono negativamente sulla relazione con l'anziano; una condizione questa che non deve stupire, poiché è tipica di tutte le cosiddette "helping professions", delle professioni di aiuto, specialmente nell'area socio-sanitaria, condizione che Cherniss (1980) identifica con la "Sindrome del Burnout". L'Autore elenca ben 28 segni e sintomi che più comunemente sono associati al complesso fenomeno del Burnout.

Il termine "Burnout" è stato introdotto in letteratura nel 1974 dallo psicanalista americano Herbert J. Freudenberger, il quale parlava di "uomini e donne dinamici, carismatici e risoluti... che si impegnano fino in fondo in tutto quello che fanno, lasciandosi coinvolgere anche intimamente". L'Autore aveva usato questo concetto per sintetizzare lo stato psicologico di alcuni volontari che, dopo un avvio entusiastico del proprio lavoro assistenziale, entravano in crisi manifestando un quadro caratterizzato, tra l'altro, da stanchezza, depressione, apatia, sentimenti di colpa.

Il costrutto "Burnout Syndrome" è stato utilizzato per la prima volta nel 1977 dalla psicologa di Berkeley, Christina Maslach in una relazione presentata al Convegno annuale di S.Francisco dell'Associazione degli Psicologi Americani (APA). La relatrice, con questa espressione, si riferiva ad una situazione osservata negli operatori dei servizi socio-sanitari e assistenziali: dopo mesi o anni di impegno generoso, gli operatori "si bruciano", manifestando un atteggiamento o di nervosismo ed irrequietezza oppure di apatia, indifferenza e, qualche volta, anche di cinismo nei confronti del loro lavoro. Già nel 1976 Maslach aveva definito il Burnout come "la perdita di interesse per la gente con cui si lavora, la tendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico" in risposta ad uno stress da lavoro.

Il termine Burnout definisce una serie di atteggiamenti e di sentimenti circa il proprio lavoro, una reazione a una situazione di lavoro molto stressante, una ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione. Scrive Cherniss (1980): "Si usa il termine Burnout per fare riferimento alla situazione in cui ciò che un tempo era una "vocazione" diventa soltanto un lavoro. Non si vive più per il lavoro, ma si lavora unicamente per vivere", e descrive il Burnout come un "processo transazionale" che consiste in tre fasi: la prima fase implica uno squilibrio tra risorse disponibili e richiesta [stress]; la seconda, è l'immediata, emotiva risposta di breve durata a questo squilibrio, caratterizzata da sensazioni di ansietà tensione, fatica ed esaurimento [tensione nervosa]; la terza fase consiste in una quantità di cambiamenti nell'atteggiamento e nel comportamento, come, ad es., la tendenza a trattare gli utenti o i pazienti in modo distaccato e meccanico o la cinica preoccupazione per la gratificazione di cui si ha bisogno [conclusione difensiva].

Psicologicamente il Burnout rappresenta una risposta ad una situazione di lavoro intollerabile. Il processo inizia quando l'operatore prova uno stress ed un esaurimento che non possono essere alleviati attraverso una soluzione attiva del problema. I cambiamenti di atteggiamento e di comportamento associati al Burnout, procurano in seguito una fuga psicologica e la rassicurazione che non si aggiungerà altro stress alla tensione nervosa che è già stata provata.

L'operatore si sente "distrutto", "cotto", "cortocircuitato", in una condizione sintomatica di tipo depressivo, espressione dello scacco o del fallimento più o meno parziale nella propria attività professionale. Si tratta di una perdita progressiva di idealismo, energia e scopo, avvertiti dalle persone impegnate nelle "helping professions", come risultato delle condizioni del loro lavoro.

J.E. Edelwich e A.Brodsky (1980) hanno identificato alcuni stadi nel processo che porta alla "sindrome del Burnout": la prima fase è quella dell'entusiasmo idealistico e delle nobili, grandiose, aspirazioni; la seconda fase è quella della stagnazione: l'operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni; la terza fase è quella della frustrazione: l'operatore comincia a pensare di "non aiutare realmente nessuno" e di non "servire a nulla"; questa fase costituisce il nocciolo del Burnout; infine la quarta ed ultima fase è quella dell'apatia, che in certi casi estremi può diventare oltre che noia, anche nausea e disgusto di fronte al lavoro.

Volendo rielaborare il concetto sopra espresso si potrebbe ipotizzare una quinta fase di "Mobbing" o "Bullying" nella quale il logoramento emotivo esita in azioni e comportamenti devianti o particolarmente aggressivi e violenti, in situazioni lavorative di prolungato terrore psicologico. (H.Leymann, 1994, H. Ege, 1996). Il termine inglese “Mobbing” (dal verbo “to mob”, “assalire”, “attaccare” in massa; il sostantivo “mob” significa “folla tumultuante”, “marmaglia”, “banda di delinquenti”, “azione criminale organizzata”) sintetizza e descrive quell’insieme di fattori legati agli atti di persecuzione e di terrore psicologico compiuti sul posto di lavoro.

Leymann (1996), che per primo ha studiato il “Mobbing”, in un articolo che riassume la storia e lo sviluppo di questo fenomeno, spiega che il termine era stato usato dal famoso etologo Konrad Lorenz nel descrivere il comportamento di gruppo degli animali. Lorenz aveva chiamato “Mobbing” gli attacchi minacciosi messi in atto da parte di un gruppo di animali più piccoli nei confronti di un singolo animale più grosso. Successivamente, Heinemann (1972), un medico svedese, interessato ai comportamenti dei bambini durante le ore di scuola, aveva utilizzato l’espressione di Lorenz, per illustrare episodi di comportamento prepotente e spesso molto distruttivo consumati da un piccolo gruppo di bambini nei confronti di un solo bambino. Oggi, per questo tipo di comportamento si preferisce utilizzare l’espressione “Bullying”, “bullismo”.

Leymann, seguendo questa tradizione, a partire dagli anni ottanta decise di utilizzare la parola coniata da Lorenz “Mobbing”, per spiegare un tipo di comportamento conflittuale molto simile presente nei posti di lavoro. Questo fenomeno, precisa Leymann, è stato descritto come “Mobbing”, come “alleanza contro qualcuno”, come “bullismo”, come “terrore psicologico”. In questo tipo di conflitto, la vittima subisce in modo sistematico un processo marchiante, stigmatizzante e profondamente lesivo dei propri diritti civili. La vittima viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o indirettamente da una più persone in modo frequente e per un lungo periodo, fino alla sua esclusione dal mercato del lavoro perché ormai incapace di trovare un nuovo impiego a causa dei gravi danni psicologici subiti e senza più nessuna fiducia nel futuro. Quando si mettono in atto strategie persecutorie sul collega o sul subordinato, accade che si possano ledere le fondamenta della personalità di un uomo, provocando danni permanenti.

Il Burnout indica, quindi, la perdita di entusiasmo, interesse e senso di responsabilità per il proprio lavoro. E` una sindrome di esaurimento emotivo (venendo a mancare le risorse emotive, gli operatori sentono di non essere più in grado di dare se stessi a livello psicologico), di depersonalizzazione (cioè di atteggiamenti e di sentimenti negativi, cinici nei confronti degli utenti) e di ridotta realizzazione personale (tendenza a valutarsi in modo negativo, a sentirsi scontenti di se stessi e non realizzati nel proprio lavoro).

Tra le diverse conseguenze del processo di Burnout, un aspetto fondamentale, secondo F.Giberti (1982) è quello della "compromissione della propria identità professionale, con una cattiva immagine di sé, perdita del senso delle proprie capacità, riduzione del livello di autostima, sentimenti di impotenza, un passivo, pessimistico laisser faire rinunciatario o routinario e così via" .

In linea di principio lo stress insorge quando viene percepito uno squilibrio tra risorse e richieste; le richieste possono essere esterne [per esempio esplicite esigenze di lavoro] o interne [per esempio mete personali, bisogni e valori morali]. Inoltre, una delle più importanti richieste a cui deve far fronte il personale di aiuto è la richiesta di competenza. L'assistenza e il benessere dei pazienti richiedono competenza e attenzione; ne deriva che gli operatori portano quasi sempre dentro di sé un forte desiderio di affermazione personale in senso professionale: ottenere una sensazione di efficienza, di utilità, di successo psicologico è il principale stimolo che guida ed orienta gli operatori delle professioni di aiuto.

Ogni fattore che porta ad una frustrazione nei confronti di questa meta contribuisce allo stress ed all'esaurimento. Se gli operatori si sentono continuamente inefficienti ed incapaci di svolgere il proprio lavoro, si svilupperà una condizione psicologica di riconosciuta incapacità o di impotenza appresa ed essi tenderanno sempre di più ad utilizzare modelli difensivi di copertura associati al Burnout, in un tipico processo a spirale.

Secondo M.E.P. Seligman [1975] l'impotenza appresa è un risultato probabile quando gli operatori sono fortemente motivati a raggiungere una sensazione di efficienza, e di successo psicologico nel proprio lavoro, ma gli sforzi sono frustrati in situazioni di lavoro caratterizzate da impossibilità di previsione e mancanza di controllo personale, e quando il personale si sente continuamente inefficiente e impotente, incapace di raggiungere il successo e l'obiettivo di aumentare il benessere dei pazienti. L'Autore ha definito l'impotenza una situazione in cui i risultati avvengono indipendentemente da ogni risposta volontaria dell'individuo: quando nessuna azione intrapresa dall'individuo ha qualche effetto su ciò che avviene, l'individuo è impotente.

L'impotenza appresa è la convinzione di non avere alcun controllo su importanti ricompense e punizioni, convinzione che si sviluppa come risultato di precedenti esperienze di impotenza. Essa ha tre effetti deleteri sull'organismo: (1) la motivazione viene ridotta, il desiderio di intraprendere una azione, di risolvere problemi e di superare ostacoli declina bruscamente; (2) la capacità di credere di poter elaborare una risposta è impedita: una persona che ha frequentemente sperimentato l'impotenza in una situazione non capirà o rifiuterà l'informazione che le indica che il controllo ora è possibile; infine, (3) la mancanza di controllo disturba l'equilibrio emotivo dell'individuo, causando depressione, rabbia e ansia. L'impotenza appresa conduce quindi ad un comportamento di difesa passiva associato al Burnout (per esempio, ritiro emotivo, rimprovero dei pazienti per la mancanza di progressi in terapia, apatia, cinismo, e preoccupazione per sé).

Il Burnout è pressoché inevitabile in molte situazioni di lavoro, ma le caratteristiche individuali in alcuni casi possono influenzare il processo. I tratti di personalità, le mete relative alla carriera e le attitudini, l'esperienza precedente e la qualità della vita dell'individuo al di fuori del lavoro, sono tutti elementi che influenzano lo stress lavorativo e il modo in cui ciascuno fa fronte ad esso. Alcuni studi (C.Cherniss, 1980; C.Maslach & S.E.Jackson, 1984, 1986; S. Sirigatti e C. Stefanile, 1993) indicano che coloro i quali sono più adattabili sono più vulnerabili allo stress, ma fanno fronte allo stress lavorativo in un modo più adattivo rispetto agli individui che hanno una personalità più rigida.

Un recente studio italiano (A.Pierro & S.Fabbri, 1994), volto ad esaminare gli antecedenti della "sindrome del Burnout" e le relazioni fra Burnout e Job Involvement nel personale infermieristico, indica che il Burnout è un problema più consistente negli infermieri meno coinvolti nel proprio lavoro, e conferma che il "Job Involvement", il coinvolgimento nel lavoro, influenza significativamente e negativamente sia l'Esaurimento emotivo, sia la Ridotta realizzazione lavorativa [le due dimensioni che insieme alla "Depersonalizzazione" costituiscono le tre sottoscale del Maslach Burnout Inventory (MBI), strumento messo a punto da C.Maslach e S.E.Jackson (1981, 1986) per la misurazione e valutazione dei differenti aspetti della sindrome]: i soggetti meno coinvolti nel proprio lavoro vivono in misura maggiore stati emotivi associati alle due dimensioni del Burnout, ovvero sono caratterizzati da un maggior esaurimento emotivo e si sentono meno realizzati personalmente.

Tra i fattori che esercitano un ruolo determinante nella genesi del processo del Burnout, Cherniss (1980) ne prende in considerazione tre: la struttura organizzativa, con le conseguenti difficoltà nella supervisione e nell'interazione con i colleghi; i fattori individuali; e, infine, i fattori storico-culturali, tra cui il declino del senso di appartenenza ad una comunità. Alcune ricerche (Cherniss, 1980; S. Sirigatti e C. Stefanile, 1993; A.Pierro e S.Fabbri, 1994) condotte in ambiti lavorativi diversi assegnano un ruolo rilevante nella insorgenza del Burnout a fattori di tipo organizzativo e ambientale connessi, per esempio, a conflitti ed ambiguità di ruolo, sovraccarichi di lavoro, mancanza di risorse, mancanza di feedback sul lavoro svolto, mancanza di sostegno da parte dei supervisori, conflitti interpersonali, mancanza di autonomia sul lavoro, mancanza di partecipazione alla presa di decisioni, ambiente fisico di lavoro.

Lo stress lavorativo e la tensione nervosa che insorgono nei primi stadi della sindrome di Burnout contribuiscono a creare uno stato di tensione, irritabilità e eccitabilità emotiva che interferiscono con il comportamento di aiuto; inoltre, il calo della motivazione e la perdita di sentimenti positivi nei confronti dei pazienti e degli utenti, che insorgono più tardi nel processo, riducono ulteriormente l'efficienza dell'operatore. Se lo stress persiste per un certo periodo di tempo, l'individuo facilmente si demoralizza e quindi diventa improbabile una effettiva soluzione del problema.

Quando lo stress lavorativo in un servizio socio-sanitario è cronico, le motivazioni degli operatori, il coinvolgimento e la considerazione positiva che essi hanno nei riguardi del lavoro e dei pazienti può soffrirne e ci sono alcune ragioni per credere che questo aumento dell'apatia, del distacco emotivo, o dell'avversione per il lavoro possa avere anche un effetto dannoso. Quando l'operatore perde l'entusiasmo, quando il senso della sua missione si deteriora, declina anche la sua efficienza. La soddisfazione per il lavoro può riguardare a turno l'assenteismo, il "turnover" e i conflitti interpersonali. Infatti, il basso morale dello staff porta all'assenteismo e al "turnover" che possono spezzare la continuità dell'assistenza e colpire in modo sfavorevole i pazienti a causa delle frequenti scissioni e cambiamenti nel personale che dovrebbe fornire le cure.

Come più sopra accennato, lo stadio finale del processo del Burnout implica l'adozione di strategie di difesa, come il distacco emotivo e il ritiro, atteggiamenti cinici verso i pazienti e verso l'istituzione, rigidità e resistenza al cambiamento, e grande preoccupazione per il proprio benessere. Queste strategie sono utilizzate dai singoli individui che sperimentano alti livelli di stress e tensione e non riescono a scorgere un mezzo diretto per alleviare le cause dei loro problemi. Tuttavia, in alcuni casi, tali strategie difensive possono essere adottate da un intero gruppo all'interno di una organizzazione, o di un reparto.

R.S. Lazarus e R. Launier (1978) distinguono quattro differenti modalità di difesa:

(1) la ricerca di informazione: situazioni caratterizzate da un alto livello di ambiguità o di incertezza favoriscono una riduzione dell'azione diretta e un incremento della ricerca di informazione. Se essa non riesce a ridurre l'ambiguità, può essere messo in rilievo il modello intrapsichico; ad es. un individuo può semplicemente tentare di evitare di pensare alla situazione e alle conseguenze potenzialmente dannose.

(2) l'azione diretta: un alto livello di minaccia di danno di solito conduce a modelli difensivi più primitivi e disperati, quali il panico, la rabbia, la confusione di pensiero.

(3) l'inibizione all'azione: una situazione caratterizzata da un alto livello di conflitto tende ad inibire l'azione diretta e porta alla difesa intrapsichica.

(4) la difesa intrapsichica: la debolezza inoltre inibisce l'azione diretta. Se l'individuo ha la sensazione che non c'è alcun modo di affrontare la situazione direttamente, allora i modelli intrapsichici di difesa diventano nuovamente dominanti.

Ne consegue che le caratteristiche della situazione, come molti altri fattori, influiscono sulla scelta della strategia difensiva. Richieste insignificanti producono insufficienza di stimolazione e noia, e ciò può essere causa di stress quanto una richiesta eccessiva.

Come già ricordato, una richiesta comune agli operatori socio-sanitari, che sembra avere un significato psicologico di vasta portata nello sviluppo del Burnout, è la richiesta di competenza, di prestazioni efficienti. Ogni individuo si sforza di ottenere una sensazione di efficienza nel proprio lavoro. Se tale obiettivo è ostacolato, l'autostima ne è minacciata e la risposta allo stress è forte. Perciò, ogni elemento che contrasta gli sforzi dell'operatore di assolvere ai propri compiti in modo efficace o di sentirsi efficiente, è una importante causa di stress lavorativo, tensione nervosa e Burnout.

Anche la struttura di ruolo può determinare uno stress collegato al lavoro, attraverso il suo impatto sul conflitto di ruolo e sull'ambiguità. Secondo Cherniss (1980) la struttura di ruolo è la prima tra le tre componenti più importanti della "struttura organizzativa"; le altre due sono la "struttura di potere" e la "struttura normativa". La struttura di ruolo si riferisce al modo in cui i compiti e doveri sono distribuiti tra i ruoli specifici in una determinata situazione. Il sovraccarico di ruolo è tra i tipi di conflitto che provano gli operatori socio-sanitari di assistenza il più evidente: le richieste collegate al ruolo sono superiori al tempo e agli sforzi di chi esercita tale ruolo. Un carico eccessivo di pazienti da seguire può rendere impossibile di eseguire il proprio ruolo in modo efficiente se non per una sola parte di essi. L'operatore deve così imparare a convivere con il fatto che saranno fornite cure inadeguate alla maggior parte di coloro per cui si è responsabili.

Una recente indagine conoscitiva [Aveni Casucci & al., 1989, 1991, 1992; Albani F. & Aveni Casucci M.A., 1989, 1990, 1991; Revera T., Albani F. & Aveni Casucci M.A., 1989] sulle condizioni lavorative degli operatori (medici, infermieri, ausiliari, fisioterapisti, ecc.) che assistono anziani ricoverati in istituto o al domicilio, intesa ad evidenziare la presenza di componenti ansiogene e depressive correlabili alle condizioni stressanti di lavoro, indica che l'alto numero di pazienti affidati (in taluni reparti per ogni operatore anche 20 pazienti), le pesanti richieste imposte dal servizio, il lavoro di routine, la mancanza di programmi formativi e di aggiornamento, l'assenza di un lavoro in équipe, una retribuzione per lo più insoddisfacente, l'assenza di uno spazio temporale per instaurare un dialogo con l'assistito, con i propri colleghi e con i superiori e l'impossibilità di stabilire con loro un rapporto più personale, dato l'impegno richiesto per svolgere la professione, risultano essere le varianti determinanti nella distinzione degli operatori definiti arbitrariamente Burnout .

Data l'importanza dell'efficienza e del successo psicologico nelle attività svolte in special modo dagli operatori socio-sanitari di assistenza, ci si può quindi attendere che il sovraccarico di ruolo rappresenti una della cause maggiori di Burnout. Infatti, una efficiente difesa dallo stress richiede tempo per la propria attuazione: quando la difesa implica una ricerca di informazione, l'azione diretta, o anche un palliativo [J.E. McGrath, 1970], occorrerà una quantità di tempo ottimale per difendersi. Se non c'è a disposizione una adeguata quantità di tempo, dovuta alla costante intrusione di nuove richieste, la difesa andrà in frantumi. L'individuo tenderà a ricadere in comportamenti difensivi più primitivi, meno efficienti, di difesa puramente psicologica. Perciò, se c'è un alto grado di sovraccarico di ruolo in un lavoro e poche possibilità di "riposo" nel momento in cui ci si può sottrarre alle richieste di ruolo e si possono "soddisfare" le richieste che sono già state poste, l'esaurimento emotivo e il Burnout sono più probabili [Maslach, 1976; Cherniss, 1980].

Un conflitto di ruolo che frequentemente si presenta nelle strutture organizzative socio-sanitarie, è il conflitto tra "ruolo professionale" e "ruolo burocratico". Gli operatori che hanno un orientamento professionale hanno la tendenza a seguire una particolare serie di norme riguardanti la relazione d'aiuto e ad avere fiducia in esse. Queste norme costituiscono l'ideale professionale, e fanno parte della cultura della professionalità. In generale, le strutture organizzative socio-sanitarie sono istituzioni che tendono ad essere organizzate secondo modelli burocratici. Spesso si vengono a creare situazioni in cui l'ideale professionale entra in conflitto con l'interesse dell'organizzazione e con il modello burocratico di funzionamento. Numerosi autori [Katkin & Sibley, 1973; McIntyre, 1969; Merton, 1940, in Cherniss, 1980] hanno osservato che il modello organizzativo burocratico mette in rilievo l'ordine, la standardizzazione, l'uniformità, l'efficienza, la responsabilità pubblica, e l'impersonalità. L'ideale professionale, d'altro canto, mette in rilievo l'unicità dell'individuo, la sensibilità ai bisogni particolari di ciascun paziente, la flessibilità, l'iniziativa individuale e l'intraprendenza, e gli obiettivi di crescita personale e di sviluppo.

Questa possibilità di conflitto individuo-ruolo è stata dimostrata molto bene da un esempio fornito da Kramer [1974], riportato da Cherniss [1980] e che riteniamo ancora attuale riportare integralmente. Scrive l'Autore: «Sebbene si tratti di un ospedale di medicina, situazioni simili si possono riscontrare in ogni settore. Un'infermiera stava seguendo da vicino un paziente che aveva subito un'operazione, la cui depressione psicologica stava impedendo il suo ristabilimento. Per alcuni giorni egli se ne era stato silenzioso a rimurginare, insensibile ad ogni sforzo di stabilire un contatto con lui. Infine, una sera egli incominciò a rispondere all'infermiera, e a parlare per la prima volta delle sue ansie e dei suoi problemi. Quando ella si sedette vicino a lui, ascoltandolo con partecipazione, e utilizzando tutte le sue capacità di rapporto interpersonale per favorire la sua catarsi emotiva, comprese che quello era uno di quei rari e preziosi momenti in cui ella realmente "svolgeva la sua professione di infermiera" come le era stato insegnato. Sfortunatamente, poco dopo che il paziente aveva incominciato a parlare, furono portati dalle cucine i vassoi della cena. E` ora di cena, il cibo si raffredda, gli altri pazienti sono affamati ed inquieti. L'efficienza organizzativa richiede che i pazienti mangino ad una certa ora. Ma se l'infermiera lascia il suo paziente per servire la cena agli altri, il paziente può nuovamente ritirarsi nel suo guscio. Il momento ottimale per parlare con un paziente appena operato ed emotivamente disturbato non può essere regolamentato, controllato, o anche previsto». Come suggerisce questo esempio, a volte i bisogni dei pazienti entrano in conflitto con i bisogni o le richieste dell'organizzazione, e gli operatori vengono a trovarsi tra due fuochi. Tuttavia, non si può affermare che in ogni caso i bisogni dei pazienti siano più legittimi di quelli dell'organizzazione; infatti, le norme e le procedure organizzative sono state create al fine di fornire un servizio migliore ai pazienti. Nell'esempio precedente, scrive Cherniss (1980), "rimanere accanto al paziente depresso poteva avere effetti negativi sull'alimentazione, la salute, e il morale degli altri pazienti. Perciò, spesso non è facile trovare una soluzione a questi conflitti di ruolo".

Gli operatori si sentono spesso utilizzati come alta manovalanza: "il nostro lavoro si riduce a una catena di montaggio", lamenta un'alta percentuale di operatori socio-sanitari intervistati per una ricerca sulle condizioni di lavoro del personale di assistenza geriatrica [Aveni Casucci M.A. & al., 1989, 1990, 1991], senza poter avere un rapporto dignitoso con il paziente, in genere, anziano e neppure con la struttura organizzativa. L'insoddisfazione di questi operatori dipende in particolare dalla carenza della organizzazione e della struttura (21%), dalla carenza di contatto e di relazione con gli anziani (18%), dalla incomprensione con i colleghi (15%), dalla mancanza di tempo per avere un dialogo con l'anziano (14%), dalla difficoltà di rapporti con i superiori (9%).

L'ambiguità di ruolo insorge quando chi occupa il ruolo non ha più l'informazione necessaria per assolvere adeguatamente al ruolo. Nel loro studio sul conflitto di ruolo e l'ambiguità nelle organizzazioni, R.L. Khan e al. [1964] hanno identificato sei cause specifiche di ambiguità di ruolo che possono contribuire alla tensione:

* informazione riguardante gli scopi e le responsabilità di lavoro;

* informazione sulle aspettative dei colleghi;

* informazione di cui si ha bisogno per eseguire adeguatamente un lavoro;

* informazione circa le possibilità di avanzamento;

* informazione circa le valutazioni dei supervisori;

* informazione su ciò che avviene nell'organizzazione.

Il conflitto di ruolo e l'ambiguità rendono difficile agli operatori soddisfare in modo adeguato le richieste che provengono dal loro lavoro; se un operatore non è in grado di mutare la sua situazione e di ridurre il conflitto di ruolo e l'ambiguità, il suo senso di impotenza alla fine potrà portare allo sviluppo di modelli di ritiro emotivo.

Un altro importante fattore nella situazione lavorativa che contribuisce allo stress, alla tensione e al distacco emotivo, fenomeni che abbiamo messo in relazione con il Burnout, è il potenziale motivazionale del lavoro, cioè la misura in cui il lavoro è stimolante e ha un significato. Una insufficiente stimolazione può essere altrettanto stressante di una stimolazione eccessiva, specialmente quando l'individuo crede di non avere il controllo sulla quantità di stimolazione. Spesso, per molti operatori che lavorano nei servizi socio-sanitari il problema principale non è il sovraccarico, il conflitto o l'ambiguità, ma la noia in quanto il loro lavoro non offre possibilità di sfida, varietà e significato. Un operatore che si trova rinchiuso in un lavoro poco stimolante diventerà molto probabilmente vittima della noia e del Burnout.

E` difficile sentirsi annoiati durante un lavoro quando s'impara continuamente qualcosa. L'apprendimento insieme ad una specifica formazione, contribuisce alla stimolazione e al significato di un lavoro. La noia si sviluppa quando si conosce a fondo un particolare ruolo ma si deve continuare ad esercitarlo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Quando la struttura di ruolo permette all'operatore di apprendere nuove capacità, di favorire la propria formazione teorica, e di "usare" queste nuove abilità e la propria esperienza nel lavoro, questo rimane stimolante. In questo modo si previene la noia e il Burnout.

Dalle ricerche condotte da Aveni Casucci M.A e Coll. (1989, 1990, 1991, 1992) sulle condizioni di lavoro del personale di assistenza geriatrica, in generale risulta una insufficiente preparazione, sia dal punto di vista medico che dal punto di vista psicologico per affrontare con professionalità le difficili situazioni che si presentano nelle strutture di assistenza agli anziani. I dati confermano che il titolo di studio non è adeguato al ruolo svolto, non tanto per il livello culturale raggiunto dall'operatore, quanto piuttosto per la qualità. Un'alta percentuale degli operatori intervistati (60%), definita arbitrariamente Burnout, al tempo dell'intervista non aveva acquisito un insegnamento teorico specifico, né conseguito una formazione psicologica e gerontologica adeguata, né aveva seguito un iter qualificato, che permettesse di prendere coscienza della situazione interiore, emotiva e sociale del paziente in generale e dell'anziano in particolare, nonché di riconoscere i meccanismi di difesa e il malessere psichico che accompagna la malattia, le relazioni fra il paziente e l'ambiente.

Secondo Cherniss (1980) altri due fattori che influenzano il potenziale motivazionale del lavoro sono il "feedback" e l'informazione. Se un operatore non riceve frequenti feedback e non è bene informato della situazione in cui sta lavorando, la sua attività perderà di significato; diventerà routine, senza senso, e noiosa. Perciò, feedback e informazione contribuiscono alla stimolazione e allo stesso tempo riducono l'ambiguità e il potenziale di fallimento.

Un altro importante aspetto della struttura organizzativa che influenza il Burnout è la struttura di potere. La sensazione di impotenza, ribadiamo, è il fattore che maggiormente contribuisce allo stress e alla difesa non adattiva associati al Burnout. Sebbene molti altri fattori, come abbiamo visto, influenzino la misura in cui gli operatori socio-sanitari si sentono impotenti, chiaramente il grado in cui essi sono capaci di esercitare un potere e un controllo sulla propria situazione di lavoro sarà quello predominante.

Quando la struttura di potere fornisce un alto grado di autonomia e possibilità di decisione per esempio collettiva, gli operatori possono esercitare un controllo maggiore sui rinforzi riguardanti il proprio lavoro. Una struttura di potere di tipo gerarchico riduce l'autonomia e il controllo da parte degli operatori, e contribuisce all'insorgere dell'impotenza acquisita e del Burnout.

Numerosi studi confermano questa tesi. Ricerche condotte da L.I. Pearlin [1967] indicano che l'insoddisfazione e l'alienazione negli infermieri sono determinate dal grado in cui l'infermiere può influire sulle fonti formali di potere. In particolare, l'alienazione aumenta in seguito all'incremento della differenza di posizione tra il superiore e i subordinati. Il più basso status degli infermieri all'interno dell'organizzazione e il maggior numero di ostacoli frapposti tra un infermiere e la direzione dell'organizzazione, aumentano l'alienazione. Anche l'accessibilità fisica e la possibilità di vedere i superiori sono entrambe legate all'alienazione, presumibilmente perché i superiori più accessibili e visibili possono essere più facilmente influenzati dagli infermieri. Infine, l'Autore afferma che una maggior opportunità di promozione (e quindi un incremento del potere e della responsabilità) ha come conseguenza una minore alienazione negli infermieri e conclude che tutti i fattori che influiscono sul potenziale potere organizzativo degli infermieri risultano essere associati al grado di coinvolgimento psicologico nel proprio lavoro.

In una ricerca condotta da Aveni Casucci e Coll. (1989, 1990, 1991), volta a misurare l'ansia e la depressione negli operatori socio-sanitari addetti all'assistenza degli anziani, i soggetti intervistati hanno ampiamente palesato il loro disagio per la notevole quantità di interventi pratici da sbrigare, che impedisce un approccio "più umano" con gli anziani; spesso il paziente autosufficiente crea più problemi e disagio nello svolgimento del lavoro a causa delle maggiori pretese; inoltre, alto è il disagio di rapporto con l'anziano demente o con problemi psichici gravi. Infine, il ruolo rilevante che assume l'aspetto organizzativo nel determinare la qualità di un servizio che rispetti contemporaneamente le esigenze degli utenti e quelle del personale preposto alla erogazione del Servizio stesso. L'immagine della vecchiaia presente negli operatori intervistati risulta essere decisamente negativa: la realtà di decadimento e malattia che presentano molti anziani assistiti condiziona il vissuto di questi operatori e certamente influenza la percezione negativa del proprio lavoro.

Una positiva immagine della vecchiaia e un diverso approccio relazionale, sanitario e psicologico agli anziani assistiti da parte dell'operatore o, meglio, dell'intera équipe assistenziale, contribuirebbe certamente a migliorare la qualità della vita degli anziani stessi, all'interno o all'esterno delle istituzioni, e di conseguenza a rendere meno sgradevole e faticoso il lavoro degli operatori. Certamente questo elemento, da solo, non può essere fattore di sostanziali cambiamenti, qualora non sia sostenuto anche da specifiche e accurate scelte organizzative, per esempio una migliore distribuzione dell'orario di lavoro e un maggior numero di pause, e da un supporto psicologico adeguato agli anziani e agli operatori stessi. Aveni Casucci e Coll. (1989, 1991) hanno rilevato che l'82% degli operatori intervistati sono favorevoli ad un sostegno psicologico per favorire un migliore adattamento al lavoro al servizio degli anziani, e ad una formazione permanente del personale. Ribadiamo che è la mancanza spesso di una specifica preparazione psicogeriatrica degli operatori unitamente all'assenza di una formazione permanente del personale e di un adeguato supporto psicologico ad anziani ed operatori, la presenza di conflittualità, di sentimenti di rivalità, gelosie, invidie, ecc. a rendere sgradevole e faticoso il lavoro di questi operatori. Lo stress pervade le ore di lavoro incidendo sulla vita di relazione del personale di assistenza, il cui vissuto è spesso negativo e gravato da sentimenti di ansia e depressione, con conseguente disadattamento, disimpegno, diminuzione dell'efficienza, segni e sintomi della presenza in questi operatori, della sindrome del Burnout.

La struttura normativa, ossia gli obiettivi, le norme e le ideologie, rappresenta un'altra importante componente della struttura organizzativa che può contribuire al Burnout sia in modo diretto che indiretto. Tra gli aspetti della struttura normativa che sembrano incidere particolarmente sul Burnout Cherniss (1980) considera la misura in cui l'acquisizione di nuove conoscenze costituisce un obiettivo dell'organizzazione e le norme che riguardano il buon funzionamento dell'organizzazione ed i bisogni del personale.

Essere a disposizione dei pazienti sembra essere l'unico problema per la maggior parte degli operatori socio-sanitari di assistenza; ogni altra attività è secondaria. I.I.Goldenberg [1971] osserva che la maggior parte dei programmi dei servizi socio-sanitari sono creati con l'implicito assunto che i bisogni psicologici del personale sono relativamente poco importanti. E` tutto centrato sul paziente e sui suoi bisogni. Quando le norme istituzionali scoraggiano la presa di coscienza dei problemi del personale, le strutture organizzative che potrebbero aiutarlo ad affrontare lo stress lavorativo sono probabilmente meno sviluppate. Per esempio, è piuttosto improbabile che vengano a crearsi le opportunità formali di esprimere e prendere in esame le sensazioni provate dagli operatori; l'assenza di questa opportunità, favorisce quasi certamente il Burnout.

Cherniss (1980) ha esaminato anche i fattori individuali nello stress lavorativo. L'Autore elenca i cinque tratti di personalità associabili alle reazioni allo stress e che sembrano influenzare sia il grado di tensione ed esaurimento provati dall'individuo che le modalità di difesa tipiche dell'individuo: l'ansia nevrotica, la sindrome di "tipo A", il luogo di controllo, la flessibilità e l'introversione, ma sottolinea che l'influenza di questi tratti di personalità è stata sopravvalutata. La personalità di tipo "A" è caratteristica di quei soggetti che presentano un forte impegno competitivo, una fretta esagerata, elevati livelli di aggressività e di ostilità; contrariamente alle personalità di tipo "B" che presentano comportamenti caratterizzati da distensione, serenità e mancanza di fretta.

L'individuo, che per esempio presenta alti livelli di ansia nevrotica, mostrerà motivazioni forti e conflittuali, un'elevata emotività, scarsa autostima, un interesse eccessivo per l'approvazione degli altri, e un accentuato ricorso ai meccanismi di difesa come mezzo per affrontare i problemi. Tuttavia, la struttura del lavoro e l'organizzazione in ultima analisi costituiscono una causa più forte dell'incidenza del Burnout rispetto alla fisionomia dei tratti di personalità.

Variabili di tipo anagrafico come l'età, il sesso e lo stato civile sono ulteriori caratteristiche personali che sono associate al Burnout nei servizi socio-sanitari. Alcuni studi [Cherniss, 1980; Maslach & Jackson, 1978] hanno indicato che gli operatori, uomini e donne, dei servizi socio-sanitari non differiscono per quanto riguarda a quantità di stress sperimentata sul lavoro ma nel modo diverso di affrontarlo. Operatori più giovani hanno mostrato punteggi più elevati in due scale di Burnout rispetto agli operatori più anziani.

Non vanno ignorati i fattori della vita individuale al di fuori del lavoro che possono influenzare la reazione allo stress lavorativo. La vita personale e la qualità della vita extra-lavorativa influenzano l'adattamento al lavoro, la vulnerabilità allo stress e l'abilità nell'affrontarlo quando insorge. Amici e parenti rappresentano una fonte di sostegno potenzialmente molto importante. Essi possono fornire in grande quantità lo stesso appoggio sociale che danno i colleghi di lavoro. Tuttavia, queste relazioni personali al di fuori del lavoro possono anche imporre richieste ed impegni; perciò esse creano la possibilità di conflitto di ruolo che può aggiungersi alla tensione nel lavoro.

Nonostante le cause del Burnout degli operatori socio-sanitari di assistenza siano molte e complesse, esso non è un fenomeno irreversibile. Cherniss (1980) propone alcune strategie per ridurlo o, per lo meno per attenuarlo. Innanzi tutto per combattere il Burnout occorre modificare le condizioni di lavoro, e molte delle necessarie modifiche in questo senso non richiedono un eccessivo incremento di personale o di risorse. Per esempio gli interventi per alleviare il Burnout possono svolgersi su quattro differenti linee di condotta: ridurre o eliminare alcune delle richieste di lavoro esterne; modificare gli obiettivi, le preferenze e le aspettative personali; incrementare le risorse degli operatori per soddisfare le richieste; favorire l'instaurarsi di nuovi meccanismi difensivi, alternativi al "ritiro" tipico del Burnout. Le varie strategie che l'Autore suggerisce, possono essere raggruppate in cinque categorie:

1) sviluppo professionale degli operatori [orientamento, addestramento durante il servizio, valutazione, controllo e consulenza, gruppi di sostegno];

2) struttura di lavoro e di ruolo; sviluppo della gestione;

3) metodi di soluzione dei problemi organizzativi;

4) obiettivi del servizio e modelli di gestione.

"Un lavoro, per essere davvero gratificante e soddisfacente, deve garantire novità, significato, opportunità di creatività ed espressione personale. Deve essere un mezzo di autorealizzazione e sicurezza economica" [Cherniss, 1980]. Il personale di assistenza dovrebbe essere incoraggiato a sviluppare un rapporto più personale con il paziente e con l'anziano, in particolare. Non va dimenticato, tuttavia, che il continuo rapporto personale con il paziente o con l'anziano potrebbe risultare troppo doloroso per l'operatore e provocare un ritiro nel proprio guscio per proteggersi. Cherniss (1980) ricorda che ogni tentativo di affrontare il Burnout in una determinata situazione dovrebbe essere attentamente valutato. Dovrebbe essere rivolta particolare attenzione sia alle conseguenze attese che quelle inattese di ogni iniziativa. Contatti brevi e depersonalizzati con pazienti cronici non sempre sono indice di freddezza o insensibilità, ma possono mantenere piuttosto che ridurre l'umanità dell'operatore verso l'assistito. La professione di aiuto [G.Trombini, 1994] comporta un approccio relazionale in cui è fondamentale intervenire con buon equilibrio tra sincerità nel dire e tatto e rispetto per la condizione patologica e lo stato psicologico del paziente. Insieme al senso di responsabilità per il compito da svolgere sono quindi necessari sensibilità per i tempi di intervento e capacità di pazienza clinica. E' essenziale non cadere in una cieca collusione o in un gelido distacco.

A chiusura di queste riflessioni sulla sindrome del Burnout ritorniamo sull'importante dato della utilità di un aiuto di carattere psicologico all'operatore socio-sanitario, in particolare, all'operatore che assiste l'anziano, indicato dalle recenti ricerche di Aveni Casucci & Coll. [1989, 1990, 1991, 1992]. La presenza continuativa o saltuaria di uno specialista in psicogerontologia sarebbe di aiuto nella chiarificazione rispetto a casi difficoltosi, in cui risulti disagevole identificare i comportamenti e le risposte più adatte alle situazioni. Al di là di eseguire vere e proprie analisi della personalità degli operatori stessi, un aiuto psicologico è utile per la diagnosi della personalità degli anziani assistiti.

Lo specialista in psicogerontologia, con programmi interni di training, contribuisce a creare un clima organizzativo più adeguato e svolge l'importante funzione di aiutare l'operatore socio-sanitario a diventare consapevole del problema dello stress lavorativo e del Burnout e degli effetti potenziali del Burnout sulle sue prestazioni. La tendenza ad abolire lo stress è un difetto del sistema d'azione. In effetti, se si considera lo stress negativo inevitabilmente si tenderà ad eliminarlo. Occorre quindi considerare i fenomeni di stress sia pure nella loro dolorosità, come fenomeni naturali in una organizzazione che chiede ai propri operatori interventi che spesso questi non sanno se riusciranno a fare. Il problema non è quello di eliminare lo stress, ma quello di ottimizzare, cioè di rendere lo stress sopportabile e utile. E questo non può essere realizzato agendo solo sull'individuo, ma anche sull'organizzazione. Si può prevenire il Burnout e ridurre lo stress lavorativo, per esempio, limitando il numero dei pazienti di cui il personale è responsabile; oppure, nel designare i ruoli e nel destinarli agli operatori è importante identificare le possibilità di ciascun operatore e poi collocarlo in un ruolo che metta in rilievo tali possibilità; ed ancora, strutturare i ruoli in modo da permettere agli operatori di prendersi qualche periodo di "riposo" quando è necessario. Scrive Cherniss (1980): "La maggior parte delle attività svolte nei servizi socio-sanitari lascia poche possibilità di riflessione e meditazione necessarie per una difesa efficace. Un po' di riposo che permetta al personale di fuggire temporaneamente dalle richieste di ruolo e di pensare, senza essere interrotti, su ciò che stanno facendo potrebbe essere molto utile per la riduzione del sovraccarico e della tensione".

Incoraggiare gli operatori ad adottare obiettivi più realistici, a sviluppare fonti alternative di gratificazione al di fuori del lavoro, a sviluppare nuovi obiettivi di lavoro che forniscano fonti alternative di gratificazione, ad usare meccanismi di controllo personale e di feedback nel proprio lavoro, ad acquisire le conoscenze e le abilità necessarie ad aumentare la propria efficienza nell'affrontare sia i compiti specifici legati al proprio ruolo che i più generali conflitti e problemi interpersonali che tendono a verificarsi in ogni vasta organizzazione. Questi ed altri numerosi sono i metodi (programmi di orientamento, riunioni, gruppi operativi, gruppi Balint, ecc.) che lo specialista psicogerontologo può attuare per aiutare gli operatori impegnati nelle Helping Professions, nelle professioni di aiuto, ad alleviare lo stress lavorativo e il Burnout.


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Abstract

Molti studi hanno evidenziato l’emergere di profonde problematiche depressive in coloro che esercitano una professione d’aiuto, fino al manifestarsi della sindrome del burnout. Il burnout rappresenta una risposta a una situazione di lavoro che diviene intollerabile per l’operatore. Il processo inizia quando l’operatore prova uno stress e un esaurimento che non possono essere alleviati attraverso una soluzione attiva del problema. Successivamente i cambiamenti di atteggiamento e di comportamento associati al burnout attivano una “fuga” psicologica e fanno instaurare, come meccanismo di difesa, una relazione di distacco con l’utente, con la conseguenza di una limitazione dello stress. In ambito geriatrico entrano anche in gioco, come difese, i pregiudizi e gli stereotipi che il personale medico, paramedico e socio-assistenziale ha sulla vecchiaia. Se la malattia è considerata come ineluttabile, correlata all’età, ne consegue che il lavoro di assistenza con gli anziani sia sentito di qualità inferiore. Cause del burnout sono molteplici, dalla personalità del soggetto a problemi legati alle condizioni lavorative. Il vissuto di ruolo che si occupa nell’ambito di una struttura organizzativa risulta essere il principale punto di riferimento per valutare il rischio del burnout.

Autori

Flavia Albani

Nata a Castelnuovo di Teolo (PD), il 18.06.1945

Laureata in filosofia e psicologia, Specialista in Psicologia Sociale, psicoterapeuta, collaboratrice esterna della Sezione di Psicogerontologia dell'Istituto di Psicologia della Facoltà Medica dell'Università degli Studi di Milano, è autrice di diversi articoli e saggi su riviste nazionali e internazionali.

Maria Antonietta Aveni Casucci

Nata a Modena, il 14.05.1932

Professore di Psicologia Medica all'Università degli Studi di Milano, Responsabile della Sezione di Psicogerontologia dell'Istituto di Psicologia della Facoltà Medica presso la stessa università, è stata Docente presso Scuole di Specializzazione in Geriatria e Gerontologia di alcune Università Italiane, appartenente a numerose società scientifiche italiane e straniere, è autrice di alcuni volumi di Psicogerontologia e di oltre duecento articoli e saggi su riviste nazionali e internazionali.